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Nulla sara’ come prima. Dieci tesi sulla crisi finanziaria

di Andrea Fumagalli

Il saggio che presentiamo è il risultato di un processo di elaborazione del general intellect di movimento che ha visto la partecipazione di molti compagni e compagne delle rete Uninomade, prima in un seminario svoltosi a Bologna a settembre 2008 e poi a fine gennaio 2009 a Roma. In queste due occasioni, la discussione ricca e variegata sulle ragioni della crisi economica globale e sulle opportunità che ne possono scaturire ha messo in luce un comune orientamento che vale la pena sottolineare.

Non siamo di fronte alla crisi finale del capitalismo, pur essendo questa una crisi sistemica di tipo strutturale e non congiunturale, ma piuttosto ad una crisi di crescita all'interno del nuovo paradigma del capitalismo cognitivo. Una crisi che evidenzia la crisi della governance economica mondiale fondata sul ruolo centrale dei mercati finanziari sia nel sostenere il meccanismo di accumulazione cognitiva che nel determinare la distribuzione della ricchezza.

Proprio perché non vi è più alcuna separazione tra sfera reale e sfera finanziaria, lo spazio di un intervento riformista che definisca un nuovo new-deal istituzionale si èdefinitivamente chiuso. Solo andando oltre la struttura della proprietà privata in nome di una proprietà del comune che riconosca, valorizzi e remuneri la cooperazione sociale (tramite l'istituzione di un basic income) è possibile fuoriuscire dalle attuali secche della crisi.

Solo immaginando una società post-capitalistica, è possibile superare la crisi del capitalismo contemporaneo.

Andrea Fumagalli


1. L'attuale crisi finanziaria è crisi dell'intero sistema capitalistico.

La crisi finanziaria attuale è una crisi sistemica. E’ la crisi dell’intero sistema capitalistico così come si è andato configurando dagli anni Novanta del secolo scorso in poi. Ciò dipende dal fatto che i mercati finanziari sono, oggi, il cuore pulsante del capitalismo cognitivo. Essi provvedono al finanziamento dell'attività di accumulazione: la liquidità attratta sui mercati finanziari premia la ristrutturazione della produzione volta a sfruttare le conoscenze e il controllo degli spazi esterni all’impresa.

In secondo luogo, in presenza di plusvalenze, i mercati finanziari svolgono nel sistema economico lo stesso ruolo che nel contesto fordista aveva il moltiplicatore keynesiano (attivato dal deficit spending). Tuttavia – a differenza del classico moltiplicatore keynesiano – questo conduce a una redistribuzione distorta del reddito. Perché tale moltiplicatore sia operativo (> 1) occorre che la base finanziaria (ovvero l’estensione dei mercati finanziari) sia costantemente in aumento e che le plusvalenze maturate siano in media superiori alla perdita del salario medio (che, dal 1975 in poi, è stata di circa il 20%). D’altro lato, la polarizzazione dei redditi aumenta i rischi di insolvenza dei debiti che stanno alla base della crescita della stessa base finanziaria e abbassa il livello mediano dei salari. Ecco allora che si apre una prima contraddizione i cui effetti sono oggi sotto i nostri occhi.

In terzo luogo i mercati finanziari canalizzando in modo forzoso parti crescenti dei redditi da lavoro (tfr e previdenza, oltre ai redditi che attraverso lo Stato sociale si traducono nelle istituzioni a tutela della salute e dell’istruzione pubblica) sostituiscono lo Stato come assicuratore sociale. Da questo punto di vista, essi rappresentano la privatizzazione della sfera riproduttiva della vita. Esercitano quindi biopotere.

La crisi della finanza è quindi crisi della struttura del biopotere capitalistico attuale.

Infine, i mercati finanziari sono il luogo dove si fissa oggi la valorizzazione capitalistica, cioè lo sfruttamento della cooperazione sociale e la rendita del general intellect (cfr. tesi n. 2).

Sulla base di queste considerazioni, occorre prendere atto della difficoltà di separare la sfera “reale” e quella finanziaria. Prova ne è l’effettiva impossibilità di distinguere i profitti dalle rendite finanziarie (cfr. tesi n. 8).

 

2. L’attuale crisi finanziaria è crisi di misura della valorizzazione capitalistica.

Con l’avvento del capitalismo cognitivo, il processo di valorizzazione perde l’unità di misura quantitativa connessa con la produzione materiale. Tale misura era in qualche modo definita dal contenuto di lavoro necessario per la produzione di merce, misurabile sulla base della tangibilità della produzione stessa e del tempo necessario per la produzione. Con l’avvento del capitalismo cognitivo, la valorizzazione tende a innescarsi su forme diverse di lavoro, che tracimano l’orario di lavoro effettivamente certificato per coincidere sempre più con l’intero tempo di vita. Oggi il valore del lavoro alla base dell’accumulazione capitalistica è anche valore della conoscenza, degli affetti e delle relazioni, dell’immaginario e del simbolico. L’esito di queste trasformazioni biopolitiche è la crisi della misura tradizionale del valore-lavoro e con essa la crisi della forma-profitto. Una possibile soluzione “capitalistica” è stata quella di misurare lo sfruttamento della cooperazione sociale e del general intellect tramite la dinamica dei valori borsistici. Il profitto si trasforma così in rendita e i mercati finanziari diventano il luogo della determinazione del valore-lavoro, che si trasforma in valore-finanza, che non é altro che l’espressione soggettiva dell’aspettativa dei profitti futuri effettuata dai mercati finanziari che si accaparrano inquesto modo una rendita. L’attuale crisi finanziaria segna la fine dell’illusione che la finanza possa costituire un’unità di misura del lavoro, almeno nel contesto attuale del fallimento della governance cognitiva del capitalismo contemporaneo. Quindi la crisi finanziaria è anche crisi della valorizzazione capitalistica.

 

3. La crisi è l’orizzonte di sviluppo del capitalismo cognitivo

Tradizionalmente i fenomeni di crisi del modo di produzione capitalistico sono stati raggruppati in due categorie principali: le crisi che derivano dall’esaurirsi di una fase storica e rappresentano la condizione per aprire una potenziale prospettiva di cambiamento, oppure le crisi che intervengono come conseguenza di un cambiamento della fase storica e del nuovo paradigma socio-economico che cerca faticosamente di imporsi. Nel primo caso, si è parlato di “crisi di saturazione”, nel secondo di “crisi di crescita”.

Seguendo questo modello, l’attuale crisi potrebbe essere definita, a differenza di quella degli anni Settanta e alla stregua di quella del 1929, come “crisi di crescita”. Essa trova i suoi prodromi agli inizi degli anni Novanta, quando iniziano a configurarsi le caratteristiche del capitalismo cognitivo e ha termine la fase di fuoriuscita dalla crisi del paradigma fordista-taylorista (postfordismo).

E’, infatti, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta che ha inizio la crisi irreversibile del paradigma taylorista-fordista fondato sul modello produttivo della grande impresa e sulle politiche keynesiane nate dalla crisi del 1929 e dalla Seconda guerra mondiale.

Per tutti gli anni Ottanta del secolo scorso, nel periodo cd. “post-fordista”, sono diversi i modelli sociali e produttivi che preludono al superamento del fordismo, senza tuttavia che riesca a instaurarsi un paradigma dominante ed egemone.

Nei primi anni Novanta, dopo il crack finanziario del 1987 e la recessione economica del 1991-92 (intervallata dalla caduta del Muro di Berlino e dalla prima Guerra del Golfo), il nuovo paradigma del capitalismo cognitivo inizia a dipanarsi in tutta la sua forza e contemporanea instabilità. Il ruolo dei mercati finanziari, insieme alle trasformazioni della produzione e del lavoro, si ridefinisce in questo contesto, mentre si modifica strutturalmente il ruolo dello Stato-nazione e del welfare keynesiano. Mentre si consuma, cioè, il declino dell’intervento pubblico nelle forme in cui lo avevamo conosciuto nella precedente fase storica.

La crisi finanziaria odierna, che segue altre crisi avvenute negli ultimi tre lustri, evidenzia in modo sistemico e strutturale l’inconsistenza del meccanismo regolatore dell’accumulazione e della distribuzione che sino a ora il capitalismo cognitivo aveva cercato di darsi.

Sia chiaro, tuttavia, che parlare dell’attuale crisi in termini di “crisi di crescita” non significa in alcun modosostenere il superamento “automatico” della presente fase in modo comunque positivo e socialmente soddisfacente. Al momento, infatti, non solo non è ancora possibile ravvisare le modalità di uscita da tale crisi, ma è la crisi stessa a cambiare natura. Non è più confinabile, se mai lo è stata, a una fase discendente del ciclo economico, in un rapporto lineare con lo sviluppo che la precede e le lotte che la seguono. Nel caso del 1929, la crisi è stata superata con la regolazione del paradigma fordista grazie al New Deal e alla Seconda guerra mondiale. Oggi (vedi Tesi n. 9), tale prospettiva non è data. Laddove l’accumulazione capitalistica si riproduce nella cattura del comune, la crisi diventa, infatti, processo permanente. In questo quadro, la stessa categoria di ciclo economico andrebbe radicalmente ripensata, alla luce delle trasformazioni del lavoro, dell’impossibilità per il capitale di organizzare il ciclo produttivo a monte e del mutamento delle coordinate spazio-temporali determinato dalla globalizzazione. Ne è una dimostrazione il succedersi di crisi economico-finanziarie (da quelle sui mercati del sud-est asiatico del ’97, al crollo dell’indice Nasdaq del 2000, fino alla crisi del sistema del debito e dei subprime, solo per citarne alcune), in tempi tanto brevi da rendere impossibile ricostruire, anche solo ex post, la dinamica ciclica. Ciò significa che molte strade sono aperte. Sta alla volontà di trasform/azione politica dei movimenti individuare quella giusta.

 

4. La crisi finanziaria è crisi del controllo biopolitico: è crisi di governance e dimostra la strutturale instabilità sistemica

L’attuale crisi finanziaria mostra che non è possibile una governance istituzionale dei processi di accumulazione e distribuzione fondati sulla finanza. I tentativi di governance (ex-post) che sono stati varati nei mesi scorsi non sono in grado di incidere più di tanto sulla crisi in atto. E non può essere diversamente, se si considera che la Bri (Banca dei Regolamenti Internazionali) stima il valore dei derivati in circolazione in circa 556 trilioni di dollari (pari a 11 volte il Pil mondiale). Nel corso dell’ultimo anno, tale valore si è ridotto di oltre il 40%, distruggendo liquidità per oltre 200 trilioni di dollari. I toxic asset circolano del resto secondo modalità “virali”, ed è letteralmente impossibile sapere dove si annidino.

Ora, gli interventi monetari di iniezione di nuova liquidità fino a oggi realizzati in tutto il mondo non superano i 5 miliardi di dollari: una semplice goccia nell’oceano, una cifra strutturalmente insufficiente a compensare le perdite e invertire la tendenza al ribasso. Ne consegue che l’unica politica di governance possibile è operare per modificare il clima di fiducia, ovvero agire sui linguaggi e sulle convenzioni, nel pieno rispetto di quelle istituzioni/ organizzazioni reali e/o virtuali che sono in grado di influenzare a dinamica della cosiddetta “opinione pubblica”. Tuttavia, a fronte di una “dismisura” dell’effettivo peso della crisi, che non è quantificabile neanche per gli operatori più interni alla dinamica dei mercati finanziari, il pensare di stigmatizzare comportamenti fraudolenti o di iniettare dosi di fiducia appare del tutto inadeguato e impraticabile.

La crisi della governance non è quindi solo crisi “tecnica” ma è anche e soprattutto crisi “politica”. Si è già rilevato (tesi n.1) come condizione perché i mercati finanziari possano supportare fasi di espansione e di crescita reale sia il costante incremento della base finanziaria. In altre parole, è necessario che la quota di ricchezza mondiale canalizzata verso gli stessi mercati finanziari cresca costantemente. Ciò implica un aumento continuo dei rapporti di debito e credito, o tramite l’aumento del numero di persone indebitate (grado di estensione dei mercati finanziari) o tramite la costruzione di nuovi strumenti finanziari che si nutrono di scambi finanziari già esistenti (grado di intensità dei mercati finanziari). I prodotti derivati sono un classico esempio di questa seconda modalità di espansione degli stessi mercati finanziari. Qualunque siano i fattori considerati, l’espansione dei mercati finanziari si accompagna necessariamente sia all’aumento dell’indebitamento sia all’aumento dell’attività speculativa e del rischio connesso. Si tratta di una dinamica intrinseca al ruolo dei mercati finanziari come elemento fondante il capitalismo cognitivo. Parlare di eccesso di speculazione per l’avidità dei manager o delle banche non ha assolutamente senso e può solo servire per sviare l’attenzione dalle vere cause strutturali di questa crisi. Il risultato finale è necessariamente la non sostenibilità di un indebitamento crescente, soprattutto quando cominciano a essere indebitate fasce della popolazione a maggior rischio di insolvenza: proprio quegli strati sociali che, in seguito ai processi di precarizzazione del lavoro, si trovano nella condizione di non godere di quell’effetto ricchezza che la partecipazione ai guadagni di borsa permetteva agli strati sociali più abbienti. La crisi di insolvenza sui mutui immobiliari ha perciò la propria origine in una delle contraddizioni del capitalismo cognitivo contemporaneo: l’inconciliabilità di una distribuzione del reddito ineguale con la necessità di allargare la base finanziaria per continuare a sviluppare il processo di accumulazione. Questo nodo contraddittorio altro non è che il venire alla luce di un’irriducibilità (eccedenza) della vita di buona parte dei soggetti sociali alla sussunzione (siano essi frammentati in singolarità oppure definibili in segmenti di classe). Un’eccedenza che oggi si esprime in una molteplicità di comportamenti (dalle forme di infedeltà alle gerarchie aziendali, alla presenza di comunità che si oppongono alla governance territoriale, all’esodo individuale e di gruppo dai dettami di vita imposti dalle convenzioni sociali dominanti, sino allo sviluppo di forme di autorganizzazione nel mondo del lavoro e di aperta rivolta contro vecchie e nuove forme di sfruttamento negli slum delle megapoli del Sud del mondo, nelle metropoli occidentali, nelle aree di più recente industrializzazione nel Sud-Est asiatico come in Sudamerica). Un’eccedenza che si ritrova a dichiarare all’unisono, nei quattro angoli del globo, che non è disponibile a pagare questa crisi. L’irrimediabile instabilità del capitalismo contemporaneo è anche frutto di questa eccedenza.

 

5: La crisi finanziaria è crisi dell’unilateralismo e momento di riequilibrio dal punto di vista geopolitico

La crisi attuale rimette in discussione l’egemonia finanziaria degli Stati Uniti e la centralità dei mercati borsistici anglosassoni nel processo di finanziarizzazione. La fuoriuscita da questa crisi segnerà necessariamente uno spostamento del baricentro finanziario verso oriente e in parte verso il Sud (America). Già a livello produttivo e di controllo degli scambi commerciali, cioè a livello reale, i processi di globalizzazione hanno sempre più evidenziato uno spostamento del centro produttivo verso oriente e verso il Sud del mondo. Da questo punto di vista, l’attuale crisi finanziaria mette fine a una sorta di anomalia che aveva caratterizzato la prima fase di diffusione del capitalismo cognitivo: lo spostamento della centralità tecnologica e del lavoro cognitivo verso India e Cina in presenza del mantenimento dell’egemonia finanziaria in Occidente. Fintanto che lo sviluppo dei paesi orientali (Cina e India), di Brasile e Sud Africa era trainato dai processi di esternalizzazione e delocalizzazione dettati dalle grandi corporation occidentali, non era possibile identificare una distonia spaziale tra le due principali variabili di comando del capitalismo cognitivo: il controllo della moneta-finanza, da un lato, e il controllo della tecnologia, dall’altro. E’ a partire dalla fine degli anni Novanta che i nuovi paesi industrializzati iniziano a mettere in crisi la leadership tecnologica occidentale e giapponese, tramite il passaggio da un modello produttivo basato sulla capacità imitativa e diffusiva di conoscenze a un modello produttivo in grado di favorire processi di generazione, appropriazione e cumulatività di conoscenze, già a partire dalla formazione di “capitale umano”. La crisi finanziaria del 1997, che, partendo dalla svalutazione del bat thailandese, colpisce in particolare le borse asiatiche e sudamericane (oltre che i paesi asiatici dell’ex-Unione Sovietica), consente di ribadire il primato dei mercati finanziari anglosassoni su scala globale, ma non impedisce, in ogni caso, il tendenziale spostamento della leadership tecno-produttiva verso oriente. Si verifica così una prima contraddizione all’interno degli equilibri geo-economici mondiali: il primato occidentale sulla finanza, il primato orientale sull’economia “reale” e sugli scambi internazionali. Si tratta di un equilibrio instabile, che, per la prima metà del primo decennio del nuovo millennio, viene di fatto congelato dalla guerra permanente in Afghanistan e in Iraq, e che sta essenzialmente alla base dei fallimenti dei vari summit sul commercio internazionale – da Doha (novembre 2001) a Cancoon (settembre 2003) sino a Honk-Kong (dicembre 2005).

Tuttavia, il crescente indebitamento statunitense (interno ed estero) e la necessità di ampliare l’estensione dei mercati finanziari con ulteriori rapporti di debito e credito sempre più a rischio hanno fatto sì che tale equilibrio, già instabile, non potesse durare a lungo. L’attuale crisi finanziaria ha posto fine a tale distonia spaziale. Il primato tecnologico e quello finanziario tendono a ricongiungersi anche a livello geo-economico. Ne consegue che il capitalismo cognitivo come paradigma di accumulazione bioeconomica diventa egemone anche in Cina, India e nel Sud del Mondo. Questo non significa, sia detto con chiarezza, che abbiano cessato di essere operative differenze anche radicali tra i diversi spazi e i diversi tempi attraverso i quali si distendono i processi capitalistici di valorizzazione e attraverso i quali si riarticola continuamente la composizione del lavoro comandato e sfruttato dal capitale. Né che sia allorA possibile forgiare una serie di concetti passepartout, applicabili indistintamente a Nairobi, a New York e a Shanghai. Il punto è piuttosto che il senso stesso delle radicali differenze tra luoghi, regioni e continenti deve essere ricompresso all’interno dell’eterogeneo intreccio di regimi produttivi, di temporalità e di esperienze soggettive del lavoro, che costituisce il capitalismo cognitivo.

 

6. La crisi finanziaria mostra le difficoltà del processo di costruzione dell'Unione economica europea

La costruzione dell’Unione monetaria europea aveva tra i suoi scopi anche quello di proteggere i paesi dell’area dell’Euro dalle turbolenze speculative dei mercati valutari, con l’obiettivo di costruire una valuta forte in grado di costituire uno scudo contro eventuali crisi finanziarie. In effetti, durante le crisi del 1996-97 e del 2000, la presenza dell’euro ha impedito che la speculazione internazionale potesse coalizzarsi in funzione anti-europea. Tuttavia, tale argomentazione crolla quandola crisi finanziaria, partendo dal cuore dell’egemonia statunitense, non solo porta al fallimento o al rischio di fallimento delle principali Sim (Società di intermediazione mobiliare) occidentali ma comincia ad avere effetti anche sull’economia “reale”.

La risposta delle autorità monetarie di mezzo mondo e dei governi principalmente colpiti è stata quella di fornire il più possibile liquidità per tamponare le falle apertesi nel settore del credito e degli immobili. Tali interventi, che hanno mobilitato ingenti quote di denaro pubblico, sono stati però intrapresi a livello europeo in ordine sparso, con livelli di coordinamento quasi esclusivamente tecnico ma mai politico. Il risultato è che ogni Stato europeo, in concreto, si è mosso in autonomia e con modalità differenziate. In realtà, si sconta il fatto di aver puntato esclusivamente sull’unione monetaria, senza preoccuparsi di creare le premesse per una politica fiscale europea con un budget autonomo dall’influenza degli stati membri. Oggi mancano gli strumenti per un intervento fiscale coordinato in grado di poter attutire i contraccolpi reali della crisi finanziaria. E’ un ulteriore sintomo del fallimento della costruzione economica e sociale (per tacere di quella politica)dell’Europa.

 

7. La crisi finanziaria segna la crisi delle teorie neoliberiste

La crisi finanziaria attuale mostra come il sistema capitalistico sia strutturalmente instabile e come la teoria del libero mercato non sia in grado di fronteggiare tale instabilità. Nella vulgata dominante del pensiero liberista, il libero funzionamento del mercato dovrebbe garantire non solo un processo efficiente di accumulazione ma anche una distribuzione del reddito corretta ed equa, in funzione del contributo e dell’impegno individuale di ciascuno. L’esistenza di differenziazioni sociali è il risultato ex-post delle scelte degli agenti economici sulla base delle preferenze liberamente espresse.

Tale impostazione si basa due assunti principali.

Il primo riguarda l’idea che il processo economico si esaurisca solo ed esclusivamente nell’attività di scambio (allocazione), dove è il consumatore (colui che domanda) che determina l’offerta, in un contesto in cui la capacità di produzione, essendo fondata su risorse naturali e non artificiali, è per definizione limitata e quindi soggetta a scarsità.

La supremazia del processo allocativo su quello produttivo implica che il mercato diventa il luogo in cui si determina esclusivamente l’attività economica, grazie al principio della sovranità del consumatore. Tale principio viene tradotto linearmente in quello della “sovranità dell’individuo”, secondo il quale ogni individuo è l’unico arbitro di sé stesso (principio del libero arbitrio) e le valutazioni sociali devono fondarsi unicamente sulle valutazioni espresse dai singoli individui (primato dell’individualismo). La sovranità del consumatore, tuttavia, riduce la sovranità dell’individuo all’atto del consumo. La tanto sbandierata libera iniziativa si traduce, così, solo nella libertà di consumo, che non è comunque una libertà assoluta, essendo vincolata dalle diverse capacità di spesa degli individui e dalle merci disponibili. Ne consegue che chi non ha risorse monetarie (come, ad esempio, parte dei migranti) che permettano di domandare beni o servizi sul mercato non esiste dal punto di vista economico. Quello che conta non è, infatti, la domanda intesa come insieme di beni e servizi che ciascun individuo desidera avere per poter soddisfare i propri bisogni, ma la domanda solvibile, quella che si esprime soldi alla mano. I bisogni che non riescono a essere espressi sul mercato per mancanza di denaro, di fatto non esistono. Poiché il reddito disponibile per il consumo (dato il vincolo di reddito) dipende, per la maggior parte degli esseri umani, dalla remunerazione del lavoro, si potrebbe arrivare alla conclusione (che viene però negata) che sono le condizioni di lavoro quelle che determinano il grado effettivo di libertà individuale.

Il secondo punto, strettamente legato al primo, afferma la preminenza dell’individualismo proprietario come esito della crisi del capitalismo industriale-fordista e della sua trasformazione in capitalismo bioeconomico. Ogni agente economico è considerato l’unico responsabile delle scelte di consumo o di investimento. Sul versante finanziario, ciò si traduce in una riduzione dell’indebitamento nazionale a indebitamento dei singoli individui; sul piano della politica economica questo approccio teorico serve a sostenere la messa al bando della finanza congiunturale e una legittimazione del consumo privato fondato sull’indebitamento individuale. Partendo dalla constatazione che il sistema capitalistico è, in quanto economia di accumulazione, sempre un’economia monetaria che si fonda sul debito, dopo la crisi economica del 1929 lo Stato ha assunto il ruolo di prestatore di ultima istanza facendosi carico del ruolo di gestore del debito (politiche keynesiane del deficit-spending). Il passaggio dal fordismo al capitalismo cognitivo, in nome dell’individualismo proprietario, ha invece segnato la trasformazione del debito pubblico in debito individuale, tramite la privatizzazione “finanziaria” dei diritti sociali, conquistati nel secondo dopoguerra.

La crisi dell’ideologia neoliberista sta proprio nel fallimento del libero mercato come meccanismo efficiente di produzione e allocazione delle risorse e del ruolo dei mercati finanziari come meccanismo di redistribuzione del reddito. Nel primo caso, si è assistito a un processo di concentrazione tecnologica e finanziaria come mai si era visto nella storia del capitalismo, con buona pace della libera concorrenza. Nel secondo caso, la governance redistributiva dei mercati finanziari si è rivelata del tutto fallimentare.

 

8. La crisi finanziaria evidenzia due principali contraddizioni interne al capitalistico cognitivo: l’inadeguatezza delle tradizionali forme di remunerazione del lavoro e l'infamia della struttura proprietaria

Nel quadro di instabilità strutturale dell’attuale capitalismo cognitivo, tradottasi nell’attuale crisi finanziaria, diventa necessario ripensare la definizione delle variabili redistributive in modo che si possano riferire alla produzione di valore dell’attuale capitalismo cognitivo.

Per quanto riguarda la sfera del lavoro, occorre riconoscere che nel capitalismo cognitivo la remunerazione del lavoro si dovrebbe tradurre nella remunerazione della vita: di conseguenza, il conflitto in fieri che si apre non è più solo la lotta, sempre necessaria, per gli alti salari (per dirla in termini keynesiani), ma piuttosto la lotta per una continuità di reddito a prescindere dall’attività lavorativa certificata da un qualche contratto di lavoro. Dopo la crisi del paradigma fordista-taylorista, la divisione tra tempo di vita e tempo di lavoro non è più facilmente sostenibile. I soggetti maggiormente sfruttati nel mondo del lavoro sono quelli la cui vita viene messa interamente al lavoro. Questo avviene in primo luogo, attraverso l’allungamento dell’orario di lavoro, per il settore dei servizi e, soprattutto, per la forza-lavoro migrante: gran parte del tempo di lavoro svolto nelle attività del terziario non avviene all’interno del luogo di lavoro. Il salario è la remunerazione del lavoro certificato e riconosciuto come produttivo, mentre il reddito individuale è la somma di tutti gli introiti che derivano dal vivere e dalle relazioni in un territorio (lavoro, famiglia, sussidi, eventuali rendite, ecc., ecc.) e che determinano lo standard di vita. Finché esiste separazione tra lavoro e vita, esiste anche una separazione concettuale tra salario e reddito individuale, ma quando il tempo di vita viene messo al lavoro tende a sfumare la differenza fra reddito e salario.

Non si tratta, con ciò, di contrapporre lotte sul salario e lotte sul reddito, consegnando le prime a una resistenza settoriale, le seconde a una semplice proposizione ideologica. Il nodo politico è piuttosto ripensare la loro combinazione virtuosa, a partire dalle trasformazioni produttive e dalla materialità soggettiva della nuova composizione del lavoro.

Di fatto, la tendenziale sovrapposizione tra lavoro e vita, quindi tra salario e reddito non è ancora considerata nell’ambito della regolazione istituzionale. Da punti di vista differenti, si sostiene che il reddito di esistenza (basic income) può rappresentare un elemento di regolazione istituzionale adatto alle nuove tendenze del nostro capitalismo. Ciò che a noi interessa, tuttavia, non è scivolare verso una teoria della giustizia sociale, o recriminare sul mancato riconoscimento della razionalità produttiva, né tanto meno sull’assenza di dispositivi di regolazione che permettano al capitalismo di uscire dalla propria crisi. Il reddito è innanzitutto l’individuazione di un campo di battaglia dentro le mutazioni del capitalismo contemporaneo, ovvero un elemento di programma politico interno ai processi di costituzione della soggettività antagonista. Da questo punto di vista, il basic income si presenta come variabile direttamente distributiva e non redistributiva.

Per quanto riguarda la sfera della produzione, un secondo aspetto da considerare è il ruolo svolto dai diritti di proprietà intellettuale. Essi rappresentano uno degli strumenti che consentono al capitale di appropriarsi della cooperazione sociale e in primo luogo del general intellect. Poiché la conoscenza è un bene comune, prodotto dalla cooperazione sociale, il plusvalore, che scaturisce dal suo uso in termini di attività innovativa e incrementi di produttività del lavoro, non è semplicemente il frutto di un investimento di uno stock di capitale fisico e individuale (cioè ascrivibile ad un capitalista definito come entità singola, sia esso persona o organizzazione imprenditoriale) ma dipende piuttosto dall’utilizzo di un patrimonio sociale (o “capitale umano sociale” come dicono gli economisti) che si è sedimentato sul territorio e che è indipendente dall’iniziativa del singolo imprenditore. Il saggio di profitto che ne scaturisce non è quindi il semplice rapporto tra livello di investimento e stock di capitale che definisce il valore dell’impresa, ma piuttosto “qualcosa”, la cui entità dipende anche dal capitale “sociale” esistente. In altre parole, poiché il profitto nasce in misura sempre più consistente dallo sfruttamento e dall’espropriazione a fini privati di un bene comune come la conoscenza, esso è in parte assimilabile a una rendita: una rendita da territorio e da apprendimento, ovvero una rendita che proviene dall’esercizio dei diritti di proprietà intellettuale, dalla proprietà della conoscenza.

Ora, parafrasando il Keynes del capitolo conclusivo della Teoria Generale, si potrebbe sostenere che,

Il possessore della conoscenza può ottenere un profitto, perché la conoscenza è scarsa proprio come il possessore della terra può ottenere la rendita perché la terra è scarsa. Ma, mentre vi può essere una ragione intrinseca di questa scarsità, non vi sono ragioni intrinseche della scarsità della conoscenza”(1).

Al contempo, però, diversi teorici liberali hanno sostenuto negli ultimi anni la necessità di ridurre o addirittura eliminare brevetti e copyright, che a lungo andare rischiano di bloccare i processi di innovazione. Il capitalismo cognitivo dovrebbe diventare, affermano, una sorta di “capitalismo senza proprietà”, modello che sarebbe prefigurato dal Web 2.0 ed esemplificato dallo scontro tra Google e Microsoft. Laddove il capitale fatica a organizzare a monte la cooperazione sociale, è costretto a rincorrerla e catturarla a valle: accumulazione e plusvalore passano così innanzitutto attraverso i processi di finanziarizzazione. È ciò che circoli vicini allo stesso capitale finanziario hanno definito “comunismo del capitale”. Tuttavia, ammesso che possa fare a meno della proprietà, il capitalismo certamente non può rinunciare al comando, anche se questo significa bloccare continuamente la potenza del lavoro cognitivo. Qui si riqualifica, in termini completamente nuovi, la classica contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione.

La commistione tra profitto e rendita deriva dal fatto che, nel capitalismo cognitivo, il processo di accumulazione ha esteso la base dell’accumulazione stessa, cooptando al suo interno quelle attività dell’agire umano che nel capitalismo fordista-industriale non erano produttive di plus-valore, né si traducevano in lavoro astratto.

Da questo punto di vista, le indicazioni di politica economica proposte da Keynes all’indomani della crisi del 1929, potrebbero essere riscritte tenendo conto delle novità insite nella transizione al capitalismo cognitivo.

La misura di un basic income sostituisce la politica degli alti salari, mentre l’eutanasia del rentier di Keynes potrebbe essere declinata nell’eutanasia delle posizioni di rendita derivanti dai diritti di proprietà intellettuale (i rentier cognitivi), accompagnata da politiche fiscali in grado di ridefinire la base imponibile tenendo conto del ruolo svolto nella valorizzazione dallo spazio, dalla conoscenza e dai flussi finanziari. Ciò non disegna un orizzonte ideale, ma definisce un campo di tensione al cui interno ripensare le forme del conflitto e le condizioni di possibilità per l’organizzazione di nuove istituzioni del comune.

Riguardo alla proposta di Keynes di socializzazione degli investimenti, il capitalismo cognitivo si caratterizza per una socializzazione della produzione a fronte di una concentrazione sempre più elevata dei flussi tecnologici e finanziari: ovvero delle leve che oggi consentono il controllo e il comando sull’attività produttiva flessibilizzata ed esternalizzata. Qualsiasi politica che vada a intaccare tale concentrazione, che sta alla base dei flussi di investimento, incide quindi in modo diretto sulla struttura proprietaria e mina alle radici lo stesso rapporto capitalistico di produzione.

Le possibili proposte “riformistiche”, che potrebbero definire un patto sociale nel capitalismo cognitivo, si limitano dunque all’introduzione di una nuova regolazione salariale fondata sul basic income e su un minor peso dei diritti di proprietà intellettuale, che potrebbe tendenzialmente sfociare in un’eutanasia della rendita da proprietà intellettuale.

 

9. La crisi finanziaria attuale non può essere risolta con politiche riformiste che definiscano un nuovo new-deal

Nella realtà attuale non sono date le premesse economiche e politiche perché un nuovo patto sociale (new deal) possa realizzarsi. Esso è quindi una mera illusione.

Il new deal fordista era Stato l’esito di una assemblaggio istituzionale (Big Government) che si era basato sull’esistenza di tre presupposti:

  • uno Stato nazione in grado di sviluppare politiche economiche nazionali in modo indipendentemente, seppur coordinato, da altri stati;
  • la possibilità di misurare i guadagni di produttività e quindi di provvedere alla loro redistribuzione tra profitti e salari;
  • relazioni industriali tra parti sociali che si riconoscevano reciprocamente ed erano legittimate a livello istituzionale, in grado di rappresentare in modo sufficientemente univoco (il che ovviamente non escludeva margini di arbitrarietà) gli interessi imprenditoriali e della classe dei lavoratori.

Nessuno di questi tre presupposti è oggi presente nel capitalismo cognitivo.

L’esistenza dello Stato-Nazione viene messa in crisi dai processi di internazionalizzazione produttiva e globalizzazione finanziaria, che rappresentano, nelle loro declinazioni in termini di controllo tecnologico e delle conoscenze, dell’informazione e degli apparati bellici, le basi di definizione di un potere imperiale sovranazionale.

Nel capitalismo cognitivo, al limite è possibile immaginare– come unità di riferimento per le politiche economiche e sociali – un’entità spaziale geografica sovranazionale (e non a caso i paesi che sono oggi protagonisti a livello mondiale, dagli Stati Uniti al Brasile, dall’India alla Cina, sono in realtà spazi continentali molto diversi dal classico Stato nazionale europeo). La comunità europea potrebbe rappresentare, da questo punto di vista, una nuova definizione di uno spazio pubblico socio-economico in cui implementare un nuovo new deal. Ma, allo Stato attuale delle cose, la costruzione dell’Europa procede lungo linee di politica monetaria e fiscale che rappresentano la negazione della possibilità di creare uno spazio pubblico e sociale autonomo e indipendente, non condizionato dalla dinamica dei mercati finanziari (cfr. Tesi n. 6).

La dinamica della produttività tende sempre più a dipendere da produzioni immateriali e dal coinvolgimento di facoltà umane cognitive, difficilmente misurabili con i tradizionali criteri di tipo quantitativo. La difficoltà attuale di misurare la produttività sociale non consente una regolazione salariale basata sul rapporto tra salario e produttività.

La proposta di un basic income incontra opposizione e diffidenze da parte di figure differenti. Gli imprenditori lo considerano, in primo luogo, una proposta sovversiva nella misura in cui essa è in grado di ridurre la ricattabilità attraverso il bisogno e la dipendenza dalla coazione al lavoro. In secondo luogo, se il basic income viene correttamente inteso come remunerazione diretta di un’attività produttiva precedentemente svolta (e così deve essere), non dovendo essere soggetto a nessuna condizione, rischia di non essere controllato dalla struttura padronale, pur essendo finanziato ricorrendo alla fiscalità generale. Diversa accettazione dal punto di vista padronale avrebbe invece una proposta di riforma degli ammortizzatori sociali, pur se volta ad un loro ampliamento (magari inglobando anche i “precari” nel segno della flexsecurity). Si tratterebbe, infatti, di una misura “redistributiva” e non direttamente distributiva (come il basic income): in altri termini, gli ammortizzatori sociali trasferiscono reddito una volta sancita una distribuzione diretta del reddito e quindi anche una loro riforma estensivanon intaccherebbe la dinamica remunerativa del lavoro. In secondo luogo, essendo sottoposti a vincoli e condizioni di erogazione ben precisi, gli ammortizzatori sociali non solo diventano elemento di differenziazione e segmentazione della forza-lavoro, ma sono del tutto congruenti con un’impostazione workfarista delle politiche sociali.

Per i sindacati, invece, il basic income contraddice quell’etica del lavoro su cui parte dei sindacati stessi continua a basare la propria esistenza.

Infine, ma non meno importante, assistiamo alla crisi delle forme di rappresentanza sociale sia nel campo imprenditoriale sia in quello sindacale. Il venir meno di un modello organizzativo unico induce alla frammentazione sia del capitale sia del lavoro. Il primo è segmentato tra interessi delle piccole imprese, spesso legate a rapporti di subfornitura gerarchica, interessi delle grandi multinazionali e attività speculative sui mercati finanziari e valutari, appropriazione di profitti e rendite da monopolio nel campo della distribuzione, dei trasporti, dell’energia, delle forniture militari e della ricerca & sviluppo. In particolare, la contraddizione tra capitale industriale, capitale commerciale e capitale finanziario in termini di strategie e orizzonti temporali diversificati, e quella tra capitale nazionale e capitale sovranazionale in termini di influenza geoeconomica e geopolitica, rendono di fatto molto problematicoun livello di omogeneità di intenti della classe capitalistica e la definizione di obiettivi condivisi. L’elemento che più accomuna gli interessi del capitale è il perseguimento di un profitto a breve termine (che trae origine in modo diverso), e questorende praticamente impossibile la formulazione di politiche di riforme progressive, così come era invece praticabile ai tempi del capitalismo fordista.

Di converso, il mondo del lavoro appare sempre più frammentato non solo da un punto di vista giuridico ma soprattutto da quello “qualitativo”. La figura del lavoratore salariato industriale è emergente in molte parti del globo ma sta declinando nei paesi occidentali, a vantaggio di una moltitudine variegata di figure atipiche e precarie, migranti, dipendenti, parasubordinate e autonome, la cui capacità organizzativa e di rappresentanza è sempre più vincolata dal prevalere della contrattazione individuale e dall’incapacità di adeguamento delle strutture sindacali cresciute nel fordismo.

Il risultato complessivo è che nel capitalismo cognitivo non vi è spazio per una politica istituzionale di riforme in grado di ridurre l’instabilità strutturale che lo caratterizza. Nessun nuovo new deal è possibile, se non quello agito dagli stessi movimenti e dalle pratiche di istituzionalità autonoma, attraverso la riappropriazione di un welfare distrutto dal privato e congelato nel pubblico. Alcune delle misure che abbiamo individuato, dalla regolazione salariale basata sulla proposta di basic income a una produzione fondata sulla libera circolazione dei saperi, non sono di per sé incompatibili con i dispositivi di accumulazione e cattura del capitale, come vari teorici neoliberali hanno segnalato. Possono tuttavia aprire un campo di conflitto e riappropriazione della ricchezza comune, attraverso cui minare alla base la stessa natura del sistema capitalistico, ovvero la coazione allavoro, il reddito come strumento di ricatto e dominio di una classe sull’altra e il principio di proprietà privata dei mezzi di produzione (ieri le macchine, oggi anche la conoscenza).

In altre parole, possiamo affermare che nel capitalismo cognitivo un possibile compromesso sociale di derivazione keynesiana ma adeguato alle caratteristiche del nuovo processo di accumulazione è solo un illusione teorica, ed è impraticabile da un punto di vista politico.

Una politica a tutti gli effetti riformista (cioè che tenda a individuare una forma di mediazione tra capitale e lavoro che sia soddisfacente per entrambi), in grado di garantire una stabilità strutturale del paradigma del capitalismo cognitivo, non può oggi delinearsi.

Siamo dunque in un contesto storico in cui la dinamica sociale non consente spazio allo sviluppo di pratiche e soprattutto di “teorie” riformiste.

Ne consegue che, poiché è la praxis a guidare la teoria, solo il conflitto e la capacità di creare movimenti moltitudinari possono consentire – come sempre – il progresso sociale dell’umanità.

Solo la ripresa di un forte conflitto sociale a livello sovranazionale potrebbe creare le premesse per uscire dall’attuale Stato di crisi. Siamo di fronte ad un apparente paradosso: perché si possano riaprire prospettive di riforma e relativa stabilizzazione del sistema capitalistico, è necessaria un’azione congiunta di tipo rivoluzionario, in grado di modificare i cardini su cui si basa la struttura di comando dello stesso capitalismo.

Occorre iniziare a immaginare una società post-capitalistica, o meglio ripensare il conflitto sul welfare nella crisi come immediata organizzazione delle istituzioni del comune. Ciò non fa venire definitivamente meno le funzioni della mediazione politica, ma queste vengono definitivamente sottratte alle strutture della rappresentanza e assorbite nella potenza costituente delle pratiche di autonomia.

 

10. La crisi finanziaria attuale apre nuovi scenari di conflitto sociale

Il socialismo si è tradizionalmente proposto di salvare il capitalismo dalle sue crisi cicliche, superandone dialetticamente l’endemica instabilità attraverso una superiore razionalità dello sviluppo. In altri termini, incaricandosi di realizzare le promesse di progresso che il capitalismo non era strutturalmente in grado di mantenere. Ora si è felicemente conclusa l’epoca in cui socialismo e capitalismo si specchiavano nella presunta oggettività delle gerarchie del lavoro, della tecnica e della produzione.

Ancora una volta siamo noi e sono i nostri comportamenti che possono salvare l’ingiusto sistema sociale in cui siamo costretti a vivere. La situazione di crisi economica è palpabile. E ancora una volta è il piano delle resistenze a porre continuamente in tensione le forme del comando. Vi è chi, non riuscendo più a pagare il mutuo, dopo un primo momento di panico si rende conto che prima di tre anni non verrà sfrattato dalla casa in cui abita, e ragiona. Vi è chi non ha creduto alle chimere della borsa e ha deciso di non versare il proprio Tfr nei fondi di investimento, nonostante la massiccia campagna di stampa e sindacale che prometteva lauti guadagni in caso di ricorso al mercato finanziario.

Tali comportamenti – unitamente a molti altri in cui si esprimono resistenza e insubordinazione – acquistano particolare importanza perché rappresentano crepe nell’impalpabile controllo sociale che la retorica dell’individualismo proprietario è stata in grado di costruire con il supporto di pseudo-immaginari di coesione sociale, fondati sul merito e sulla fidelizzazione dei comportamenti.

Un segnale importante in tal senso è venuto anche, in Italia, dal movimento degli studenti dell’Onda anomala. E ancor più importante è il fatto che in questo movimento abbia fatto breccia in modo sempre più diffuso la tematica del reddito e del welfare del comune. Non si tratta solo di un’elaborazione teorica o di una proposizione politica di avanguardia: il tema del reddito è divenuto senso comune nell’emergenza della composizione sociale plasmata dai conflitti sulla produzione del sapere e contro i processi di declassamento e precarizzazione. In questo modo si è de-ideologizzato, identificandosi in obiettivi concreti (ad esempio la rivendicazione di soldi, cioè salario, per il lavoro gratuito già erogato su cui si regge l’aziendalizzazione dell’università, da stage e tirocini fino ai carichi didattici sostenuti dai precari della ricerca). Nell’Onda, il tema del reddito si è dunque fatto programma politico dentro la crisi, dando concretezza alla parola d’ordine “noi la crisi non la paghiamo”.

La critica alla conoscenza come merce, il riconoscimento che tra momento della formazione e momento della produzione la differenza tende a farsi incerta, da cui discende l’esigenza di remunerare anche i periodi formativi, la richiesta di accesso ai servizi materiali e immateriali che oggi costituiscono l’ambito della cooperazione sociale e del general intellect, la produzione del comune come nuova trama e nuovo orizzonte dei rapporti sociali e di cooperazione, finalmente oltre la consunta dicotomia “pubblico-privato”: ecco, in sintesi, alcuni elementi programmatici che sono di estrema utilità per delineare un processo politico in grado di rovesciare la crisi sistemica in spazio di possibilità di azione e di proposta.

Se spaziamo nel solo panorama europeo, numerosi sono i segnali di insorgenza che negli ultimi mesi si sono manifestati: oltre alla grande rivolta greca e ai movimenti che sul terreno della formazione si sono espressi in Spagna, in Francia e in Germania, occorre infatti almeno ricordare le tensioni conflittuali che, interessando diversi strati sociali, si sono manifestate a Copenhagen, Malmoe, Riga e in altre metropoli europee.

Si tratta di rovesciare il “comunismo del capitale” nel “comunismo del general intellect”, come forza viva della società contemporanea, in grado di sviluppare una struttura di commonfare e di porsi condizione di effettiva e reale scelta umana di libertà e uguaglianza. Tra il “comunismo del capitale” e le istituzioni del comune non vi è nessuna specularità o lineare rapporto di necessità: si tratta, in altri termini, di riappropriarsi collettivamente della ricchezza sociale prodotta, rompendo i dispositivi di cattura della potenza del lavoro vivo, che assumono la doppia faccia del pubblico e del privato, oggi infine ricomposte nel comando capitalistico dentro la crisi permanente.

In tale processo, diventa sempre più importante il ruolo autonomo svolto dai movimenti non solo nell’ambito della proposta politica e dell’azione ma anche e, soprattutto, come punto di riferimento per quelle soggettività, singolarità o segmenti di classe, che dalla crisi escono maggiormente colpite e defraudate.

La capacità di sussunzione reale della vita nel processo lavorativo e produttivo e la diffusione di immaginari culturali e simbolici pervasi da elementi di individualismo (a partire da quello “proprietario”) e sicuritarismo costruiscono i cardini principali del processo di controllo sociale e cognitivo dei comportamenti umani. L’affermazione e l’organizzazione di una soggettività autonoma, che già vive nelle pratiche di resistenza e di produzione del comune della nuova composizione di classe, sono dunque condizioni necessarie per innescare processi di conflittualità in grado di modificare le attuali gerarchie socio-economiche. Da questo punto di vista, ben vengano tutte le eccedenza e le insorgenza che le soggettività nomadi sono in grado di realizzare e animare. Solo così, come mille rivoli che si congiungono nel fiume o come mille api che formano uno sciame, diventa possibile avviare forme di riappropriazione della ricchezza e dei saperi, invertire la dinamica redistributiva, far pagare la crisi a chi l’ha causata, ripensare una nuova struttura di welfare sociale e del comune, immaginare nuove possibilità di autorganizzazione e produzione compatibili con il rispetto dell’ambiente e della dignità degli uomini e delle donne che abitano questo pianeta.

Il re è nudo. Il percorso davanti a noi è arduo ma, tutto sommato, è già cominciato.

1 Cfr. John Maynard Keynes, Teoria generale del’occupazione, dell'interesse e della moneta, trad. it. a cura di T. Cozzi, UTET, Torino 2006, p. 570: “Il possessore del capitale può ottenere un profitto, perché il capitale è scarso proprio come il possessore della terra può ottenere la rendita perché la terra è scarsa. Ma, mentre vi può essere una ragione intrinseca di questa scarsità, non vi sono ragioni intrinseche della scarsità del capitale” e abbiamo sostituito il termine “capitale” con il termine “conoscenza” e il termine “interesse” con quello di “profitto”.


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