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Dentro la crisi

Emilio Quadrelli

L'irrompere di quella che, a rigore di logica, sembra essere la più grave crisi strutturale del capitalismo, di ben lunga più acuta e catastrofica di quella del 1929 le cui ricadute, com'è noto, hanno finito con l'innescare il secondo conflitto mondiale, ha reso nuovamente attuale Marx e la sua analisi del capitalismo. Per anni Das Kapital era caduto nel dimenticatoio della storia mentre il marxismo, e ancor più il richiamarsi a questo, era diventato oggetto di derisioni che finivano con l'accomunare il ceto politico e intellettuale schierato apertamente e senza remore con l'imperialismo e l'intellighenzia cosiddetta critica. Per entrambi il richiamo a Marx e al marxismo non mostrava altro che la palese esemplificazione dell’incapacità a comprendere a fondo le "novità" che il mondo postmoderno, postmateriale, postclassi e così via poneva sotto gli occhi di tutti[1].

Archiviata in maniera a dir poco interessata, insieme al Novecento, l'idea stessa di "crisi strutturale", l'era contemporanea rendeva obsoleta l'analisi marxista del modo di produzione capitalista e con lei tutte le ricadute politiche che questa si portava appresso.

 I crolli di borsa e gli indici in rosso della produzione industriale hanno parzialmente modificato questa visione anche se, nei confronti della crisi, il gotha del pensiero imperialista[2] non sembra essere in grado di cavare un ragno dal buco. Ogni giorno, ormai da mesi, non solo sui più svariati organi di stampa ma anche all’interno di numerosi programmi televisivi e radiofonici, molti dei quali vantano pretese di serietà e scientificità non indifferenti, è possibile assistere a una serie pressoché infinita di performance comiche da parte delle "eminenze grigie" che incarnano al meglio il sapere della “scienza economica borghese". Costoro palesemente, come può rendersi conto anche il lettore meno attento o l’ascoltatore più distratto, di fronte alla crisi mostrano ampiamente di non sapere letteralmente quali pesci prendere tanto che, in ogni circostanza, riescono a dire tutto e il contrario di tutto cercando di occultare il loro imbarazzo dietro un lessico "tecnico" forbito e astruso, il quale tuttavia fa facilmente intuire quanto, ancora una volta, il re sia nudo.  Molti, inizialmente, hanno negato l’esistenza stessa della crisi ipotizzando che le turbolenze finanziarie non fossero altro che scosse di assestamento di un sistema quanto mai solido. In un secondo momento hanno evocato gli eccessi speculativi come cause, puramente contingenti, dei guasti che si stavano manifestando. Successivamente, quando i listini di borsa hanno iniziato a colare a picco sempre più velocemente, non si sono risparmiati nel provare a sostenere che tra finanza ed economia reale non vi era alcun nesso e che, pertanto, tutti potevano continuare a dormire sonni sostanzialmente tranquilli. I crolli della borsa, infatti, non avrebbero avuto alcuna conseguenza sull’economia reale. Dopo aver, per anni, enfatizzato il ruolo strategico che l’economia finanziaria rivestiva per la nuova era economica, tanto da porre le reiterate impennate della Borsa come la miglior esemplificazione delle "magnifiche e prosperose sorti" in cui grazie alla finanziarizzazione dell’economia il mondo si stava dirigendo ne hanno, in tutta fretta, scaricato l’importanza riducendola a una sorta di gioco snob per eccentrici signori in cerca di emozioni ma senza conseguenze sul mondo reale.

 Sforzi titanici che, loro malgrado, non hanno avuto gli effetti taumaturgici sperati. Inevitabilmente a entrare pesantemente in crisi o, per dirla in maniera più chiara, a essere in piena bancarotta sono state le banche, quindi l’intero sistema di credito internazionale. A quel punto, il dito degli "scienziati economici" è stato puntato contro il gruppo di "mariuoli" che, in virtù della postazione privilegiata occupata, avrebbero dato il via a manovre finanziarie truffaldine di una tale portata da mettere in crisi l’intero sistema di credito internazionale. Disperatamente, gli economisti di tutte le scuole hanno provato a sostenere che il sistema era sano e che solo alcuni irresponsabili lo avevano danneggiato. Una tesi, per altro verso, sostenuta in piena sintonia con gli uomini politici dei vari governi i quali, non meno stupiti e sorpresi dei loro scienziati economici a fronte di quanto stava accadendo, si sono prodigati in estenuanti Vertici (G7, G8, G20, G2) o in più classici incontri bilaterali annunciando ogni volta di aver individuato la natura del problema e aver messo in atto le strategie necessarie per fronteggiarlo e risolverlo.

 I risultati di ciò sono sotto gli occhi di tutti e non hanno bisogno di commenti aggiuntivi. Alla fine, in pieno panico cognitivo, non hanno trovato nient'altro di meglio se non affermare a pieni polmoni che l’unico rimedio alla crisi consiste nel somministrare ai mercati una robusta iniezione di fiducia e ottimismo. A tale unico e “miracoloso” rimedio sembra ricorrere anche l’attuale inquilino della Casa Bianca che, dopo aver sbandierato ai quattro venti che la sua amministrazione avrebbe affrontato con strumenti scientifici i guasti dell’attuale sistema economico e finanziario, nel discorso pronunciato il 24 febbraio 2009   alla Nazione[3], e che l’intero mondo aspettava con non poca ansia, non ha saputo, andando al sodo, far altro che appellarsi alla fiducia e all’ottimismo come strumenti principali, e in fondo unici, per fuoriuscire dai disastri del presente. L’affermazione con la quale ha posto fine al suo discorso: "Sono sicuro che usciremo da questa situazione con una Nazione più forte e più grande di prima", e la conclusione perentoria:"Gli Stati Uniti continueranno a essere la principale potenza internazionale", non sembrano, infatti, essere in grado di andare oltre  un atto di fede. Affermazioni che hanno rincuorato, almeno sul momento, i più ma che, a ben vedere, più che ad una qualche forma di lucidità politica rimandano a una gestione "profetica" della crisi rispetto alla quale, in concreto, non si è in grado di ipotizzare soluzioni vagamente sensate. I mercati finanziari, che più che di fede hanno bisogno di denaro, non a caso hanno risposto precipitando ulteriormente[4]. L'impasse in cui sembra essere precipitato Obama non deve sorprendere. I limiti degli uomini politici, degli economisti e degli analisti sociali hanno ben poco di individuale ma, ben più realisticamente, sono l'esatto risultato del limite "storico" del pensiero imperialista dal quale, obiettivamente, i suoi rappresentanti non sono in grado di emanciparsi.  Figli fedeli della loro classe politica non possono fare altro che "pensare" ed agire nei limiti oggettivi che quella cornice impone loro. In qualunque salsa si giri per l'imperialismo l'unico modo possibile per uscire dalla crisi è la guerra e il nuovo interventismo statale nell'economia, ben lungi dall'essere "un passo avanti verso il socialismo", non rappresenta altro che un adeguamento di fase che l'imperialismo abitualmente adotta nei momenti di crisi. Non deve stupire perciò che radicali liberisti e ultrà della mano invisibile del mercato si siano repentinamente ritrovati a essere tra i principali sponsor dell'intervento statale[5]. Lo "spettro" di Keynes[6] torna a troneggiare tra gli orizzonti degli economisti e degli uomini politici imperialisti. Un ritorno che a sinistra, in non pochi casi, è salutato con entusiasmo dimenticando che la vera risposta keynesiana alla crisi è stata la Seconda Guerra mondiale dalla quale a trarne i profitti maggiori sono stati proprio gli Stati Uniti [7] .    

  Se Keynes è ampiamente riscoperto e nuovamente apprezzato anche Marx, tra gli economisti borghesi, ha iniziato a essere rivalutato e, con lui, alcuni aspetti della sua critica al capitalismo. Ma non bisogna lasciarsi trarre in inganno. La rivalutazione di Marx, attestazioni di merito "scientifico" e "culturale" a parte (onorificenze che possono essere tranquillamente elargite poiché a costo zero), non sono certo disinteressate. La borghesia nonostante i limiti oggettivi in cui il suo essere storico obiettivamente l'ascrive, non è fessa e nel momento in cui assume Marx nel suo orizzonte concettuale ha in mente una cosa solo: depotenziarlo e addomesticarlo. Si assiste così, in qualche modo, alla rimessa in circolo di una vecchia leggenda che la borghesia ha fatto sorgere intorno a Marx: quella dell'economista arguto, in grado di cogliere un insieme di contraddizioni obiettive dell'economia di mercato (e quindi utile poiché, grazie alla sua critica, è possibile apportare una serie di interventi "strutturali" in grado di arginarne gli squilibri più evidenti e forieri di crisi incontrollabili), a dispetto di un Marx velleitario e utopico quando dalla "scienza economica" è approdato alla teoria politica. Una lettura di Marx che riduce la critica dell'economia politica una regolamentazione dei mercati e ad un maggior peso della sfera pubblica nella gestione dell'economia, lasciando pressoché inalterati i rapporti politici tra le classi.  L'idea di un Marx economico, un Marx storico, un Marx filosofo e un Marx politico, in qualche modo indipendenti (se non addirittura in conflitto) l'uno con l'altro è, del resto, vecchia almeno quanto la teoria marxiana stessa e intorno a tale operazione si sono consumate tonnellate di carta con un unico scopo: trasformare il marxismo da scienza della rivoluzione proletaria in orpello accademico, un aspetto che Lenin, del resto, aveva colto con non poca lucidità:

 "Accade oggi alla dottrina di Marx quel che è spesso accaduto nella storia alle dottrine dei pensatori rivoluzionari e dei capi delle classi oppresse in lotta per la loro liberazione. Le classi dominanti hanno sempre ricompensato i grandi rivoluzionari, durante la loro vita, con implacabili persecuzioni; la loro dottrina è sempre accolta con il più selvaggio furore, con l'odio più accanito e con le più impudenti campagne di menzogne e di diffamazione. Ma, dopo morti, si cerca di trasformarli in icone inoffensive, di canonizzarli, per così dire, di cingere di una certa aureola di gloria il loro nome, a "consolazione" e a mistificazione delle classi oppresse, mentre si svuota del contenuto la loro dottrina rivoluzionaria, se ne smussa la punta, la si svilisce. La borghesia e gli opportunisti in seno al movimento operaio si accordano oggi per sottoporre il marxismo a un tale "trattamento". Si dimentica, si respinge, si snatura il lato rivoluzionario della dottrina, la sua anima rivoluzionaria. Si mette in primo piano e si esalta ciò che è o pare accettabile alla borghesia"[8].

 In altre parole separare Marx dal marxismo, dissociare Marx dal proletariato, salvare Marx per affossare la rivoluzione. Sotto nuove vesti, oggi, assistiamo a qualcosa di simile. Tuttavia se dentro la crisi Marx può essere per certi versi riabilitato, Lenin rimane un nome impronunciabile[9]. Non è inessenziale al proposito far notare come, limitandosi al panorama italiano, nell'Enciclopedia del pensiero politico[10], opera di notevole prestigio, a Lenin sia dedicato uno spazio addirittura inferiore a quello riservato a Félicité Robert de Lamennais[11] e la sua opera, oltre ad essere liquidata in poche battute, ascritta senza mezze misure alla categoria del "totalitarismo"[12].  La cosa non deve stupire. Per le classi dominanti solo pronunciare il nome di Lenin è sinonimo di panico poiché, nei suoi confronti, non è possibile alcun recupero, nessuna mediazione "intellettuale". Il suo pensiero è il "pensiero strategico" del proletariato e delle masse subalterne, l'arma teorica, politica e organizzativa attraverso la quale i subalterni hanno portato l'assalto al cielo[13]e che, proprio dentro la crisi, ha completamente dato prova della sua efficacia ed efficienza. Aspetto su cui è necessario soffermarsi.

 Lenin non è un teorico, un intellettuale, un bohemien eccentrico, momentaneamente attratto dalle sorti delle classi sociali subalterne delle quali, come spesso accade agli intellettuali borghesi in gioventù, si ci innamora quasi a pagare un pedaggio obbligato al proprio romanzo di formazione, per poi velocemente dimenticarsene una volta che completati gli studi e posti di fronte alle proprie responsabilità si entra in società, bensì il "rivoluzionario di professione" che ha consacrato l'intera esistenza alla Rivoluzione e alla sua affermazione[14].  Lo aveva capito con pari lucidità Carl Schmitt:

  "Dopo le guerre di liberazione, la filosofia dominante in Prussia era quella di Hegel, che tentò una sistematica mediazione fra rivoluzione e tradizione. Veniva considerata una filosofia conservatrice, e senza dubbio lo era. Ma conservò anche le scintille rivoluzionarie, e attraverso la sua filosofia della storia fornì allo sviluppo della rivoluzione una pericolosa arma ideologica, più pericolosa di quanto fosse la filosofia rousseauiana nelle mani dei Giacobini. Quest'arma storico - filosofica finì nelle mani di Karl Marx e Friedrich Engels. Ma i due rivoluzionari tedeschi erano più pensatori che attivisti. Soltanto con un rivoluzionario di professione russo, solo con Lenin, il marxismo è divenuto, come dottrina, quella forza di portata mondiale che oggi esso rappresenta."[15]

  Pur ampiamente condivisibile l’affermazione di Schmitt va minimamente completata poiché, una lettura approssimativa del testo schmittiano, potrebbe rafforzare la "leggenda" coltivata da ampie schiere dell’intellettualità "radicale" occidentale per la quale tra Marx e Lenin si sarebbe aperto un solco "oggettivo" tale da renderli, di fatto, sostanzialmente estranei l’uno all’altro. Secondo questa visione Lenin sarebbe l’inventore di un marxismo dichiaratamente "russo" o "slavo", in altre parole Lenin sarebbe più un "russo" che un marxista e il suo pensiero politico nient'altro che la diretta filiazione di una "particolarità", per di più storicamente arretrata, di cui è inutile occuparsi poiché obiettivamente estranea e distante dalle necessità del proletariato occidentale che, essendo inserito nel punto più alto dello sviluppo delle forze produttive, è l'unico ad assumere un ruolo centrale per la rivoluzione[16]. Più che il teorico e il dirigente dell’insurrezione proletaria nell’era del dominio imperialista Lenin è contrabbandato, secondo non pochi critici sedicenti marxisti, come l’incarnazione del giacobino che assesta l’ultimo e definitivo colpo mortale al dispotismo feudale. Un grande rivoluzionario ma più vicino a Saint Just[17]che ai proletari della Comune. In realtà chiunque si prenda la briga di leggere, soprattutto, i cosiddetti scritti storici di Marx ed Engels sugli eventi francesi e tedeschi[18] ponendoli successivamente a confronto con gli interventi di Lenin sulle vicende politiche russe,non farà troppa fatica a cogliere l’affinità che li caratterizza[19]. In entrambi, infatti, vi è un'attenta osservazione delle classi in lotta e delle forme politiche, ideologiche, teoriche e organizzative all'interno delle quali la lotta delle classi si presenta sul teatro della storia così come, in contemporanea, lo sguardo non cessa mai di osservare e perdere di vista lo scenario internazionale con tutte le ricadute che questo comporta anche per gli avvenimenti locali. Un aspetto che, in Marx ed Engels, non viene mai meno. Allo stesso tempo, fatto sovente tenuto poco in considerazione, un legame non meno forte vi è tra l’importanza attribuita da Lenin alla "forma guerra" e alle ricadute che questa comporta dentro il conflitto di classe e quella riconosciuta da Marx ed Engels alle vicende belliche del loro tempo. Lenin ha dedicato, infatti, non poca attenzione dapprima alla guerra russo - giapponese, le cui ricadute hanno un ruolo non secondario sugli eventi del 1905, successivamente alle conseguenze politiche che la "forma guerra" inaugurata nel Primo conflitto mondiale comporta nel ridefinire la strategia della politica comunista. Un'attenzione che si colloca, in particolare, sulla scia di Engels il quale ha dedicato molte energie ad analizzare la conduzione della guerra franco/prussiana e le ricadute che questa ha comportato sia per l’arte della guerra siaper la scienza della politica[20] e quindi per il "pensiero strategico" del proletariato e della sua organizzazione.

  Ma riprendiamo il filo del nostro discorso. La fuoriuscita dal Novecento, secondo le retoriche che hanno a lungo imperversato[21], avrebbe comportato la fine del lavoro, l'eclissi di un'era fondata sul cemento e l'acciaio, l'estinzione del lavoro salariato e delle classi[22]. Il logico corollario di tutto ciò era la constatazione di essere approdati dentro un mondo incentrato sulle retoriche del consumo, degli stili di vita, dei modelli culturali dove, anziché classi, volta per volta si contendevano il proscenio della vita politica e sociale gli utenti, i consumatori, i risparmiatori ecc. Attori sociali che, nella migliore delle ipotesi, trovavano un qualche tratto comune nella figura del cittadino e un possibile collante unitario nella lotta per i diritti di cittadinanza. Oltre la classe: il cittadino[23], oltre Marx: Locke. La nuova era, alla fine, oltre a ripiegare interamente sulla cornice concettuale della filosofia e della politica della borghesia lo faceva appropriandosi degli aspetti più conservatori dell'orizzonte borghese, della Gironda contro la Montagna. Anzi, proprio in virtù dei richiami che l'Ottobre sovietico poteva vantare verso l'89 giacobino, le critiche liberali alla Montagna hanno trovato schiere di  epigoni non secondari. Al fervore di Danton e Marat si è iniziato a preferire la pacatezza di Tocqueville, al popolo in armi lo spirito delle leggi. A imporsi è stato un ordine discorsivo incentrato sui destini del singolo e sulle diverse maschere che questi indossa, di volta in volta, nel corso della sua esistenza.   Figure che, pare ovvio, in virtù della loro postazione permanentemente mutevole non potevano realisticamente assumere alcuna dimensione in grado di emanciparsi da un destino costruito unicamente su delle "contingenze" dalle quali, la dimensione di essere classe in senso storico era bellamente espunta. Al "pensiero forte", attraverso il quale ogni classe ha elaborato teoricamente la propria presa sul mondo[24], si è sostituito un "pensiero debole"[25] che della contingenza, e della dimensione individuale, ha fatto il suo punto di forza.

  Poste al bando le classi dal mondo, queste finivano con il ridursi alla semplice sommatoria di individui che, in virtù del loro essere unici e irripetibili, non potevano fare altro che vivere giorno dopo giorno cercando di passarsela, o spassarsela, al meglio. Sul piano filosofico il "pensiero debole" non faceva altro che nobilitare l'epopea inaugurata da Ronald Reagan e le sue reiterate esortazioni all'edonismo, ma non solo. Il "pensiero debole", nella particolare fase imperialista in cui si è manifestato, ha svolto, sul piano filosofico, un compito estremamente pratico una non secondaria importanza strategica per il comando capitalistico. L'attacco frontale portato da questo alla "meta - narrazione", in realtà, non era altro che un tentativo di delegittimare il marxismo in quanto "filosofia politica universale" in grado di ricomporre l'unità del proletariato e delle classi sociali subalterne. In altri termini, per il "pensiero debole", ciò che diviene impossibile pensare è l'unità dialettica tra il particolare il generalepoiché a esistere sono solo unicamente dei particolari a qualunque forma di generalizzazione. In questo senso, allora, non è più pensabile e ipotizzabile l'esistenza delle classi in chiave storica é, determinanti e decisive, sono unicamente la serie infinita di contingenze all'interno della quale la storia si manifesta. La critica alla "meta - narrazione" si riduce alla critica del proletariato in quanto classe storica e, in virtù di ciò, storicamente legittimato a farsi classe universale. Le ricadute pratiche di questo discorso non lasciano molto spazio all'immaginazione.   

  Nell'esaltazione dell'individualismo, nella ricerca ossessiva del piacere e dell'effimero, nella messa in mora di ogni meta storica, e quindi nell’affermazione del non senso di ogni lotta politica finalizzata al raggiungimento di un qualche obiettivo universale, controrivoluzione neoliberista trovava le sue armi ideologiche e morali grazie alle quali delegittimare, anche sul piano teorico e concettuale, ogni forma politica incentrata sull'essere collettivo. Un passaggio che, oltre a fornire la nuova chiave morale 'epoca, doveva servire, nell'immediato, a distruggere e delegittimare tutte le forme di organizzazione operaia indipendentemente dal fatto che queste si collocassero in un orizzonte rivoluzionario o anche solo semplicemente sindacale. Nel mirino della controrivoluzione liberista entrava ogni di organizzazione operaia e proletaria poiché, a dover essere bandita dalla scena storica, era l'idea stessa di essere collettivo[26] e con questa qualunque possibilità, attraverso la conquista e l'esercizio del potere politico, di modificare lo stato delle cose presenti.       

  L'esistenza delle classi sociali, nella migliore delle ipotesi, poteva essere riconosciuta sul piano della dimensione sociale ed economica senza che ciò comportasse una qualche ricaduta sul terreno della politica e quindi nella lotta per il potere. Di più. La cornice sociale ed economica della dimensione di classe non poteva fare altro che ascrivere simile condizione a fatto puramente individuale trasformando l'esistenza delle classi in un semplice ascensore dove l'individuo, in virtù delle sue capacità, schiacciava se meritevole il pulsante dell'ascesa o, se incapace di districarsi negli affanni del mondo, destinato a precipitare velocemente rischiando di ritrovarsi tra i meandri del sottosuolo sociale. Ma tutto ciò, in fondo, per il comando del capitale aveva un'importanza inessenziale. Centrale e di ben maggiore interesse, nel contesto, si è mostrato riuscire a separare prima la dimensione sociale ed economica dall’essere collettivo della classee, come passaggio immediatamente successivo, averne amputato alla radice il suo essere storico quindi politico. In tale scenario la classe non può essere altro che un fattore accidentale della vita dell'individuo. Sta a lui, alla sua azione, posizionarsi in un determinato gradino gerarchico piuttosto che in un altro. Si vince o si perde da soli, mai insieme con altri ma, soprattutto, si vince o si perde lottando contro altri individui mai contro un sistema di potere o una classe dominante. Soprattutto non si lotta per il potere politico, non si pone in discussione la dimensione statuale in quanto comitato d'affari[27]della borghesia ma ci si cimenta in lotte estenuanti al fine di imporsi sul proprio simile interpretando canovacci degni del sarcasmo di Balzac e dell'ironia di Gogol. All'interno di questa cornice, se la guerra di classe è bandita dalla società ben altre risonanze e legittimazioni, al contrario, hanno le retoriche che, senza mezze misure, esaltano la guerra individuale, della lotta mortale che ogni individuo deve accingersi a combattere per sé.

Con il precipitare della crisi, e l’inevitabile immiserimento delle classi sociali subalterne, tutto ciò ha assunto aspetti drammatici. Ogni giorno è facile assistere a una "guerra tra poveri" dove, in linea di massima, i subalterni "nazionali" si scagliano con odio e rancore contro gli immigrati. Un fenomeno che non conosce confini, basti pensare a quanto recentemente accaduto, ad esempio, in diverse zone del Continente africano, e che nelle aree geopolitiche occidentali di quello comunemente considerato Primo mondo è diventato un fenomeno talmente diffuso da non fare neppure più notizia. Si tratta di un aspetto che meriterebbe ben altro tipo di attenzione da quella che, realisticamente, nel contesto è possibile dedicarle ma sul quale, tuttavia, è necessario dire qualcosa anche perché aspetti non secondari del "pensiero strategico" di Lenin sembrano essere, oggi, più che mai attuali, efficaci ed efficienti al fine di mettere in campo una strategia in grado di resistere prima e aggredire poi il progetto di controrivoluzione globale messo in atto dall'imperialismo.

La "guerra tra poveri" o più dichiaratamente tra proletari al quale si assiste quasi impotenti racconta almeno due cose. Primo, contrariamente a quanto gran parte dell'intellighenzia, critica e no, ha sostenuto nel corso degli ultimi anni, il proletariato immigrato non andava a ricoprire mansioni lavorative che gli indigeni rigettavano come se, nei nostri mondi, il lavoro proletario e operaio fossero diventati ormai un semplice residuo la cui importanza, per gli assetti del capitale, era del tutto irrisoria.

 Certo, nel momento in cui la "questione immigrazione", strettamente correlata al fenomeno della globalizzazione dell'economia, iniziava a manifestarsi nel mondo occidentale o più realisticamente in quello europeo, le condizioni delle classi sociali subalterne potevano vantare condizioni difficilmente paragonabili a quelle esistenti nei paesi del Terzo Mondo ma, ed è questo il punto, il capitalismo globale ha posto in discussione, nel giro di nulla, tutti i diritti politici e sociali che il proletariato europeo era in grado di esercitare[28]. Repentinamente il quadro d'insieme delle nostre società è mutato tanto che, pur con tutte le tare del caso, per quote non irrilevanti di "proletariato indigeno" le condizioni di vita ed esistenza hanno cominciato a non essere troppo distanti    da quella massa di forza lavoro, fortemente pauperizzata, che pochi anni addietro aveva iniziato a bussare alle porte dell'Occidente in cerca di una qualunque fonte di sostentamento. La ricaduta immediata del capitalismo globale è stata la rottura di ogni linea rigida e spaziale di confine e pertanto, nel mondo contemporaneo, Primo e Terzo Mondo vivono fianco al fianco all'interno del medesimo spazio geopolitico e geoeconomico dando vita a una "costituzione materiale" fondata su un duplice registro. Primo e Terzo Mondo non si sono eclissati così come non hanno dato vita a una sorta di modello socio - economico in cui le diseguaglianze che li caratterizzavano venivano superate, piuttosto il contrario. Ridotto all'osso, per esemplificare la posizione che gli individui occupano nello scenario sociale contemporaneo, è possibile immaginarli all'interno di due rette, una che si muove in orizzontale e l'altra che corre in verticale. Sull'asse orizzontale sono allocate quelle quote di popolazione il cui presente e futuro oscillano tra lavori saltuari, precari e flessibili di basso profilo o le continue incursioni nell'ambito delle economie informali e/o illegali. Passaggi determinati da semplici contingenze sia "strutturali" (maggiore o minore richiesta di lavori di basso profilo), sia "individuali" (opportunità offerte occasionalmente da uno dei tanti segmenti delle economie informali). Costoro, nella migliore delle ipotesi, possono aspirare a una "dignitosa" esistenza al servizio di un qualche privato o pubblico, singolo o collettivo, padrone e, se saranno servi mesti e fedeli, con ogni probabilità non andranno incontro a troppe disavventure ma, come nella Londra vittoriana, potranno sempre contare sulla benevolenza del padrone che non gli rifiuterà i suoi abiti, smessi ma ancora in buono stato.

 Diverse le vite e le opportunità per coloro le cui esistenze sono inseribili sull'asse che corre in verticale. Complesso, non omogeneo, dove le posizioni di rendita, di prestigio e potere sono oggetto di una stratificazione sociale ossessiva e la lotta per l'affermazione individuale feroce, priva di scrupoli e incessante ma, ed è questo il nocciolo della questione, con qualcosa che le assimila e le rende affini: le opportunità a portata di mano sono, se non infinite, numerose e pur sempre all'interno di uno "stile di vita" sociale inclusivo e rispettabile. Due modelli sociali che fotografano esattamente il modo in cui, il capitalismo globale, ha ulteriormente enfatizzato, in un territorio fattosi unico, le differenze di classe dando vita a due mondi a tal punto distanti e incommensurabili che, per molti versi, le metropoli globali più che a scenari iper o post moderni sembrano rimandare al remake, ben riuscito, dei "mondi coloniali". Tutto ciò, in fondo, non deve stupire poiché, nelle vicende della guerra tra le classi, non esistono condizioni date una volta per sempre.

  La lotta, mortale e permanente tra lavoro salariato capitale e gli equilibri che in questa si stabiliscono sono sempre il frutto di un rapporto di forza politico, mai il risultato di un presunto processo di civilizzazione. Non bisogna mai dimenticare che, non diversamente dal colonialismo, il capitalismo cede solo con il coltello puntato alla gola[29] e a "civilizzarlo" è solo il quantum di forza che il proletariato, in quanto classe politica, è in grado di contrapporgli. Perché ciò sia possibile occorre pur sempre che il proletariato mantenga nel suo orizzonte la dimensione collettiva e storica della propria condizione e, di questa, ne faccia il punto di forza della propria esistenza[30]. Senza di ciò non può che precipitare in una condizione che, fatte le tare del caso, non si distingue di molto da quella che ha fatto da sfondo alla storia dei suoi albori della quale, Engels, ne ha tracciato una "biografia" ancor oggi esemplare[31]. È pur sempre la forza e il suo esercizio, come ha ben evidenziato Marx[32], ad essere l'elemento chiave e determinante dei rapporti tra le classi. I subalterni non hanno alcuna possibilità di appellarsi ad una qualche fonte la quale, in virtù della sua autorevolezza e imparzialità, è in grado di ricondurre le classi dominanti a linee di condotta maggiormente prone all'umanitarismo, alla fratellanza, alla solidarietà o alla semplice equità.  Nessuna fonte, se non il potere politico autonomo del proletariato[33], è in grado di far recedere la borghesia imperialista dai suoi progetti guerrafondai, di dominazione e sfruttamento delle masse subalterne.  Solo il farsi potere costituente, quindi attraverso l'esercizio della propria forza di classe,consente alle classi sociali subalterne di contrastare in maniera efficace ed efficiente le mire della controrivoluzione, non certo il richiamo, come se in una società di classe potesse esistere realmente una parte terza estranea ai rapporti di forza e di potere delle classi, alla legge o al diritto[34].

  Alla luce di ciò appare quanto mai evidente il senso strategico dell'operazione "teorica" portata avanti dalla borghesia imperialista al fine di cancellare dal proscenio della storia ogni ipotesi di esistenza collettiva per imporre l'individuo, o ancor meglio la sua astrazione, come unico "soggetto" al contempo reale e legittimo. In questa battaglia "culturale" si sono giocate delle poste e dei destini storici la cui importanza forse solo oggi, dentro la crisi, è possibile cogliere in tutte le sue nefaste ricadute. Il che ci conduce ad affrontare il secondo aspetto della questione.

  L'imporsi del frame , in apparenza, sembrerebbe aver sancito in maniera definitiva una sorta di società liberale, almeno da un punto di vista culturale, nella sua forma più pura. In realtà, per quanto in apparenza possa sembrare paradossale, se c'è qualcosa di cui le società liberali e liberiste non possono fare assolutamente a meno è circondarsi e dare continuamente vita a fenomeni e movimenti dichiaratamente populistiche, almeno in apparenza, sembrerebbero essere la negazione della cultura e della società liberale stessa. Ad uno sguardo poco più attento, invece, è facile cogliere la necessaria complementarietà che il populismo all'interno del frame [35]. Non esiste società liberale che, per dispiegare sino in fondo il suo dominio, possa fare a meno di una certa dose di populismo all'interno del quale veicolare, in maniera del tutto funzionale al suo progetto, i conflitti e le tensioni sociali che, obiettivamente, la società liberale stessa non può far altro che esasperare. In questo senso il dibattito, tra "liberalisti" e "comunitaristi"[36], che ha a lungo appassionato parti cospicue dei teorici politici contemporanei, non sembra essere altro che la messa in scena di un conflitto simile a quello al quale siamo abituati fin dai tempi dei ladri di Pisa[37]. La cosa, in fondo, non è così difficile da comprendere.Realisticamente, infatti, la condizione di individuo è tale solo in concomitanza con determinate circostanze e condizioni. Tradizionalmente, nel mondo liberale, l'individuo è tale in quanto proprietario. Andando al sodo, la tradizione liberale ha sempre legato l'essere individuo all'essere proprietario[38]. Una condizione obiettivamente restrittiva dell'idea stessa di individuo la cui dimensione poggiava unicamente in forza della condizione materiale che il singolo poteva vantare. Solo alcuni, per farla breve, avevano accesso alla dimensione di individuo. Al di fuori di questa condizione si stagliava la massa informe dei "senza volto" una massa che, nell'apogeo delle società liberali classiche, non meritava neppure di essere presa in considerazione. Il potere si reggeva su un numero ristretto di classi e ceti mentre, per tutti gli altri, erano sufficienti le baionette.

  Nell'epoca contemporanea, anche se con numeri diversi, la condizione di individuo a essere appannaggio di un numero ristretto di persone. La pur numerosa società cosmopolita vantata dall'era del capitalismo globale è pur sempre una nicchia per quote, ancorché non minimali, di popolazione mentre, per la stragrande maggioranza degli "individui" il volto del capitalismo globale mostra ben altri tratti. Precarietà, flessibilità, debiti sono il pane sempre più quotidiano per milioni di "individui" senza presente e senza storia[39] e in particolare per coloro non appartenenti al mondo nordamericano e dell'Europa occidentale, anche se, tutto ciò, è ben lungi dall'innescare meccanicamente la messa a punto di lotte di classe coscientemente condotte. In ogni epoca, come ricorda Marx, "le idee dominanti sono quelle delle classi dominanti"[40]e la cornice culturale e ideologica in cui i subalterni sono ascritti, se nel frattempo non è intervenuto un elemento cosciente in grado di mostrare loro in quali termini si pongano realmente le cose[41], non può che essere la stessa che le classi dominanti gli propinano[42].  

  In seconda battuta, quindi, il manifestarsi del conflitto interproletario mostra quanto urgente sia la necessità di una linea di classe internazionalista senza la quale, la conduzione della guerra rivoluzionaria, non può trovare realistiche prospettive di affermazione e di vittoria ma ripiegare e rinchiudersi all'interno di conflitti "interetnici" dei quali, ogni giorno che passa, siamo sempre più testimoni impotenti. Assistiamo oggi, e in Italia il fenomeno è quanto mai evidente[43], a un processo di "nazionalizzazione delle masse"[44] che non può essere affrontato a cuor leggero. Tutto ciò in un momento in cui la tendenza alla guerra dell'imperialismo è qualcosa di più che una semplice ipotesi di scuola[45]. In un simile scenario, la "nazionalizzazione delle masse", diventa un passaggio strategico della massima importanza poiché favorisce lo schierarsi del "proletariato nazionale" accanto alla propria borghesia imperialista, o meglio al blocco sovra - nazionale in cui questa è inserita, in contrapposizione agli altri blocchi imperialisti con i quali, inevitabilmente, questo entrerà in rotta di collisione. In una simile prospettiva, per l'imperialismo, è di vitale importanza legare a sé ampie quote di proletariato per lanciarle all'assalto dei propri nemici e impedire, al contempo, che questi maturino coscientemente il fatto che, il vero nemico, si trova tra le mura di casa propria[46].  Su questa scia diventa centrale la ripresa in mano della teoria leninista della crisi e dell'insurrezione come strumento teorico, politico e organizzativo capace di fornire un orientamento alle sfide imposte dall'imperialismo e dalla sua crisi.

 Intorno al tema dell'insurrezione è bene spendere qualche parola anche perché, in non pochi casi, questo è trattato con non poca leggerezza quasi si trattasse di un fatto "estetico" alla cui base vi è sostanzialmente l'attività creativa e spontanea delle masse. "Le masse faranno l'insurrezione", "Le masse si armeranno" e così via sono frasi che, in ogni epoca, sono state pronunciate con non poca arroganza e leggerezza, al fine di anteporre l'azione creatrice delle masse a quella "burocratica" dell'organizzazione rivoluzionaria, da schiere di estremisti che, della rivoluzione, hanno sempre avuto una concezione vagamente "estetica". Nessuno mette in dubbio il ruolo educativo che le fasi rivoluzionarie rappresentano per le masse ma l'insurrezione, la conduzione della guerra, la conquista del potere politico sono pur sempre ambiti nei quali è necessario coniugare scienza della politica e arte della guerra. Un "sapere" che non si improvvisa. È proprio sotto tale profilo che, invece, il "pensiero strategico" di Lenin va studiato con particolare attenzione perché mostra come, il momento insurrezionale insieme alla sua preparazione e gestione, non può essere il frutto di un'improvvisazione ma il risultato di un lungo lavorio che rappresenta il vero banco di prova per i "rivoluzionari di professione"[47]. È a partire da ciò che, le avanguardie politiche, possono realisticamente ipotizzare di agire da partito dentro la crisi[48].


[1] Non è possibile fornire, tanta è vasta la pubblicistica al riguardo, riferimenti bibliografici in qualche modo selezionati. Tuttavia, il testo sul quale maggiormente ci si può appoggiare per una disamina esauriente delle retoriche sorte intorno all'era globale può essere Z.  Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma - Bari 2002. Al fine di dimostrare quanto fantasiose e unicamente interessate a delegittimare l'esistenza stessa della classe operaia che, nonostante i voli pindarici che la "teoria" può intraprendere, rimane pur sempre colei che produce le merci, siano le retoriche sorte intorno alla globalizzazione ma soprattutto intorno alla fine della centralità del lavoro operaio è utile citare il bel lavoro di ricerca di D. Sacchetto, Fabbriche galleggianti. Solitudine e sfruttamento dei nuovi marinai, Jaca Book, Milano 2009 dove l'autore, oltre a prendere in considerazione il ruolo strategico per l'economia globale che la classe operaia marittima rappresenta, mostra come la produzione e lo scambio di merci sia tuttora il cuore del modo di produzione capitalista. Alcuni dati, al proposito, possono essere indicativi: limitandosi ai dati ufficiali, senza tenere conto quindi della movimentazione delle merci che sfugge a ogni tipo di controllo (e non sono numeri di poco conto), nel 2006 nei porti di tutto il mondo sono stati movimentati 417 milioni di container, il triplo del 1995. Il tutto per l'ammontare di 7,2 miliardi di tonnellate di merci, esattamente il doppio della quantità movimentata vent'anni addietro. Realisticamente, tutto ciò, dovrebbe indurre ad almeno una banale conclusione: il lavoro operaio più che in pieno ripiegamento è in piena estensione. Quote sempre più ampie di popolazione sono attratte dentro la forma salario formando, su scala planetaria, un esercito di proletari dalle dimensioni impressionanti del quale, però, nei nostri mondi ben pochi sembrano accorgersi e, ancora meno, preoccuparsi del loro destino.    
[2] L'uso del termine imperialismo, soprattutto per il lettore italiano, va minimamente argomentato poiché all'interno di gran parte delle aree politiche di sinistra, in particolare Rifondazione comunista e nei diversi contenitori politici omogeneizzati dal postoperaismo, il termine imperialismo, e tutto ciò che inevitabilmente si porta appresso, è stato messo all'indice del lessico politico. Considerata una categoria tipicamente Novecentesca è stata archiviata nel museo della storia. Alla fase imperialista sarebbe succeduta la fase imperiale che rappresenterebbe una cesura storica di tale portata da scompaginare alle radici l'intero mondo concettuale a questo antecedente. Un dibattito che ha preso forma sul finire del secolo scorso quando, di fronte all'affermarsi del capitalismo globale, gli scienziati e gli analisti politici, economici e sociali si sono, a grandi linee, separati in due raggruppamenti fortemente contrapposti. Da un lato i "modernisti" che, nella nuova era, individuavano un modello politico/economico/sociale/culturale di completa rottura con il passato. Accettando, come dato oggettivo, la fine della storia questo filone di pensiero considerava il nuovo ordine mondiale come uno scenario definito e compiuto all'interno del quale non si sarebbe mai più profilata la possibilità della rottura. Senza necessariamente considerare la nuova era come epoca priva di conflitti, i "modernisti", ipotizzavano l'erompere dei conflitti o come "crisi di aggiustamento" (si riconosceva quindi che nel modello globale un'azione riformatrice era pur sempre necessaria), o come "resistenze anti moderne". Quest'ultime erano rappresentate da tutte quelle realtà definite, volta per volta, "stati canaglie", "stati etnici" ecc., nei confronti dei quali, il nuovo ordine mondiale, era legittimato a intraprendere le operazioni di polizia internazionale. Un secondo raggruppamento, i "tradizionalisti", al contrario, nella globalizzazione intravedeva, insieme alle obiettive rotture, molti elementi di continuità con la storia pregressa; continuità che portavano a intravedere nel nuovo scenario politico internazionale più che uno scompaginamento a trecentosessanta gradi, il radicalizzarsi delle contraddizioni proprie della fase imperialista. Per una discussione su questi temi, cfr., Mezzadra, S., Petrillo, A., (a cura di), I confini della globalizzazione. Lavoro, culture, cittadinanza, Manifestolibri, Roma 2000. Continuare a usare il termine imperialismo, pertanto, non significa altro che "schierarsi", ancora prima che in senso politico, con quella non secondaria parte di studiosi e analisti che, al proposito, hanno messo in campo argomentazioni scientifiche non proprio irrilevanti. Inoltre vale la pena far notare come, se dagli angusti e ristretti spazi del territorio nazionale ci spostiamo sulla dimensione internazionale, il termine imperialismo, con tutte le ricadute che comporta, goda di ottima salute. Ciò è vero non solo per i movimenti politici che animano le scene del Continente Sud Americano, dell'Africa, del Medio Oriente ecc., ma anche all'interno del dibattito teorico internazionale, cfr., AA. VV., New Left Review, 2005 - 2006, Baldini & Castoldi, Milano 2007
[3] Si veda ad esempio M. Florse D'arcais, "Gli Usa usciranno più forti che mai dalla crisi" La Repubblica 25 febbraio 2009
[4] Il giorno successivo al discorso pronunciato dall'attuale inquilino della Casa Bianca si è assistito a un ulteriore crollo internazionale, in particolare nel settore bancario, dei listini di Borsa a conferma di come, buoni propositi a parte, per il personale politico ed economico del comando del capitale la crisi non possa che avere tratti imperscrutabili.
[5]   La migliore esemplificazione, in Italia, è data dall'attuale ministro delle finanze Giulio Tremonti noto, almeno fino a ieri, come difensore e teorico della "finanza creativa", repentinamente passato tra le fila degli "statalisti". Sul piano internazionale ancora più "sorprendente" è il voltafaccia dell'ex responsabile della Federal Reserve Alain Grespan, uno dei più accaniti sostenitori del neoliberismo, che, negli ultimi tempi, ha riscoperto lo Stato e il suo ruolo centrale e insostituibile tanto da farlo sembrare più che l'alfiere della "Scuola Economica di Chicago" il clone di un vecchio prussiano.
[6]   Keynes, John Maynard (1883 - 1946). Economista inglese. Nelle vesti di funzionario del Tesoro britannico partecipò alla Conferenza di pace di Parigi nella quale, i vincitori della Prima guerra mondiale, ridefinivano il quadro geopolitico e geoeconomico mondiale. Prefigurando le possibili ricadute di instabilità politica e sociale che il trattato di pace avrebbe potuto innescare, si dimise dall'incarico e di ciò ne offrì un'accurata spiegazione attraverso la pubblicazione del suo primo testo di rilievo: Le conseguenze della pace. Critico acuto della teoria economica "neoclassica", dopo la crisi del 1929 divenne l'economista di maggior peso sul piano internazionale legando il suo operato all'azione del Presidente statunitense Frank Delano Roosevelt e all'epopea del New Deal. Nel 1944, Keynes rappresentò la Gran Bretagna alla Conferenza di Bretton Woods dove si posero le basi del sistema monetario mondiale che sarebbero durate fino agli inizi degli anni Settanta del Novecento, anni in cui il dollaro dichiarò la sua inconvertibilità.     
[7]   La politica economica keynesiana, la cui summa è ben argomentata in Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta, ha rappresentato la "linea di condotta" del capitalismo statunitense dentro la crisi devastante del 1929. L'intervento statale nell'economia ne ha rappresentato l'aspetto centrale, un intervento che si è indirizzato soprattutto verso l'industria bellica. È in questo periodo, infatti, che prendono forma le grandi commesse statali rivolte soprattutto a potenziare la Marina e l'Aeronautica militare. Settori nei quali, gli USA, potranno vantare ben presto un'egemonia pressoché assoluta. In particolare va rilevato l'intuizione strategica geniale del Governo e degli Stati maggiori statunitensi nell'indirizzo dato a questa produzione. Al contrario delle scelte operate ad esempio dal Governo imperiale giapponese, che incrementò soprattutto la produzione di corazzate, gli USA puntarono tutto sulle portaerei. In questo modo, all'elemento marino unirono l'aria. Qualcosa di simile stava accadendo anche sul piano della guerra terrestre in quanto, l'aviazione, apriva, attraverso i bombardieri da picchiata, la via alle truppe corazzate e alla più classica fanteria. Siamo di fronte a una vera e propria grande trasformazione dell'arte della guerra dove l'era keynesiianacoincide con l'affermarsi dell'"aria" come elemento strategico.
[8] V. I. Lenin, Stato e rivoluzione, pag. 131, in Id. Opere scelte in due volumi, Vol. II, Edizioni in Lingue Estere, Mosca 1948.
[9] Un'eccezione, almeno nel panorama italiano è il lavoro di G. FresuLenin lettore di Marx, La città del sole, Napoli 2008. Un testo a dir poco "eroico" poiché, e di questi tempi non è cosa da poco, si ha il "coraggio" non solo di legare Lenin a Marx e al marxismo ma di rivendicarne per intero la prassi. Sul piano internazionale un qualche interesse può averlo il testo di S. Zizek, Tredici volte Lenin (per sovvertire il fallimento del presente), Feltrinelli, Milano 2003
[10]   R. Esposito, C. Galli, diretta da, Enciclopedia del pensiero politico. Autori, concetti, dottrine, Laterza, Roma - Bari 2000
[11]   Félicité Robert de Lamennais (1782 - 1854). Pensatore politico francese, prende gli ordini minori nel 1809. La sua biografia politica e intellettuale conosce tre fasi. Nella prima, terminata intorno al 1829, si colloca, ancorché in maniera originale e non conformista, nell'ambito del cattolicesimo oltremontano e integralista e, pertanto, può essere a pieno titolo ascritto tra i teorici controrivoluzionari. In un secondo momento, dopo la rottura con il fronte controrivoluzionario, approdò verso il cattolicesimo liberale. A questa fase, iniziata nel 1830, si deve la collaborazione con la rivista "L'Avenir". A partire dal 1839 abbandona l'attività politica e di pubblicista ma non quella teorica. È in questo periodo che il suo pensiero conosce una nuova trasformazione facendolo approdare verso un cristianesimo sociale dai tratti maggiormente democratici. Un passaggio che, in Italia, ha avuto alcuni echi poiché, in qualche modo, il suo pensiero ha influenzato il Mazzini.  
[12]   L'autore della voce Lenin è Edoardo Greblo, pagg. 378 - 379, Enciclopedia del pensiero politico, cit.
[13]   Con ogni probabilità, almeno in Italia, chi ha colto al meglio questo aspetto del pensiero leniniano è stato Filippo Gaja, si veda in particolare F. Gaja, Lenin, marxismo, tattica, in Lenin, V. I., Note al libro di von Clausewitz "Sulla guerra e la condotta della guerra", Le Edizioni del maquis, Milano 1970. 
[14] Su tale aspetto rimane tuttora importante il saggio di G. Lukács, Lenin. Teoria e prassi nella personalità di un rivoluzionario, cit.
[15]  C. Schmitt,  Teoria del partigiano, pag. 69, cit.
[16] Cfr. V. I. Lenin,  L'estremismo malattia infantile del comunismo, cit.
[17]   Saint Just. Louis - Antoine - Lion, (1767 - 1794). Figura centrale della Rivoluzione francese, è molto vicino alle posizioni di Robespierre. A lui si deve, da un punto di vista teorico, l'elaborazione programmatica del "Governo rivoluzionario" che incarnerà la Terreur.
[18]   K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850; Id., Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte; Id. La guerra civile in Francia; F. Engels, Rivoluzione e controrivoluzione in Germania, in Marx - Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1969.
[19]   Con ogni probabilità sono gli scritti legati agli eventi del 1905, si veda al proposito l'introduzione alla prima parte antologica del presente testo: Della teoria della guerra, quelli che rendono al meglio il debito "analitico" contratto da Lenin con Marx ed Engels.
[20]   F. Engels, Note sulla guerra Franco - Prussiana del 1870/1871, Edizioni Lotta Comunista, Milano 1996. Il legame tra Lenin ed Engels è il "semplice" frutto dovuto alla condivisione di un medesimo "metodo" analitico. Nel 1906/1907, gli anni che Lenin dedica allo studio degli eventi del 1905 e tra il1914/1917, gli anni in cui la sua attenzione è dedicata al Primo conflitto mondiale, Lenin non poteva essere a conoscenza dei lavori di Engels sulla guerra franco/prussiana poiché questi scritti, pubblicati nel corso del conflitto sotto pseudonimo per la Pall Mall Gazette, divennero noti solo nel 1923. In tutto ciò non vi è nulla di esoterico ma la "semplice" constatazione di come, inevitabilmente, l'assunzione di una prospettiva comunista conduca a osservare gli eventi storici dalla medesima angolazione.
[21] Tra queste almeno due: liberismo e securitarismo, strettamente correlate l'una all'altra,meritano di essere osservate con attenzione. Intorno a questi due termini esiste ormai una pubblicistica sterminata di cui è pressoché impossibile rendere conto. Si vedano ad esempio, A. De Giorgi, Il governo dell'eccedenza. Postfordismo e controllo delle moltitudini, Ombre Corte, Verona 2002; Id., Zero tolleranza. Strategie e pratiche della società di controllo, DeriveApprodi, Roma 2000; S. Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, Feltrinelli, Milano 2000; F. Rahola, Zone definitivamente temporanee. I luoghi dell'umanità in eccesso, Ombre Corte, Verona 2004; L. WacquantParola d'ordine: Tolleranza zero, Feltrinelli, Milano 2000; Id., Simbiosi mortale. Neoliberismo e politica penale, Ombre Corte, Verona 2002. In tutti questi lavori, e in quelli coevi, si respira palesemente la medesima "aria di famiglia" così sintetizzabile: la svolta liberista e le politiche securitarie che si porta appresso rappresenterebbero non solo una rottura ma una vera e propria aporia rispetto al modello, "socialdemocratico" e/o del Welfare State, che si è imposto subito dopo la fine del II° conflitto mondiale. Ciò che questi "critici" sembrano dimenticare è che, quel modello, che ha funzionato solo in una parte minima del mondo, si reggeva grazie alle politiche di saccheggio e di dominazione perpetuate dall'imperialismo in tutte le altre (maggioritarie) aree del mondo. Tra le politiche di Welfare e la dominazione imperialista è esistito un nesso indissolubile che, solo degli ingenui o coloro palesemente in cattiva fede, possono pensare di ignorare. Tutto ciò ha fatto parte di un'epoca, di una fase imperialista, in cui il mondo era rigidamente separato. L'era globale, che non ha perso ma semmai enfatizzato il suo tratto imperialista, ha "semplicemente" universalizzato, importandoli nei territori occidentali, i modelli di sfruttamento e dominazione solitamente adoperati fuori dai loro confini. In tutto ciò non vi è alcuna aporia ma l'obiettiva messa in forma di una logica imperialista adeguata a una fase in cui l'esistenza dei confini ha perso gli aspetti rigidi del passato. In tale ottica, pertanto, più che di logiche securitarieha senso parlare di conduzione della guerra, nella sua variante interna. Anche le "svolte autoritarie" alle quali quotidianamente assistiamo hanno ben poco di anomalo ma sono l'esatto corollario della politica imperialista che, sembra difficile non vederlo, è sempre più politica di guerra. Realisticamente, allora, per far tornare i conti più che di liberismo sembra il caso di parlare di imperialismo, e semmai soffermarsi sulle caratteristiche della sua attuale fase, e, invece di securitarismo, provare a decodificare la forma guerra con la quale ci troviamo ormai a fare i conti.      
[22]   Anche in questo caso, per la vastità del materiale esistente, è praticamente impossibile fornire dei riferimenti bibliografici minimamente selezionati. Possiamo limitarci a indicare in Z. Bauman, Globalizzazione e glocalizzazione, Armando Editore, Roma 2005, il testo maggiormente esemplificativo al proposito.
[23]   Per una critica della figura del cittadino come archetipo della società borghese si veda K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, in, Id., Manoscritti economici - filosofici del 1844, Einaudi, Torino 1970. Per una discussione ad ampio raggio su queste tematiche si veda P. Costa,  "La cittadinanza contestata" in, Id., Civitas. Storia della cittadinanza in Europa. 2 L'età delle rivoluzioni, Laterza, Roma - Bari 2000.
[24]   Cfr. F. Engels, Antiduhring, cit.
[25]   Cfr. AA. VV., Il pensiero debole, a cura di G. Vattimo, P. A.  Rovatt; A. Dal Lago, P. A.  RovattiElogio del pudore. Per un pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1989.  
[26] Con ogni probabilità a esemplificare al meglio questo "progetto strategico" della borghesia è la "linea di condotta" inaugurata da Margaret Thatcher contro gli operai minerari britannici all'inizio degli anni '80 del secolo scorso. Si veda O. Casagrande, Minatori. La storia di Tower Colliery e le lotte dei minatori britannici contro la chiusura dei pozzi, Odradek, Roma 2004. Su tale scenario molto efficace, ancorché in chiave romanzata, si veda, D. Peace,  GB84, Marco Tropea Editore, Milano 2006. Nel panorama italiano, e forse con ricadute ancora più devastanti, l'evento che segna questo passaggio è rappresentato dalla sconfitta storica subita dalla classe operaia Fiat nell'autunno del 1980. Per una ricostruzione di questa svolta storica si possono vedere: AA. VV., Con Marx alle porte, Nuove Edizioni Internazionali, Milano 1980; AA. VV., L'altra faccia della Fiat. I protagonisti raccontano, a cura del Coordinamento cassaintegrati, Massari, Roma 1990; G. Polo,  C. Sabattini, Restaurazione italiana, Manifestolibri, Roma 2000. Per una ricostruzione della cornice complessiva in cui si delineano le vicende della classe operaia Fiat e il cambio di paradigma politico che queste comportano, cfr., E. Quadrelli, Gabbie metropolitane. Modelli disciplinari e strategie di resistenza, cit.
[27] K. Marx, Il manifesto del partito comunista, Editori Riuniti, Roma 1990.
[28] Una tendenza che ha iniziato a manifestarsi all'indomani del crollo del "Muro di Berlino". Da quel momento ha iniziato a farsi strada l'idea che, nel mondo, nessuno aveva diritto a un "piatto di pasta" se non era stato in grado di meritarselo e/o conquistarselo. Inizia esattamente in questo momento la messa in discussione prima e in mora poi del modello politico, economico e sociale ampiamente noto come Welfare State di cui, il "capitalismo renano" ne è stato forse la più "felice" esemplificazione.           
[29] Cfr., F. FanonI dannati della terra, Einaudi, Torino 1962.
[30]   Cfr., R. LuxemburgPagine scelte, Edizioni Azione Comune, Milano 1963.
[31]   F. EngelsLa condizione della classe operaia in Inghilterra, Editori Riuniti, Roma 1992
[32]   Quanto, in ultima e definitiva istanza, il terreno del diritto, sotto la cui veste la società borghese ama legittimare il proprio dominio di classe non sia altro che il risultato di un rapporto di forza generale tra le classi e non l'affare privato tra due cittadini in possesso degli stessi diritti è ben evidenziato da Marx il quale ne coglie l'essenza sul terreno della base strutturale del modo di produzione capitalista. Per questo Marx colloca la critica al diritto nel cuore stesso del modo di produzione capitalista: "Il capitalista, cercando di rendere più lunga possibile la giornata lavorativa e, quando è possibile, cercando di farne di una due, sostiene il suo diritto di compratore. Dall'altra parte, la natura specifica della merce venduta implica un limite del suo consumo da parte del compratore, mentre l'operaio, volendo limitare la giornata lavorativa ad una grandezza normale determinata, sostiene il suo diritto di venditore. Qui ha dunque luogo un' antinomia: diritto contro diritto, entrambi consacrati dalla legge dello scambio delle merci. Fra diritti eguali decide la forza. Così nella storia della produzione capitalista la regolazione della giornata lavorativa si presenta come lotta per i limiti della giornata lavorativa, lotta fra il capitalista collettivo, cioè la classe dei capitalisti, e l'operaio collettivo, cioè la classe operaia." K. Marx, Il capitale. Critica dell'economia politica, pag. 269, Libro primo, Editori Riuniti, Roma 1989.   
[33]   Non si tratta di un'idea particolarmente eccentrica né, a ben vedere, di un'intuizione particolarmente geniale ma la "semplice" constatazione che, il proletariato, non può fare affidamento che su se stesso. Un passaggio che Marx ha inciso a caratteri cubitali nella storia del movimento operaio e che, viste le amnesie dei tempi, sembra il caso di ricordare: "La classe operaia possiede un elemento del successo, il numero; ma i numeri pesano sulla bilancia solo quando sono uniti dall'organizzazione e guidati dalla conoscenza. L'esperienza del passato ha insegnato come il dispregio di quel legame fraterno, che dovrebbe esistere tra gli operai dei diversi paesi e spronarli a sostenersi gli uni con gli altri in tutte le loro lotte per l'emancipazione, venga punito inesorabilmente con la sconfitta comune dei loro sforzi incoerenti. Questa idea ha spinto operai di diversi paesi radunati il 28 settembre 1864 in pubblica assemblea in St. Martin's Hall, a fondare l'Associazione internazionale degli operai. Anche un'altra convinzione animava quest'assemblea. Se l'emancipazione della classe operaia richiede la sua fraterna unione e cooperazione, come potrà essa adempiere questa grande missione sino a che una politica estera che persegue disegni criminosi punta sui pregiudizi nazionali, e profonde in guerre di rapina il sangue e la ricchezza del popolo? Non la saggezza della classe dominante, ma l'eroica resistenza della classe operaia inglese alla sua delittuosa follia, fu ciò che salvò l'Europa occidentale dall'essere gettata nell'avventura di un'infame crociata per eternare e propagare la schiavitù sull'opposta riva dell'Oceano. Il plauso spudorato, la simpatia ipocrita o l'indifferenza idiota, con cui le classi superiori dell'Europa hanno veduto la fortezza montuosa del Caucaso essere preda della Russia e la eroica Polonia essere assassinata dalla Russia stessa; le mostruose e incontrastate soperchierie di questa potenza barbarica, la cui testa è a Pietrogrado e le cui mani sono in tutti i gabinetti europei, hanno insegnato alle classi lavoratrici che è loro dovere dominare anch' esse i misteri della politica internazionale, vigilare gli atti diplomatici dei loro rispettivi governi, opporsi ad essi, all'occorrenza, con tutti i mezzi in loro potere, e che, ove siano nell'impossibilità di prevenire, è loro dovere unirsi, per smascherare simultaneamente questa attività, e per rivendicare le semplici leggi della morale e del diritto, le quali dovrebbero regolare i rapporti fra i privati, come leggi supreme nei rapporti fra le nazioni. La lotta per una tale politica estera è una parte della lotta generale per l'emancipazione della classe operaia. Proletari di tutti i paesi, unitivi!", K. Marx, Indirizzo inaugurale e statuti provvisori dell'Associazione Internazionale dei lavoratori, pagg. 761 - 762, in Marx, Engels, Opere scelte, cit. Due temi, quello dell'unità internazionalista dei subalterni insieme a una visione della politica essenzialmente come politica internazionale rispetto ai quali il pensiero politico di Lenin è fondamentale.  
[34]   Al proposito sembra il caso di ricordare non solo, come ricorda Mao Tse Dung, che il potere politico nasce dalla canna del fucile e che, come ha ampiamente argomentato Max Weber, la posta in palio del potere politico è pur sempre garantirsi il monopolio della forza,ma che: "La legge non nasce dalla natura, presso le sorgenti alle quali si recano i primi pastori. La legge nasce da battaglie reali: dalle vittorie, dai massacri, dalle conquiste che hanno le loro date e i loro orrifici eroi; la legge nasce dalle città incendiate, dalle terre devastate; la legge nasce con quei celebri innocenti che agonizzano nell'alba che sorge.", M. Foucault, Bisogna difendere la società, Pag. 49, Feltrinelli, Milano 1998. In poche parole, appellarsi al Diritto, come se questo potesse essere la parte terza in grado di regolare, in piena autonomia, i conflitti le cui radici affondano nelle contraddizioni materiali della società nella migliore delle ipotesi è solo cecità e stupidità.
[35] Cfr., B. Anderson,  Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi, Manifestolibri, Roma 1996.
[36]   Per una ricostruzione di questo dibattito si può vedere, A. Ferrara, a cura di, Comunitarismo e liberalismo, Editori Riuniti, Roma 2000.
[37]   Secondo l'aneddoto i ladri di Pisa erano soliti litigare tra loro di giorno ma andare a rubare di comune accordo la notte. Solitamente è usato per indicare un conflitto puramente artificioso messo in scena da persone che, in realtà, vanno d'amore e d'accordo e fingono di litigare solo per gettare fumo negli occhi a chi li osserva.
[38]   Per un'esauriente panoramica su queste tematiche si veda P. Costa,  Civitas. Storia della cittadinanza in Europa. Vol. III, La società liberale, Laterza, Roma - Bari 2001.
[39] Questo nelle aree geopolitiche riconducibili al mondo Occidentale mentre, in numerose zone del pianeta, le condizioni di vita dei subalterni si dipanano tra guerre, carestie, lavoro servile se non bellamente schiavistico. Una conseguenza diretta di quel processo di delocalizzazione industriale alle origini del capitalismo globale. Cfr. L. Napoleoni, Economia canaglia. Il lato oscuro del nuovo ordine mondiale, Il Saggiatore, Milano 2008. L'intreccio tra guerra e sfruttamento a tutto tondo dei corpi, dalla produzione di merci alla messa, in stato di coercizione, al lavoro nelle industrie del sesso, è un aspetto sempre più difficile da ignorare. Cfr., R. Poulin, a cura di, Prostituzione. Globalizzazione incarnata, Jaca Book, Milano 2005; E. Quadrelli, Evasioni e rivolte. Migranti, cpt, resistenze, Agenzia X, Milano 2007.
[40]   K. Marx, L'ideologia tedesca, in Marx, Engels, Opere scelte, cit.
[41]   Educare le masse non significa trasformare l'organizzazione rivoluzionaria in una sorta di "educatori di professioni" come se, per incanto, la "cultura" fosse in grado, di per sé, di scardinare i rapporti di potere tra le classi. Tuttavia, la formazione dei quadri, è anche un fatto "culturale". Dentro le lotte si formano giustappunto "avanguardie di lotta" che, per l'obiettiva posizione che occupano all'interno della struttura socio - economica, difficilmente sono in grado di accedere a una visione complessiva, quindi politica, del conflitto tra le classi. Lasciate a se stesse o, come spesso accade tra le realtà politiche ammalate di "estremismo", venerate come la migliore espressione dell'essere proletario queste avanguardie non sono oggettivamente in grado di andare oltre il radicalismo sindacale e, se approdano al mondo della politica, non possono far altro che assumere un punto di vista incentrato sul locale. Lotta ed educazione politica, pertanto, non possono essere altro che le facce della medesima medaglia. Su questi temi si vedano in particolare gli scritti di A. Gramsci, La costruzione del Partito Comunista 1923 - 1926, Einaudi, Torino 1978. Per una discussione a tutto tondo sul rapporto cultura - proletariato si veda C. Bermani, Gramsci gli intellettuali e la cultura proletaria, Colibrì, Milano 2007
[42]   Sintomatico al proposito è l'autorappresentarsi come classi medie da parte di quote non irrilevanti di subalterni.
[43] Mercoledì 22 aprile 2009, in Italia, veniva approvato in via definitiva l'ennesimo "Decreto sicurezza" un pacchetto legislativo che, oltre agli ormai abituali e "normali" provvedimenti xenofobi e razzisti, legalizzavano la costituzione delle "Ronde dei cittadini". Una sorta di "milizia civile" riconosciuta dallo Stato che, ed è questo l'aspetto importante, mette ordine e disciplina all'interno di quell'arcipelago "spontaneo", particolarmente diffuso nelle aree geografiche del Nord Italia, che aveva visto il proliferare di "ronde spontanee" un po’ ovunque. In questo modo, lo Stato, compie un ulteriore passaggio verso la mobilitazione, in chiave controrivoluzionaria, delle "masse". In poche parole l'operazione, che sarebbe sciocco considerare puramente di natura simbolica, mira a rafforzare sul piano politico e militare gli apparati della controrivoluzione contro la possibilità che, dentro la crisi, si manifestino momenti di lotta e insorgenza proletaria. Un disegno tutt'altro che eccentrico ma che si sintonizza appieno nelle strategie di controguerriglia preventiva e controllo dei territori al quale, da tempo, il comando del capitale attraverso le sue strutture politiche e militari si sta preparando. Cfr. M. Davis, Il pianeta degli slum, Feltrinelli, Milano 2006
[44]   G. L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815 - 1933), Il Mulino, Bologna 1975
[45]   Il tema è enorme e meriterebbe un lavoro d'analisi e ricerca particolarmente accurato. Quanto, per gli organismi politici e militari dell'imperialismo la questione della messa in sicurezza dei territori urbani, in altre parole il disciplinamento dei subalterni, rappresenti, da tempo, un nodo strategico non secondario è facilmente intuibile scorrendo le numerose pubblicazioni online a carattere militare legate, in vario modo, all'Amministrazione statunitense. Aspetto che, tuttavia, è ben presente anche all'interno del "blocco imperialista" europeo. Al proposito si può vedere, soprattutto per quanto riguarda l'adeguamento del versante francese ai nuovi scenari di guerra a dominanza anti insurrezionali, l'articolo di P. Leymarie, Guerra in città. Come si preparano gli eserciti, Le Monde diplomatique- Il Manifesto, Marzo 2009. Tra le molte cose interessanti presenti nell'articolo, tutto incentrato sulla messa a punto di una strategia poliziesca e militare finalizzata a reprimere e sedare il sempre più possibile delinearsi di diverse forme di guerriglia urbana, con particolare attenzione è trattata l'esperienza maturata dall'esercito britannico nel corso del "conflitto irlandese". Per una discussione sui possibili scenari futuri, ma in non pochi casi già parti essenziali del presente, con un occhio di riguardo alle possibili strategie "militari" messe in atto dai subalterni per disarticolare l'apparente forza invincibile delle strutture poliziesche e militari dell'imperialismo si veda M. Davis, The Urbanization of Empire: Megacities and Laws of Chaos, "Social Text", 81, inverno 2004. Sulla cornice poliziesca - militare in cui si ascrivono i conflitti contemporanei, cfr., A. Dal Lago, Polizia globale. guerra e conflitti dopo l'11 settembre, Ombre Corte, Verona 2003.   
[46]   Mentre gran parte della II Internazionale si allineava sulle posizioni delle proprie borghesie nazionali allineando le masse subalterne locali dietro le bandiere nazionali, Lenin, insieme a piccoli gruppi di socialdemocratici internazionalisti lanciò la parola d'ordine della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria poiché, contrariamente a quanto sostenevano i socialpatrioti, il vero nemico il proletariato lo aveva in casa propria e non al fronte. Le armi andavano puntate contro la propria borghesia imperialista e non contro gli operai delle altre nazioni. A partire da tali premesse, i bolscevichi, misero a punto la tattica del disfattismo rivoluzionario al fine di portare le masse dei soldati nelle file ella rivoluzione. Su questi passaggi si veda la scheda storico - politica: Il combattimento del presente volume.
[47] La centralità di questo tema accompagna interamente le parti storico - politiche del presente volume.
[48]   Sotto tale profilo, inoltre, la storia delle classi sociali subalterne italiane e delle sue organizzazioni mostra al meglio quanto l'eroismo delle masse si mostri impotente di fronte ai colpi della controrivoluzione se, al suo fianco, l'organizzazione politica si mostra carente nel far propri i principi del "pensiero strategico" nella conduzione del conflitto di classe. Le vicende legate all'esperienza degli Arditi del popolo ne rappresentano forse la migliore esemplificazione. Di fronte all'avanzare del fascismo gli Arditi del popolo furono senza ombra di dubbio la più significativa forma di autorganizzazione di massa che provò a contrastare l'avvento della dittatura borghese. Un'esperienza che, e non avrebbe potuto essere altrimenti, ha mostrato tutti i suoi limiti ponendosi su un terreno puramente difensivo. Senza un'organizzazione estesa e condannati a un sostanziale isolamento dalle altre organizzazioni del proletariato, profondamente ammalate di settarismo, gli Arditi mostrarono tutto il loro eroismo nel momento in cui si posero a difesa delle città nelle quali erano riusciti a edificare un "fronte massa" militarmente inquadrato, impedendo per lungo tempo ai fascisti di irrompere in esse. Ma, mentre in queste città si combatteva, nel resto del paese nessuna iniziativa militare in loro appoggio si fece sentire. Esemplificativo è quanto accadde nell'assedio che i fascisti portarono alla città di Parma. Mentre questa combatteva strada per strada, costringendo i fascisti a retrocedere in continuazione, nessuna "manovra di disturbo" di una qualche efficacia venne condotta in loro appoggio mentre, al contrario, i fascisti potevano fare continuamente affidamento, per rinforzarsi, delle squadre fasciste provenienti da altre zone del Paese. Nessun convoglio fascista venne fatto saltare per aria, nessuna formazione fascista venne attaccata militarmente mentre stava per recarsi a dar man forte ai loro compari a Parma, su questa esperienza si veda in particolare E. Francescangeli, Arditi del popolo. Argo Secondari e la prima organizzazione antifascista (1917 - 1922), Odradek, Roma 2000. Alcuni storici, come Enzo Del Carria, E., in Proletari senza rivoluzione. Storia delle classi subalterne italiane dal 1860 al 1950, Vol. II, Edizioni Oriente, Milano 1970, imputano tutto ciò al prevalente settarismo che capeggia tra i movimenti di sinistra dell'epoca oltre al palese tradimento di gran parte del Partito socialista nei confronti delle masse subalterne. Una spiegazione che convince solo fino a un certo punto. In realtà ciò che emergere è l'assenza tra le organizzazioni del proletariato di un "pensiero strategico" che, facendo proprio la cornice bellica in cui il conflitto di classe oggettivamente si colloca, si faccia carico di tutti gli aspetti che questo contempla. Non è per nulla irrilevante notare come, grazie a Lenin, un testo come quello di K., von Clausewitz Della guerra, Mondadori, Milano 1970, abbia svolto un ruolo significativo nella formazione dei quadri del partito bolscevico mentre di questo, in Italia, non vi sia traccia.

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