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Dazi e scelte politiche, intreccio fatale per un impero in crisi

di Francesco Piccioni

Il commercio mondiale non deve obbedire più, neanche formalmente, alle incerte leggi dell’”economia di mercato”, ma rispondere approssimativamente al tasso di subordinazione verso l’”impero centrale” accettato dai singoli paesi del resto del mondo.

Questa è l’impressione che resta dopo sei mesi di discussioni e trattative frenetiche sull’entità dei dazi che gli Usa – sotto il comando apparente di Trump – hanno deciso di far scattare operativamente dal prossimo sabato, 8 agosto.

Una scelta totalmente politica, come si evince dall’”ordine esecutivo” firmato dal tycoon nella notte del 31 luglio.

«Alcuni partner commerciali hanno accettato, o sono vicini ad accettare, impegni significativi in materia di commercio e sicurezza con gli Stati Uniti, segnalando così la loro reale intenzione di eliminare in modo permanente le barriere commerciali. Altri partner, pur avendo partecipato ai negoziati, hanno offerto condizioni che, a mio giudizio, non affrontano adeguatamente gli squilibri nelle nostre relazioni commerciali o non si sono allineati sufficientemente con gli Stati Uniti su questioni economiche e di sicurezza nazionale

Questioni economiche” e “questioni di sicurezza” vengono così esplicitamente intrecciate, senza lasciare alcuno spazio ad interpretazioni alternative. Il tentativo Usa è quello di imporre un “nuovo sistema commerciale” in cui la fedeltà politica alle scelte statunitensi consente condizioni tariffarie migliori, per quanto comunque punitive.

Il messaggio è stato chiarissimo nel caso del Canada, quando ha annunciato di voler riconoscere lo stato di Palestina. Per quanto si tratti di un gesto politico poco più che simbolico, tanto è bastato a cancellare il risultato finale raggiunto nella trattativa bilaterale sui dazi, elevando la tariffa concordata dal 25 al 35%.

Basta scorrere i nomi dei paesi e le relative tariffe punitive per averne piena conferma: 15% per l’Unione Europea (che ora si ritrova il problema delle vaghe promesse fatte da von der Leyen alla Casa Bianca, che figurano però come impegni cogenti nel decreto trumpiano; altrimenti raddoppiano le tariffe), il Giappone e la Corea del Sud, mentre Filippine, il Vietnam, l’Indonesia e forse anche Taiwan hanno raggiunto accordi preliminari con l’amministrazione, fissando i loro dazi tra il 19% e il 20%.

Bastonate peggiori per il 41% per la Siria, il 40% per il Myanmar, ancora coinvolto in un conflitto, il Laos affronterà anch’esso una tariffa del 40%, mentre l’Iraq sarà soggetto a un’imposta del 35%. Anche partner commerciali più grandi, come la Svizzera, vedranno un notevole aumento delle tariffe (fino al 39%). Stesso livello, all’incirca, per il Brasile, da punire perché guidato da Lula anziché dall’amico Bolsonaro (che fra l’altro rischia ora anche la galera per tentato golpe).

Come si vede, il trattamento non riguarda tanto o solo lo “squilibrio commerciale” ma anche l’allineamento o meno con le scelte ondivaghe, ancorché “strategiche” di Washington. Senza alcuna certezza di durata, perché un nuovo “ordine esecutivo” può essere emesso con la stessa velocità, nell’identica logica arbitraria, basata sul puro rapporto di forza.

L’obiettivo economico dichiarato è la riduzione del deficit commerciale e di conseguenza anche una riduzione dell’immenso debito pubblico statunitense. I primi calcoli a spanne parlano di maggiori entrate annuali per il fisco Usa intorno ai 450 miliardi di dollari, contro i 77 miliardi del 2024, con un indiretto aumento del pil pari all’1,25% (senza produrre fisicamente alcunché in più, va sottolineato). Questo gettito dovrebbe contribuire a ridurre il deficit fiscale statunitense leggermente al di sotto del 7% del pil nel prossimo anno. Comunque una cifra enorme, ma che consente di cercare (e trovare, pare) accordi bipartisan con i sedicenti “democratici” sull’ulteriore riduzione delle tasse per i più ricchi.

Ricapitolando: l’Imperatore impone ai vassalli mondiali (ed anche a tutti i cosiddetti “partner” membri delle varie alleanze militari) di pagare loro gli squilibri sempre meno gestibili del modello economico Usa. Un po’ meno i più fedeli, un po’ di più quelli troppo “autonomi”. Ma in totale si tratta solo di 67 paesi. Gli altri o sono da sempre fuori dai circuiti controllati dagli States o troppo forti per essere “ricondotti all’ovile”.

Anche all’interno di questo ventaglio un po’ ridotto sono fortissime le differenze economiche e politiche, ma soprattutto è la plateale richiesta in sé – esigere “tributi” dalle province dell’Impero – a rompere il consolidato equilibrio che aveva retto tutto il secondo dopoguerra.

E’ insomma chiarissimo che tutti i “vassalli e valvassini” saranno obbligati a cercare vie alternative per confermare o migliorare il proprio status economico. E per quanto l’eventualità sia prevista – è stata introdotta una clausola contro il cosiddetto «trans-shipping»: qualsiasi merce che la U.S. Customs ritenga essere stata spedita da un Paese terzo (spesso la Cina) per aggirare dazi più alti, sarà automaticamente tassata al 40%, così come i “dazi secondari” per chi commercia anche con paesi “nemici” degli Stati Uniti – questa massa di vincoli innescherà ovunque una differente dialettica politica interna e scontri sociali di dimensioni al momento imprevedibili.

Anche per chi sembra essersela cavata con meno – il 15% di UE, Giappone, ecc – le cose non saranno semplici, perché “lo sconto” è ampiamente compensato dall’obbligo di acquistare energia e armi dagli Usa (900 miliardi di dollari per la UE), nonché di investire direttamente negli States (600 miliardi europei e 550 giapponesi).

Una dinamica che anche ad un primo calcolo vede cadere le previsioni crescita almeno dell’1% annuo (per economie stagnanti come Europa e Tokyo significa probabilmente recessione).

Ma rompere definitivamente “le regole” che sembravano imposte sulla base di trattati internazionali, e benedette come “massima razionalità economica”, è una mossa rischiosissima. Viene ad interrompersi quella catena di conseguenze che permetteva a tutte le imprese di tutti i paesi di inchiodare i rispettivi movimenti operai e popolari al refrain del “non c’è alternativa” al sacrificio dei salari per far sviluppare “il paese” (in realtà soltanto i profitti, come vediamo in Italia con la famiglia Agnelli).

“Politicizzare” l’economia, insomma, sostituire “l’ordine fondato sulle regole” (infami, sbagliate, da rapina legalizzata.ecc) con l’arbitro basato sulla forza, è un’arma a doppio taglio. Così come abolire l’Onu, gli organismi e la legalità internazionale. O hai la possibilità materiale concreta di stabilire una “dittatura planetaria”, gestendo ogni cosa con l’improvvisazione, oppure stai alzando un macigno che ti ricadrà sulla testa.

E un impero indebitato, che ha bisogno di “entrate straordinarie” dai propri alleati e non, non è proprio nella posizione di riuscire in tanta impresa.

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