Retorica e realismo di un (grande) poeta borghese: Giosuè Carducci
di Eros Barone
«Il signor Settembrini è letterato» commentò Joachim, un po’ impacciato. «Ha scritto per giornali tedeschi il necrologio di Carducci... Carducci, sai?» E rimase ancora più impacciato, poiché suo cugino lo guardò stupito come per dire: che ne sai tu di Carducci? Tanto poco quanto me, suppongo.
Thomas Mann, La montagna incantata, Cap. III, “Satana”.
Scrive Pietro Gibellini nella sua pregevole Introduzione a Tutte le poesie del Carducci: «La fortuna di molti scrittori ha l’andamento delle montagne russe dei vecchi luna-park: qualche ondulazione e sobbalzo all’avvio, quindi una ripida ascesa in vita (e di solito nell’immediato ‘post mortem’) fino ai vertici della gloria, poi una caduta precipitosa verso l’abisso del discredito o, peggio, dell’oblio. Si pensi a Monti, la cui fama grandissima, durante l’esistenza, mai compromessa dal tempestoso alternarsi dei regimi, fu intaccata dopo la morte dal confronto obbligato con Foscolo (...). Si pensi a D’Annunzio, asceso alla gloria letteraria e al successo mondano durante la sua “vita inimitabile” e precipitato poi, con le polverose rovine del regime cui, a ragione o a torto, era stato associato, nel vallone oscuro dove è rimasto fino a tempi recenti. Il diagramma della fortuna del Carducci appare ancor più nitido, poiché alla linea progressivamente ascendente succede, con netto contrasto, quella discendente altrettanto progressiva. Le sue quotazioni si mantennero alte come quelle dell’ammirato Monti, ma per un periodo ancor più lungo; il suo declino, a differenza di quello di D’Annunzio, appare, almeno sino a ora, irreversibile (...). Da decenni Carducci non ha quasi più lettori, nemmeno nel luogo deputato delle aule scolastiche. Bello scacco, per quello che da Thovez in poi si suole chiamare il “poeta professore”!». 1
Sennonché, pur registrando gli alti e bassi della fortuna di un autore, un canone letterario che si rispetti non può dare spazio al rifiuto pregiudiziale e quasi viscerale nei confronti dell’autore in questione, soprattutto se questo autore si chiama Giosuè Carducci. In realtà, per quanto la sua presenza nel canone scolastico sembri essere ormai puramente residuale, Carducci è un autore da cui non è possibile prescindere, così come non è possibile prescindere dal secolo al quale apparteneva e del quale è stato un rappresentante di primo piano nell’àmbito della cultura letteraria. Perfino Thomas Mann, per citare uno scrittore consapevole della oggettività dei valori letterari, in quella sorta di “Divina Commedia” del nostro tempo che è La montagna incantata lo effigia attraverso le parole di un suo fedele discepolo come «grande poeta e libero pensatore». 2
Già nel 1985, quando ricorse il centocinquantesimo anniversario della nascita di Carducci, era legittimo domandarsi, prendendo atto che la sua fortuna era ormai entrata nella fase discendente di quel fatale percorso da montagna russa, come si potesse “riscoprire” un poeta che tuttavia continuava, per inerzia, a essere sin troppo presente. Così, per un verso si constatava che specialisti e studiosi non lo prendevano più sul serio da decenni, e che l’ultimo suo estimatore davvero autorevole era stato Benedetto Croce; ma per un altro verso si registrava che non c’era antologia scolastica in cui l’autore di Davanti San Guido e T’amo, pio bove non continuasse a troneggiare accanto a Pascoli e a D’Annunzio, rappresentando agli occhi dei fanciulli e degli ignari una di quelle tre “corone” di cui il nostro massimo critico, Gianfranco Contini, ebbe a decretare una volta per tutte l’obsolescenza. 3 Insomma, già allora si poneva il quesito circa il grado di leggibilità della sua poesia.
Vediamo quindi se vi siano e quali siano le ragioni che inducono a scartare quel quesito e a cercare il giusto approccio alle opere di Carducci. Prima di tutto, bisogna riconoscere che questo colto professore, passato con gli anni da un radicalismo quasi rivoluzionario alla bella posizione di senatore a vita e a una devozione comicamente fervida per la persona della regina Margherita, aveva un orecchio straordinario per la poesia propria e altrui. Per quanto riguarda, in particolare, il secondo punto, la poesia altrui, non vi è dubbio che Carducci sia stato un buon filologo e un buonissimo critico. Il già citato Contini, tutt’altro che tenero con lui, ammette, ad esempio, che «da rivalutare è dunque il professore», e lo colloca vicino «ai romantici tedeschi che fondarono la filologia romanza». Va aggiunto, inoltre, che vi è una tendenza abbastanza diffusa, da Renato Serra ed Emilio Cecchi in poi, a innalzare il Carducci delle prose, non solo critiche, a tutto svantaggio del Carducci dei versi.
Quanto invece al primo punto, la sua stessa poesia, è chiaro che avere orecchio non significa ancora essere un poeta; ma, evidentemente, è già un requisito importante. Se non ci fossero state le tenaci e multiformi sperimentazioni metriche di Carducci (si pensi soprattutto, ma non soltanto, alle Odi barbare, fondate su una geniale trascrizione sillabica della prosodia greca e latina), non ci sarebbero stati, probabilmente, né il D’Annunzio né il Pascoli, il che equivale a dire che non ci sarebbe stata la poesia italiana del secolo scorso quale si è venuta evolvendo e quale la conosciamo. Come ultimo epigono di rilievo della grande poesia ottocentesca, Carducci si trova dunque ad occupare la posizione, tutt’altro che marginale, di un precursore della poesia del Novecento.
Ma scendiamo sul terreno dell’analisi concreta. Di versi belli ce n'è quanti se ne vuole, in Carducci: versi che ti colpiscono come un colpo di pistola e che, dopo, non riesci più a toglierti dalla testa. Orbene, quante sono le belle poesie nelle quasi novecento pagine del volume che si è citato all’inizio? Invece di rispondere con un florilegio più o meno soggettivo, è preferibile tracciare un rapido ‘identikit’ dei vari Carducci che l’ opera del “poeta professore” riflette e propone. Il primo che salta all'occhio, sia seguendo un ordine cronologico che per preponderanza quantitativa, è il Carducci poeta d’occasione o, se vogliamo dirlo in modo più nobile, poeta “civile”: un verseggiatore formidabile, capace di mettere in rima polemiche politico-letterarie e anniversari di rivoluzioni, ma anche abilissimo nell’abbassare ed intenerire la voce per lutti e genetliaci, fauste nozze e dolorose dipartite. Ma quello che emerge per la potenza evocativa, l’impeto drammatico e la gravità liturgica è il Carducci poeta della storia: quello di Alle fonti del Clitumno, La chiesa di Polenta, la incompiuta Canzone di Legnano ecc. La rievocazione di luoghi ed eventi della storia prende allora luce e solennità da una lontananza che si fa vicinanza e sprigiona una potente carica di suggestione, come accade nei sonetti del celeberrimo Ça ira in cui canta gli episodi cruciali della Rivoluzione francese. Nell’àmbito della storia, un’altra epoca da cui il poeta versiliese sa trarre spunti efficaci è il Medioevo: il Medioevo ‘alto’ e cupo delle invasioni barbariche e quello ‘basso’ e solare dei Comuni. Ma anche la figura di Martin Lutero, che è centrale nell’età della transizione dal feudalesimo al capitalismo, riceve, insieme con quella di Carlo V, un energico risalto grazie ai chiaroscuri di un profondo senso storico. 4
Vi è poi il Carducci non solo traduttore, ma anche emulo in proprio, dei preromantici e romantici tedeschi, da F.G. Klopstock a Heinrich Heine e ad August von Platen; il Carducci delle ballate, delle leggende germaniche o romanze. Quanto alle traduzioni vere e proprie, è sufficiente ricordare quell’autentica gemma di soli otto versi che è Passa la nave mia, da Heine per l’appunto: «Passa la nave mia con vele nere, / Con vele nere pe'l selvaggio mare...»; e qui gli esempi potrebbero moltiplicarsi senza fatica.
Infine, in questo plurimo ‘identikit’ non può mancare il Carducci privato, intimo, ossessionato dall’idea della morte, del tempo che fugge, della fossa che si apre e attende giù nella «terra negra»: il Carducci tematicamente inedito in cui la critica più recente ha riconosciuto la presenza di aspetti “decadenti” e alcune anticipazioni della poesia pascoliana. Gli esempi che vanno qui ricordati sono: Rimembranze di scuola, Nevicata, il famosissimo Pianto antico, la poesia intitolata Alla stazione in una mattina d'autunno, nel II Libro delle Odi Barbare. Quest’ultima è una poesia che dà la misura dell’intensità e della novità che caratterizzano in questo Carducci il tema dell’amore e la descrizione del paesaggio, al tempo stesso più intimi e sofferti e più aderenti, anche nel linguaggio, alla realtà. 5 Per riprendere una distinzione canonica, qui l’eccellente letterato a cui dobbiamo il primo dei nostri premi Nobel dimostra di essere un poeta degno di affiancare il Baudelaire delle Fleurs du mal.
Carducci senza retorica è il titolo di uno dei più bei saggi di Luigi Russo, forse la monografia più importante del critico siciliano, dopo quella su Giovanni Verga. 6
Il titolo e l’approccio nascevano da un preciso contesto storico, quello del fascismo, che del poeta ottocentesco aveva teso a valorizzare primariamente l’aspetto nazionalistico. Al termine ‘retorica’ Russo dava il valore non positivo che era tipico delle poetiche romantiche, intendendo con esso il ricorso a figure, costruzioni e tecniche espressive derivanti dall’oratoria, in grado di affascinare e trascinare l’uditorio, ma spesso prive di autenticità e sincerità: insomma, un’arte che tradisce l’artificio e che alla fine è d’ostacolo alla poesia. Oggi vi è meno diffidenza verso la retorica, intesa sia come parola che come cosa, poiché si è diffusa la consapevolezza che tecniche e artifici sono ineliminabili, essendo connaturati all’espressione letteraria, e che, generalmente, il rifiuto della retorica esprime un altro tipo di retorica, cioè altre tecniche, altri artifici, anch'essi finalizzati alla persuasione.
La controprova è fornita dalla lettura di Pianto antico, dove certo la retorica non manca, ma è quella misurata di Orazio. In quel tipo di retorica si inscrive la costruzione simmetrica dell’antitesi tra l’albero e il figlio morto, peraltro assai efficace nell’esprimere il disagio per il reale che è una delle prime molle dell’agire poetico. Da una parte, vi è il mondo vegetale che sembra partecipare del tempo ciclico assai più di quello umano, ragione per cui il risveglio primaverile può apparire illusoriamente una rinascita, come accade con il verde melograno; dall’altra, l’irreversibilità del tempo lineare che prevale nella vita dell’uomo e dentro di essa introducendovi l’assurdo della morte delle persone care, che distrugge ogni illusione consolatoria. Si provi quindi a sottoporre questa poesia ad una lettura a bassa voce, monotona, asciutta, secca, materialistica come il messaggio implicito nel breve testo, e si scoprirà che la retorica risulta del tutto funzionale alla comunicazione e Pianto antico, liberato dal peso di una lettura enfatica e, in senso deteriore, attoriale, apparirà per quello che è: un piccolo capolavoro, che commuove fino alle lacrime.
Passando in rassegna i molteplici fattori che concorrono a formare la personalità ricca, complessa e contraddittoria di Carducci, va infine ricordata la sua “collera”, un tratto caratteriale che appartiene, espresso nei termini retorici dell’invettiva, ad una tradizione toscana che ha avuto gli esiti più alti in Dante. A tale proposito, sarebbe opportuno riscoprire, sulle orme della critica più avvertita, la potenza di Carducci prosatore, quale si manifesta non solo nelle sue polemiche e nelle sue ricerche, ma anche nei tanti carteggi (basti pensare che il suo è forse il più bell’epistolario della nostra letteratura).
Certo, è innegabile che, in un periodo labile, ‘liquido’ e immemore come il nostro, il mondo poetico e letterario di Carducci appaia decisamente inattuale, così come non possono non essere inattuali il rifiuto del populismo, l’invito rivolto agli italiani perché «leggano prima di scrivere» e «facciano prima di parlare», la ripulsa di ogni pavido moderatismo, l’«anteporre sempre nella vita l’essere al parere, il dovere al piacere», il disprezzo per qualsiasi tipo di giovanilismo, il nitore classico della sua scrittura e in particolare della sua poesia, nonché una cultura sterminata. 7 Così, il giudizio derogatorio, incentrato su quell’emistichio della «pargoletta mano» che compare, come si è visto poc’anzi, in uno degli epicedi più struggenti e più strazianti, ma anche più belli e più profondi della nostra tradizione poetica, è destinato a capovolgersi su colui che lo ha incautamente pronunciato, magari pensando di esibire lo stesso distacco cinico, iconoclasta e antirisorgimentale dell’autore dell’elogio di Franti.
Pertanto, di fronte a questo cinismo da cretini è doveroso ricordare, ancora una volta, che uno dei meriti incancellabili di Carducci è legato alla raccolta di sonetti Ça ira, l’unico esempio di poesia filo-giacobina che esista nella nostra tradizione letteraria, caratterizzata, come è noto, da una profonda incomprensione della rivoluzione francese. 8 Altrettanto doveroso è rammentare che all’inizio di una traiettoria che, con la negazione della negazione rappresentata dall’avvento del “Quarto Stato”, raggiungerà l’apogeo nell’Ottocento (un secolo che non piace, e “pour cause”, ai critici postmoderni delle “grandi narrazioni”!), si trovano la rivoluzione francese e la filosofia di Kant, il cui nesso, come ha sottolineato Gramsci, è stato còlto proprio da Giosuè Carducci in quel verso, forse non bello ma pieno di verità storica, che suona: «decapitaro Emmanuele Kant Iddio e Massimiliano Robespierre il re». 9
In conclusione, dalla disàmina che è stata svolta dovrebbe risultare quanto sia stretto nella personalità e nell’opera di Carducci il rapporto tra il mondo poetico e artistico a cui egli ha saputo dare vita e il rispecchiamento estetico del mondo reale che in tal modo egli ha realizzato. Se la poesia, come è stato detto, è un sogno fatto in presenza della ragione, la natura e la storia che formano l’oggetto della poesia carducciana sono allora la rappresentazione schietta, armoniosa e verace di un sogno a cui il “poeta professore” non ha mai rinunciato, malgrado i limiti della sua classe, della sua ideologia e della sua nazione: il sogno di un’umanità migliore e di un futuro capace di renderla viva e operante. 10 E questa è la ragione principale per cui, come tutti i classici, merita di essere letto da chi non lo conosce e riletto da chi già lo conosce.