Genocidio e linguaggio: la semantica dell’ impero
di Vincenzo Morvillo
Come sosteneva Gramsci nei “Quaderni“, il linguaggio è potere e ideologia. Non è mai asettico o impersonale.
Ogni parola che pronunciamo è già attraversata da rapporti di forza, carica di significati storicamente determinati e ideologicamente costruiti.
La lingua non è semplicemente un mezzo per comunicare. È il terreno stesso su cui si gioca la lotta per l’egemonia.
In questo senso l’analisi del rapporto tra linguaggio e potere non può che essere condotta a partire da una prospettiva marxista, che riconosca nella produzione simbolica una dimensione altrettanto determinante quanto quella economica.
Ai tempi del capitalismo crepuscolare e tardo-imperialista infatti, il linguaggio è evoluto come sofisticato strumento sofisticato di governo, gestione del dissenso, cancellazione del conflitto.
Il controllo significante di concetti fondamentali – come “terrorismo”, “pace”, “difesa”, “resistenza”, ma soprattutto “genocidio”– rivela l’intreccio profondo tra dominio politico-militare e dominio ideologico.
Ed è su questo crinale che si colloca la censura sistematica del termine genocidio, appunto in relazione alle politiche israeliane nei confronti del popolo palestinese.
Nel contesto dell’occupazione sionista della Palestina, il termine genocidio è diventato dunque un campo di battaglia semantico.
Nonostante le prove documentate di pratiche “metodiche” di sterminio, pulizia etnica e distruzione culturale perpetrate da Israele nei confronti dei palestinesi, l’uso della parola viene a seconda dei casi ostracizzato, criminalizzato, ridicolizzato o ridimensionato nei circuiti dell’informazione mainstream.
Ridimensionamento avvenuto ad esempio, come abbiamo già visto, nel caso dello scrittore David Grossman, che la nomina nel corso dell’intervista a Repubblica ma ne depotenzia il senso, attribuendone colpa anche – e quasi oseremmo dire soprattutto – ad Hamas, e dunque alle stesse vittime.
Si assiste orbene a una vera e propria operazione di rimozione linguistica, che mira a neutralizzare le potenzialità accusatorie e giuridiche della parola.
Il potere di nominare è infatti anche potere di negare. E chiamare “autodifesa” ciò che è aggressione; “conflitto” ciò che è oppressione unilaterale, “terrorista” chi resiste all’occupazione, e – peggio – “antisemitismo” ogni critica a Israele, rappresenta per l’appunto un dispositivo linguistico di negazione. Iscritto nel perimetro ideologico di un più ampio dispositivo di dominio culturale.
È una strategia coloniale dell’immaginario che mira a garantire l’impunità del potere imperialistico dello Stato sionista, conferendogli un travestimento e uno slittamento linguistico sul campo semantico del Paradigma vittimario.
Lo Stato d’Israele, in quanto avamposto coloniale dell’imperialismo euro-atlantico in Medio Oriente, ha sviluppato pertanto un articolato apparato censorio sia interno che esterno, volto a impedire l’emersione di narrazioni antagoniste.
Il divieto esplicito di utilizzare il termine genocidio in riferimento all’operato militare dell’Idf non è un caso isolato ma parte di una lunga tradizione repressiva. Nel territorio sotto controllo dell’entità sionista giornalisti, attivisti e persino intellettuali ebrei vengono perseguitati.
Ma la censura non si ferma ai confini dello Stato, venendo esportata – come abbiamo visto più volte in questo periodo – attraverso la pressione diplomatica delle lobby sioniste in Occidente e un sistema mediatico totalmente allineato.
Chi osa parlare di genocidio viene immediatamente delegittimato, criminalizzato, espulso dal discorso pubblico. Per esempio, il capogruppo della Lega al Senato, Massimiliano Romeo, ha presentato un disegno di legge (ddl 1004) in cui si equipara la critica al sionismo all’odio antiebraico. Il ddl è ora in commissione Affari Costituzionali a Palazzo Madama .
Oppure, come nel caso di Grossman, voce troppo autorevole per essere silenziata – e tutto sommato funzionale al sistema – gli si oppone un controcanto altrettanto mediaticamente autorevole.
Controcanto che nel caso in parola ha trovato un’interprete d’eccezione nella senatrice Liliana Segre. Negazionista del genocidio e dunque obiettivamente complice, per quanti distinguo possa ella fare.
Ordunque, da un punto di vista marxista, la censura del termine genocidio rappresenta un caso emblematico di come la sovrastruttura ideologica serva a proteggere gli interessi materiali delle classi dominanti.
Il dominio del capitale infatti non può mantenersi senza una narrazione egemonica che giustifichi, legittimi e normalizzi la violenza di Stato.
In questo contesto – come ben sappiamo – Israele agisce come testa di ponte dell’imperialismo occidentale e la difesa della sua impunità linguistica è parte integrante della difesa dei rapporti di produzione e di forza globali.
La parola genocidio fa paura perché disvela la verità storica. Quella di un progetto coloniale che fin dal 1948 si basa sulla cancellazione fisica e simbolica del popolo palestinese.
Parlarne significa spezzare il velo ideologico dell’“eccezionalismo israeliano” e rivelare le contraddizioni interne del diritto internazionale.
Ma soprattutto, vuol dire mettere in discussione la costruzione del Paradigma vittimario, le cui fondamenta poggiano sull’unicità storica della Shoah.
Ricreare un linguaggio sottraendolo al controllo egemonico dei padroni, riappropriarsi di una semantica antagonista che funzionalizzi nuovamente il pensiero critico, dev’essere dunque uno degli obiettivi imprescindibili del movimento comunista del XXI secolo.
Nella lotta contro le nuove forme del dominio capitalistico.
Comments
L'errore di fondo e' stato riconoscere solo il genocidio di una parte e lasciare senza parole gli altri, soprattutto i rom che mai nei loro secoli si sono potuti illudere neanche della posticcia integrazione raggiunta da molti ebrei. Chi aveva voce per condannare e perorare diritti se lo ha fatto lo ha fatto solo per la sua parte e interessato a garantire solo quella. Non diritti generali, non i diritti dei rom, per esempio.
Ad appropriarsi delle legittime rimostranze delle persone di origine ebraica furono i sionisti che ne hanno fatto quello che vediamo oggi. Ma l'errore egoistico di fondo resta e anche la pretesa di poter commettere oggi impunemente un genocidio davanti agli occhi e alla faccia del mondo.
Fosse anche un genocidio - - (meno meno) averne subito uno non autorizza a praticarne un altro, su popolazioni che, peraltro, hanno sempre avuto comunita' ebraiche con cui hanno convissuto per secoli senza le persecuzioni del mondo cristiano o i lager nazisti.
Volevano una terra per loro, erano europei di religione ebraica (non razza come definiti da hitler) se volevano davvero un pezzo di terra dovevano lottare oer avere la Baviera e l'Alto Adige ... in coabitazione con i rom. Sembra una barzelletta, ma pensare che la bibbia sia un atto notarile (firmato da chi?) che da diritto di spodestare e uccidere i palestinesi (o chiunque altro) non solo e' peggio di una barzelletta e' qualcosa per cui persone che si esaltano e uccidono per realizzarlo dovrebbero subire un tso e solo dopo una nuova norimberga.