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Guerra tecnologica e manpower

di Enrico Tomaselli

Se guardiamo al conflitto in Ucraina – per molti versi una anticipazione di come saranno combattute le guerre nei prossimi due lustri almeno – il fattore tecnologico sembra essere predominante. Missili balistici e ipersonici, UAV da ricognizione e d’attacco, munizioni vaganti, droni FPV, sistemi di guerra elettronica e anti-missile… Nell’ambito di una guerra simmetrica, le capacità nelle tecnologie offensive e difensive – ricerca e sviluppo, velocità di adattamento, capacità industriale, rapporto costo-efficacia… – diventa sicuramente un elemento di grandissima rilevanza. Ciò nonostante, questo rischia di oscurare un fattore ancora decisivo, ovvero il manpower. Tutta la tecnologia del mondo può essere più o meno utile, che si tratti di infliggere danni al nemico o di ridurne l’efficacia offensiva, ma alla fine il territorio va preso – o difeso – dalla fanteria. E inoltre, in un esercito moderno, il numero di combattenti in prima linea è solo una parte, e nemmeno la più numerosa, del personale necessario. Tutta la filiera logistica, e gli operatori dei sistemi d’arma dislocati nelle retrovie, e il personale necessario per le rotazioni sulla linea di combattimento… Per ogni combattente al fronte, servono almeno altri tre uomini.

Per quanto poco sottolineato, questo è un problema per un esercito moderno che non può essere sottovalutato. Se guardiamo ad esempio al conflitto in Ucraina, ci possiamo rendere conto in maniera più chiara di quanto sia rilevante. La Russia, ad esempio, a parte una parziale mobilitazione successiva all’avvio della Operazione Speciale Militare, conta essenzialmente su un afflusso sinora abbastanza costante di volontari (circa 30.000 al mese), mentre il personale di leva viene utilizzato per il presidio del territorio e/o per la logistica, riservando le operazioni di combattimento ai militari a contratto.

Il recente arrivo di personale nord-coreano (sembra 30-50.000 circa) pare essere prevalentemente destinato a fornire esperienza di combattimento alle forze armate alleate, più che di effettivo rincalzo a quelle russe. Peraltro, il ritmo di arruolamenti volontari si mantiene nettamente superiore a quello delle perdite (caduti e feriti irrecuperabili), il che consente sia un adeguato addestramento prima di andare in prima linea, sia un costante aumento del personale combattente.
Ovviamente, la Russia (oltre 180 milioni di abitanti) gode di un considerevole vantaggio numerico già nel potenziale bacino di reclutamento, anche se non è facile prevedere cosa accadrebbe nel caso si rendessero necessarie mobilitazioni di massa successive.

Per quanto riguarda l’Ucraina, sappiamo che ha il problema opposto. Allo svantaggio demografico, si aggiunge una considerevole riluttanza a partecipare allo sforzo bellico – nonostante il paese si consideri invaso dal nemico – che si manifesta sia in una considerevole fuga dalla guerra (rifugiati all’estero), sia nel calo vertiginoso degli arruolamenti volontari, sia nella renitenza alla mobilitazione (sono ormai migliaia i video dei reclutatori del TCC che praticamente rapiscono la gente per strada). Benché gli ucraini siano di fatto sulla difensiva su quasi l’intera linea del fronte – il che riduce significativamente il numero di personale impegnato, rispetto all’attaccante – il problema della scarsità di manpower (e della sua a dir poco bassa motivazione) si riflette sia sull’addestramento (frettoloso) che sulla capacità di combattimento (in progressivo degrado). La netta supremazia russa nell’artiglieria, così come il suo dominio dei cieli, hanno inoltre un impatto molto significativo sulle perdite. Mentre i russi hanno probabilmente un bilancio di perdite irrecuperabili intorno 300-350.000 uomini, quelle ucraine si aggirano intorno ai due-due milioni e mezzo.

Seppure la guerra moderna, anche quando simmetrica e di logoramento, non richieda masse di uomini paragonabili a quelle del secondo conflitto mondiale, fare una qualche comparazione può aiutare a comprendere la problematica. Nel 1939, la popolazione del Terzo Reich (Germania, Austria, Sudeti) contava tra gli 80 e gli 86 milioni di persone. La Wehrmacht raggiunse il massimo livello di mobilitazione intorno al 1944, quando contava circa 12 milioni di uomini (più le perdite dei primi quattro anni di guerra). L’Ucraina, prima della guerra, contava circa 45 milioni di abitanti, ed attualmente le sue forze armate dispongono di circa 1.500.000 uomini. La differenza salta agli occhi. Mentre la Germania, nel momento del suo massimo sforzo bellico, arrivava ad avere sotto le armi il 14% circa della sua popolazione, l’Ucraina arriva a poco più del 3%. Ovviamente le cause sono molteplici (milioni di rifugiati, sia in Europa che in Russia; la popolazione degli oblast passati sotto la Federazione Russa; la diffusa renitenza – 230.000 casi ufficiali di diserzione…), ma è evidente che, nonostante gli ucraini dovrebbero essere più motivati a combattere dei russi, nella realtà non è così.

Tra i tanti fattori che dovrebbero essere considerati, dai tanti aedi della prossima guerra alla Russia, questo è niente affatto secondario. Anche se l’Europa conta su una popolazione di quasi 450 milioni, la propensione al servizio militare – per non parlare di quella ad un ipotetico combattimento – è estremamente bassa. Se si dovesse verificare un conflitto cinetico tra i paesi europei della NATO e la Federazione Russa, è assai probabile che i cittadini di quest’ultima l’avvertirebbero come esistenziale per la patria, mentre in occidente – dove questo sentimento è estremamente affievolito, essendo stato addirittura lungamente combattuto come negativo – è prevedibile comunque una scarsa propensione a impugnare le armi “in difesa della democrazia”. A parte tutti gli altri problemi (non da poco), questo potrebbe rivelarsi cruciale. Un conflitto che vedrebbe molto probabilmente l’uso di armi nucleari tattiche da parte russa, senza una effettiva capacità di mobilitazione da parte europea – quantitativa ma anche qualitativa – non potrebbe che risolversi in una disastrosa sconfitta.

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