Dentro la crisi
Emilio Quadrelli
L'irrompere di quella che, a rigore di logica, sembra essere la più grave crisi strutturale del capitalismo, di ben lunga più acuta e catastrofica di quella del 1929 le cui ricadute, com'è noto, hanno finito con l'innescare il secondo conflitto mondiale, ha reso nuovamente attuale Marx e la sua analisi del capitalismo. Per anni Das Kapital era caduto nel dimenticatoio della storia mentre il marxismo, e ancor più il richiamarsi a questo, era diventato oggetto di derisioni che finivano con l'accomunare il ceto politico e intellettuale schierato apertamente e senza remore con l'imperialismo e l'intellighenzia cosiddetta critica. Per entrambi il richiamo a Marx e al marxismo non mostrava altro che la palese esemplificazione dell’incapacità a comprendere a fondo le "novità" che il mondo postmoderno, postmateriale, postclassi e così via poneva sotto gli occhi di tutti[1].
Archiviata in maniera a dir poco interessata, insieme al Novecento, l'idea stessa di "crisi strutturale", l'era contemporanea rendeva obsoleta l'analisi marxista del modo di produzione capitalista e con lei tutte le ricadute politiche che questa si portava appresso.
I crolli di borsa e gli indici in rosso della produzione industriale hanno parzialmente modificato questa visione anche se, nei confronti della crisi, il gotha del pensiero imperialista[2] non sembra essere in grado di cavare un ragno dal buco. Ogni giorno, ormai da mesi, non solo sui più svariati organi di stampa ma anche all’interno di numerosi programmi televisivi e radiofonici, molti dei quali vantano pretese di serietà e scientificità non indifferenti, è possibile assistere a una serie pressoché infinita di performance comiche da parte delle "eminenze grigie" che incarnano al meglio il sapere della “scienza economica borghese". Costoro palesemente, come può rendersi conto anche il lettore meno attento o l’ascoltatore più distratto, di fronte alla crisi mostrano ampiamente di non sapere letteralmente quali pesci prendere tanto che, in ogni circostanza, riescono a dire tutto e il contrario di tutto cercando di occultare il loro imbarazzo dietro un lessico "tecnico" forbito e astruso, il quale tuttavia fa facilmente intuire quanto, ancora una volta, il re sia nudo. Molti, inizialmente, hanno negato l’esistenza stessa della crisi ipotizzando che le turbolenze finanziarie non fossero altro che scosse di assestamento di un sistema quanto mai solido. In un secondo momento hanno evocato gli eccessi speculativi come cause, puramente contingenti, dei guasti che si stavano manifestando. Successivamente, quando i listini di borsa hanno iniziato a colare a picco sempre più velocemente, non si sono risparmiati nel provare a sostenere che tra finanza ed economia reale non vi era alcun nesso e che, pertanto, tutti potevano continuare a dormire sonni sostanzialmente tranquilli. I crolli della borsa, infatti, non avrebbero avuto alcuna conseguenza sull’economia reale. Dopo aver, per anni, enfatizzato il ruolo strategico che l’economia finanziaria rivestiva per la nuova era economica, tanto da porre le reiterate impennate della Borsa come la miglior esemplificazione delle "magnifiche e prosperose sorti" in cui grazie alla finanziarizzazione dell’economia il mondo si stava dirigendo ne hanno, in tutta fretta, scaricato l’importanza riducendola a una sorta di gioco snob per eccentrici signori in cerca di emozioni ma senza conseguenze sul mondo reale.
Sforzi titanici che, loro malgrado, non hanno avuto gli effetti taumaturgici sperati. Inevitabilmente a entrare pesantemente in crisi o, per dirla in maniera più chiara, a essere in piena bancarotta sono state le banche, quindi l’intero sistema di credito internazionale. A quel punto, il dito degli "scienziati economici" è stato puntato contro il gruppo di "mariuoli" che, in virtù della postazione privilegiata occupata, avrebbero dato il via a manovre finanziarie truffaldine di una tale portata da mettere in crisi l’intero sistema di credito internazionale. Disperatamente, gli economisti di tutte le scuole hanno provato a sostenere che il sistema era sano e che solo alcuni irresponsabili lo avevano danneggiato. Una tesi, per altro verso, sostenuta in piena sintonia con gli uomini politici dei vari governi i quali, non meno stupiti e sorpresi dei loro scienziati economici a fronte di quanto stava accadendo, si sono prodigati in estenuanti Vertici (G7, G8, G20, G2) o in più classici incontri bilaterali annunciando ogni volta di aver individuato la natura del problema e aver messo in atto le strategie necessarie per fronteggiarlo e risolverlo.
I risultati di ciò sono sotto gli occhi di tutti e non hanno bisogno di commenti aggiuntivi. Alla fine, in pieno panico cognitivo, non hanno trovato nient'altro di meglio se non affermare a pieni polmoni che l’unico rimedio alla crisi consiste nel somministrare ai mercati una robusta iniezione di fiducia e ottimismo. A tale unico e “miracoloso” rimedio sembra ricorrere anche l’attuale inquilino della Casa Bianca che, dopo aver sbandierato ai quattro venti che la sua amministrazione avrebbe affrontato con strumenti scientifici i guasti dell’attuale sistema economico e finanziario, nel discorso pronunciato il 24 febbraio 2009 alla Nazione[3], e che l’intero mondo aspettava con non poca ansia, non ha saputo, andando al sodo, far altro che appellarsi alla fiducia e all’ottimismo come strumenti principali, e in fondo unici, per fuoriuscire dai disastri del presente. L’affermazione con la quale ha posto fine al suo discorso: "Sono sicuro che usciremo da questa situazione con una Nazione più forte e più grande di prima", e la conclusione perentoria:"Gli Stati Uniti continueranno a essere la principale potenza internazionale", non sembrano, infatti, essere in grado di andare oltre un atto di fede. Affermazioni che hanno rincuorato, almeno sul momento, i più ma che, a ben vedere, più che ad una qualche forma di lucidità politica rimandano a una gestione "profetica" della crisi rispetto alla quale, in concreto, non si è in grado di ipotizzare soluzioni vagamente sensate. I mercati finanziari, che più che di fede hanno bisogno di denaro, non a caso hanno risposto precipitando ulteriormente[4]. L'impasse in cui sembra essere precipitato Obama non deve sorprendere. I limiti degli uomini politici, degli economisti e degli analisti sociali hanno ben poco di individuale ma, ben più realisticamente, sono l'esatto risultato del limite "storico" del pensiero imperialista dal quale, obiettivamente, i suoi rappresentanti non sono in grado di emanciparsi. Figli fedeli della loro classe politica non possono fare altro che "pensare" ed agire nei limiti oggettivi che quella cornice impone loro. In qualunque salsa si giri per l'imperialismo l'unico modo possibile per uscire dalla crisi è la guerra e il nuovo interventismo statale nell'economia, ben lungi dall'essere "un passo avanti verso il socialismo", non rappresenta altro che un adeguamento di fase che l'imperialismo abitualmente adotta nei momenti di crisi. Non deve stupire perciò che radicali liberisti e ultrà della mano invisibile del mercato si siano repentinamente ritrovati a essere tra i principali sponsor dell'intervento statale[5]. Lo "spettro" di Keynes[6] torna a troneggiare tra gli orizzonti degli economisti e degli uomini politici imperialisti. Un ritorno che a sinistra, in non pochi casi, è salutato con entusiasmo dimenticando che la vera risposta keynesiana alla crisi è stata la Seconda Guerra mondiale dalla quale a trarne i profitti maggiori sono stati proprio gli Stati Uniti [7] .
Se Keynes è ampiamente riscoperto e nuovamente apprezzato anche Marx, tra gli economisti borghesi, ha iniziato a essere rivalutato e, con lui, alcuni aspetti della sua critica al capitalismo. Ma non bisogna lasciarsi trarre in inganno. La rivalutazione di Marx, attestazioni di merito "scientifico" e "culturale" a parte (onorificenze che possono essere tranquillamente elargite poiché a costo zero), non sono certo disinteressate. La borghesia nonostante i limiti oggettivi in cui il suo essere storico obiettivamente l'ascrive, non è fessa e nel momento in cui assume Marx nel suo orizzonte concettuale ha in mente una cosa solo: depotenziarlo e addomesticarlo. Si assiste così, in qualche modo, alla rimessa in circolo di una vecchia leggenda che la borghesia ha fatto sorgere intorno a Marx: quella dell'economista arguto, in grado di cogliere un insieme di contraddizioni obiettive dell'economia di mercato (e quindi utile poiché, grazie alla sua critica, è possibile apportare una serie di interventi "strutturali" in grado di arginarne gli squilibri più evidenti e forieri di crisi incontrollabili), a dispetto di un Marx velleitario e utopico quando dalla "scienza economica" è approdato alla teoria politica. Una lettura di Marx che riduce la critica dell'economia politica una regolamentazione dei mercati e ad un maggior peso della sfera pubblica nella gestione dell'economia, lasciando pressoché inalterati i rapporti politici tra le classi. L'idea di un Marx economico, un Marx storico, un Marx filosofo e un Marx politico, in qualche modo indipendenti (se non addirittura in conflitto) l'uno con l'altro è, del resto, vecchia almeno quanto la teoria marxiana stessa e intorno a tale operazione si sono consumate tonnellate di carta con un unico scopo: trasformare il marxismo da scienza della rivoluzione proletaria in orpello accademico, un aspetto che Lenin, del resto, aveva colto con non poca lucidità:
"Accade oggi alla dottrina di Marx quel che è spesso accaduto nella storia alle dottrine dei pensatori rivoluzionari e dei capi delle classi oppresse in lotta per la loro liberazione. Le classi dominanti hanno sempre ricompensato i grandi rivoluzionari, durante la loro vita, con implacabili persecuzioni; la loro dottrina è sempre accolta con il più selvaggio furore, con l'odio più accanito e con le più impudenti campagne di menzogne e di diffamazione. Ma, dopo morti, si cerca di trasformarli in icone inoffensive, di canonizzarli, per così dire, di cingere di una certa aureola di gloria il loro nome, a "consolazione" e a mistificazione delle classi oppresse, mentre si svuota del contenuto la loro dottrina rivoluzionaria, se ne smussa la punta, la si svilisce. La borghesia e gli opportunisti in seno al movimento operaio si accordano oggi per sottoporre il marxismo a un tale "trattamento". Si dimentica, si respinge, si snatura il lato rivoluzionario della dottrina, la sua anima rivoluzionaria. Si mette in primo piano e si esalta ciò che è o pare accettabile alla borghesia"[8].
In altre parole separare Marx dal marxismo, dissociare Marx dal proletariato, salvare Marx per affossare la rivoluzione. Sotto nuove vesti, oggi, assistiamo a qualcosa di simile. Tuttavia se dentro la crisi Marx può essere per certi versi riabilitato, Lenin rimane un nome impronunciabile[9]. Non è inessenziale al proposito far notare come, limitandosi al panorama italiano, nell'Enciclopedia del pensiero politico[10], opera di notevole prestigio, a Lenin sia dedicato uno spazio addirittura inferiore a quello riservato a Félicité Robert de Lamennais[11] e la sua opera, oltre ad essere liquidata in poche battute, ascritta senza mezze misure alla categoria del "totalitarismo"[12]. La cosa non deve stupire. Per le classi dominanti solo pronunciare il nome di Lenin è sinonimo di panico poiché, nei suoi confronti, non è possibile alcun recupero, nessuna mediazione "intellettuale". Il suo pensiero è il "pensiero strategico" del proletariato e delle masse subalterne, l'arma teorica, politica e organizzativa attraverso la quale i subalterni hanno portato l'assalto al cielo[13]e che, proprio dentro la crisi, ha completamente dato prova della sua efficacia ed efficienza. Aspetto su cui è necessario soffermarsi.
Lenin non è un teorico, un intellettuale, un bohemien eccentrico, momentaneamente attratto dalle sorti delle classi sociali subalterne delle quali, come spesso accade agli intellettuali borghesi in gioventù, si ci innamora quasi a pagare un pedaggio obbligato al proprio romanzo di formazione, per poi velocemente dimenticarsene una volta che completati gli studi e posti di fronte alle proprie responsabilità si entra in società, bensì il "rivoluzionario di professione" che ha consacrato l'intera esistenza alla Rivoluzione e alla sua affermazione[14]. Lo aveva capito con pari lucidità Carl Schmitt:
"Dopo le guerre di liberazione, la filosofia dominante in Prussia era quella di Hegel, che tentò una sistematica mediazione fra rivoluzione e tradizione. Veniva considerata una filosofia conservatrice, e senza dubbio lo era. Ma conservò anche le scintille rivoluzionarie, e attraverso la sua filosofia della storia fornì allo sviluppo della rivoluzione una pericolosa arma ideologica, più pericolosa di quanto fosse la filosofia rousseauiana nelle mani dei Giacobini. Quest'arma storico - filosofica finì nelle mani di Karl Marx e Friedrich Engels. Ma i due rivoluzionari tedeschi erano più pensatori che attivisti. Soltanto con un rivoluzionario di professione russo, solo con Lenin, il marxismo è divenuto, come dottrina, quella forza di portata mondiale che oggi esso rappresenta."[15]
Pur ampiamente condivisibile l’affermazione di Schmitt va minimamente completata poiché, una lettura approssimativa del testo schmittiano, potrebbe rafforzare la "leggenda" coltivata da ampie schiere dell’intellettualità "radicale" occidentale per la quale tra Marx e Lenin si sarebbe aperto un solco "oggettivo" tale da renderli, di fatto, sostanzialmente estranei l’uno all’altro. Secondo questa visione Lenin sarebbe l’inventore di un marxismo dichiaratamente "russo" o "slavo", in altre parole Lenin sarebbe più un "russo" che un marxista e il suo pensiero politico nient'altro che la diretta filiazione di una "particolarità", per di più storicamente arretrata, di cui è inutile occuparsi poiché obiettivamente estranea e distante dalle necessità del proletariato occidentale che, essendo inserito nel punto più alto dello sviluppo delle forze produttive, è l'unico ad assumere un ruolo centrale per la rivoluzione[16]. Più che il teorico e il dirigente dell’insurrezione proletaria nell’era del dominio imperialista Lenin è contrabbandato, secondo non pochi critici sedicenti marxisti, come l’incarnazione del giacobino che assesta l’ultimo e definitivo colpo mortale al dispotismo feudale. Un grande rivoluzionario ma più vicino a Saint Just[17]che ai proletari della Comune. In realtà chiunque si prenda la briga di leggere, soprattutto, i cosiddetti scritti storici di Marx ed Engels sugli eventi francesi e tedeschi[18] ponendoli successivamente a confronto con gli interventi di Lenin sulle vicende politiche russe,non farà troppa fatica a cogliere l’affinità che li caratterizza[19]. In entrambi, infatti, vi è un'attenta osservazione delle classi in lotta e delle forme politiche, ideologiche, teoriche e organizzative all'interno delle quali la lotta delle classi si presenta sul teatro della storia così come, in contemporanea, lo sguardo non cessa mai di osservare e perdere di vista lo scenario internazionale con tutte le ricadute che questo comporta anche per gli avvenimenti locali. Un aspetto che, in Marx ed Engels, non viene mai meno. Allo stesso tempo, fatto sovente tenuto poco in considerazione, un legame non meno forte vi è tra l’importanza attribuita da Lenin alla "forma guerra" e alle ricadute che questa comporta dentro il conflitto di classe e quella riconosciuta da Marx ed Engels alle vicende belliche del loro tempo. Lenin ha dedicato, infatti, non poca attenzione dapprima alla guerra russo - giapponese, le cui ricadute hanno un ruolo non secondario sugli eventi del 1905, successivamente alle conseguenze politiche che la "forma guerra" inaugurata nel Primo conflitto mondiale comporta nel ridefinire la strategia della politica comunista. Un'attenzione che si colloca, in particolare, sulla scia di Engels il quale ha dedicato molte energie ad analizzare la conduzione della guerra franco/prussiana e le ricadute che questa ha comportato sia per l’arte della guerra siaper la scienza della politica[20] e quindi per il "pensiero strategico" del proletariato e della sua organizzazione.
Ma riprendiamo il filo del nostro discorso. La fuoriuscita dal Novecento, secondo le retoriche che hanno a lungo imperversato[21], avrebbe comportato la fine del lavoro, l'eclissi di un'era fondata sul cemento e l'acciaio, l'estinzione del lavoro salariato e delle classi[22]. Il logico corollario di tutto ciò era la constatazione di essere approdati dentro un mondo incentrato sulle retoriche del consumo, degli stili di vita, dei modelli culturali dove, anziché classi, volta per volta si contendevano il proscenio della vita politica e sociale gli utenti, i consumatori, i risparmiatori ecc. Attori sociali che, nella migliore delle ipotesi, trovavano un qualche tratto comune nella figura del cittadino e un possibile collante unitario nella lotta per i diritti di cittadinanza. Oltre la classe: il cittadino[23], oltre Marx: Locke. La nuova era, alla fine, oltre a ripiegare interamente sulla cornice concettuale della filosofia e della politica della borghesia lo faceva appropriandosi degli aspetti più conservatori dell'orizzonte borghese, della Gironda contro la Montagna. Anzi, proprio in virtù dei richiami che l'Ottobre sovietico poteva vantare verso l'89 giacobino, le critiche liberali alla Montagna hanno trovato schiere di epigoni non secondari. Al fervore di Danton e Marat si è iniziato a preferire la pacatezza di Tocqueville, al popolo in armi lo spirito delle leggi. A imporsi è stato un ordine discorsivo incentrato sui destini del singolo e sulle diverse maschere che questi indossa, di volta in volta, nel corso della sua esistenza. Figure che, pare ovvio, in virtù della loro postazione permanentemente mutevole non potevano realisticamente assumere alcuna dimensione in grado di emanciparsi da un destino costruito unicamente su delle "contingenze" dalle quali, la dimensione di essere classe in senso storico era bellamente espunta. Al "pensiero forte", attraverso il quale ogni classe ha elaborato teoricamente la propria presa sul mondo[24], si è sostituito un "pensiero debole"[25] che della contingenza, e della dimensione individuale, ha fatto il suo punto di forza.
Poste al bando le classi dal mondo, queste finivano con il ridursi alla semplice sommatoria di individui che, in virtù del loro essere unici e irripetibili, non potevano fare altro che vivere giorno dopo giorno cercando di passarsela, o spassarsela, al meglio. Sul piano filosofico il "pensiero debole" non faceva altro che nobilitare l'epopea inaugurata da Ronald Reagan e le sue reiterate esortazioni all'edonismo, ma non solo. Il "pensiero debole", nella particolare fase imperialista in cui si è manifestato, ha svolto, sul piano filosofico, un compito estremamente pratico una non secondaria importanza strategica per il comando capitalistico. L'attacco frontale portato da questo alla "meta - narrazione", in realtà, non era altro che un tentativo di delegittimare il marxismo in quanto "filosofia politica universale" in grado di ricomporre l'unità del proletariato e delle classi sociali subalterne. In altri termini, per il "pensiero debole", ciò che diviene impossibile pensare è l'unità dialettica tra il particolare il generalepoiché a esistere sono solo unicamente dei particolari a qualunque forma di generalizzazione. In questo senso, allora, non è più pensabile e ipotizzabile l'esistenza delle classi in chiave storica é, determinanti e decisive, sono unicamente la serie infinita di contingenze all'interno della quale la storia si manifesta. La critica alla "meta - narrazione" si riduce alla critica del proletariato in quanto classe storica e, in virtù di ciò, storicamente legittimato a farsi classe universale. Le ricadute pratiche di questo discorso non lasciano molto spazio all'immaginazione.
Nell'esaltazione dell'individualismo, nella ricerca ossessiva del piacere e dell'effimero, nella messa in mora di ogni meta storica, e quindi nell’affermazione del non senso di ogni lotta politica finalizzata al raggiungimento di un qualche obiettivo universale, controrivoluzione neoliberista trovava le sue armi ideologiche e morali grazie alle quali delegittimare, anche sul piano teorico e concettuale, ogni forma politica incentrata sull'essere collettivo. Un passaggio che, oltre a fornire la nuova chiave morale 'epoca, doveva servire, nell'immediato, a distruggere e delegittimare tutte le forme di organizzazione operaia indipendentemente dal fatto che queste si collocassero in un orizzonte rivoluzionario o anche solo semplicemente sindacale. Nel mirino della controrivoluzione liberista entrava ogni di organizzazione operaia e proletaria poiché, a dover essere bandita dalla scena storica, era l'idea stessa di essere collettivo[26] e con questa qualunque possibilità, attraverso la conquista e l'esercizio del potere politico, di modificare lo stato delle cose presenti.
L'esistenza delle classi sociali, nella migliore delle ipotesi, poteva essere riconosciuta sul piano della dimensione sociale ed economica senza che ciò comportasse una qualche ricaduta sul terreno della politica e quindi nella lotta per il potere. Di più. La cornice sociale ed economica della dimensione di classe non poteva fare altro che ascrivere simile condizione a fatto puramente individuale trasformando l'esistenza delle classi in un semplice ascensore dove l'individuo, in virtù delle sue capacità, schiacciava se meritevole il pulsante dell'ascesa o, se incapace di districarsi negli affanni del mondo, destinato a precipitare velocemente rischiando di ritrovarsi tra i meandri del sottosuolo sociale. Ma tutto ciò, in fondo, per il comando del capitale aveva un'importanza inessenziale. Centrale e di ben maggiore interesse, nel contesto, si è mostrato riuscire a separare prima la dimensione sociale ed economica dall’essere collettivo della classee, come passaggio immediatamente successivo, averne amputato alla radice il suo essere storico quindi politico. In tale scenario la classe non può essere altro che un fattore accidentale della vita dell'individuo. Sta a lui, alla sua azione, posizionarsi in un determinato gradino gerarchico piuttosto che in un altro. Si vince o si perde da soli, mai insieme con altri ma, soprattutto, si vince o si perde lottando contro altri individui mai contro un sistema di potere o una classe dominante. Soprattutto non si lotta per il potere politico, non si pone in discussione la dimensione statuale in quanto comitato d'affari[27]della borghesia ma ci si cimenta in lotte estenuanti al fine di imporsi sul proprio simile interpretando canovacci degni del sarcasmo di Balzac e dell'ironia di Gogol. All'interno di questa cornice, se la guerra di classe è bandita dalla società ben altre risonanze e legittimazioni, al contrario, hanno le retoriche che, senza mezze misure, esaltano la guerra individuale, della lotta mortale che ogni individuo deve accingersi a combattere per sé.
Con il precipitare della crisi, e l’inevitabile immiserimento delle classi sociali subalterne, tutto ciò ha assunto aspetti drammatici. Ogni giorno è facile assistere a una "guerra tra poveri" dove, in linea di massima, i subalterni "nazionali" si scagliano con odio e rancore contro gli immigrati. Un fenomeno che non conosce confini, basti pensare a quanto recentemente accaduto, ad esempio, in diverse zone del Continente africano, e che nelle aree geopolitiche occidentali di quello comunemente considerato Primo mondo è diventato un fenomeno talmente diffuso da non fare neppure più notizia. Si tratta di un aspetto che meriterebbe ben altro tipo di attenzione da quella che, realisticamente, nel contesto è possibile dedicarle ma sul quale, tuttavia, è necessario dire qualcosa anche perché aspetti non secondari del "pensiero strategico" di Lenin sembrano essere, oggi, più che mai attuali, efficaci ed efficienti al fine di mettere in campo una strategia in grado di resistere prima e aggredire poi il progetto di controrivoluzione globale messo in atto dall'imperialismo.
La "guerra tra poveri" o più dichiaratamente tra proletari al quale si assiste quasi impotenti racconta almeno due cose. Primo, contrariamente a quanto gran parte dell'intellighenzia, critica e no, ha sostenuto nel corso degli ultimi anni, il proletariato immigrato non andava a ricoprire mansioni lavorative che gli indigeni rigettavano come se, nei nostri mondi, il lavoro proletario e operaio fossero diventati ormai un semplice residuo la cui importanza, per gli assetti del capitale, era del tutto irrisoria.
Certo, nel momento in cui la "questione immigrazione", strettamente correlata al fenomeno della globalizzazione dell'economia, iniziava a manifestarsi nel mondo occidentale o più realisticamente in quello europeo, le condizioni delle classi sociali subalterne potevano vantare condizioni difficilmente paragonabili a quelle esistenti nei paesi del Terzo Mondo ma, ed è questo il punto, il capitalismo globale ha posto in discussione, nel giro di nulla, tutti i diritti politici e sociali che il proletariato europeo era in grado di esercitare[28]. Repentinamente il quadro d'insieme delle nostre società è mutato tanto che, pur con tutte le tare del caso, per quote non irrilevanti di "proletariato indigeno" le condizioni di vita ed esistenza hanno cominciato a non essere troppo distanti da quella massa di forza lavoro, fortemente pauperizzata, che pochi anni addietro aveva iniziato a bussare alle porte dell'Occidente in cerca di una qualunque fonte di sostentamento. La ricaduta immediata del capitalismo globale è stata la rottura di ogni linea rigida e spaziale di confine e pertanto, nel mondo contemporaneo, Primo e Terzo Mondo vivono fianco al fianco all'interno del medesimo spazio geopolitico e geoeconomico dando vita a una "costituzione materiale" fondata su un duplice registro. Primo e Terzo Mondo non si sono eclissati così come non hanno dato vita a una sorta di modello socio - economico in cui le diseguaglianze che li caratterizzavano venivano superate, piuttosto il contrario. Ridotto all'osso, per esemplificare la posizione che gli individui occupano nello scenario sociale contemporaneo, è possibile immaginarli all'interno di due rette, una che si muove in orizzontale e l'altra che corre in verticale. Sull'asse orizzontale sono allocate quelle quote di popolazione il cui presente e futuro oscillano tra lavori saltuari, precari e flessibili di basso profilo o le continue incursioni nell'ambito delle economie informali e/o illegali. Passaggi determinati da semplici contingenze sia "strutturali" (maggiore o minore richiesta di lavori di basso profilo), sia "individuali" (opportunità offerte occasionalmente da uno dei tanti segmenti delle economie informali). Costoro, nella migliore delle ipotesi, possono aspirare a una "dignitosa" esistenza al servizio di un qualche privato o pubblico, singolo o collettivo, padrone e, se saranno servi mesti e fedeli, con ogni probabilità non andranno incontro a troppe disavventure ma, come nella Londra vittoriana, potranno sempre contare sulla benevolenza del padrone che non gli rifiuterà i suoi abiti, smessi ma ancora in buono stato.
Diverse le vite e le opportunità per coloro le cui esistenze sono inseribili sull'asse che corre in verticale. Complesso, non omogeneo, dove le posizioni di rendita, di prestigio e potere sono oggetto di una stratificazione sociale ossessiva e la lotta per l'affermazione individuale feroce, priva di scrupoli e incessante ma, ed è questo il nocciolo della questione, con qualcosa che le assimila e le rende affini: le opportunità a portata di mano sono, se non infinite, numerose e pur sempre all'interno di uno "stile di vita" sociale inclusivo e rispettabile. Due modelli sociali che fotografano esattamente il modo in cui, il capitalismo globale, ha ulteriormente enfatizzato, in un territorio fattosi unico, le differenze di classe dando vita a due mondi a tal punto distanti e incommensurabili che, per molti versi, le metropoli globali più che a scenari iper o post moderni sembrano rimandare al remake, ben riuscito, dei "mondi coloniali". Tutto ciò, in fondo, non deve stupire poiché, nelle vicende della guerra tra le classi, non esistono condizioni date una volta per sempre.
La lotta, mortale e permanente tra lavoro salariato capitale e gli equilibri che in questa si stabiliscono sono sempre il frutto di un rapporto di forza politico, mai il risultato di un presunto processo di civilizzazione. Non bisogna mai dimenticare che, non diversamente dal colonialismo, il capitalismo cede solo con il coltello puntato alla gola[29] e a "civilizzarlo" è solo il quantum di forza che il proletariato, in quanto classe politica, è in grado di contrapporgli. Perché ciò sia possibile occorre pur sempre che il proletariato mantenga nel suo orizzonte la dimensione collettiva e storica della propria condizione e, di questa, ne faccia il punto di forza della propria esistenza[30]. Senza di ciò non può che precipitare in una condizione che, fatte le tare del caso, non si distingue di molto da quella che ha fatto da sfondo alla storia dei suoi albori della quale, Engels, ne ha tracciato una "biografia" ancor oggi esemplare[31]. È pur sempre la forza e il suo esercizio, come ha ben evidenziato Marx[32], ad essere l'elemento chiave e determinante dei rapporti tra le classi. I subalterni non hanno alcuna possibilità di appellarsi ad una qualche fonte la quale, in virtù della sua autorevolezza e imparzialità, è in grado di ricondurre le classi dominanti a linee di condotta maggiormente prone all'umanitarismo, alla fratellanza, alla solidarietà o alla semplice equità. Nessuna fonte, se non il potere politico autonomo del proletariato[33], è in grado di far recedere la borghesia imperialista dai suoi progetti guerrafondai, di dominazione e sfruttamento delle masse subalterne. Solo il farsi potere costituente, quindi attraverso l'esercizio della propria forza di classe,consente alle classi sociali subalterne di contrastare in maniera efficace ed efficiente le mire della controrivoluzione, non certo il richiamo, come se in una società di classe potesse esistere realmente una parte terza estranea ai rapporti di forza e di potere delle classi, alla legge o al diritto[34].
Alla luce di ciò appare quanto mai evidente il senso strategico dell'operazione "teorica" portata avanti dalla borghesia imperialista al fine di cancellare dal proscenio della storia ogni ipotesi di esistenza collettiva per imporre l'individuo, o ancor meglio la sua astrazione, come unico "soggetto" al contempo reale e legittimo. In questa battaglia "culturale" si sono giocate delle poste e dei destini storici la cui importanza forse solo oggi, dentro la crisi, è possibile cogliere in tutte le sue nefaste ricadute. Il che ci conduce ad affrontare il secondo aspetto della questione.
L'imporsi del frame , in apparenza, sembrerebbe aver sancito in maniera definitiva una sorta di società liberale, almeno da un punto di vista culturale, nella sua forma più pura. In realtà, per quanto in apparenza possa sembrare paradossale, se c'è qualcosa di cui le società liberali e liberiste non possono fare assolutamente a meno è circondarsi e dare continuamente vita a fenomeni e movimenti dichiaratamente populistiche, almeno in apparenza, sembrerebbero essere la negazione della cultura e della società liberale stessa. Ad uno sguardo poco più attento, invece, è facile cogliere la necessaria complementarietà che il populismo all'interno del frame [35]. Non esiste società liberale che, per dispiegare sino in fondo il suo dominio, possa fare a meno di una certa dose di populismo all'interno del quale veicolare, in maniera del tutto funzionale al suo progetto, i conflitti e le tensioni sociali che, obiettivamente, la società liberale stessa non può far altro che esasperare. In questo senso il dibattito, tra "liberalisti" e "comunitaristi"[36], che ha a lungo appassionato parti cospicue dei teorici politici contemporanei, non sembra essere altro che la messa in scena di un conflitto simile a quello al quale siamo abituati fin dai tempi dei ladri di Pisa[37]. La cosa, in fondo, non è così difficile da comprendere.Realisticamente, infatti, la condizione di individuo è tale solo in concomitanza con determinate circostanze e condizioni. Tradizionalmente, nel mondo liberale, l'individuo è tale in quanto proprietario. Andando al sodo, la tradizione liberale ha sempre legato l'essere individuo all'essere proprietario[38]. Una condizione obiettivamente restrittiva dell'idea stessa di individuo la cui dimensione poggiava unicamente in forza della condizione materiale che il singolo poteva vantare. Solo alcuni, per farla breve, avevano accesso alla dimensione di individuo. Al di fuori di questa condizione si stagliava la massa informe dei "senza volto" una massa che, nell'apogeo delle società liberali classiche, non meritava neppure di essere presa in considerazione. Il potere si reggeva su un numero ristretto di classi e ceti mentre, per tutti gli altri, erano sufficienti le baionette.
Nell'epoca contemporanea, anche se con numeri diversi, la condizione di individuo a essere appannaggio di un numero ristretto di persone. La pur numerosa società cosmopolita vantata dall'era del capitalismo globale è pur sempre una nicchia per quote, ancorché non minimali, di popolazione mentre, per la stragrande maggioranza degli "individui" il volto del capitalismo globale mostra ben altri tratti. Precarietà, flessibilità, debiti sono il pane sempre più quotidiano per milioni di "individui" senza presente e senza storia[39] e in particolare per coloro non appartenenti al mondo nordamericano e dell'Europa occidentale, anche se, tutto ciò, è ben lungi dall'innescare meccanicamente la messa a punto di lotte di classe coscientemente condotte. In ogni epoca, come ricorda Marx, "le idee dominanti sono quelle delle classi dominanti"[40]e la cornice culturale e ideologica in cui i subalterni sono ascritti, se nel frattempo non è intervenuto un elemento cosciente in grado di mostrare loro in quali termini si pongano realmente le cose[41], non può che essere la stessa che le classi dominanti gli propinano[42].
In seconda battuta, quindi, il manifestarsi del conflitto interproletario mostra quanto urgente sia la necessità di una linea di classe internazionalista senza la quale, la conduzione della guerra rivoluzionaria, non può trovare realistiche prospettive di affermazione e di vittoria ma ripiegare e rinchiudersi all'interno di conflitti "interetnici" dei quali, ogni giorno che passa, siamo sempre più testimoni impotenti. Assistiamo oggi, e in Italia il fenomeno è quanto mai evidente[43], a un processo di "nazionalizzazione delle masse"[44] che non può essere affrontato a cuor leggero. Tutto ciò in un momento in cui la tendenza alla guerra dell'imperialismo è qualcosa di più che una semplice ipotesi di scuola[45]. In un simile scenario, la "nazionalizzazione delle masse", diventa un passaggio strategico della massima importanza poiché favorisce lo schierarsi del "proletariato nazionale" accanto alla propria borghesia imperialista, o meglio al blocco sovra - nazionale in cui questa è inserita, in contrapposizione agli altri blocchi imperialisti con i quali, inevitabilmente, questo entrerà in rotta di collisione. In una simile prospettiva, per l'imperialismo, è di vitale importanza legare a sé ampie quote di proletariato per lanciarle all'assalto dei propri nemici e impedire, al contempo, che questi maturino coscientemente il fatto che, il vero nemico, si trova tra le mura di casa propria[46]. Su questa scia diventa centrale la ripresa in mano della teoria leninista della crisi e dell'insurrezione come strumento teorico, politico e organizzativo capace di fornire un orientamento alle sfide imposte dall'imperialismo e dalla sua crisi.
Intorno al tema dell'insurrezione è bene spendere qualche parola anche perché, in non pochi casi, questo è trattato con non poca leggerezza quasi si trattasse di un fatto "estetico" alla cui base vi è sostanzialmente l'attività creativa e spontanea delle masse. "Le masse faranno l'insurrezione", "Le masse si armeranno" e così via sono frasi che, in ogni epoca, sono state pronunciate con non poca arroganza e leggerezza, al fine di anteporre l'azione creatrice delle masse a quella "burocratica" dell'organizzazione rivoluzionaria, da schiere di estremisti che, della rivoluzione, hanno sempre avuto una concezione vagamente "estetica". Nessuno mette in dubbio il ruolo educativo che le fasi rivoluzionarie rappresentano per le masse ma l'insurrezione, la conduzione della guerra, la conquista del potere politico sono pur sempre ambiti nei quali è necessario coniugare scienza della politica e arte della guerra. Un "sapere" che non si improvvisa. È proprio sotto tale profilo che, invece, il "pensiero strategico" di Lenin va studiato con particolare attenzione perché mostra come, il momento insurrezionale insieme alla sua preparazione e gestione, non può essere il frutto di un'improvvisazione ma il risultato di un lungo lavorio che rappresenta il vero banco di prova per i "rivoluzionari di professione"[47]. È a partire da ciò che, le avanguardie politiche, possono realisticamente ipotizzare di agire da partito dentro la crisi[48].
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