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Crisi, centralizzazione dei capitali e nuovo internazionalismo del lavoro
V. Maccarrone intervista Emiliano Brancaccio
Pubblichiamo ampi stralci di un’intervista a Emiliano Brancaccio, la cui versione integrale uscirà in cartaceo sul prossimo numero de Il Ponte
Un confronto a tutto campo sui temi teorici e politici del nostro tempo, per mettere alla prova l’attualità del metodo di analisi marxista. Ma anche un’occasione per commentare le posizioni di alcuni studiosi annoverabili nella “foto di famiglia” del marxismo, tra cui Negri, Fusaro e Losurdo. Conversazione con l’autore del saggio “Anti-Blanchard”, appena uscito in edizione aggiornata, dedicato a una critica del modello macroeconomico prevalente insegnato dall’ex capo economista del FMI.
Era il 2003 quando Robert Lucas, esponente di punta del pensiero economico ortodosso nonché premio Nobel, dichiarò trionfante che «il problema centrale della prevenzione delle recessioni è stato risolto». Da allora non è passato molto tempo, eppure quell’ottimismo sembra appartenere a un’epoca lontana. L’emergere di quella che il Fondo Monetario Internazionale ha definito la “grande recessione” ha riportato alla ribalta una visione alternativa, tipica delle scuole di pensiero critico, secondo cui il capitalismo tende strutturalmente a entrare in crisi. Tuttavia, anche tra i critici dell’ortodossia le valutazioni sulle cause del disastro attuale non sono univoche. Ne discutiamo con Emiliano Brancaccio, docente di Economia politica presso l’Università del Sannio, autore di vari saggi dedicati al tema marxiano della “centralizzazione del capitale” pubblicati sul Cambridge Journal of Economics e su altre riviste internazionali.
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Salari da fame, orari da pazzi
I nuovi Contratti Nazionali
Collettivo Clash City Workers
Recentemente sono stati rinnovati, o lo saranno a breve, molti contratti collettivi nazionali del lavoro (Ccnl),alcuni dei quali scaduti datempo. Qui entreremo neldettaglio di quattro Ccnl particolarmente significativi (Chimici, Metalmeccanici, Commercio e Trasporto pubblico), dopo aver provato a caratterizzare la cornice entro cui sono avvenuti questi rinnovi e quali linee di tendenza sono ormai emerse in maniera chiara.
Il problema dei Ccnl
Qual è il ruolo che il contratto collettivo nazionale sta giocando nello scontro ormai diretto e palese fra governo e associazioni padronali da una parte e lavoratrici e lavoratori dall’altra? Partiamo da alcuni spunti che ci fornisce il gruppo editoriale che esprime la voce della Confindustria. In una rivista del gruppo Il Sole 24 Ore troviamo scritto che il contratto collettivo “resta lo strumento privilegiato per la definizione di un punto di equilibrio dinamico fra gli interessi dei lavoratori […] e quelli delle aziende” (1). Se questo riconoscimento coglie elementi di realtà, è anche vero, però, che i Ccnl sono il frutto della stratificazione di decenni di mobilitazioni operaie e di accordi con le associazioni padronali, non un armonioso e dinamico “punto di equilibrio”.
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La spinta dei pedoni: Turchia ed Arabia saudita aprono la partita?
Federico Dezzani
Le avvisaglie di guerra che cogliemmo nel 2015 si concretizzano un passo alla volta: dopo aver individuato già nello scorso autunno il Medio Oriente come probabile innesco del conflitto, i recenti sviluppi avvalorano l’ipotesi che ad incendiare le polveri siano Turchia ed Arabia Saudita, semplici pedine di una partita manovrata da angloamericani ed israeliani. Le probabilità di uno scontro bellico sono direttamente proporzionali al deterioramento del quadro economico-finanziario: il livello di indebitamento insostenibile e la deflazione strisciante indicano che il ciclo avviato nel secondo dopoguerra è ormai esaurito. Alle oligarchie finanziarie non resta che la guerra per evitare le aborrite politiche finanziarie non ortodosse che castrerebbero il loro potere. Per trascinare l’Europa nel conflitto è probabile il ripetersi di un attentato in stile 13/11: in Siria si verificano già con crescente frequenza sinistri attacchi falsa bandiera.
* * *
È sempre questione di moneta…
Se guerra sarà, sarà ancora un volta questione di moneta. Se da qualche parte nel deserto siriano ed iracheno sarà sparato il primo colpo d’artiglieria che innescherà un conflitto prima regionale e poi globale, sarà ancora una volta una questione di banche centrali: che l’evidente correlazione, percepita da molti nel subconscio e trattata da pochi a livello di pubblicistica, non trovi spazio nel dibattito mediatico, è solo l’ennesimo sintomo del controllo ferreo esercito dalle oligarchie massonico-finanziarie sui media e sul mondo accademico.
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Una prima impressione sulla tre giorni di Cosmopolitica
Riccardo Achilli
Una prima impressione di questa tre giorni che lancia il progetto di SI. Positiva l’energia che si respira, la grande determinazione a rilanciare un progetto di riscatto della sinistra. Si capisce che stavolta si vuole scommettere veramente su qualcosa di non ancora ben delineato. Positiva la presenza diffusa di militanti giovani e giovanissimi. E’ positivo che, nelle parole di Mussi, che parla di tempesta economica perfetta, in quella di tanti costituzionalisti, che evidenziano la possibile fine della democrazia parlamentare, nelle parole preoccupate di Prospero, vi sia la netta consapevolezza della gravità estrema della situazione.
E proprio questa consapevolezza diffusa di quanto grave sia lo stato del Paese e del mondo rende poco comprensibile una certa leggerezza dei temi programmatici trattati da quella che sarà la dirigenza di quel nuovo soggetto politico. Nemmeno una parola sull’euro, da parte di nessuno, ma in compenso una cacofonia sulla necessità “storica” di proseguire nel processo di unificazione europea, gli Stati Uniti d’Europa, l’omaggio oramai stereotipato a Ventotene, il progetto, che si ripete nelle bocche di ogni oratore, di fare una fantomatica alleanza politica transnazionale con Podemos, Syriza, socialisti portoghesi, per cambiare i Trattati. Qualcuno degli oratori arriva persino ad ipotizzare un unico partito di sinistra europeo, non si capisce come, non si capisce in quale forma, se al di fuori dalle famiglie politiche europee esistenti (una Internazionale del keynesismo?) oppure dal di dentro (e allora sarebbe bene studiare e capire che esistono già, in una assise che si chiama Parlamento Europeo, il problema è che quella assise non ha alcun reale potere).
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Il container e l'algoritmo
La logistica nel capitalismo globale
di Moritz Altenried
Con "Il container e l'algoritmo" di Moritz Altenried, do inizio ad una serie di traduzioni di alcuni scritti apparsi in rete che individuano a mio avviso le principali tendenze presenti nell'attuale situazione socio-economica; scritti che non condivido necessariamente in toto, almeno per quanto riguarda presupposti e consclusioni - oppure categorie come quelle del lavoro e della "lotta di classe" ivi utilizzate - ma che tuttavia credo siano nondimeno degne di discussione nel quadro della necessaria emancipazione e fuoriuscita dal capitalismo. Uno sguardo acuto sulla "contraddizione in processo" del "soggetto automatico", così come si svolge economicamente e socialmente nella produzione, nella circolazione e nel consumo, dentro la crisi
Voglio cominciare, riportando un'interessante osservazione di Thomas Reifer, secondo la quale oggi Marx comincerebbe Il Capitale sottolineando come la ricchezza delle nazioni contemporanee appaia sempre più come un'immensa collezione di container (Reifer, 2007). Anche se si può obiettare che un container ed una merce fanno parte di due categorie concettuali diverse, questa affermazione provocatoria è molto rivelatrice in quanto evidenzia l'importanza della logistica non solo in quanto industria ma in quanto prospettiva per comprendere il capitalismo contemporaneo.
Di conseguenza, propongo di differenziare tre significati del termine "logistica". In primo luogo, la logistica è un settore industriale o di mercato specializzato nello spostamento di cose che è cresciuta in importanza e che costituisce in quanto tale un oggetto di ricerca affascinante. In secondo luogo, la logistica è diventata in qualche modo una logica - o un dispositivo in senso foucaltiano - che è andata oltre il suo settore in senso stretto e che fonda il capitalismo contemporaneo. Per cui, quest'ultimo può essere compreso come un capitalismo di "catena di distribuzione", per riprendere l'espressione di Anna Tsing (Tsing, 2009). Se ciò è vero, allora la logistica, in terzo luogo, diviene una prospettiva di ricerca. Intendo difendere l'idea che la logistica può servire come una sorta di prisma che ci aiuta a comprendere in maniera critica la trasformazione in corso nel capitalismo globale.
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Demagogia vs neoliberismo: crisi di carisma
di Giovanna Cracco
Quando Renzi si candida alle primarie del 2012 per la segreteria del Pd, sceglie lo slogan “Adesso!”. Un imperativo all’azione, pronunciato nei confronti della missione di cui si è fatto carico e che promette di portare a compimento: rottamare la classe dirigente del partito. Punto centrale della campagna elettorale è infatti il conflitto generazionale: la sfida non è tra ‘buoni’ e ‘cattivi’ ma tra ‘nuovo’ e ‘vecchio’. Si presenta come il volto dei trentenni, attivi, capaci, pronti a fare il bene del Paese ma tenuti all’angolo dalla generazione dei sessanta/settantenni al potere; si scaglia contro un’idea di partito definita novecentesca e controbatte con una forte impronta personalistica e post ideologica: nessuna bandiera o simboli del Pd, chi lo vota non deve necessariamente provenire dal centrosinistra ma solo riconoscersi renziano, credere in lui e nella sua missione. Vende un sogno, indefinito quanto emozionante: nei video promozionali, nelle interviste, nei comizi non delinea un programma politico ma trasmette sensazioni, l’eccitazione per una nuova avventura, la speranza per il futuro, il dinamismo giovanile.
Si è in piena crisi economica e politica: la recessione colpisce l’Italia più di altri Paesi, dopo le dimissioni di Berlusconi al governo c’è l’esecutivo Monti, e il Pd affonda nell’impossibilità di giustificare alla propria base elettorale il sostegno alle manovre neoliberiste dei ministri ‘tecnici’. La rottamazione lanciata dal sindaco fiorentino investe un intero sistema politico, ed è presentata come l’unica via che può salvare l’Italia dal baratro.
Renzi perde la competizione a favore di Bersani, ma la vince l’anno successivo, diventando segretario del Pd a trentotto anni. Dopo meno di tre mesi, fa lo sgambetto a Enrico Letta e diventa presidente del Consiglio. Per una gran parte di italiani diviene un leader carismatico.
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La crisi capitalistica e le sue ricorrenze
Una lettura a partire da Marx
Riccardo Bellofiore
Introduzione
Nell’attuale dibattito sulla crisi due sono i filoni interpretativi principali che si richiamano a Marx e che proclamano una sua rinnovata attualità. Il primo, proposto da quegli autori che si vogliono marxisti “ortodossi”, è quello che legge la finanziarizzazione come conseguenza della caduta tendenziale del saggio del profitto, e in quest’ottica individua una lunga tendenza alla stagnazione che comincia negli anni Settanta del Novecento. L’altra interpretazione, prevalente per lo più in quei marxisti influenzati dal keynesismo e dal neoricardismo, fa riferimento alla tendenza alla crisi da realizzazione, ovvero da insufficienza da domanda. Questo secondo filone evidenzia come, dopo la controrivoluzione monetarista degli anni Ottanta del Novecento, siano avvenuti profondi mutamenti nella distribuzione del reddito con la caduta della quota dei salari, e sostiene che in un mondo di bassi salari la ragione di fondo della crisi sia l'insufficienza della domanda di consumi: una prospettiva più o meno dichiaratemente sottoconsumista. In entrambi i casi, la crisi attuale coverebbe da molto tempo, e sarebbe la crisi di un capitalismo che si può ben definire asfittico, sostanzialmente e (ormai) perennemente stagnazionistico.
Ritengo che un’interpretazione marxiana della crisi non possa essere sganciata dalla caduta tendenziale del saggio del profitto, ma che questa vada interpretata come una sorta di metateoria della crisi, che ingloba al suo interno le altre e diverse teorie della crisi che si possono trovare o derivare dal Capitale.
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“Globalizzazione e decadenza industriale”
Una recensione del nuovo libro di Domenico Moro
di Giacomo Di Lillo (*)
Recensione del saggio “Globalizzazione e decadenza industriale”. Domenico Moro, Globalizzazione e decadenza industriale: l’Italia tra delocalizzazioni,”crisi secolare” ed euro, Edizioni Imprimatur, Anno 2015, Pagine 249, 16 euro
Il tema del rigoroso saggio di Domenico Moro,”Globalizzazione e decadenza industriale”, è l’attuale crisi del sistema economico italiano. Il testo tratta inoltre tre rilevanti fenomeni che sono strettamente intrecciati a tale vicenda, e cioè la realizzazione del mercato mondiale, la “crisi secolare” del modello capitalista, l’integrazione valutaria europea.
Oltre che da una introduzione, il volume è composto da cinque capitoli. Il primo ed il secondo riguardano la misurazione dell’entità della crisi nelle aree periferiche e in quelle centrali dell’Europa e del mondo. Il terzo capitolo analizza le cause delle crisi cicliche e della “crisi secolare” del modello capitalista. Il quarto descrive le caratteristiche dell’ultima fase della globalizzazione economica ed interpreta le notevoli trasformazioni che essa ha determinato. L’ultimo capitolo prende in esame il passaggio dalla critica al neoliberismo a quella del capitalismo globalizzato e la prospettiva della realizzazione di un nuovo modello di economia e di società.
Nella parte introduttiva si evidenzia che il nostro Paese sta vivendo, dal 2007, la crisi economica forse più profonda della sua storia, addirittura più grave di quella legata alla Grande depressione degli anni ’30. Tra i vari indicatori economici con andamento negativo, spicca quello relativo alla capacità manifatturiera, che si sarebbe ridotta tra un quarto ed un quinto del totale.
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Perché festeggiare "Necrologhi"
Giuseppe Mazza
Prima di parlare del libro di Maria Nadotti (Necrologhi - saggio sull'arte del consumo, Il Saggiatore) e della sua importanza, stabiliamo il campo.
Gli uomini di lettere oggi non sanno niente della pubblicità. Non la studiano, non la annoverano tra i fenomeni d'interesse. Costoro si occupano volentieri di cinema, tv, giornalismo, design, fumetti, raccolte di figurine e di ogni altro linguaggio della modernità, ma quello della pubblicità rimane loro estraneo e lo lasciano volentieri allo studioso settoriale. Come dire che non è adatto a un discorso collettivo, dunque politico.
La crepa di questo distacco si è aperta nel tempo e inesorabilmente. La progressiva scomparsa dell'Italia industriale (Gallino) oggi ha separato gli intellettuali dal mondo della produzione e dai suoi linguaggi. Eppure nel 1961 un editore come Giangiacomo Feltrinelli presentava "La pubblicità" di Walter Taplin descrivendo luoghi comuni che sembravano sul punto di essere superati: "Uno studio senza divagazioni moralistiche sulla pubblicità come fenomeno tipico dell'economia moderna (...) un fenomeno-chiave della società contemporanea su cui tutti quanti son pronti a straparlare. Questo libro non si compiace di descrivere i pubblicitari come maghi o bari della psicologia di massa, ma conduce un ragionamento serrato misurandosi con i fatti – e con le teorie degli economisti, che sinora, non diversamente dall'uomo comune, hanno parlato della pubblicità in termini superficiali".
C'è nel nostro passato una relazione tra intellettuali e linguaggio delle merci. Il primo in Italia a parlare di umanesimo pubblicitario, cioè della necessità di un linguaggio alternativo alla "pubblicità autoritaria" fu Vittorini nel 1939. Anni nei quali era concepibile per l'uomo di lettere entrare nel mondo della produzione, cercare un rapporto tra l'oggetto fabbricato e le mani dell'uomo che lo realizzavano. A quel punto diventava naturale soffermarsi sul linguaggio pubblicitario, che del processo produttivo era la fase conclusiva. Olmi nel 1969 entra in un'agenzia pubblicitaria di Milano, non la guarda da fuori: la studia e ne trae il più informato e profondo film italiano su quell'ambiente professionale, Un certo giorno.
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Bernie for president?
di Felice Mometti
È la seconda volta che Hillary Clinton, la candidata «inevitabile» alla presidenza degli Stati Uniti, vede la sua corsa ostacolata da un outsider. Sappiamo come è andata a finire la volta scorsa con Obama. La storia non si ripete, non si deve ripetere, questo il mantra recitato negli ultimi giorni dal potente staff della ex segretario di Stato. Ma i risultati delle primarie del Partito democratico in Iowa e nel New Hampshire hanno proiettato Bernie Sanders nel ruolo di antagonista credibile di Hillary, la «combattente globale» che difende i diritti civili, non disdegna gli interventi militari ad ampio raggio ed è molto vicina a Wall Street. È vero, e si sa, che le primarie americane, non fa differenza se democratiche o repubblicane, sono tutto meno che un esercizio di democrazia da parte dei cittadini elettori. Regole diverse e non sempre chiare e condivise nei vari Stati, mancanza di controlli su chi vota e chi ne ha diritto, lanci di monetine per determinare la vittoria in alcune circoscrizioni, interventi a tutto campo delle società di marketing politico sui social network e nei sondaggi che hanno lo scopo non di rilevare le intenzioni di voto ma di orientarle. Come se ciò non bastasse con la sentenza della Corte Suprema nel 2009 si è dato il via libera – togliendo qualsiasi limite di spesa e di rendicontazione – ai PAC e super PAC (Political Action Committes) e cioè a quei gruppi organizzati di imprenditori, banche, multinazionali, fondazioni che raccolgono denaro e fanno campagne perlopiù aggressive, usando tutti i media possibili, a favore o contro un candidato. Sempre però senza mai accordarsi e coordinarsi, così dice la sentenza, con il candidato che appoggiano.
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Rottura della continuità storica o recupero della tradizione?
Giangiorgio Pasqualotto
Prosegue con questo intervento di Giangiorgio Pasqualotto (titolare della cattedra di estetica dell’Università di Padova e cofondatore dell’Associazione “Maitreya” di Venezia per lo studio della cultura buddhista) , il dibattito a cura di Amina Crisma sul libro di Maurizio Scarpari, Ritorno a Confucio. I precedenti interventi di Paola Paderni Luigi Moccia, Ignazio Musu e Guido Samarani sono stati pubblicati nella rubrica “Osservatorio Cina” di questa rivista . Il prossimo intervento è di Attilio Andreini.
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Il più recente libro di Maurizio Scarpari, Ritorno a Confucio. La Cina di oggi fra tradizione e mercato (Il Mulino, 2015) è un’ opera importante: non solo per la consueta acribia analitica messa in gioco dall’autore, né solo per la sua chiarezza espositiva, né soltanto per la capacità di produrre sintesi con argomenti enormi (come quelli dell’incredibile sviluppo economico cinese e della millenaria tradizione confuciana), ma soprattutto perché ci risulta che il suo sia il primo tentativo di cercare le radici profonde di un’operazione che appare a tutti gli effetti – e non solo agli ‘occhi’ europei – assolutamente inedita ed inaudita: proporre gli antichi insegnamenti di Confucio come modello di vita e di sviluppo per la Cina del futuro.
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Classe operaia globale: insurrezione o lotta di classe?
Il concetto di “classe” è nuovamente divenuto popolare. Dopo la più recente crisi economica globale, anche i giornali borghesi hanno cominciato a porsi la domanda: “Dopo tutto, forse che Marx non avesse ragione?”. “Il Capitale nel XXI secolo” di Thomas Piketty è stato nella lista dei bestseller degli ultimi due anni – un libro che descrive in modo dettagliato e puntuale come storicamente il processo capitalistico di accumulazione abbia sortito il risultato di una concentrazione di ricchezza nelle mani di una stretta minoranza di possessori di capitali. Per di più, nelle democrazie occidentali le notevoli diseguaglianze hanno provocato un accentuato timore di rivolte sociali. Negli ultimi anni, questo spettro ha ossessionato il mondo – dai disordini di Atene, Londra, Baltimora, fino alle rivolte in Nord Africa, a volte con la cancellazione di governi statali. Come di consueto, in questi tempi di agitazione, mentre una fazione dei detentori del potere invoca la repressione armata, l’altra solleva la “questione sociale”, che si suppone dovrebbe essere risolta attraverso riforme o politiche redistributive.
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La crisi globale ha de-legittimato il capitalismo; la politica dei padroni e dei governi per costringere i lavoratori e i poveri a pagare per la crisi ha alimentato la rabbia e la disperazione. Chi potrebbe ancora contestare il fatto che noi viviamo in una “società classista”? Ma questo che cosa sta a significare?
Le “classi” nel senso più stretto del termine emergono solo con il capitalismo - ma l’appropriazione indebita dei mezzi di produzione, da cui deriva la condizione del proletariato privo di proprietà, non è stato un processo storico eccezionale. L’appropriazione indebita è un ripetersi quotidiano all’interno del processo produttivo: i lavoratori producono, ma il prodotto del loro lavoro non appartiene a loro.
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Borse e bolle: accumulazione finanziaria e speculazione sulla vita
di Andrea Fumagalli
Dicono gli esperti di borsa che di solito il mese di gennaio è un mese favorevole per gli indici azionari. Ma si dice anche, secondo la tradizione popolare e le statistiche passate, che i giorni della Merla, gli ultimi tre di gennaio, siano i giorni più freddi dell’anno.
Beh, il mese di gennaio 2016 ha sicuramente rappresentato un’eccezione. Ma si tratta veramente di un’eccezione o invece sta avvenendo qualcosa, sia a livello economico che a livello meteorologico, che induce a pensare che siamo di fronte ad un fatto strutturale, alla conferma di un nuovo ciclo?
Sul piano meteorologico e ambientale, sono oramai tanti i segnali che ci indicano che la struttura ecologica si stia modificando in tempi relativamente brevi sotto l’influsso dell’avvento dell’antropocene.
Sul piano dell’analisi economica, nonostante i vari campanelli d’allarme, sono ancora molti gli economisti (quelli della scuola neoclassica, secondo la quale il sistema economico è rappresentato da un equilibrio economico generale, perfettamente razionale e quindi immutabile, o, di converso, quelli della scuola marxista più ortodossa secondo la quale i rapporti di sfruttamento tra le classi di oggi avvengono ancora con le modalità di quelli dell’Ottocento) che, nonostante il periodo di turbolenza e di crisi, credono che in fin dei conti nulla sia cambiato nelle leggi economiche e nei fondamentali.
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Toni Negri, dentro e contro
Con due testi, firmati rispettivamente da Raffaella Battaglini e da Francesco Raparelli, dedichiamo il piccolo speciale di questo sabato alla Storia di un comunista di Toni Negri che, uscita da poco per Ponte alle Grazie, ha sollecitato reazioni diverse, in diversi casi caratterizzate da una notevole aggressività. A segnalare ancora una volta che nelle vicende italiane dell'ultimo mezzo secolo c'è una ferita rimasta aperta, e difficile - a quanto pare - da rimarginare.
* * *
Autobiografia del noi
Raffaella Battaglini
Dichiaro subito la mia parzialità: conosco Toni Negri da quando sono nata, e questa frase va intesa in senso letterale, perché Toni era amico di mio padre. Nella seconda metà degli anni Settanta, anch’io ho fatto parte di quel movimento che Negri in quanto teorico e militante ha contribuito a creare e organizzare. Molto più tardi, nel 2006, ho scritto insieme a Toni un testo teatrale su quegli anni, intitolato appunto Settanta.
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"Tanto non accade nulla"
Vertigine del potere della moneta, Unicredit banca europea più a rischio ed altre vicende
nique la police
"Voi banchieri siete un covo di vipere e ladri. Con l'aiuto di Dio, vi sconfiggerò"
(Andrew Jackson, settimo presidente Usa, 1815)
"La verità è che la finanza è proprietaria del governo fin dai giorni di Andrew Jackson“
(F.D. Roosevelt, 1933)
1.
Nella ritualità dell'opposizione politica, qualunque veste questa assuma, la questione bancaria ricopre tre ruoli: quello dell'indifferenza, verso un fatto "tecnico", comunque risolvibile quando emergerà un qualche tavolo di trattativa sul problema; quello della protesta che cerca di evidenziare l'uso sacrificale dei risparmiatori nella crisi ma non indica verso quale sistema bancario si debba andare; quello del calcolo superficiale, quello del "tanto non accade nulla" perchè, in qualche modo, le banche sistemeranno il problema tra di loro appena sfiorando la politica.
Ognuno di questi ruoli è contenuto nel rituale di metabolizzazione della crisi bancaria da parte di ogni sorta di opposizione politica. Rituale che deve condurre, come tutti i riti, alla metabolizzazione ma non alla risoluzione del problema. Si parla di una opposizione che, qualsiasi sia l'atteggiamento o la colorazione che la caratterizza, conta su due elementi di fiducia: quello che vuole che l'allargamento della platea dei partecipanti alla democrazia deliberativa non sia un metodo ma una soluzione (di tutto, anche della crisi bancaria), quello che vuole la propria base sociale, o il settore di opinione pubblica di riferimento, magari in difficoltà oggi ma con un sicuro avvenire. Una volta allargata la platea dei partecipanti alle decisioni democratiche, s’intende.
E qui il problema non sta nello scoprirsi antidemocratici ma di indicare le attuali retoriche sulla democrazia taumaturgica come un atteggiamento di cui non si sa se è più fuori dal tempo o dallo spazio.
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L’ambigua ribellione di Renzi
Antonio Lettieri
L'evidente fallimento delle politiche imposte all'eurozona dall'asse Berlino-Bruxelles ha provocato la sconfitta di tutti i governi che ne sono stati fedeli esecutori. Il premier italiano ne ha preso atto e ha aperto un confronto conflittuale, lontano dall’etichetta dei rapporti riservati. E' comunque un’occasione da non perdere
La crisi dell’eurozona nella quale abbiamo assistito alla ribellione di Matteo Renzi viene da lontano. L’origine risale alle conseguenze del collasso finanziario egli stati Uniti nel 2008. Ma la crisi dell’eurozona non era fatele. E’ il risultato di politiche sbagliate e autolesioniste. Il confronto fra le due sponde dell’Atlantico è istruttivo.
1. Dopo il collasso della Lehman Brothers nell’autunno del 2008, il governo americano decise senza esitazioni di intervenire per bloccare il contagio. Il Congresso mise a disposizione del governo (erano gli ultimi giorni di George Bush) 700 miliardi dollari da impiegare per disinnescare la crisi bancaria. L’operazione ebbe successo. Il temuto ripetersi di della catastrofe del 1929 fu scongiurato.
Una politica equivalente fu negli anni successivi adottata in Europa. Gli Stati investirono centinaia di miliardi di euro nel salvataggio delle banche: da quelle britanniche, che furono nazionalizzate, a quelle tedesche e francesi, nonché irlandesi, spagnole, e così via. Si trattò di una reazione analoga a quella adottata in America. Ma l’analogia si ferma qui.
A parte il salvataggio delle banche, le politiche cominciarono a divergere radicalmente. In America, Barack Obama decise, non appena approdato alla Casa Bianca, una manovra di bilancio di 800 miliardi di dollari per ridare fiato all'economia, con la crescita di investimenti e consumi. In Europa si adottò la linea opposta. Poiché il salvataggio delle banche aveva accresciuto i disavanzi di bilancio e del debito pubblico, le autorità dell’eurozona imposero una politica di austerità finalizzata al rientro del disavanzo.
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Valore senza crisi - Crisi senza valore?
Sull'assenza di una teoria della crisi in Moishe Postone
di Richard Aabromeit
"Una nuova interpretazione della teoria critica di Marx" è il sottotitolo del libro di Moishe Postone "Tempo, Lavoro e Dominio sociale" del 1993 [*1]. Questa bella dichiarazione fa venire l'appetito e se, come ho fatto io, si comincia a leggerlo pieni di grande aspettativa e poi, in seguito, si partecipa anche ad un seminario per poter completare la discussione del libro in un circolo di lettura, con partecipazione attiva - e sì, allora probabilmente quanto meno alcuni desideri si avverano, e vuol dire che in questo paese l'elaborazione della teoria critica non è poi messa tanto male... Eravamo fiduciosi, fin dall'inizio della nostra lettura e della nostra discussione cominciata più di un anno fa, che, al di là della definizione o della reinterpretazione di molte categorie sociali, come il genere, il valore, il lavoro, il denaro, il capitale ecc., il testo si sarebbe pronunciato circa quello su cui si può basare una prospettiva che punti al superamento della formazione sociale capitalista o del patriarcato produttore di merci: fornire, fra le altre cose, una teoria (radicale) della crisi. Tale teoria della crisi, da un lato, dovrebbe riferirsi ai frammenti in tal senso ammissibili di tutta l'opera di Marx, in particolare ai tre volumi del Capitale, ai Grundrisse e al Contributo alla Critica dell'Economia Politica. Dall'altro lato, si dovrebbe condurre la discussione anche nel senso di unire, collegare e trasformare questi frammenti, con l'obiettivo di effettuare il completamento e l'attualizzazione di tale teoria. Dopo la morte di Marx nel 1883, com'è noto, questi tentativi vennero intrapresi varie volte, ma in realtà più sporadicamente, fra gli altri da Rosa Luxemburg, Karl Korsch ed Henryk Grossmann.
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La Crisi irrisolta
Quel che si cela dietro ai drammatici crolli di borsa
di Francesco Schettino
È un fatto tristemente noto, grazie anche alla pluralità di pellicole girate sul soggetto e, soprattutto per esperienza diretta di coloro che tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta erano almeno adolescenti, che l’eroina è una bestia feroce in grado di trasformare completamente qualsiasi essere umano sino a ridurne in fumo ogni traccia di razionalità. Questo concetto doveva essere ben chiaro anche alla classe dominante giacché, anche attraverso l’inondazione del mercato di questa immondizia, che si sostituiva alle cosiddette droghe leggere, o agli allucinogeni, ampiamente usati nella decade precedente, essa riuscì – in modo estremamente più efficace di qualsiasi altra manovra repressiva – ad infliggere un colpo mortale a quello che era restato del movimento della sinistra alternativa italiana erede della resistenza al fascismo e delle battaglie di classe di fine anni cinquanta ed inizio anni sessanta[1]. È altrettanto riconosciuto, anche grazie alla recente uscita di libri o testi sul tema, come la cocaina, droga di classe (dominante) per eccellenza, circoli abbondantemente negli ambienti della finanza ed in particolare a Wall Street, come ampiamente descritto e documentato da un recente film di Scorsese.
Dunque, droga, dipendenza e tossicomania sono elementi che, in un modo o in un altro sono connaturati al modo di produzione del capitale giacché, essendo esso stesso un meccanismo sociale che agisce alla stregua di un organismo biologico, non può esimersi dall’essere attratto da sostanze\elementi che possono generare dipendenza risollevando, nell’immediato, da fasi più o meno lunghe di crisi profonda.
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La deflazione salariale spiegata agli operai della Whirlpool (che la conoscono già)
Sergio Cesaratto
Spiegare ai compagni della Whirpool cosa significhi deflazione salariale è in un certo senso imbarazzante. Suppongo che loro sappiano benissimo cosa significhi per averla provata sulla propria pelle. Il padrone glielo avrà spiegato mille e una volta: in tanti altri paesi i salari sono molto, ma molto più bassi che in Italia. Allora che fate? O i vostri salari diminuiscono, oppure decentriamo la produzione (oppure chiudiamo e basta). È la globalizzazione bellezza, e se a decidere è una multinazionale è ancor peggio perché il ricatto di spostare la produzione è più forte.
BOX 1 – Deflazione salariale vuol dire competere con gli altri paesi giocando su un basso costo del lavoro. Si noti che questo vuol dire rinunciare a un ampio mercato interno per i prodotti – se i salari sono bassi, tali saranno anche i consumi – con l’obiettivo di conquistare mercati esteri. La strategia di deflazione salariale è detta anche deflazione competitiva: si punta a tenere prezzi e salari nazionali bassi per spiazzare i concorrenti sui mercati esteri. L’obiezione fondamentale alla deflazione competitiva è che se tutti i paesi adottano questa strategia, chi compra? E’ questo il nodo fondamentale del capitalismo, per cui oggi si parla di stagnazione secolare, un pericolo che deriva dal pauroso aumento della diseguaglianza. |
Una prima linea di difesa dei lavoratori è nella qualità del lavoro, che non è la medesima in tutti i paesi ed è certamente più elevata in Italia. In sostanza quello che l’impresa guadagna via minori salari se sposta la produzione, lo perde sul piano della produttività (prodotto per lavoratore). Ma naturalmente questo è vero fino a un certo punto, in quanto le produzioni più standardizzate sono facilmente trasferibili, e con macchinario adeguato la produttività è la medesima. È solo quando il prodotto richiede conoscenze molto puntuali e non facilmente trasferibili che ci si difende bene.
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Vessillifero rosso della false flag nera
Soros traccia il solco
Fulvio Grimaldi
Monaco 1938-2016
La sciarada è in enigmistica lo schema per cui unendo due parole se ne forma una terza: X+Y = XY. Capirai che impresa. Di conseguenza è anche il modo per dire di una chiacchierata che non porta a niente, si arrotola su se stessa. E quello che abbiamo visto a Ginevra, poi a Vienna, poi di nuovo a Ginevra e, ora, a Monaco. Con i gufi che già strillavano alla Monaco della resa, rianimando il patto di Monaco del 1939 con Chamberlain che avrebbe ceduto a Hitler, con le conseguenze immaginabili. A parte il fatto che gli anglosassoni, allora e fino a qualche anno dopo, speravano che la Germania di Hitler costituisse un baluardo contro l’assai più temuta URSS, e le si avventarono addosso solo quando divenne manifesto che quel baluardo si sbriciolava (e anche perché i tedeschi rompevano ai colonialisti inglesi in Africa), la Monaco dell’altro giorno rappresenta, come i negoziati precedenti, una sciarada. La chiacchierata finisce con un OK, vocabolo nuovo, ma con dentro le stesse parole di prima.
I siro-irano-russi che avanzano e vanificano l’intero disegno del Nuovo Medioriente, gli statunitensi (con Israele sulla spalla destra) che non se la sentono di finire nel pantano in fase pre-elettorale, i francesi che non ce la farebbero mai da soli, i turco-sauditi che se la vedono proprio male, anche internamente, se tutto quanto hanno combinato in 5 anni, mettendo in piedi lo sfracello Nusra-Isis e appendici terroristiche, non portasse alla cancellazione perlomeno della Siria. Sono questi ultimi a spingere per l’intervento di terra. Ridicolo quello delle armate raccogliticce di Riyad, svaporerebbero al primo impatto con i ben altrimenti motivati combattenti patriottici.
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Il rumore del picco del petrolio
di AMT
Cari lettori,
questo 2016 è stato segnato da una notizia che ha occupato una parte apprezzabile del sempre conteso spazio mediatico: la volatilità della borsa cinese. Nell'Impero di Mezzo si sono vissuti giorni di grande ribasso, fino al punto che si è dovuta sospendere la sessione per un paio di giorni, essendo il ribasso oltre il 7%. La borsa cinese aveva avuto un'evoluzione abbastanza mediocre nel 2015 e a quello che sembra tutti i problemi accumulati sono sempre più evidenti nel 2016. Le borse occidentali hanno accusato l'impatto con diminuzioni accumulate che ammontano alla metà di quelle cinesi, ma dimostrano che l'evoluzione del gigante asiatico ha molta influenza in ciò che avviene nel mondo.
Ma che succede alla Cina? Semplicemente che la Cina, la fabbrica del mondo, sta accusando con forza la diminuzione della domanda mondiale di ogni tipo di bene. Cosa logica, se si tiene conto del fatto che la riduzione della leva finanziaria del debito iniziata nel 2008 è andata a minare progressivamente la rendita disponibile delle classi medie (tramite la diminuzione delle prestazioni ed il degrado della qualità del lavoro salariato). E quella classe media, sempre più impoverita, compra meno cose e consuma di meno.
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La fabbrica della disperazione
Franco Berardi e il disagio dell’«ipermodernità»
Damiano Palano
Il tempo della disperazione
Al termine del Disagio della civiltà, dopo aver mostrato come il processo della civilizzazione fosse il risultato del controllo progressivamente esercitato sul corredo pulsionale degli esseri umani, Freud veniva a contrapporre l’una all’altra le due forze elementari che riteneva di avere scoperto, Eros e Morte. E proprio nelle righe finale, aggiunte nel 1931, segnalava come i pericoli maggiori per il genere umano giungessero dalla pulsione di morte e dalle tendenze aggressive che ne discendevano:
«Il problema fondamentale del destino della specie umana, a me sembra sia questo: se, e fino a che punto, l’evoluzione civile degli uomini riuscirà a dominare i turbamenti della vita collettiva provocati dalla loro pulsione aggressiva e autodistruttrice. In questo aspetto proprio il tempo presente merita forse particolare interesse. Gli uomini adesso hanno esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda, fino all’ultimo uomo. Lo sanno, donde buona parte della loro presente inquietudine, infelicità, apprensione»[1].
È facile riconoscere in quelle parole il riflesso cupo della stagione di barbarie che si avvicinava.
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Iniziata la fase B?
di Raffaele Sciortino
Sembra ufficiale: secondo Bloomberg la prosecuzione dei cali sulle borse mondiali - i più consistenti dalla crisi dei debiti sovrani del 2011 - segna inequivocabilmente il passaggio da toro a orso, da un mercato ascendente a uno in discesa di cui non si riesce a prevedere l’atterraggio. Controprove principali: corsa all’oro come bene rifugio (faccia nascosta della moneta creata con un click del computer); acquisti a valanga di titoli di stato Usa, tedeschi, inglesi come “porti sicuri” per il risparmio anche a costo di rendimenti negativi e del gonfiamento di una nuova bolla; assicurazioni sui rischi di default (cds) in netto rialzo.
C’è di più. Fin qui il crollo dei titoli, soprattutto bancari ed energetici, veniva messo in riferimento con il ribasso del prezzo del petrolio, lo scoppio delle bolle speculative e il rallentamento dell’economia cinesi, le difficoltà delle economie emergenti colpite da ingenti fughe di capitali e svalutazioni valutarie, nonché con il pur modesto aumento dei tassi statunitensi da parte della Federal Reserve (la banca centrale). Tutto vero. Ora però viene fuori che il problema di fondo sono i profitti in calo di buona parte della maggiori corporation mondiali - ma con epicentro proprio negli States! - con prospettive ancora più fosche dato il trend negativo di investimenti e ordinativi. Con l’aggravante di livelli di indebitamento -supportati in questi anni dalle politiche monetarie “facili” delle banche centrali- che ora diventano difficili da reggere sia per le imprese sia per le banche che devono cancellare dai bilanci sempre più crediti inesigibili. Il che porta a ulteriori vendite di titoli in un circolo vizioso che si autoalimenta.
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Perchè la sinistra deve tornare ad essere radicale e di classe
Intervista a Marco Veronese Passarella
Abbiamo rivolto qualche domanda a Marco Veronese Passarella, docente di economia presso l’Università di Leeds e co-autore con Emiliano Brancaccio del libro: “L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa”. Come era già accaduto alla Scuola di formazione estiva del Collettivo Stella Rossa, dalla conversazione che abbiamo avuto sono emersi diversi temi, non soltanto tecnici, ma anche politici, sociali, culturali.
* * *
“CSR: In Italia, si guarda molto alle esperienze della sinistra radicale di altri paesi europei, in particolare di Spagna e Grecia. Gianis Varoufakis, però, ha recentemente rilasciato un’intervista in cui critica le recenti scelte del governo di Syriza e parla delle politiche di austerità che potrebbero derivare da un governo di coalizione fra Socialisti del PSOE e Podemos.
MP: Vi sono delle similitudini fra il caso greco e quello spagnolo. Personalmente, se proprio devo scegliere, mi sento più vicino a Syriza che a Podemos. Podemos non ha un chiaro riferimento di classe nel suo programma. Sostanzialmente, è un movimento sganciato dalla topologia politica tradizionale. Il che di per sé non è una cosa negativa. Solo che non mi è chiaro quale sia la loro idea di società e come pensino di darle corpo. D’altra parte, Varoufakis ha ragione quando sostiene che non vi sono margini di agibilità politica dentro l’Unione Europea. Il rischio, infatti, è che tutti i governi, anche i più progressisti e ben intenzionati, facciano come in Grecia.
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Argentina: ritorno al passato ?
di Marco Consolo
Il neo-presidente argentino Mauricio Macri non ha perso tempo. Dopo la sua risicata vittoria elettorale (51,4%), due mesi dopo il suo insediamento si può trarre un primo bilancio del governo del “Berlusconi gaucho”, figlio di un buon amico degli Agnelli e di Licio Gelli.
Approfittando della “luna di miele” dei primi tempi, ma soprattutto della chiusura del parlamento in vacanza, Macri avanza come un bulldozer. Non c’è settore che non sia sotto attacco del revanscismo neo-liberista della destra al governo, che ha prodotto un drastico rovesciamento del quadro politico con l’appoggio del Partito Radicale (ex social-democratici) di Alfonsin Jr. L’obiettivo dichiarato è quello di smantellare strutturalmente il progetto-Paese dei governi Kirchner e sbarazzarsi delle conquiste politiche, economiche e sociali.
Macri agisce come un potere de facto, ai margini della legalità democratica, saltando il Parlamento dove è ancora in minoranza. Un dettaglio in via di soluzione, visto che, nei giorni scorsi, è riuscito a spaccare l’unità del peronismo e a far passare una ventina di parlamentari dalla sua parte.
In nome del “repubblicanesimo”, a colpi di “Decreti di Necessità ed Urgenza” (DNU), ha fatto piazza pulita di molte delle conquiste degli ultimi anni, iniziando dal nuovo Codice di Procedura Penale e dalla “Legge sui mezzi di comunicazione”, che metteva in discussione poteri forti, consolidati all’ombra della passata dittatura, a cominciare dal Gruppo Clarín, una potenza mediatica di tutto rispetto.
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