Fai una donazione

Questo sito è autofinanziato. L'aumento dei costi ci costringe a chiedere un piccolo aiuto ai lettori. CHI NON HA O NON VUOLE USARE UNA CARTA DI CREDITO può comunque cliccare su "donate" e nella pagina successiva è presente (in alto) l'IBAN per un bonifico diretto________________________________

Amount
Print Friendly, PDF & Email

paroleecose2

Fuori dal cerchio

di Andrea Sartori

Negli Stati Uniti, le università sono diventate uno degli obiettivi privilegiati del populismo conservatore. Questo attacco si configura come una vera e propria strategia di delegittimazione culturale, ma sarebbe miope considerarlo unicamente frutto di propaganda reazionaria. Occorre infatti riconoscere – senza per questo fare dell’odioso victim blaming – una responsabilità implicita della cultura accademica liberal-progressista, che negli ultimi decenni ha finito per sviluppare una visione autoreferenziale, o un “pensiero conforme di gruppo”, come lo definisce Sasha Mudd (Prospect Magazine, 28 Maggio 2025), sempre più scollegato dai problemi reali delle persone comuni (in termini non dissimili si era espressa poco meno di tre anni fa la scrittrice e critica americana Margo Jefferson).

La sinistra accademica, da sempre teoricamente contraria alle élite, si è trasformata nella considerazione dell’opinione pubblica proprio in un’élite: chiusa, linguisticamente impenetrabile, moralmente sospettosa verso chiunque non ne condivida codici e automatismi. Si è passati pertanto dal pensiero conforme di gruppo al “tribalismo accademico” – così lo inquadra Mudd in dialogo per The Philosopher con Alexis Papazoglou (min. 10:30 ca.) – ovvero a una chiusura delle menti, al cospetto della quale nessuno è innocente. Era sufficiente, per esempio, non attenersi pedissequamente all’uso del neologismo latinx, coniato allo scopo di includere le identità di genere non-binarie dei latino-americani, per macchiarsi della colpa morale del razzismo e del sessismo (min. 25 ca.).

Il fatto – scomodo da riconoscere ma vero – è che latinx è stato utilizzato nelle università soprattutto da chi non è latino-americano, mentre era ampiamente sottoutilizzato, se non rifiutato, da coloro per i quali l’élite lo ho aveva pensato (elettori che, guarda caso, non hanno affatto votato in massa per il partito democratico). 

Uno degli elementi che ha reso possibile questo slittamento elitario è la crescente enfasi sull’immediatezza della percezione come modalità dominante di esperienza culturale. In una società in cui la tecnologia e i (social) media plasmano incessantemente il modo in cui vediamo, sentiamo, reagiamo, anche l’università ha finito per assumere la percezione irriflessa – visiva, emotiva, visceralmente identitaria – come metro prevalente del sapere. Si è così passati da un’epistemologia della riflessione critica, a una pedagogia dell’impressione: si sono insegnati sguardi, sensibilità, posture, ma si sono spesso tralasciate le radici materiali dei fenomeni studiati. La percezione soggettiva della realtà, in questo senso, è diventata filtro e destino: ciò che appare è più importante di ciò che è; è più urgente il riconoscimento del vissuto immediato che la comprensione dei suoi meccanismi storici e sociali.

Si diceva latinx, e si aveva l’illusione – la percezione istantanea e gratificante – di rimediare come d’incanto a un’ingiustizia.

Sessant’anni fa, quando la televisione – non ancora i social – entrava nella quotidianità degli italiani e degli altri abitanti del mondo occidentale, Italo Calvino, in dialettica con Pier Paolo Pasolini, stendeva le sue note sulla “antilingua” (Il Giorno, 3 febbraio 1965). Allora come oggi, un inedito medium della comunicazione agiva sulla percezione del reale, prima che sul reale in sé, fornendo l’illusione che fosse più corretto dire “ho effettuato” invece di “ho fatto” – non ancora per un malinteso senso della morale, ma in virtù d’un terrore per i significati delle parole (“terrore semantico”, lo chiamava Calvino). Quest’ultimo denotava, più che un mero problema di linguaggio, la “mancanza d’un vero rapporto con la vita” (Una pietra sopra, Torino, Einaudi, 1980, pp. 123-124).

Tutto questo è diventato evidente anche nel lessico di alcuni corsi universitari. Nei dipartimenti di studi umanistici, inclusi i programmi di Italian Studies, i corsi hanno mostrato per anni una preferenza – ovviamente legittima – per approcci teorici incentrati su genere, etnicità, sessualità, postcolonialismo, postumanesimo. L’attenzione è stata però rivolta soprattutto all’elaborazione di un vocabolario sofisticato che intersecasse a ripetizione quegli approcci precostituiti, e a una serie di testi che mettessero al centro la performatività delle identità e la loro rappresentazione. Gli studenti sono stati invitati a ‘navigare’ indifferentemente tra postcolonial subject, queer gaze e feminist manifesto, e a ‘usare’ – non capire – studi riguardanti in maniera altrettanto indifferenziata gli animali, i cyborg, l’ontologia degli oggetti, gli zombies, gli universi fittizi dei racconti, la neuroestetica (Theory in Practice: Critical Discourses in the Humanities).   I problemi affrontati – il femminismo, la decolonizzazione, l’identità queer – sono indubbiamente rilevanti, ma sono stati proposti in chiave prevalentemente simbolica, filtrata in modo anche esasperato dal linguaggio della teoria e da una forma di politicizzazione percepita, più che elaborata a livello strutturale. A mancare, in questi contesti, è stato quasi sempre un riferimento sistematico al lavoro, alla povertà diffusa nella forma di vita tecno-capitalistica, alle condizioni materiali che accomunano soggetti diversi ben al di là delle loro differenze identitarie.

L’invito alla discussione è stato, ed è, spesso orientato alla risonanza soggettiva: come ci si sente, cosa si pensa, quale posizione si assume, quando si ‘assaggiano’ diverse teorie, diversi discorsi critici, dalla filologia alla stilistica, dalla teoria dei media alla storia delle idee, dagli studi di genere alla semiotica, dallo strutturalismo alla psicoanalisi, dal post-strutturalismo alla teoria del film, dalla critica genetica alla sociologia letteraria, dai cultural studies alle digital humanities (Some Questions of Theory). Si è formata così un’idea di cittadinanza culturale fondata sulla sensibilità individuale, e non su una reale comprensione delle strutture che regolano tanto un testo o un’opera d’arte, quanto l’esclusione, la precarietà, la possibilità di migliorare le proprie condizioni di vita nella società.

Questo tipo di orientamento, pur all’apparenza animato da intenti inclusivi e progressisti, ha avuto l’effetto paradossale di produrre ulteriore esclusione. La partita (accademica), d’altra parte, è stata sempre giocata sul filo sottile della percezione, non della realtà, o della vita che si vive. Ecco allora, come scrive Mudd su Prospect Magazine, e come lei stessa ribadisce nell’intervista con Papazoglou (min. 20:55), che si apre un divario tra come gli accademici progressisti “si percepiscono”, e come essi “vengono percepiti” all’esterno dell’accademia: è lo stesso divario tra progressismo e conservatorismo, tra essere liberal ed essere di fatto dei privilegiati (e non è un caso che, negli Usa, le accademie più liberal siano proprio quelle più d’élite).

Laddove la teoria diventa una lingua iniziatica, e il riconoscimento simbolico sostituisce la trasformazione reale, molti studenti – e, più in generale, molti cittadini – si sentono tagliati fuori. Non capiscono il linguaggio dell’accademia, non riconoscono i propri problemi quotidiani nei temi affrontati, si sentono giudicati per ciò che non sanno o non possono articolare. In questa distanza cresce il risentimento che il populismo intercetta con grande efficacia, trasformando l’università in un feticcio negativo: un luogo di privilegio moralista, incapace di comprendere la vita vera.

La questione non è soltanto didattica o comunicativa. Si tratta di una vera e propria crisi epistemica. L’università ha in parte smarrito la sua funzione critica proprio nel momento in cui si è illusa di incarnarla pienamente. Ha sostituito il pensiero con la reazione, l’analisi con la ‘posizione’ (positionality), il dubbio con la presa di parola istantanea e a tutti i costi. Eppure, la conoscenza ha bisogno di tempo, di contraddizione, di resistenza. L’urgenza di schierarsi, di dichiararsi, di ‘posizionarsi’ finisce per inibire l’esercizio del pensiero, che ha come sua condizione essenziale la sospensione del giudizio. Il risultato è una pedagogia il cui scopo non è comprendere il mondo, ma esprimere la propria adesione a una visione del mondo già data, a un’etichetta identitaria da esibire come un badge che rassicuri circa la propria appartenenza comunitaria – tutto il contrario dell’universitas, per non dire del senso d’una pacifica civitas universalis di cui oggi c’è disperato bisogno.

In questo contesto, la separazione tra cultura accademica e società reale non è solo frutto di disinteresse reciproco, ma di una più profonda trasformazione nel modo in cui la prima concepisce la realtà. L’università ha interiorizzato un modello di sapere fondato sull’intensità percettiva, sull’esperienza filtrata dall’identità, sulla commozione o sull’indignazione come prove di autenticità, nonché sui virtuosismi linguistici necessari a rendere tutto ciò con un’aura d’esclusività, più che sullo studio come esperienza di per sé sempre nuova, avventurosa, esaltante e rischiosa.

La realtà vera, d’altra parte, non è solo ciò che ci colpisce percettivamente, sul piano delle sensazioni individuali. La realtà è anche ciò che ci precede, che ci condiziona, che ci sfugge. È ciò che il pensiero deve faticosamente esplicitare e riconquistare. Quando l’università rinuncia a questa fatica, quando si affida all’effetto immediato di certe parole, immagini, gesti, perde il suo rapporto con il mondo. E si rende vulnerabile a chi quel mondo lo racconta in modo più stupefacente, anche se più rozzo.

Riformare la cultura accademica non significa rigettare le conquiste del pensiero critico, né tornare a un sapere neutro e disincarnato. Significa piuttosto ritrovare un equilibrio tra sensibilità e struttura, tra vissuto e storia, tra soggettività e realtà. Solo in questo modo, diventa possibile un pensiero che non si esaurisca nella presa di posizione, ma apra alla possibilità di una trasformazione condivisa.

Una cultura accademica che sa pensare il mondo può anche sperare di cambiarlo. Ma per pensarlo davvero, bisogna uscire dalla logica della visibilità e rientrare in quella del comprendere. Se non altro come protesta contro la dittatura della visibilità, bisogna imparare a guardare meno, e a capire di più. A dubitare, invece che a reagire. A ricostruire le connessioni tra chi studia e chi lavora, tra chi insegna e chi impara, tra chi parla e chi non ha ancora voce. È in questa tensione che l’università può ritrovare il suo senso, non come fortezza assediata o come tribunale morale, ma come laboratorio comune di intelligenza, ascolto e possibilità.

 

Pin It

Add comment

Submit