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Conversazione (im)possibile con Frantz Fanon su fame, violenza e decolonizzazione* **

di Andrea Muni

Frantz Fanon foto.pngAM: Frantz, nel tuo libro più celebre, I dannati della terra, tu alterni spesso due “fami”, una di dignità e di libertà, l’altra reale, effetto della schiavitù, delle privazioni e della sottomissione violenta. Ho deciso venirti a trovare perché troppe cose, negli ultimi anni, ci stanno restituendo la consapevolezza che noi europei, noi italiani stessi, siamo ancora dei colonizzati. I nostri governi sono espressione di élites (pseudo-progressiste o liberal-conservatrici) in mano ai poteri forti franco-tedeschi e americani. La nostra cultura è omologata, i nostri valori interamente riformati da uno pseudo-universalismo violento e repressivo che, non a caso, parla col timbro di voce dei nostri padroni. Le persone che appartengono alle classi sociali più svantaggiate e marginali – quelle che non hanno nulla da offrire ai colonizzatori se non il proprio sfruttamento, ne percepiscono oggi, anche in Europa, la violenza con un’intensità inedita. Come sono visti i marginali e gli sfruttati dai nuovi coloni del nostro mondo? Come pensi andrà a finire questa brutta storia?

FF: Denutriti, malati, se [i colonizzati] ancora resistono, la paura conclude l’opera: si puntano su [di loro] fucili; vengono civili a stabilirsi sulle loro terre e li costringono con lo scudiscio a coltivarle per loro. Se [il colonizzato] resiste, i soldati sparano, lui è un uomo morto; se cede, si degrada, non è più un uomo; la vergogna e la paura incrineranno il suo carattere, disintegreranno la sua persona. […] Picchiato, sottoalimentato, ammalato, impaurito, ma fino a un certo punto soltanto, egli ha, giallo, nero o bianco, sempre gli stessi tratti di carattere: è un pigro, dissimulatore e ladro, che vive di nulla e non conosce altro che la forza. Povero colonizzatore: [il colonizzato] è la sua contraddizione messa a nudo. […] Mancando di spingere il massacro fino al genocidio, e la servitù fino all’abbrutimento, [lentamente il colono] perde il controllo [del colonizzato], l’operazione si capovolge, un’implacabile logica la porterà fino alla decolonizzazione.

 

AM: Per chi non ti conoscesse, tu sei una delle “star” del movimento e della cultura decoloniale, sei nato in Martinica (colonia caraibica francese), sei nero, sei un comunista, e uno psichiatra che ha studiato in Francia, per divenire infine eroe della resistenza e dell’indipendenza algerine, dove ti eri trasferito per fare il tuo mestiere (e da cui sei stato cacciato nel 1957 dalle forze di occupazione francesi).

Sei morto infine, troppo giovane, nel 1961, poco prima di poter vedere il compimento dell’indipendenza della tua patria d’elezione. Una guerra d’indipendenza che ha fatto un milione di morti, secondo le autorità algerine, in pieno dopoguerra. Una delle tante, che hanno affamato persone e ucciso innocenti. Una delle tante condotte da un occidente goloso, ingordo; un occidente che – uscito vincitore dalle due guerre mondiali, e più tardi dalla guerra fredda – non riesce proprio a tenere a freno la propria voracità, che non ha mai paura di fare indigestione. Ma le cose stanno cambiando ultimamente, l’indigestione è iniziata. Tu l’avevi intuito già nel 1961…

FF: [Sartre nella sua Prefazione al mio libro ha scritto che] “dapprincipio l’europeo impera: ha già perduto ma non se ne accorge; non sa ancora che gl’indigeni son falsi indigeni: fa loro male, a sentirlo, per distruggere o ricacciare il male che hanno in loro; in capo a tre generazioni, i loro perniciosi istinti non rinasceranno più. Quali istinti? Quelli che spingono lo schiavo a massacrare il padrone? […] Tre generazioni? Fin dalla seconda, appena aprivano gli occhi, i figli hanno visto percuotere i loro padri. In termini psichiatrici, eccoli «traumatizzati». Per la vita. Ma quelle aggressioni senza tregua rinnovate, anziché spingerli a sottomettersi, li buttano in una contraddizione insopportabile di cui l’europeo, presto o tardi, farà le spese. E dopo, li si addestri a loro volta, gli si insegni la vergogna, il dolore e la fame: non si susciterà nei loro corpi che rabbia vulcanica la cui potenza è uguale a quella della pressione che viene esercitata su di loro. Non conoscono, dicevate, se non la forza? Certo; dapprima sarà soltanto quella del colono e, ben presto, soltanto la loro, il che vuol dire: la medesima che si ripercuote su di noi come il nostro riflesso ci viene incontro dal fondo d’uno specchio. Non illudetevi; attraverso quel pazzo rovello, per quella bile e quel fiele, attraverso il loro desiderio costante di ucciderci, per la contrazione costante di muscoli potenti che han paura di sciogliersi, essi sono uomini: attraverso il colono, che li vuole uomini di fatica, e contro di lui. Cieco ancora, astratto, l’odio è il loro solo tesoro. […] Quanto al resto abbiamo capito; son pigri, certo: ma è sabotaggio. Dissimulatori, ladri: caspita; i loro furtarelli segnano l’inizio d’una resistenza non ancora organizzata. Non basta: ce ne sono che si affermano buttandosi a mani nude contro i fucili; sono i loro eroi; e altri si fanno uomini assassinando europei. Li si ammazza: briganti e martiri, il loro supplizio esalta le masse atterrite”.

 

AM: Già, e bravo Sartre, aveva visto lungo! Quest’odio e questa violenza degli “altri”, che turbano sempre così tanto noi occidentali, sono ancora una questione incresciosa. Penso a Gaza, ad Hamas, alla Palestina, ai molti luoghi anche in Europa in cui colonialismo, apartheid, fame reale, sottoalimentazione, denutrizione, repressione, trovano il loro contraltare di odio, di sete di vendetta, di violenza e crudeltà. Noi occidentali ci siamo abituati a ritenere queste sensazioni e queste pulsioni non-umane, animali nel senso deteriore del termine. Abbiamo la tendenza a credere che in nessun caso la crudeltà sia una risposta razionale a ciò che si subisce. Ma non sarà forse perché noi non siamo mai stati dall’altra parte? Mi ha colpito molto l’ultima stagione di The Handmaid’s tale, che forse tu Frantz non hai visto; mi ha colpito il modo in cui emerge efferata la dimensione necessaria, giusta, affamata di vendetta contro coloro che hanno usato su di noi impunemente violenza. Il terrore del colonizzato, a un certo punto, dal fondo della disperazione, deve trasformarsi in sete di vendetta, deve trasformarsi nel terrore del colono…

FF: […] Gli uomini colonizzati, schiavi dei tempi moderni, sono impazienti. Sanno che solo questa follia può sottrarli all’oppressione coloniale. Un nuovo tipo di rapporti si è stabilito nel mondo. I popoli sottosviluppati fanno scricchiolare la loro catena e lo straordinario è che ci riescano. Si può pretendere che, all’ora dello sputnik [1957], è ridicolo morire di fame, ma per le masse colonizzate la spiegazione è meno lunare. […] Ora avviene che quando un colonizzato sente un discorso sulla cultura occidentale, tira fuori la roncola o per lo meno si accerta che gli sia a portata di mano. La violenza con la quale si è affermata la supremazia dei valori bianchi, l’aggressività che ha impregnato il vittorioso confronto di quei valori coi modi di vivere o di pensare dei colonizzati fan sì che, per un giusto capovolgimento, il colonizzato sogghigni quando si evocano davanti a lui quei valori. […] Nel periodo di decolonizzazione, la massa colonizzata se ne infischia di quegli stessi valori, li insulta, li vomita a gola spiegata.

 

AM: Sartre ti stimava molto, nella Prefazione di cui parlavi ha scritto anche “Leggete Fanon: saprete che, nel tempo della loro impotenza, la pazzia omicida è l’inconscio collettivo dei colonizzati. […] giacché non è, da principio, la “loro” violenza, è la nostra, rivoltata, che cresce e li strazia; e il primo moto di quegli oppressi è di seppellire profondamente quell’inconfessabile ira che la morale loro e nostra condannano e non è però che l’ultimo ridotto della loro umanità”. C’è ancora un nesso tra disperazione e violenza, e persino tra crudeltà e umanità, che non possiamo far finta di non vedere…

FF: Le masse lottano contro la stessa miseria, si dibattono con gli stessi gesti e disegnano cogli stomaci rattrappiti quel che si è potuto chiamare la geografia della fame. Mondo sottosviluppato, mondo di miseria e inumano. Ma anche mondo senza medici, senza ingegneri, senza amministratori. […] Il benessere e il progresso dell’Europa sono stati edificati col sudore e i cadaveri dei negri, degli arabi, degli indiani e dei gialli. E questo, noi decidiamo di non dimenticarlo più. […] Nel Congo, misure draconiane furono prese, a cominciare dal 1957, per ricacciare nelle campagne i «giovinastri» che perturbavano l’ordine pubblico. Furono aperti campi di riadattamento e affidati alle missioni evangeliche sotto la protezione, evidentemente, dell’esercito belga. […] Questo “Lumpenproletariat”, simile a una muta di topi, nonostante i calci, nonostante le sassate, continua a rodere le radici dell’albero. La bidonville consacra la decisione biologica del colonizzato d’invadere, costi quel che costi, e se occorre per le vie più sotterranee, la cittadella nemica. Il “Lumpenproletariat” costituito, e gravante con tutte le sue forze sulla «sicurezza» della città, significa il deterioramento irreversibile, la cancrena impiantata nel cuore della dominazione coloniale. Allora i magnaccia, i giovinastri, i disoccupati, i pezzi da galera, sollecitati, si buttano nella lotta di liberazione come robusti lavoratori. Quegli scioperati, quei declassati ritroveranno, tramite l’azione militante e decisiva, la strada della nazione. Non si riabilitano in faccia alla società coloniale o alla morale del dominatore. Anzi, assumono la loro incapacità a entrare nel consorzio civile altro che con la forza della bomba e della rivoltella. Questi disoccupati e questi sottouomini si riabilitano di fronte a se stessi e di fronte alla storia. Anche le prostitute, le domestiche a duemila franchi, le disperate, tutti quelli e quelle che si muovono tra la pazzia e il suicidio, si riequilibreranno, si rimetteranno in marcia e parteciperanno in modo decisivo alla grande processione della nazione risvegliata.

 

AM: Già, è difficile capire a volte come un soggetto che si è macchiato di orribili violenze contro dei nemici, possa essere una persona perfettamente sana, premurosa e affettuosa con coloro che ama, con i “suoi”. Ci sembra a volte che la violenza sia qualcosa capace di macchiare interamente una personalità. Senti, ma questo sottoproletariato di marginali e disperati, un po’ come accadde anche col fascismo, e come accade anche oggi con la deriva neo-fascista che sta prendendo l’occidente, è però sempre a rischio di “cadere” dall’altra parte della barricata, dalla parte “collaborazionista”. Come evitarlo?

FF: Ogni movimento di liberazione deve rivolgere la massima attenzione a questo “Lumpenproletariat”. Questo risponde sempre all’appello dell’insurrezione, ma se l’insurrezione crede di potersi sviluppare ignorandolo, il “Lumpenproletariat”, massa di affamati e di avviliti, si butterà nella lotta armata, parteciperà al conflitto, ma a fianco, questa volta, dell’oppressore. L’oppressore, che non perde mai occasione di far divorare i negri tra loro, impiegherà con rara fortuna l’incoscienza e l’ignoranza che sono le tare del “Lumpenproletariat”. Questa riserva umana disponibile, se non è immediatamente organizzata dall’insurrezione, si ritroverà come mercenari a fianco delle truppe colonialiste.

 

AM: Tutta questa violenza interiorizzata, questo risentimento e odio di sé prodotti dalla colonizzazione, hanno costretto i colonizzati a forme di sfogo e compromesso per riuscire a sopravvivere, a non impazzire completamente. Tu, durante le guerre di liberazione decoloniale (di cui noi per altro non studiamo nemmeno la storia a scuola), hai notato come alcuni classici rituali mistico-tribali degli oppressi, spesso volti a scaricare e sublimare l’aggressività, siano divenuti superflui una volta che il popolo ha cominciato davvero a lottare – armi in pugno – contro l’agente reale della sua oppressione, contro la fonte pratica della sua frustrazione.

FF: Nel mondo coloniale, l’affettività del colonizzato è mantenuta a fior di pelle come piaga viva che rifiuta l’agente caustico. La psiche si ritratta, si oblitera, si scarica in dimostrazioni muscolari che han fatto dire a uomini molto dotti che il colonizzato è un isterico. […] Uno studio del mondo coloniale deve necessariamente attendere alla comprensione del fenomeno della danza e della possessione. Il rilassamento del colonizzato, è appunto quell’orgia muscolare nel corso della quale la più acuta aggressività, la più immediata violenza vengono incanalate, trasformate, cancellate. Il cerchio della danza è un cerchio permissivo. Protegge e autorizza. A ore fisse, a date fisse, uomini e donne si ritrovano in un dato luogo e, sotto l’occhio grave della tribù, si lanciano in una pantomima d’aspetto disordinato ma in realtà molto sistematica in cui, per vie molteplici, dinieghi del capo, curvatura della spina dorsale, rigetto all’indietro di tutto il corpo, si decifra a prima vista lo sforzo grandioso di una collettività per esorcizzarsi, affrancarsi, esprimersi. […] Tutto è permesso poiché, in realtà, non ci si riunisce se non per lasciare la libido accumulata, l’aggressività ostacolata, prorompere vulcanicamente. Messe a morte simboliche, cavalcate figurative, assassini molteplici immaginari, bisogna che tutto ciò venga fuori. I cattivi umori scolano via, fragorosi come colate di lava.

 

AM: Quasi la stessa funzione catartico-ipnotica che hanno oggi per noi i rave

FF: [Già], un passo ancora e cadiamo in piena possessione. […] Vampirismo, possessione da parte dei “gin”, degli “zombies”, di Legba, il dio illustre del Vodú. Tali sfaldamenti della personalità, tali sdoppiamenti, tali dissoluzioni, adempiono a una funzione economica primordiale nella stabilità del mondo colonizzato. All’andata, gli uomini e le donne erano impazienti, scalpitanti, «coi nervi». Al ritorno, è la calma che torna al villaggio, la pace, l’immobilità . [Ma] si assiste, nel corso della lotta di liberazione, a un singolare disamore per queste pratiche. Le spalle al muro, il coltello sulla gola o, per essere più precisi, l’elettrodo sulle parti genitali, verrà intimato al colonizzato di non raccontarsi più delle storie . Dopo anni d’irrealismo, dopo essersi compiaciuto dei fantasmi più stupefacenti, il colonizzato, col mitra in pugno, affronta finalmente le sole forze che gli contestavano il suo essere: quelle del colonialismo. E il giovane colonizzato, che cresce in un’atmosfera di ferro e di fuoco, può ben farsi beffe – né manca di farlo – degli antenati “zombies”, dei cavalli a due teste, dei morti che si risvegliano, dei “gin” che approfittano di uno sbadiglio per riversarsi nel corpo. Il colonizzato scopre il reale e lo trasforma nel movimento della sua prassi, nell’esercizio della violenza, nel suo progetto di liberazione. […] Così si spiega a sufficienza [anche] lo stile degli intellettuali colonizzati […] in atto di liberarsi. […] Stile scattante, animato da ritmi, da parte a parte abitato da una vita eruttiva. Colorito anche, abbronzato, assolato e violento. Questo stile, che stupì a suo tempo gli occidentali, non è, come si è voluto dire, un carattere razziale, ma traduce anzitutto un corpo a corpo, rivela la necessità in cui si è trovato quest’uomo di farsi male, di sanguinare realmente di sangue rosso, di disfarsi di una parte del suo essere che già racchiudeva germi di putrefazione. Combattimento doloroso, rapido in cui immancabilmente il muscolo doveva sostituirsi al concetto. Ritrovare il proprio popolo è alle volte, in questo periodo, voler essere negri, non un negro diverso dagli altri, ma un vero negro, un cane di negro, come lo vuole il bianco. Ritrovare il proprio popolo è farsi “bicot”, farsi il più indigeno possibile, il più irriconoscibile, è tagliarsi le ali che si eran lasciate crescere. […] Quando i colonialisti, che avevano assaporato la vittoria su questi assimilati, si rendono conto che questi uomini che essi credevano salvati cominciano a dissolversi nella negraglia, tutto il sistema vacilla.

 

AM: Ma perché rischiare tutto, la vita, per liberarsi da un simile giogo? Perché, in fondo, non accettare, un po’ rassegnatamente, una vita amputata e umiliata, perché alzare la testa a rischio della propria vita e di quella delle persone amate? C’è molto da perdere, devi ammetterlo…

FF: L’odio è disinnescato da espedienti psicologici. […] Si promuove l’indigeno, si cerca di disarmarlo con la psicologia e, naturalmente, qualche soldarello. Queste miserabili misure, queste riparazioni di superficie, d’altronde sapientemente dosate, arrivano a riportare certi successi. La fame del colonizzato è tale, la sua fame di qualsiasi cosa che lo umanizzi – persino a prezzo ribassato – è a tal punto incoercibile, che queste elemosine pervengono localmente a scuoterlo.[…] Il colonizzato rischia ad ogni istante di lasciarsi disarmare da qualsiasi concessione. [Ma] è meglio fame in dignità che pane in servitù. Il colonialismo non può far dimenticare al popolo colonizzato la sua fame di dignità. Una volta che il colonialismo ha capito dove lo trascinerebbe la tattica del popolo per le riforme sociali, lo si vede ritrovare i suoi vecchi riflessi, rinforzare gli effettivi di polizia, spedire truppe e impiantare un regime di terrore più consono ai suoi interessi e alla sua psicologia.

 

AM: Frantz, tu che ci hai dedicato la vita, dacci una descrizione di quello che vivono ancora oggi i profughi di Gaza, e i molti altri colonizzati in cui ribollono queste “fami”, di cibo, di rabbia, di dignità, mentre le nuvole nere di una terza guerra mondiale, pezzo per pezzo, si incastrano a intasare l’orizzonte.

FF: Al livello degli individui, la violenza disintossica. Sbarazza il colonizzato del suo complesso d’inferiorità, dei suoi atteggiamenti contemplativi o disperati. Lo rende intrepido, lo riabilita ai propri stessi occhi. […] Esposto a tentativi di omicidio quotidiani: la fame, lo sfratto dalla camera non pagata, il seno materno avvizzito, i bambini scheletrici, il cantiere chiuso, i disoccupati che si aggirano attorno al gerente come corvi, l’indigeno arriva a vedere il suo simile come un nemico implacabile. Se si scortica i piedi nudi su una grossa pietra in mezzo al sentiero, è un indigeno [come lui] che l’avrà collocata lì, e le poche olive che ci si prepara a cogliere, ecco che i bambini di X nella notte le hanno mangiate. Sì, nel periodo coloniale in Algeria e altrove si possono fare molte cose per un chilogrammo di semola. Si possono uccidere parecchie persone. Ci vuole immaginazione per capire queste cose. Oppure memoria. Nei campi di concentramento uomini si sono ammazzati per un pezzo di pane. Mi ricordo una scena orrenda. Era a Orano [Algeria] nel 1944. Dal campo in cui aspettavano l’imbarco, i militari lanciavano pezzi di pane a bambini algerini che se li disputavano con odio e con rabbia.

 

AM: L’apartheid stessa è un concetto ampio, che possiamo vedere tranquillamente tradotto e in relativa buona forma nelle frammentazioni etniche e di classe di molti quartieri delle nostre città. Penso solo ai richiedenti asilo afghani che popolano la piazza antistante alla stazione nel quartiere dove vivo. Come funzionava la divisione tra la città dei coloni e dei colonizzati, e tra città e campagna, nel mondo coloniale negli anni ’50? A volte mi pare che le nostre città siano divenute una specie di mostruosa fusione tra le “due città” di cui parli nel tuo libro…

FF: La zona abitata dai colonizzati non è complementare della zona abitata dai coloni. […] La città del colono è una città di cemento, tutta di pietra e di ferro. E’ una città illuminata, asfaltata, in cui i secchi della spazzatura traboccano sempre di avanzi sconosciuti, mai visti, nemmeno sognati. […]. La città del colono è una città ben pasciuta, pigra, il suo ventre è pieno di cose buone in permanenza. La città del colono è una città di bianchi, di stranieri. La città del colonizzato, o almeno la città indigena, il quartiere negro, la medina, la riserva, è un luogo malfamato, popolato di uomini malfamati. Vi si nasce in qualunque posto, in qualunque modo. Vi si muore in qualunque posto, di qualunque cosa. E’ un mondo senza interstizi, gli uomini ci stanno ammonticchiati, le capanne ammonticchiate. La città del colonizzato è una città affamata, affamata di pane, di carne, di scarpe, di carbone, di luce. […] La città del colonizzato è una città accovacciata, una città in ginocchio, una città a testa in giù. E’ una città di sporchi negri, di luridi arabi. Lo sguardo che il colonizzato getta sulla città del colono è uno sguardo di lussuria, uno sguardo di bramosia. Sogni di possesso. Tutte le forme di possesso: sedersi alla tavola del colono, dormire nel letto del colono, possibilmente assieme a sua moglie. Il colonizzato è un invidioso, il colono non lo ignora quando, cogliendone lo sguardo alla deriva, constata amaramente ma sempre all’erta: «Vogliono prendere il nostro posto». E’ vero, non c’è colonizzato che non sogni almeno una volta al giorno di impiantarsi al posto del colono.

 

AM: Dev’essere per questa via che, anche oggi, i nostri coloni ottengono di fomentare questa strana sindrome di Stoccolma, questa invidia di classe e guerra tra poveri, che divide gli sfruttati e non gli permette di sorgere uniti contro i veri responsabili del loro abbrutimento. Grazie Frantz!

FF: [Grazie. Vi pongo io una domanda, allora, per concludere]. Quali sono oggi [per voi] i rapporti che esistono tra la lotta, il conflitto – politico o armato – e la cultura? Durante il conflitto, c’è sospensione della cultura? La lotta nazionale è una manifestazione culturale? Bisogna infine dire che la lotta liberatrice, benché feconda “a posteriori” per la cultura, è in se stessa negazione della cultura? La lotta di liberazione è, sì o no, un fenomeno culturale?


 Le risposte di Fanon sono tratte e montate da I dannati della terra, Einaudi, Torino 1962
** Il testo è uscito sul nostro numero cartaceo annuale “Fame”(n.36), Le Lettere Scarlatte, Trieste 2024. Lo pubblichiamo online nel giorno del centenario della nascita di Frantz Fanon
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