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Compagno Fofi. Morte di un maestro

di Marco Gatto

È difficile dire in poche battute cosa rappresenti la scomparsa di Goffredo Fofi per chi ha condiviso, grazie al suo esempio, un’idea di cultura e di pratica politica fondate sull’irrequietezza e sulla non-accettazione. “Non accetto”: questa formula capitiniana era, del resto, alla base della lezione che Goffredo, maestro involontario di disobbedienza civile, ha impartito nel tempo e ha ripetuto in modo sempre più vigoroso negli ultimi anni, rendendosi sempre disponibile e garantendo il suo generoso supporto alle nuove avventure editoriali, alle nuove riviste, ai nuovi gruppi di intervento sociale, alle iniziative di minoranza che, lungo tutto il Paese, gli sembrava giusto sostenere perché capaci di “dire no” alla calma normalizzata.

Abbiamo imparato tutti da Goffredo a pensare il “culturale” e il “sociale” in termini meno astratti, anche perché la sua biografia metteva, a partire dall’esperienza siciliana con Danilo Dolci, l’uno e l’altro insieme. Qualsivoglia tentativo di separare le manifestazioni culturali dalle determinazioni sociali appariva ai suoi occhi come un sintomo di regresso e di stordimento collettivi. Ma quel che gli provocava più rabbia – perché aveva visto, nell’Italia degli anni Cinquanta e della sua formazione, un modo diverso di intendere le pratiche culturali, poi disatteso – era, nella cultura contemporanea, l’assuefazione al “particulare” e il venir meno di un’attitudine autocritica. Per evocare uno dei suoi libri più sentiti, la viltà, insieme al servilismo e all’egoismo, costituiva una zona grigia da esplorare per comprendere i percorsi della società attuale: la cultura ridotta a spettacolo e a sedativo generalizzato ne era un riflesso.

Insomma, ciò che ha contraddistinto la lezione di Goffredo, parlasse di cinema o di letteratura, di fumetti o di cronaca politica, era il continuo invito, rivolto soprattutto ai più giovani, a pensare la cultura e il sapere nei termini di privilegio di classe: essere consapevoli del proprio inevitabile “adattamento” – cartina al tornasole di un vantaggio sociale garantito – gli sembrava uno dei modi più lucidi per praticare un’inesausta critica del presente, ben conoscendo il rischio d’essere parte integrante di quel che un tempo si sarebbe chiamato “sistema”.

Col rischio di semplificare le direttrici di una vita che sembra averne vissute molte altre, direi che due sono stati gli strumenti capaci di sorreggere lo spirito critico e pungente di Fofi: prima di tutto, l’inchiesta sociale; e, in secondo luogo, l’organizzazione pratica di un contenitore tipicamente novecentesco come la rivista, la cui natura militante Goffredo ha tentato di trasferire, riuscendoci con «Lo Straniero», nel nuovo secolo. Non devo certo ricordare quanto significativa sia stata l’uscita di L’immigrazione meridionale a Torino

(1964), anche per le controversie editoriali che l’accompagnarono e che videro tra i protagonisti l’amico Luca Baranelli: quel libro segna l’inserzione di Fofi all’interno di una traiettoria ben precisa, che da Gaetano Salvemini arriva a Danilo Montaldi e si estende, attraverso Dolci, fino a Fabrizia Ramondino, Corrado Stajano e altri – la traiettoria di un’inchiesta che si fa racconto delle storie di vita, che dà cittadinanza alle biografie dei senza storia e dei dimenticati. E quel libro è, a mio giudizio, la stella polare a cui Goffredo ha guardato per tutta la sua vita, se è vero che i libri che ha scritto, le riviste che ha fondato, gli interventi sociali che ha agevolato e sostenuto con la sua presenza (penso, per dirne una, alla Mensa dei bambini proletari a Napoli negli anni Settanta), le schede e recensioni (migliaia, probabilmente) che ha dispensato, trovavano un comune denominatore nell’esplorazione delle culture non ufficiali, non riconosciute, non completamente assimilate. Le feste popolari, la sceneggiata, i cantastorie, i senza nome, gli anonimi – era questa brulicante vitalità sotterranea l’ossessione che accompagnava il suo tentativo di riscrivere la storia contropelo.

Le riviste sono state lo strumento collettivo attraverso cui la sua lezione, mai assertiva, si è data. Ne ha fondate e dirette moltissime, e sarà compito futuro ricostruirne la vicenda unitaria. Da «Quaderni piacentini», «Linea d’ombra», «La terra vista dalla luna», fino a «Gli Asini», le riviste hanno permesso una cartografia critica, in presa diretta, dell’Italia e non solo. Goffredo chiedeva ai collaboratori anzitutto questo: raccontare il Paese fuori del discorso ufficiale; raccontarlo senza cedere al dizionario spettacolare dei lessici consunti o al vittimismo in cui spesso cade chi intende assumere il punto di vista degli esclusi. Si poteva sbagliare nei giudizi (si imparava a scrivere, sbagliando), ma non nelle direttrici morali e politiche: quelle presupponevano il riconoscimento autocritico dei propri limiti e delle miserie personali. Nutriva perplessità forti, Goffredo, sulla retorica dei margini – vi vedeva, grazie a Luca Rastello, il salvacondotto morale della “bontà”, di chi si sente libero, per partito preso, da compromessi e servilismi, e si rivela infine più settario degli altri. Ecco perché, vere palestre, le sue riviste riuscivano a tenere assieme due aspetti probabilmente inconciliabili: da un lato, sostenevano le possibilità di un’alternativa e coltivavano la speranza di un’utopia concreta, cercandola, attraverso la pratica del coinvolgimento, nei pochi spazi di solidarietà sociale concessi dallo stile di vita occidentale o americanizzato; dall’altro, esercitavano una pressione forte – non esagero se dico di tipo francofortese – sulle manifestazioni conformistiche patrocinate dall’industria culturale, esigendo letture profonde del presente. Goffredo cercava possibili modelli di rivoluzione, ma pretendeva anche la più severa immaginazione sociologica: voleva, insomma, la politica.

E la politica l’aveva trovata, da ultimo, nel confronto con Alessandro Leogrande, a lungo vicedirettore di «Lo Straniero», nel riconoscimento, ancora una volta, di una traiettoria comune, di un modo di fare cultura, rete, opposizione che univa sensibilità e intelligenza. Nel maggio scorso, per l’ultima volta, ci eravamo visti all’Università della Calabria proprio in occasione di un convegno dedicato alla figura e all’opera di Alessandro: una generosità fuori del comune lo aveva trattenuto per ore in un’aula ad ascoltare studenti e giovani studiosi, alla ricerca di un meridionalismo possibile. Ecco, quel che non si dovrà dimenticare è, tra le altre cose, questo: Goffredo è stato un convinto meridionalista. Ci ha lasciati mentre lavorava a un dizionario sul Sud. E alla Calabria, in particolare, aveva pensato come sua meta di riposo. Idealmente i suoi padri venivano dalla Sicilia dei pescatori e di Cortile Cascino, dalla Lucania di Levi e de Martino o dalla Puglia dei fratelli Fiore, passando per Bovalino o Lamezia; ma poi altri fratelli aveva riconosciuto nelle città industriali, al fuoco dell’impegno e del conflitto, e alla ricerca di una conferma gramsciana: che la questione meridionale è questione nazionale. Di questa eredità – fatta di incontri, conversazioni, viaggi in treno su e giù per l’Italia, film da scoprire, riunioni di redazione, pagine e pagine di riflessioni, appunti e note – e di questa ferrea volontà d’esserci e testimoniare, al servizio di un socialismo possibile, siamo grati a Goffredo, al suo essere, senza pretese, con umiltà, “compagno” e “maestro”.

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