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le monde diplomatique

Ripresa economica globale: la grande illusione

di Laurent Cordonnier *

Nonostante gli incantesimi dei maghi della politica

crisi2L'economia mondiale, che alterna cadute e condoni, barcolla a metà del guado. Ma già due traiettorie divergono. Quella degli acrobati della finanza, che passano dall'altra parte senza bagnarsi e ritrovano la felicità dei bonus, e quella dei lavoratori stipendiati, sommersi dalle nere acque della recessione. A un anno dal crollo della banca Lehman Brothers, né gli uni né gli altri credono più agli annunci della «regolamentazione». Il capitalismo, lasciato libero dai poteri politici, riprende la sua folle corsa. Come se non fosse successo niente.

Proprio mentre la crisi economica e finanziaria, diventata spettacolare a partire dall'autunno 2008, continua a diffondere i suoi misfatti, la primavera del 2009 ha visto sbocciare tutti gli incantesimi immaginabili in vista di un rapido recupero dell'oggetto del desiderio: lo sviluppo.

Nessun segno del destino è stato trascurato: il borbottìo (precario) degli indici di borsa; la risalita (barcollante) del corso delle materie prime e delle energie fossili; la decelerazione delle soppressioni di posti di lavoro negli Stati uniti e le previsioni di crescita incoraggianti della Riserva federale (Fed); l'aggiornamento (di + 0,1 punto!) delle previsioni della Banque de France riguardante il prodotto interno lordo (Pil) del paese nel 2009;

il miglioramento delle prospettive ostentate dal Fondo monetario internazionale (Fmi) circa la crescita mondiale nel 2010, il rimbalzo della produzione industriale nei mesi di maggio giugno in Germania: il risultato «leggermente positivo» della Société générale nel secondo semestre 2009 e i buoni profitti della banca di investimenti Goldman Sachs nel secondo semestre; il rimborso anticipato degli aiuti federali da parte delle banche americane; ecc. Dopo la fioritura primaverile, la raccolta estiva: la Germania, la Francia e il Giappone conosceranno un miglioramento del loro Pil nel secondo semestre. Senza insistere sulla fragilità di queste predizioni, vale la pena di chiedersi se il filo di luce che esse annunciano in fondo al tunnel non sia, tragicamente, il fanale di un treno che arriva dall'altra direzione... Ma, anche se gli scenari più ottimisti dovessero attuarsi (1), la disoccupazione continuerebbe a salire negli anni 2009 e 2010, proprio per l'attesa debolezza del rilancio. La zona euro potrebbe conoscere nel corso del 2010 un tasso di disoccupazione ufficiale dell'11,5% (contro il 7,5% dell'inizio del 2008). Solo per la Francia, dove si sono persi quasi 180.000 posti nell'ultimo trimestre 2008 (2), l'Unedic prevede 591.000 soppressioni di posti nel 2009. Negli Stati uniti dove 7 milioni di persone hanno già perso il lavoro, il ritmo sempre sbarloditivo di 331.000 distruzioni di posti al mese, da maggio a luglio (dopo 645.000 in media tra novembre 2008 e aprile 2009) fa temere per fine 2009 una disoccupazione del 10%. In totale l'Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) prevede da 39 a 59 milioni di disoccupati in più nel mondo e 200 milioni di lavoratori in più che dovranno abituarsi a vivere con meno di 2 dollari (1,40 euro) al giorno. E non sono le prospettive di crescita tenue annunciate dall'insieme degli istituti di previsione che consentiranno di azzerare rapidamente questi dati. Se pure si realizzeranno... In realtà sarebbe davvero molto imprudente affermare che ogni sobbalzo catastrofico della crisi sia ormai escluso.

Senza dubbio restano sul terreno alcune bombe a scoppio ritardato di cui non si conoscono né la lunghezza della miccia né la carica esplosiva. Il degrado della situazione economica, nel provocare una accentuazione significativa dei mancati rimborsi sui debiti (da parte delle famiglie e delle imprese), potrebbe per esempio alimentare un secondo giro di rovesci finanziari per le banche, le quali si devono attendere, secondo la Banca centrale europea (Bce), nuovi perdite - dell'ordine di 283 miliardi di euro - nel 2009. Non ci chiederemo se esse saranno in grado di sopportarle... visto che sanno di poter contare sulla generosità dello stato. A questo stadio della crisi non si può neanche escludere il rischio di un crack delle obbligazioni* (gli asterischi rinviano al glossario), determinata da una crescente sfiducia degli «investitori» verso i titoli del debito pubblico (in realtà una sfiducia dei «possessori di rendite», quelli che investono i loro risparmi comprando questi titoli e fanno per l'appunto il contrario di una spesa di investimento).

Temendo, a torto o a ragione, che le somme astronomiche che gli stati dovranno chiedere a prestito nel 2009 e 2010 per finanziare i disavanzi, provochino un aumento dei tassi d'interesse*, e anticipando questo proprio mentre temono un aumento dei mancati rimborsi da parte degli stati, questi investitori potrebbero mostrarsi più reticenti a possedere obbligazioni pubbliche. Il calo del prezzo delle obbligazioni che ne deriverebbe (e che equivarrebbe a un aumento dei tassi d'interesse) strangolerebbe gli stati con l'aumento del carico degli interessi nel momento stesso in cui la crisi esplode. A meno che i politici scoprano di nuovo le virtù dell'imposta o che le autorità monetarie accettino di rifinanziare i debiti pubblici* a tassi quasi nulli, l'uscita si farà come sempre dal basso: mediante tagli decisi nei servizi pubblici o nei programmi sociali (3). Ciò che, in compenso, renderà improbabile sostenere una ipotetica ripresa della domanda... Un gendarme dagli occhi bendati Tutto questo fa parte del prevedibile. Ma dove sono le altre bombe?

Nel fallimento annunciato dello Stato di California, il cui bilancio è strangolato dall'obbligo di schierare una maggioranza parlamentare dei due terzi (impossibile) per adottare un aumento di tasse o d'imposte, e che ha cominciato a pagare i fornitori con riconoscimenti di debito?

Nella rovina imminente dei fondi pensione dei funzionari del New Jersey, della California, dell'Illinois, indebitamente sotto-dotati e saccheggiati per due decenni da dirigenti politici incapaci di riscuotere l'imposta, e laminati dopo dal crac della borsa del 2008, che ha fatto perdere il 30% dei loro attivi (4)? O nel castello di carte dei 350.000 miliardi di euro circa di contratti firmati per i prodotti derivati* (destinati a coprire, normalmente, rischi di cambio, di tassi d'interesse o di mancati rimborsi) che si scambiano sul mercato non regolamentato tra gli istituti finanziari? Il loro crollo, in caso di un nuovo sisma, potrebbe provocare ulteriori perdite intorno ai 2.500 miliardi di euro (5), ossia circa le perdite finanziarie dovute alla crisi dei subprime (senza cavillare sulle cifre dopo la virgola) (6). Vorremmo essere rassicurati dall'idea che gli Stati uniti e l'Europa stanno cercando di regolamentare questi mercati, creando o riunendo autorità di supervisione e di regolamentazione, e prevedendo meccanismi di compensazione. Ma sono in parte queste stesse istituzioni che non hanno saputo prevenire la crisi dei subprime, né gli scandali del genere Enron, WorldCom o Madoff (7). La Securities and Exchange Commission (Sec) il «gendarme della Borsa americana» ha condotto tre inchieste, nel 1992, nel 2005 e nel 2007, sulle dubbie pratiche di Bernard Madoff: sono state tutte infruttuose. Questa nobile istituzione che passava fino ad oggi, si dice, per un modello di regolamentazione e di supervisione, ricorreva persino, di tanto in tanto, ai servigi dell'ex presidente del Nasdaq... per il suo parere circa l'organizzazione dei mercati. E, come ogni volta in caso di insuccesso, i mezzi finanziari e in personale della Sec sono stati incrementati (8), quasi che, in materia di regolamentazione finanziaria, la massima Shadock fosse ancora più adeguata che in altri casi: «Più la cosa fallisce, maggiori sono le probabilità che riesca in futuro!».

Questa leggerezza è il sotto prodotto di un'altra, che è il pilastro della dottrina liberale: «Autorizziamo i barbecue nel bel mezzo del bosco e aumentiamo il numero delle caserme di pompieri!». Il fatto è che non si deve far niente per imbrigliare l'innovazione finanziaria, da cui il pianeta si attende ancora tanti miracoli. È quanto ha ricordato Ben Bernanke, presidente della Fed, temendo che il Congresso americano non lasci libero corso alla sua nota tendenza regolatrice: «Non si deve cercare di imporre ai fornitori di crediti restrizioni così pesanti che impediscano lo sviluppo di nuovi prodotti e servizi in futuro». Per quali grandi beni, viene da chiedersi? Perché «l'innovazione finanziaria ha migliorato l'accesso al credito, ridotto i costi e aumentato le scelte» (9). Questo succedeva otto mesi appena dopo lo scoppio della crisi. Come non temere le bombe a scoppio ritardato, se gli artificieri sono ancora al loro posto?

Ma senza cadere nella paranoia, si possono nutrire serissimi dubbi sulla capacità delle economie capitaliste «avanzate» di ripartire in un prossimo futuro. Sussistono infatti un certo numero di vincoli di ordine macro-economico che non sono stati superati durante la crisi, anzi; vincoli solidi al punto che si dovrebbe rinunciare a qualificarli come «congiunturali», come si fa spesso. I livelli del debito pubblico, che di certo sono ancora lungi dal raggiungere i record storici registrati dopo la seconda guerra mondiale, potrebbero, secondo l'Fmi, avvicinare o superare il 90% del Pil nel 2014, per un certo numero di paesi come gli Stati uniti, il Regno unito, la Francia, il Belgio - e addirittura oltre il 200% per il Giappone - sotto l'effetto congiunto della diminuzione delle entrate fiscali dovuta alla recessione, delle politiche reiterate di abbassamento dell'imposta e del rallentamento dell'inflazione. Anche lo stesso indebitamento delle famiglie, che ha funzionato per vent'anni come un sostituto alla progressione (bloccata) dei salari nella formazione della domanda di beni di consumo, raggiunge vette inquietanti. Di conseguenza, la spesa pubblica e il consumo delle famiglie, due pilastri essenziali della formazione della domanda globale nell'economia, non saranno molto vivaci nei prossimi anni. In quanto alla domanda esterna, regolarmente arginata da una moneta sopravvalutata* (per lo meno nella zona euro), essa comincia a fare da freno appena si delinea la minima prospettiva di ripresa, per l'accresciuta volatilità dei prezzi delle materie prime e dell'energia.

A causa della diminuzione delle riserve facilmente accessibili, rafforzata da politiche di investimento quasi di rendita nella esplorazione, l'estrazione e la raffinazione delle energie fossili, e per il fatto che la speculazione si è massicciamente precipitata su questo tipo di mercati negli ultimi anni, la fattura energetica comincia a esplodere prima ancora che si concretizzino le speranze di ripresa su cui si fondano queste speculazioni.

Ma i redditi spesi all'estero per importare il prezioso liquido non sono compensati, a breve termine, da una domanda nel senso inverso, da parte dei paesi produttori verso le imprese dei paesi consumatori.

Nel 2004, l'Agenzia internazionale dell'energia (Aie) riteneva che un aumento duraturo del prezzo del barile di petrolio da 25 a 35 dollari poteva generare un calo di 0,4 punti di crescita nei paesi membri (e di 0,45 in Europa) (10). Che dire quando il prezzo del barile passerà da 60 dollari a 150... e quando 0,4 punti del Pil rappresentano circa l'effetto atteso dal piano francese di ripresa?

La stessa domanda vale per i giganteschi avanzi commerciali che la Cina ha verso gli Stati uniti e l'Europa. Al riguardo il problema non è che gli Stati uniti pompino il risparmio del resto del mondo per finanziare i loro sbalorditivi disavanzi , ma che i cinesi eccedano nel risparmio. Questo fenomeno si spiega certamente, in parte, con il tasso di risparmio strutturalmente alto delle famiglie ma, ancora più sicuramente, con gli ultimi sei o sette anni durante i quali l'avanzo commerciale cinese è stato moltiplicato per tre (dal 3% al 10% del suo Pil), con i giganteschi surplus realizzati dalle aziende industriali installate in Cina e rivolte verso l'esportazione o la sostituzione delle passate importazioni. La presa che hanno operato sulla domanda mondiale ha gonfiato i profitti del settore industriale, i quali hanno fatto crescere di 7 punti i tassi del risparmio lordo delle aziende dall'inizio degli anni 2000. Questi profitti accumulati sotto forma di risparmio e questo risparmio eccedente delle famiglie cinesi creano, non ritornando nella domanda mondiale, i disavanzi commerciali che, in un secondo tempo, essi accettano volentieri di finanziare. Questo gioco scava nella domanda globale, di fronte a ogni tentativo di ripresa economica, un buco di 168 miliardi di euro per l'Europa e di 268 miliardi di dollari per gli Stati uniti (187 miliardi di euro) (11). Insaziabile esigenza di accumulazione Già facciamo fatica a collocare i vincoli macroeconomici che precedono nella categoria dei problemi «congiunturali», visto il loro ruolo strutturante nelle malformazioni della domanda effettiva a livello mondiale. Ma che dire dei fattori che hanno configurato per oltre un quarto di secolo una sorta di economia della depressione - per riprendere i termini dell'economista Paul Krugman - barcollando e inciampando continuamente sotto il fardello della globalizzazione liberale e della dominazione della finanza sull'impresa e sul lavoro?

Il termine «strutturale» sembra alquanto debole a proposito della natura stessa del regime di accumulazione del capitale, predisposto al tempo degli anni di Reagan e Thatcher, il cui punto forte, per l'appunto, non è stato, per lo meno nei grandi paesi dell'Ocse, il dinamismo in termini di accumulazione del capitale... per non dire dei suoi veri «punti forti» (disuguaglianze sociali, cattivi trattamenti inflitti ai lavoratori salariati, irreversibili danni inflitti all'ambiente).

E tutto fa pensare, fino ad oggi, che i pilastri di questo regime di accumulazione sono ancora in piedi e che continueranno a trascinare lo sviluppo (e il resto) verso il basso. La chiave di volta del regime di accumulazione finanziarizzata è stata, e rimane, la restaurazione del potere azionario sulle grandi società quotate in Borsa. Questo ritorno dell'azionista, che si è operato con la riabilitazione dei mercati finanziari negli anni '80, non si è fatto sotto la figura gradevole della vedova di Carpentras (12) (la quale, all'inizio del secolo, assisteva alle assemblee generali degli azionisti per i biscottini), ma attraverso la forza crescente dei grandi fondi di risparmio collettivo, che fin dalla svolta del millennio, sono pervenuti a detenere oltre il 50% delle azioni delle imprese quotate. Questi organismi di investimento collettivo (fondi di mutualità, fondi pensione, compagnie di assicurazione) competono per catturare il risparmio delle categorie agiate della popolazione.

Le loro scelte di investimento in Borsa e le loro partecipazioni agli organi di «gouvernance» delle aziende ne hanno fatto una vera polizia dei mercati azionari: possono qui sanzionare le imprese che non mettono gli azionisti al centro della loro politica, là premiare quelle che riescono a raggiungere i famosi 15 o 20% di benefici sui fondi propri (13). Inutile dire che queste esigenze esorbitanti non hanno favorito gli investimenti e i consumi. Da un lato esse hanno spinto le imprese a ridurre drasticamente i propri investimenti per scegliere esclusivamente i progetti suscettibili di far loro osservare questa nuova norma finanziaria; dall'altro, hanno esercitato una enorme pressione sull'evoluzione dei salari e del lavoro, bloccando il consumo dei lavoratori. Di conseguenza, i pilastri della domanda interna sono rimasti atrofizzati nella maggior parte dei paesi sviluppati, e le imprese «occidentali» sono andate a cercare altrove nuovi paradisi. E non si può dire che questa miserevole dinamica della domanda globale stia invertendo la rotta grazie alle virtù auto-redentrici di una crisi che vedrebbe a un tratto una economia schiacciata dalla rendita azionaria trasformarsi in un capitalismo egualitario, risocializzando le imprese per la felicità dei lavoratori, dei consumatori, dei territori che le accolgono e della natura. Lo stesso si dovrebbe dire circa la liberalizzazione sistematica degli scambi internazionali di merci e di capitali, condotta da vent'anni sotto l'egida dell'Accordo generale sulle tariffe doganali e il commercio (Gatt), poi dell'Organizzazione mondiale del commercio (Wto). La messa in concorrenza dell'insieme delle produzioni, dei progetti di investimento e dei lavoratori del pianeta ha fatto della manodopera dei paesi in via di sviluppo un formidabile esercito di riserva che consente di trascinare costantemente i salari verso il basso (14).

Neanche qui si vede cosa potrebbe invertire la tendenza in tempi brevi. Per ora, con la recessione, il rischio sarebbe piuttosto che questa pressione costante sui salari faccia precipitare una deflazione salariale che già non è più una lontana ipotesi, in particolare negli Stati uniti, dove i salari settimanali hanno iniziato a calare per l'erosione del potere di contrattazione dei lavoratori e la riduzione imposta del loro tempo di lavoro. In Europa, con la costruzione di uno «spazio economico unificato» al quale mancano uno «spazio» (una politica che fissi le regole degli scambi esterni e una politica di cambio), una «economia» (un tasso di imposizione minimo sulle società, un salario minimo adattato a ogni paese) e una «unità» (tramite trasferimenti che compensino le disuguaglianze dello sviluppo), le politiche di dumping sociale hanno ancora un bell'avvenire. Infine, tra i fattori strutturali che hanno contribuito a configurare questa economia della depressione, andrebbe citato senza esitazione il pensiero dominante in economia da un buon quarto di secolo, che ha costantemente trascurato la domanda per focalizzarsi sui problemi che potrebbero imbrigliare l'offerta: i costi salariali troppo alti, le rigidità del mercato del lavoro, la fiscalità rapinatrice sul capitale, la burocrazia, l'indolenza dei salariati nel cercare lavoro, ecc. I suoi sacerdoti, che pensano solo allo sviluppo della crescita potenziale a lungo termine, hanno costantemente cercato di imporre politiche dette «strutturali» volte a incoraggiare la disponibilità della manodopera, il capitale umano, il progresso tecnico...

Non è per attribuire troppa importanza alle idee accademiche se si dichiara che esse hanno una parte di responsabilità nella crisi attuale, anche se si tratta di una responsabilità che vogliono condividere con altri. Come ricorda Krugman: «Il corpus di idee vuote che pretendeva di essere chiamato "economia dalla parte dell'offerta" è una dottrina bislacca che avrebbe avuto scarso peso se non avesse richiamato i pregiudizi di redazioni mediatiche e di uomini ricchi.» (15) Passate le esuberanze keynesiane di questo periodo carnevalesco, si può temere che il bislacco diventi «tendenza», come mostra l'incrollabile presidente della Bce Jean-Claude Trichet, che ritorna alla fonte della sua ispirazione per delineare i grandi orientamenti della politica macro-economica: «Per quanto riguarda le politiche strutturali, bisogna intensificare sempre di più gli sforzi volti a sostenere la crescita potenziale nella zona euro. [...] in particolare, le riforme dei mercati di prodotti sono necessarie per favorire la concorrenza e accelerare la ristrutturazione e lo sviluppo della produttività. Inoltre, le riforme dei mercati del lavoro devono agevolare un processo adeguato di definizione dei salari e la mobilità della manodopera tra settori e regioni. Nello stesso tempo, numerose misure adottate questi ultimi mesi per sostenere certi comparti dell'economia dovranno essere annullate progressivamente e in tempo opportuno. È essenziale che l'accento sia ormai messo sul rafforzamento della capacità di adeguamento e della flessibilità dell'economia della zona euro, conformemente al principio di una economia di mercato aperta in un regime di libera concorrenza» (16).

La luce in fondo al tunnel...

note:
* Economista, docente all'università di Lille-1. Autore di Pas de pitié pour les gueux, Raisons d'agir, Parigi, 2000.

(1) Ritorno della crescita mondiale nel secondo semestre 2010 secondo l'Fmi e la Fed, fin dall'inizio dell'anno 2010 secondo l'Ocse.

(2) Informations rapides, Institut National de la statistique et des études économiques (Insee), Parigi, 15 maggio 2009.

(3) Come già consiglia l'Ocse, senza timore di contraddirsi, nella sua nota sugli Stati uniti: «Sarà opportuno, quando la ripresa sarà solidamente avviata, ristabilire la viabilità delle finanze pubbliche riducendo i disavanzi di bilancio e affrontando il problema dell'aumento delle spese sociali». Perspectives économiques de l'Ocde, n° 85, Parigi, giugno 2009.

(4) Cfr. «The Public Pension Bomb», Fortune, New York, 2 maggio 2009.

(5) Secondo Darrell Duffie, docente all'università Stanford (California), citato da Le Monde, 16 maggio 2009.
(6) L'Fmi valuta a 2.800 miliardi di euro le perdite che gli agenti economici hanno dovuto registrare nei loro conti dall'inizio della crisi, di cui due terzi per le banche; «Perspectives de l'économie mondiale», Fmi, aprile 2009, p. 9.

(7) Si legga, in questo numero a pagina 20, Ibrahim Warde, «Madoff il finanziere più fidato del mondo».

(8) La Sec dispone di oltre 3.500 impiegati e di un bilancio di quasi 1 miliardo di dollari. Cfr. Les Échos, Parigi, 16 e 17 maggio 2009.

(9) Le Figaro, Parigi, 18 e 19 aprile 2009.

(10) «Analysis of the impact of high oil prices on the global economy», International Energy Agency, maggio 2004.

(11) Cifre per l'anno 2008 del Census Bureau per gli Stati uniti e di Eurostat per i ventisette paesi dell'Ue.

(12) La vedova di Carpentras è una figura simbolo che rappresenta l'insieme dei piccoli azionisti incompetenti nel linguaggio della borsa francese (ndt.)
(13) Leggere Isabelle Pivert, «La religione del valore azionario», Le Monde diplomatique/Il manifesto, marzo 2009.

(14) Leggere Jacques Sapir, «Il ritorno del protezionismo e il furore dei suoi nemici», Le Monde diplomatique/il manifesto, marzo 2009.

(15) Paul Krugman, Pourquoi les crises reviennent toujours, Seuil, Parigi, 2000.

(16) Bce, conferenza stampa del 2 luglio 2009.

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