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Undici tesi ispirate dalla situazione greca
di Alain Badiou
È più urgente che mai internazionalizzare la causa del popolo greco. Soltanto la cancellazione totale del debito assesterà un “attacco ideologico” all’attuale sistema europeo
* * * * *
1. Il “no” di massa del popolo greco non significa un rifiuto dell’Europa. Significa un rifiuto dell’Europa dei banchieri, del debito infinito e del capitalismo globalizzato.
2. Anche una parte dell’opinione nazionalista, e persino della destra estrema, ha votato “no” riguardo alle istituzioni della finanza? Al diktat dei governi reazionari europei? Ebbene, lo sappiamo che ogni voto puramente negativo è in parte confuso. La destra estrema, da sempre, può rifiutare certe cose che rifiuta pure l’estrema sinistra. Soltanto l’affermazione positiva di ciò che si vuole risulta chiara. E tutti sanno che ciò che vuole Syriza è opposto a ciò che vogliono i nazionalisti e i fascisti. Il voto non è dunque semplicemente una presa di posizione contro le esigenze antipopolari del capitalismo globalizzato e dei suoi servitori europei. È anche un voto che, per il momento, dona fiducia al governo Tsipras.
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Far finta di essere buoni. Per Luca Rastello
di Girolamo De Michele
Se n’è andato per un brutto male contro cui ha lottato per anni Luca Rastello, un bravo compagno che ha fatto cose importanti come giornalista indipendente sempre dalla parte del torto, cioè la nostra, dalle guerre di Jugoslavia (La guerra in casa, 1998) alla TAV (Binario morto. Lisbona-Kiev. Alla scoperta del Corridoio 5 e dell’alta velocità che non c’è, con Andrea De Benedetti, 2012) dal narcotraffico (Io sono il mercato, 2009) ai migranti (La frontiera addosso. Così si deportano i diritti umani, 2010) fino al marcio che si annida nelle cooperative “belle e buone” (I Buoni, 2014). L’aver sollevato, in tempi non sospetti, il velo di ipocrisia sulle cooperative onlus gli procurò censure e attacchi feroci da Maramaldi di fama. Il Povero Yorick lo ricorda con un testo pubblicato su L’Indice n. 7/8 2014 (e poi su carmilla) al quale proprio I Buoni fornisce l’acchito.
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C’è una frase, attribuita a Italo Calvino, che Mauro affigge sulla parete dell’ufficio della Onlus “In punta di piedi” in cui lavora: Dove si fa violenza al linguaggio è già iniziata la violenza sugli umani.
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Grecia. Dall'assurdo al tragico
Stathis Kouvelakis
Chiunque stia vivendo, o anche solo seguendo, gli sviluppi in Grecia sa fin troppo bene il significato di espressioni: come "momenti critici", "clima di stress", "drammatico capovolgimento", e "premendo sui limiti". Con gli sviluppi da lunedì ad oggi, qualche nuovo vocabolo andrà aggiunto alla lista: l'"assurdo".
La parola può sembrare strana, o un'esagerazione. Ma in quale altro modo si potrebbe definire il completo rovesciamento del significato di un evento incredibile come il referendum del 5 luglio, solo poche ore solo dopo la sua conclusione, da quelli che ha chiesto un "no" per cominciare?
Come si potrebbe spiegare che un leader di Nuova Democrazia come Vangelis Meimarakis e Stavros Theodorakis per To Potami - capi del campo sconfitto in modo così schiacciante domenica - sono diventati i portavoce ufficiali della linea da seguire da parte del governo greco? Come è possibile che un devastante "no" al Memorandum di politiche di austerità possa essere interpretato come un via libera per un nuovo protocollo? E per dirla in termini di senso comune: se erano disposti a firmare qualcosa di peggio e ancora più vincolante delle proposte del presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, qual era il punto del referendum e la lotta per raggiungere la vittoria?
Il senso dell'assurdo non è solo un prodotto di questa inaspettata inversione. Esso deriva soprattutto dal fatto che tutto questo si sta svolgendo sotto i nostri occhi, come se nulla fosse accaduto, come se il referendum fosse qualcosa di simile a un'allucinazione collettiva che svanisce improvvisamente, lasciandoci continuare liberamente quello che si doveva fare prima. Ma poiché non siamo tutti diventati mangiatori di loto, lasciateci fare almeno un breve riassunto di ciò che è avvenuto negli ultimi giorni.
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Cosa sta succedendo in Cina?
di Eduardo Garzòn
La seconda economia planetaria colpita da una storica e preoccupante bolla speculativa con conseguenze difficili da pronosticare
La storica caduta della borsa cinese dovrebbe preoccupare molto di più di quanto stia avvenendo. In fondo stiamo parlando della seconda economia più grande a livello internazionale, una delle poche al mondo che in anni di crisi economica internazionale ha continuato a crescere a ritmi elevati e agendo da locomotrice per buona parte del pianeta, e che ha un potenziale di destabilizzazione per l’economia mondiale decine di volte superiore a quello della Grecia.
Tutto è iniziato alla fine dell’anno scorso. Il governo cinese, abituato a tassi di crescita economica travolgenti, non vide di buon occhio che l’economia cinese stesse rallentando nell’anno 2014 (segnò la sua crescita più bassa degli ultimi 25 anni), così ideò un piano per dare impulso alla crescita: iniezioni statali di enormi quantità di capitale alle borse con il fine di apportare alle imprese già molto indebitate nuove fonti di finanziamento. L’obiettivo era che gli indici di borsa, stagnanti dal 2009, aumentassero in forma graduale ma costante. Tuttavia quello che hanno ottenuto è stato l’inizio di un rally del mercato azionario che ha creato una delle più grandi bolle nella storia.
Ciò che sicuramente non saputo ben valutare il governo cinese è stato l’impatto che il contesto internazionale avrebbe avuto sulle sue borse. Per farla breve, alla fine del 2014 la Banca Centrale Europea (Bce) già stava tessendo la sua nuova strategia di espansione quantitativa, il Quantitative easing, consistito nell’inondare i mercati finanziari di denaro per stimolare l’economia europea.
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Diario della crisi infinita
La crisi come forma permanente di accumulazione e di comando capitalistico
Cristina Morini
Parafrasando liberamente il disinvolto e cinico Gordon Gekko del vecchio film Wall Street di Oliver Stone, “al massimo settantacinque persone in tutto il mondo” riescono a comprendere che cosa stia capitando davvero nel sistema economico globale. Nella grande con-fusione tra capitale e stato, cioè di fronte al dominio diretto del potere economico e finanziario sui processi della decisione politica e perfino sulle ragioni dell’etica, si genera un senso – puramente emotivo e intuitivo – di vertigine e di assedio. In un certo senso, la violenza strutturale dei meccanismi dell’economia contemporanea sfugge alle categorie della politica ma non a quelle del corpo-mente. Così, seguendo quella che si potrebbe definire un’ispirazione foucaultiana, il potere che ci mette in difficoltà con la crisi, la precarietà, il debito, noi lo sentiamo prima di tutto con i nostri corpi, attraverso i riverberi che si riflettono sulle nostre vite.
Il sentimento prevalente del nostro tempo è, dunque, la percezione, indistinta e soffocante, di un “divenire mondo del capitale attraverso gli strumenti della governamentalità neoliberista”, per usare un’efficace immagine di Dardot e Laval tratta dal loro ultimo libro Del comune o della rivoluzione del XXI secolo (DeriveApprodi 2015), ovvero “la sensazione che non si possa più uscire da tale cosmo”. I discorsi “morali” che, a volte, vediamo dipanarsi a partire dalla descrizione delle nuove forme dell’organizzazione economica mondiale connessa alla crisi permanente, non riescono a rappresentare una difesa utile. Da questo punto di vista, non ha grande senso il rimpianto per l’età dell’oro del fabbrichismo, dell’economia “reale”, fondata su beni materiali e tangibili e contrapposta a una presunta, imprendibile e forviante, produzione “immateriale” contemporanea, che tutto avrebbe scombinato e corrotto. Tracciare una linea netta è pressoché impossibile, dovendo, tuttavia, tenere presente l’aspetto nullificante della convenzione finanziaria che sta alla base dell’intero processo: “Il vecchio modello industriale di accumulazione era fondato sul ciclo Denaro-Merce-più Denaro. Il nuovo modello di accumulazione sembra fondato sul ciclo Denaro-Predazione-più Denaro, che implica però una conseguenza: Denaro-Impoverimento sociale-Più denaro [...]. Come attrattore e distruttore di futuro, il capitalismo finanziario cattura energie e risorse trasformandole in astrazione monetaria, cioè in nulla” (Franco Berardi, prefazione a Diario della crisi infinita di Christian Marazzi, ombre corte).
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Euro alla frutta e TTIP alle porte
E il referendum-boomerang alla fine tutelerà i creditori
di Quarantotto
1. Dal blog di Krugman vi traduco, nelle parti salienti, questa irresistibile istantanea del volto idiota di una dittatura in nome dei mercati (e, ci ripetono in continuazione, della "pace"!):
"Supponiamo...che si parlasse di aumentare permanentemente il saldo primario di un punto di PIL. Come ho scritto in precedenza, e come rileva Simon Wren-Lewis, data la mancanza di una politica monetaria indipendente, ottenere un surplus primario richiede molto più di un'austerità in "rapporto 1 a 1".
In effetti, una buona ipotesi è che occorra tagliare la spesa pubblica del 2% del PIL, dato che l'austerità riduce l'economia e le entrate tributarie. Ciò, a sua volta, significa che si riduce l'economia intorno al 3%. Così, un 3% di colpo inferto al PIL per aumentare il saldo primario di 1.
Ma un'economia ridotta implica che il rapporto debito/PIL vada inizialmente in aumento. Ed infatti, dato il punto di partenza della Grecia, con un debito al 170% del PIL, l'effetto avverso dell'austerità significa che cercare di innalzare di 1 punto il saldo primario determina la crescita del rapporto debito/PIL di 5 punti (0,03x170).
Questo suggerirebbe che ci vorrebbero 5 anni di austerità per avere la ratio del debito nuovamente al livello in cui sarebbe stata in assenza di austerità.
Ma, aspettate, c'è di più. Associamo Irving Fischer alla discussione. Un'economia più debole porterà a minor inflazione (o a una più intensa deflazione), che, anch'essa, tende a innalzare il rapporto debito/PIL.
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La forma-partito nella società liquida
Ricostruire il partito comunista: elitismo intellettuale o proposta strategica di lungo respiro?
Claudio Valerio Vettraino
Dal 3 al 5 Luglio si svolgerà a Via Monte testaccio a Roma la Festa Comunista, organizzata dal Partito Comunista di Marco Rizzo e compagni, che cerca – nella palude teorica e politica italiana, di ridare voce e prospettiva ad un’analisi marxista della società capitalistica e finanziaria contemporanea.
Un tentativo ambizioso e forse titanico ma per molti ritenuto necessario, per aprire una seria e profonda riflessione sul “caos” odierno e per tentare di ridefinire un’alternativa di sistema all’attuale ordine mondiale, ridando la parola ai popoli e ai lavoratori, costruendo (assieme per esempio alla coalizione sociale di Landini e di parte della Fiom) quel fronte rappresentativo del mondo del lavoro, oggi indispensabile per ridefinire qualsivoglia azione di rivendicazione e di lotta sociale, in Italia, in Europa e nel Mondo.
Impossibile su questo, non essere d’accordo; chi scrive è del tutto convinto che questa è la strada maestra da intraprendere. Dare voce e rappresentanza ad un mondo del lavoro quanto mai diviso e frammentato, precarizzato e disperso, atomizzato ed alienato; assuefatto alla barbarie e allo sfruttamento come dati “naturali” del sistema e della vita quotidiana.
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Epilogo del lavoratore pieghevole e prologo di uno sciopero necessario
di Lavoro Insubordinato
Abbiamo già parlato del modo in cui il Jobs Act sta mettendo in atto concretamente quella generalizzazione della precarietà che ne fa una norma e non una condizione specifica. Abbiamo anche visto come il contratto a tutele crescenti sia niente più che un gioco di prestigio per far salire le statistiche sull’occupazione mentre permette quella che possiamo definire a tutti gli effetti una legalizzazione del lavoro nero (se non fosse che stipendi e salari sono più bassi), facendo della flessibilità un requisito necessario e sufficiente della forza lavoro. Voucher, tutele crescenti, drastica riduzione delle prestazioni sociali e della previdenza: più che lavoratori e lavoratrici flessibili si potrebbe dire «pieghevoli», da riporre all’occorrenza, come la nuova normativa sui licenziamenti consente.
Con il Jobs Act scompare infatti perfino la reintegra nel posto di lavoro. Si impone così un salto all’indietro rispetto alla possibilità per il lavoratore di controbilanciare il rapporto di forza con il datore di lavoro, se non altro per contrattare la propria liquidazione. L’art. 18 consentiva infatti, com’è noto, la reintegra al lavoro in caso di licenziamento senza giusta causa o, in alternativa, il dipendente poteva accettare un’indennità.
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L'euro, un errore politico
Giuliano Battiston intervista Wolfgang Streeck
«L’euro non è l’Europa». Per analizzare con lucidità il negoziato sul debito greco Wolfgang Streeck suggerisce di partire da qui. «L’equazione tra l’Unione monetaria e l’Europa è semplicemente ideologica, serve a nascondere interessi prosaici», spiega nel suo studio il direttore del Max-Planck Institut per la ricerca sociale di Colonia.
Gli interessi dei paesi del Nord Europa contro quelli del Sud, della finanza internazionale contro le popolazioni mediterranee, del “popolo del mercato” (Marktvolk) contro il “popolo dello Stato” (Staatvolk): del capitalismo contro la democrazia. Per l’autore di "Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico" (Feltrinelli, 2013), il caso greco non rappresenta infatti che l’ultima variante del processo di dissoluzione del regime del capitalismo democratico del dopoguerra. Quel regime che aveva faticosamente tenuto insieme, in una combinazione fragile e instabile, democrazia e capitalismo appunto, dando vita a un patto sociale ormai imploso.
Anche in Europa. E proprio a causa di un’Unione europea che si è fatta «motore di liberalizzazione del capitalismo europeo, strumento del neoliberismo». E di una moneta comune che serve gli «interessi del mercato». Per uscire dal vicolo cieco dell’Europa liberista votata all’austerity, per Wolfgang Streeck, tra i più influenti sociologi contemporanei, si dovrebbe partire proprio dalla rinuncia all’euro come moneta unica. Con una nuova Bretton Woods europea.
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La rottamazione neoliberista della scuola della Costituzione è un attacco a tutti i lavoratori
di Andrea Zirotti
Come specificato nel post-scriptum aggiunto appositamente dall'autore, questo intervento è stato scritto alcune settimane fa, prima dell'approvazione al Senato con un gravissimo voto di fiducia. Lo riproponiamo comunque, come contributo di analisi non schiacciato sulla cronaca, ma volto a ragionare anche sulle tendenze di fondo della lotta intrapresa dalle classi dominanti sul tema della scuola, così come sul tipo di risposta che si rende necessario da parte delle classi subalterne
Anche un cittadino mediamente distratto ha potuto avvertire che i provvedimenti sulla scuola del governo hanno suscitato nello stesso mondo della scuola un'opposizione finora vasta, visibile, multiforme. Renzi e i suoi ministri si sono prodigati a rintuzzare l'ondata di critiche, con una propaganda che tuttora alterna toni sprezzanti a false disponibilità al dialogo e non disdegna messaggi offensivi per gli insegnanti, come la sceneggiata alla lavagna del "capo" del governo. Non c'è dubbio: il governo è sempre in prima linea, anche in questo aspetto del lavoro politico; il ruolo delle forze parlamentari, in primis dello zelante PD, ma anche delle giubilanti FI e NCD, è in ciò di supporto.
Qual è il nodo del conflitto? Una prima risposta, astenendosi da giudizi di valore, può essere: la ristrutturazione (o, meglio, la sua continuazione) del sistema scolastico nazionale. Nel rispondere a questa domanda, non di rado c'è chi si sofferma ora su uno, ora su un altro aspetto di questa devastante controriforma, perdendo di vista il progetto complessivo di trasformazione, per non dire del suo rapporto con il contesto attuale: un atteggiamento prevedibile in questi tempi di deboli coscienze politiche, in cui riesce a prevalere una lettura di tipo sindacale, e di sindacati in tempi di deboli coscienze politiche.
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L’organetto di Draghi IV
Quarta lezione: forward guidance e quantitative easing (2013-2015)
di Sergio Cesaratto
In questa lezione[1] ripercorreremo le vicende più recenti dell’euroarea sino al famoso quantitative easing
1) 2013: L’anno della forward guidance
Col consueto ritardo, nel corso del 2014 la BCE ha raggiunto la FED nel portare il tasso di interesse a breve termine praticamente a zero, il cosiddetto “zero lower bound” (ZLB). Una volta raggiunto lo ZLB, la politica monetaria sembra diventare impotente nel tentativo di condizionare, diminuendoli, i tassi di interesse a lunga con l’obiettivo di sostenere la domanda aggregata. Se inoltre, come nell’Eurozona, si manifestano segnali concreti di deflazione, i tassi reali a lunga tenderanno, a parità di tassi nominali, ad aumentare. Una maniera per diminuire i tassi reali a lunga è attraverso la promessa di mantenere i tassi a breve a zero per un periodo indefinito di tempo tollerando una ripresa dell’inflazione, che diventa anzi un obiettivo desiderato con lo scopo di far diminuire i tassi reali attesi a lungo termine. La diminuzione attesa dei tassi può anche determinare un deprezzamento della valuta che stimola la domanda aggregata e l’inflazione[2]. L’impegno a mantenere i tassi allo ZLB si chiama la “forward guidance” ed è stata adottata dalla FED dal 2008 e dalla BCE nel luglio 2013. Così Draghi nella conferenza stampa dopo la riunione del Governing Council della BCE:
Looking ahead, our monetary policy stance will remain accommodative for as long as necessary. …’The Governing Council expects the key…’ – i.e. all interest rates – ‘…ECB interest rates to remain at present or lower levels for an extended period of time’.
La forward guidance soffre di un problema di incoerenza temporale, in quanto i mercati possono non fidarsi dell’impegno della banca centrale di mantenere i tassi di interesse a breve bassi per contrastare la deflazione temendo che invece li rialzi appena l’inflazione dia minimi segni di ripresa.
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Agamben “senza scelta” ovvero l’equivoco degli opposti
di Lorenzo Mainini
Riflessioni in due tempi attorno alla filosofia di Agamben. Qui e qui potete leggere la prima parte
S’è detto, in un precedente intervento, che l’inoperosità in Agamben è un esito inscritto, dal principio, nella sua archeologia filosofica. L’ambiguità originaria dell’essere, che poi si riduce all’irrisolvibilità tra atto e potenza, conduce direttamente all’inoperosità. La risalita agambeniana delle coppie antinomiche, in definitiva, non dice nulla di più, né modifica il processo: il servo è scoperto come potenzialità pura ma al contempo rimane figura della soggezione, la nuda vita è riemersione del biopolitico ma pure terreno prediletto per l’azione violenta del potere, e così avanti secondo l’antinomia.
A questo proposito meriterebbe d’essere pienamente sviluppata una discussione su un nuovo rimosso aristotelico, che soggiace a quest’impostazione filosofica: la questione degli opposti. Come abbiamo già tentato intorno all’energeia, anche ora ci limiteremo a tracciare le grandi linee del problema. Tuttavia, per impostare correttamente la discussione, fermiamoci a osservare in che modo l’inoperosità agambeniana cerchi di convertirsi in politica.
Nell’ultimo capitolo de L’uso dei corpi, intitolato Per una teoria della potenzadestituente, v’è allora una di quelle pause corsive che in Agamben spesso intervengono a specificare, come in nota, un aspetto della trattazione.
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Laudato si': lavoro e ricchezza
di Carla Filosa
Dire la verità in malafede
dovrebbe essere considerato disonesto.
Karl Kraus
Due grandi tematiche sono emerse in questi ultimi giorni: la continuità dell’esodo irrefrenabile di popolazione spinta dal bisogno estremo della vita minacciata, e il nuovo (si fa per dire) riversamento ideologico dell’enciclica papale. Di quest’ultima, analizzata al completo nelle sue 192 pagine, ci interessa per ora solo quanto attiene al concetto di lavoro e di ricchezza tessuti entro un contesto fumoso di termini sociologici – non scientifici – di “società”, “potere”, “finanza” o “consumo”.
In ordine di importanza, imposta dalla realtà materiale, affrontiamo insieme in primo luogo il significato di questa migrazione che – sembra – sta dilaniando la cosiddetta Europa. La riscoperta delle frontiere come ostacolo da parte degli Stati europei è solo un modo più elegante della rozzezza ungherese, propensa proprio all’innalzamento di un muro (cemento o mattoni, forse pietra come quella cinese?), per bloccare l’ingresso di chi ancora tenta di sopravvivere. Perché? Al di là di timori anche ancestrali, pur presenti, di promiscuità etnica, razziale o religiosa, sembra evidenziarsi il problema sostanziale della concorrenza lavorativa con la popolazione autoctona, che potrebbe risvegliarsi dall’assuefatta pacificazione sociale dei salari minimi, delle promesse lavorative dopo il volontariato gratuito, della speranza di mesi alternati di sopravvivenza, e così via tirando avanti.
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Grecia: bilancio (provvisorio) e prospettive di un riformismo onesto
di Michele Nobile
1. Lo scontro tra il governo di Tsipras e i creditori internazionali della Grecia si svolge sul terreno economico ma, in effetti, è tutto politico; e se oggetto dei negoziati è la politica economica e sociale della Grecia, in prospettiva ad essere in gioco è l'intero sistema delle politiche e delle istituzioni europee o, meglio, il limite a cui esse possono spingersi nel confronto col governo di uno Stato membro la cui prospettiva è diversa da quella sedicente liberista. Infatti, non esiste alcuna presunta legge o necessità economica per imporre alla Grecia la feroce austerità che ha dovuto sopportare e a cui pare destinata ancora per anni, stando alla volontà della troika dei creditori, ribattezzata «le istituzioni»; anzi, sono proprio l'austerità e la conseguente depressione dell'economia che impediscono di ridurre il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno. A fronte dell'iniquità della politica neoliberista della troika, la vittoria elettorale di Syriza e la formazione del governo Tsipras sono eventi di enorme importanza per la sinistra europea:
«Per la prima volta dalla formazione dell'area dell'euro, nel negoziato tra il governo Tsipras e la troika (Banca centrale europea, Commissione europea, Fondo monetario internazionale) si sono opposte in modo chiaro due linee realmente alternative, sul piano istituzionale e del confronto fra governi»1.
La mia personale valutazione è che il governo Tsipras abbia operato nel migliore dei modi, per quanto umanamente possibile e date le circostanze. Ha mostrato saldezza di nervi, dignità e determinazione, caratteristiche non frequenti, per essere gentili, nella politica europea, in particolar modo in Italia.
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Oxi!
di Jacques Sapir
Sul suo seguitissimo blog, J. Sapir commenta il referendum greco. Le istituzioni europee hanno cercato di influenzarne il risultato giocando sporco, ma sono state sconfitte. La loro reazione ora è scomposta, e perfino l’addio di Varoufakis difficilmente aiuterà a trovare un accordo. L’uscita della Grecia dall’eurozona è in parte già in atto ed è una strada che porta alla dissoluzione dell’eurozona intera
La vittoria del «No» al referendum è un evento storico. Rimarrà una pietra miliare. Nonostante le numerose pressioni per il «Sì» esercitate dai media greci, così come dai leader dell’Unione Europea, nonostante la Banca Centrale Europea abbia posto le condizioni di una crisi bancaria, il popolo greco ha fatto sentire la sua voce. Ha fatto sentire la sua voce contro le bugie che sono state continuamente propinate nelle scorse settimane sulla situazione in Grecia. Diremo qualche parola riguardo a quegli editorialisti che hanno, intenzionalmente, modificato la realtà e suggerito che ci fosse un legame tra Syriza e l’estrema destra di Alba Dorata. Queste bugie non ci sorprendono più, ma non le dimenticheremo. La gente ha fatto sentire la propria voce con insolito vigore, dato che, contrariamente a quel che prevedevano gli exit poll, la vittoria del «No» è stata ottenuta con un margine considerevole, circa il 60%. Questo naturalmente rafforza il governo di Alexis Tsipras e dovrebbe dar da pensare ai suoi interlocutori. Presto sapremo cosa succederà. Ma possiamo dire subito che le reazioni di Martin Schulz al Parlamento europeo, di Jean-Claude Juncker a nome della Commissione [1] o di Sigmar Gabriel, il ministro dell’economia e alleato SPD del Cancelliere Merkel in Germania [2], non lasciano ben sperare a riguardo.
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Reddito, reddito delle mie brame, chi è il più povero del reame?
∫connessioni precarie
Pochi giorni fa la Regione Friuli Venezia Giulia ha varato una legge che garantisce un reddito minimo alle famiglie che vivono sotto la soglia di povertà. Questo passo mostra come il problema del reddito sia ormai progressivamente assunto dal sistema politico che ne fa una forma di controllo di una povertà sempre più diffusa. Questo intervento istituzionale investe e sempre più investirà il significato politico tanto del reddito quanto della povertà. Che cosa significa rivendicare il reddito nel momento in cui esso diviene una delle risposte istituzionali alla crisi? Che cosa significa assumere la povertà come categoria universale attorno alla quale organizzare la rivendicazione di un reddito? La domanda è tanto più urgente visto che la manifestazione di Libera contro la povertà del prossimo 17 ottobre sarà assunta dalla nascente coalizione sociale e non è indifferente ad alcuni settori di movimento.
Con la sua misura la giunta friulana, presieduta dall’impagabile Signora Serracchiani, sembra aver tenuto in scarsa considerazione le recenti dichiarazioni del suo caporeparto Matteo Renzi, che solo qualche settimana fa ha definito il reddito di cittadinanza una misura «incostituzionale» e «assistenzialista».
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Modernità e finzioni del tempo
di Jacques Rancière
Pubblichiamo il testo della conferenza che Jacques Rancière, uno dei più importanti filosofi francesi contemporanei, terrà a Firenze oggi (29 giugno) nella Sala Altana di Palazzo Strozzi alle ore 17:00. La conferenza, promossa dall’Institut Français Italia, in collaborazione con la Scuola Normale di Pisa, il Gabinetto Vieusseux e il Gruppo Quinto Alto, si svolge nell’ambito della rassegna di presentazioni e seminari «Prospettive critiche». Jacques Rancière ne discuterà con i Proff. Mario Citroni e Paolo Godani. Ringraziamo la casa editrice DeriveApprodi per l’aiuto nella realizzazione di questa pubblicazione
Per delucidare questo titolo partirò da una definizione molto generale: chiamo finzioni del tempo i modi di strutturazione dei rapporti di temporalità e le forme di razionalità della catena temporale che strutturano le nostre percezioni della politica e della storia, come della letteratura e dell’arte. Una definizione che implica a sua volta la ridefinizione del concetto di finzione. Si continua a opporre la finzione, intesa come invenzione di situazioni immaginarie, alla solida realtà con la quale sono alle prese, con modalità differenti, coloro che lavorano la materia, coloro che intendono penetrare la struttura delle cose e coloro che agiscono per cambiare le situazioni. Eppure, lo sappiamo almeno fin da Aristotele, la finzione è ben di più dell’invenzione di esseri immaginari. È una struttura di razionalità. È una modalità di presentazione che rende cose, situazioni o eventi percepibili e intelligibili. È una modalità di connessione che costruisce forme di coesistenza, di successione e di concatenamento causale tra eventi e conferisce a tali forme la modalità del possibile, delle reale o del necessario. Una duplice operazione necessaria ovunque occorra produrre un certo senso della realtà. È necessaria lì dove si tratta di definire le condizioni, gli strumenti e gli effetti di un’azione, ovvero, in sostanza, il senso stesso di ciò che significa agire.
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Le conseguenze del disamore
Pd dopo le regionali 2015
di Giorgio Salerno
Cosa accadrà ora? Cosa succederà al PD, e nel PD, dopo la batosta elettorale? Quali saranno le conseguenze del voto ?
Tutti i commentatori politici concordano sul fatto che i risultati delle elezioni regionali del 31 maggio 2015, ed i ballottaggi di domenica 14 giugno nei comuni interessati, hanno mostrato una crescente disaffezione dell’elettorato verso il PD di Matteo Renzi. Lo stesso Presidente del Consiglio lo ammette senza reticenze.
L’alto numero degli astenuti, soprattutto nelle cosiddette regioni rosse, ascrivibile prevalentemente all’elettorato piddino, e la diminuzione del voto di lista al Partito, con la perdita conseguente della guida di importanti città, sono il segnale di una delusione profonda che ridimensiona drasticamente il famoso 40,8 % conseguito alle elezioni europee del 25 maggio 2014. Appena dopo un anno il PD ha perso più di 2 milioni di voti, verso la destra e verso la sinistra. Molti elettori di centrodestra e di destra, ex berlusconiani che avevano visto nel giovane premier una reincarnazione dell’anziano leader, hanno preferito l’originale (Berlusconi, Salvini, lo stesso Alfano) alla copia (Renzi). Vecchia legge della politica.
Renzi ha perso verso sinistra non riuscendo a motivare il tradizionale elettorato del PD e non acquistando voti nuovi provenienti da questa area. Non è vero, come tendono a far credere i vertici del Partito, che la scelta dei candidati di sinistra (Casson) abbia fatto perdere voti. Ed allora la Moretti, la Paita, lo sconfitto aspirante sindaco di Arezzo? Candidati che più renziani di cosi’ non si poteva immaginarli.
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Dei debiti e delle colpe del vivente
Federico Zappino, Elettra Stimilli
Federico Zappino: Il tuo libro Debito e colpa, appena dato alle stampe, prosegue e attualizza le ricerche e le riflessioni che hai reso pubbliche nel 2011, nell’opera Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo (Quodlibet). In quel libro, i cui materiali erano stati radunati nelle fasi iniziali della crisi economica e sociale, l’impostazione genealogica appare dominante rispetto alle connessioni con il presente. Il debito del vivente è uno straordinario percorso nella teoria economica, nella patristica, nella teologia, nell’antropologia. Uno dei suoi fulcri trae spunto dalla suggestione weberiana del passaggio dall’ascesi intramondana protestante all’agire strumentale del dominio economico – passaggio che in sé riferisce, da un lato, di un sottofondo costante, di un costante essere-in-debito del vivente nei riguardi del Dio; dall’altro, di una risignificazione, potremmo dire, di questo essere-in-debito da parte del capitalismo. Una risignificazione che già Max Weber individua e che poi ritroviamo con chiarezza nelle riflessioni di Walter Benjamin, secondo cui il capitalismo assolve alla funzione a cui prima di esso aveva assolto la religione – esso stesso diventa una religione interamente cultuale, che non conosce alcuna dogmatica, né teologia. Una funzione che, con Foucault, potremmo definire al contempo di soggettivazione e di assoggettamento: il soggetto affida a questa nuova religione il compito di acquietare i bisogni e le preoccupazioni per il futuro, attraverso la produzione e il consumo, e prova anche un certo godimento nella possibilità di produrre e consumare.
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L’infamia della guerra e della socialdemocrazia nel ’900
di Antonio Negri
La guerra è un crimine contro l’umanità e oggi, nell’epoca nucleare, è anche crimine contro la natura e gli altri esseri viventi. Ma parlar di guerra nel secolo scorso, nel XX secolo, è parlare di Stato-nazione. Quanto è doloroso ricordare che nel XX secolo, quando si dice nazione, si dice guerra: noi tutti, qui presenti, siamo figli o nipoti (di prima o seconda o terza generazione) di sopravvissuti a quelle guerre. Dalla nascita del moderno ciascuno dei nostri Paesi è stato preda di guerre. E furono o mascalzoni o deboli di mente, comunque obnubilati da deliranti ideologie, quei letterati o politici che raccontarono ai popoli come le guerre – legate alla nascita e allo sviluppo delle nazioni europee – avessero generato la loro felicità. Pure e semplici falsità. Noi sappiamo infatti che la modernità e ciascuna delle nostre comunità nacquero dal lavoro e dal pensiero di donne e uomini forti che rinnegarono il feudalesimo e il papato, che si liberarono dalla schiavitù e lottarono per l’emancipazione del lavoro. E non dimentichiamo che questa vera storia fu sovradeterminata e travisata dalla violenza sovrana.
Essa si voleva legittimata dallo Stato, impiantata sull’identità della nazione, e pretendeva che popolo e nazione venissero considerati un unico concetto: e che quindi i sudditi – per amor di patria – fossero dallo Stato-nazione inviati al macello? Si rabbrividisce ora nel ricordare che alcuni fra i massimi intellettuali del XX secolo inneggiarono alla sovranità come bene assoluto e alla guerra e alla distruzione della nazione accanto, come necessità della vita dello Stato-nazione. Thomas Mann, 1914:
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L’ordine non regna ad Atene
di Raffaele Sciortino
Una liberazione di energie, un piccolo grande no costituente: il voto greco ha portato in un’Europa asfittica, avvinghiata allo status quo, un pezzo di America Latina. Non ha rotto con questo l’isolamento della resistenza greca, non può farlo da sola, ma -passione contro ricatto, dignità contro paura - ha sbattuto in faccia a tutti le conseguenze di una crisi che i pescecani dell’euromerdocrazia e della finanza in alto, ceti sociali ottusi o rassegnati o ancora illusi in basso non riusciranno a lungo ad attribuire agli “irresponsabili” greci (anche se è questo oggi il messaggio lanciato e in gran parte recepito nel resto d’Europa).
Dunque, l’ordine non regna ad Atene. Al contrario, abbiamo la prima vera scossa politica in Occidente dallo scoppio della crisi globale. Adesso cercheranno di fargliela pagare carissima. La parola d’ordine a Berlino e Bruxelles è subito diventata organizzare il Grexit, non importa se tra mal di pancia, timori e mugugni di politici e stati di secondo rango o addirittura del padrino d’oltreoceano. Non si può lasciar passare l’idea che resistere è possibile! Il regime change, fallito in forma soft, passa ora alla fase due, quella dura che chiuderà del tutto i rubinetti della moneta puntando a produrre ancora più miseria, caos, scontento e, chissà, “richieste di ordine”.
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Default totale
di Giulio Palermo
In questo articolo, propongo una riflessione ad ampio raggio sulla possibilità che il movimento contro il debito si sviluppi attivamente in ogni paese d’Europa, connotandosi in senso anticapitalista. Invece di tifare Grecia e sperare che il governo Tsipras strappi condizioni dignitose nelle trattative con i creditori che strangolano il paese, l’idea è di aprire fronti di lotta al debito pubblico in tutti i paesi. Non ovviamente nell’intento di stabilizzare il sistema finanziario — come vorrebbero alcune forze favorevoli a un default negoziato e parziale — ma per far saltare l’attuale assetto politico-finanziario e avviare un processo verso il socialismo.
Gli effetti moltiplicativi di un simile coordinamento anticapitalista europeo sono ovvi. Sul piano politico, il rafforzamento del governo Tsipras in Grecia sarebbe immediato. Se ne tocchi uno, ci ribelliamo tutti! Questo è il migliore messaggio che sfruttati e oppressi d’Europa possono inviare ai signori dell’euro e della finanza. Ma non mi interessano i ragionamenti politici senza copertura, le proposte irrealizzabili, giusto per fare dibattito. Non proverò quindi a sviluppare nei dettagli cosa accadrebbe nell’ipotesi, alquanto improbabile, di un ripudio del debito simultaneo e coordinato, da parte di un movimento internazionalista forte e consapevole. Sarebbe come costruire una strategia di lotta basandola sull’ipotesi di aver già vinto.
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Fondata sul turismo
di Fabrizio Federici
La Grande Trasformazione era in atto ormai da un paio di decenni. L’aveva preceduta una lunga fase di accorta preparazione, in cui le attività produttive – e l’industria in particolare – erano state spinte in una profonda crisi, i finanziamenti alla ricerca erano stati quasi azzerati, e si era diffuso tra la popolazione il mito di un’Italia «terra della cultura». Venne abilmente instillata la convinzione che bastasse sfruttare i beni culturali del Paese per assicurare a tutti la prosperità. «E pensare che si potrebbe campare soltanto di quello!»: nei bar non si mugugnava altro.
La situazione che si era venuta a creare era perfetta per un cambiamento radicale: masse di disperati da una parte, la speranza dall’altra in una svolta che passasse attraverso il massiccio sfruttamento turistico delle bellezze nazionali. Al momento buono, la trasformazione fu avviata con piglio deciso, e con rapidità tale che in breve tempo divenne irreversibile. Fu varato in pompa magna il «piano di riconversione economica totale» al turismo, che prevedeva innanzitutto il blocco di ogni forma di sostegno e di agevolazione alla produzione di beni e servizi (che non fossero, è chiaro, più o meno direttamente legati all’accoglienza). Fu stilata una lista di attività «tipicamente italiane» da sostenere, legate tutte, più o meno, all’ospitalità.
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Bentornati al sud
L'Eterna Questione Meridionale
Scritto da Marco Palazzotto
Da quando l’Italia è entrata in recessione con l’ultima crisi europea, dall’agenda politica nazionale è sparita quasi del tutto la questione meridionale. Si ha la sensazione che la Sicilia - e il resto del Meridione – sia condannata a un destino immodificabile a causa della sua atavica incapacità di mantenere il ritmo di aree più efficienti, più produttive, meno criminali. Il quadro politico e sociale che è stato costruito intorno alla questione meridionale è ormai ultrasecolare ed il suo indirizzo è quello che oggi conosciamo.
Antonio Gramsci in questo articolo del 1926 trattava della questione meridionale evidenziando aspetti ancora molto attuali. Già allora l’ideologia diffusa era quella di un Mezzogiorno come “palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalista o di qualsivoglia altra causa storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari, temperando questa sorte matrigna con l’esplosione puramente individuale di grandi geni, che sono come le solitarie palme in un arido e sterile deserto”.
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L’occasione del no. Sulla critica della democrazia del debito
∫connessioni precarie
Quanti no si possono dire in una domenica? Quale occasione rappresenta il referendum greco contro l’ultimatum delle istituzioni europee? Il referendum è stato un passaggio obbligato, dopo che, negli ultimi mesi, contro la pretesa greca di sottrarsi alla tirannia del debito, si è consolidata una vera e propria rivolta pro-slavery. Le élite europee – istituzionali, mediatiche ed economiche, conservatrici e socialiste – si sono coalizzate per dimostrare che una simile pretesa è tecnicamente insostenibile, ma soprattutto con l’intenzione di provare che essa è politicamente inammissibile. Gli assoggettati al debito devono stare al loro posto e subire le condizioni di salario e di reddito che le riscoperte «leggi naturali» del capitalismo riservano loro. Le settimane che hanno preceduto l’indizione del referendum sono state dominate dal tentativo sempre più plateale e volgare di delegittimare le pretese che il governo greco ha osato portare la tavolo delle trattative. Il carattere europeo e globale del referendum non è dato dallo scontro della Grecia con il resto d’Europa, ma dal tentativo di dare una lezione complessiva a chi pensa di potersi opporre alla tirannia della finanza. A questo punto in gioco non ci sono miliardi di euro, e non c’è nemmeno il nome della moneta con cui contabilizzare debiti e sacrifici. C’è il potere di decidere a favore di chi paga il prezzo più pesante della crisi.
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