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Contro l’Europa del capitale e della guerra

di Ascanio Bernardeschi

vittoria.jpgLe politiche economiche dell’Unione europea tutelano gli interessi del grande capitale conducendoci a una crisi di vaste proporzioni, peggiorando drasticamente le condizioni e i diritti dei lavoratori e abbattendo gli spazi di resistenza democratica.

In Europa siamo di fronte a una crisi di vaste proporzioni, tanto da far rimpiangere quella del 2008. Il tessuto produttivo europeo è alla canna del gas a partire dalla “locomotiva” Germania. Come al solito, il peggio ne fanno i lavoratori. Proviamo a indagare le cause.

1992, Trattato di Maastricht. Una data infausta. Da quel momento, con una costante progressione, si è impoverito e ha perso diritti il mondo del lavoro. Non si tratta di una coincidenza. L’ex governatore della Banca d’Italia, nell’occasione della firma del Trattato, ebbe a sussurrare agli intimi che i nostri governanti non si rendevano conto di cosa stavano sottoscrivendo, cioè il cambiamento della natura dello Stato, la sua riduzione a uno Stato minimo, ma non di tipo liberale ottocentesco; molto peggio perché privava gli Stati della sovranità monetaria e sposava acriticamente tutte le indicazioni della scuola neoliberista di Chicago.

Per la verità, la cosa era cominciata un paio di anni prima con il divorzio fra Banca d’Italia e Tesoro, di cui fu esecutore Azelio Ciampi. Uno dei capisaldi della scuola di Chicago è, infatti, che le banche centrali debbano essere indipendenti dalla politica e debba essere loro proibito di acquistare non già i titoli tossici, ma direttamente dal Tesoro i titoli del debito pubblico. Questo ha significato che da allora gli Stati sono costretti a collocare per intero tali titoli nel mercato, esponendosi alla speculazione a rischio di far lievitare i tassi e con ciò il debito stesso, come è avvenuto regolarmente per la maggior parte delle nazioni.

Questo tranello è stato confermato dal Trattato che vi ha aggiunto altre tagliole. Sempre in omaggio alle dottrine neoliberiste ha stabilito che la prima cosa da tutelare è la stabilità monetaria e il controllo del tasso di inflazione, non i diritti sociali.

Se, pertanto, il tasso di inflazione supera il 2% sono vietate politiche economiche espansive e va accolto il tasso di disoccupazione esistente in quanto “naturale”, o Non Accelerating Inflation Rate of Unemployment (Nairu) secondo le dottrine neoliberiste. Le statistiche ufficiali sono taroccate, per via della metodologia di rilevamento, ma la disoccupazione reale, da allora, è in aumento.

La seconda cosa da difendere rigidamente è la libera concorrenza – un’entità, in realtà, astratta e che non esiste da nessuna parte -, secondo il pregiudizio negato dall’evidenza che essa assicura l’optimum nell’allocazione delle risorse. Sono vietati, quindi, interventi dello Stato, quali aiuti economici e incentivi nei settori strategici, che alterino il rigoroso rispetto della concorrenza. Sempre in omaggio a questo tabù i capitali sono liberi di migrare da un Paese all’altro senza che sia possibile porre loro dei vincoli e gli Stati si fanno concorrenza fra di loro per offrire agli speculatori le migliori condizioni possibili, svendendo diritti e sistemi ecologici. La graduale riduzione della progressività dell’Irpef a pochissima cosa, non in grado di bilanciare la regressività del sistema tributario nel suo insieme e la mancata tassazione dei grandi patrimoni si spiega anche con l’affannosa ricerca da parte di ciascuna nazione di diventare il paese di Bengodi per i capitali.

In terzo luogo sono stati stabiliti valori cervellotici dei rapporti debito/Pil e deficit/Pil che non trovano giustificazione se non nella protervia delle classi dominanti intenzionate a chiudere ogni possibilità di politiche anticicliche e di soccorso alle difficoltà sociali scaturenti dalle crisi. Le crisi da domanda richiederebbero un intervento pubblico espansivo, una spesa in grado di attivare il moltiplicatore per rilanciare l’economia. Ma quando c’è la crisi ci sono meno entrate fiscali e quindi, per rispettare i parametri, si debbono tagliare le spese, l’esatto contrario di quello che servirebbe per rilanciare l’economia. Tali parametri sono assurdi in quanto esistono economie che veleggiano a rapporti debito/Pil ben superiori a quelli europei senza con ciò minacciare la stabilità.

L’ultimo tassello è la moneta comune. Quando gli Stati disponevano della sovranità monetaria, in casi di squilibrio nei conti con l’estero, potevano rendere le merci da esportare più a buon mercato e quelle da importare più care con la svalutazione monetaria, un modo utilizzato ricorrentemente per colmare il gap di competitività nei mercati internazionali. Con la moneta unica non è più possibile fare ciò e la competitività si può favorire esclusivamente svalutando il lavoro, cosa che è regolarmente avvenuta.

La logica del tutto è una feroce rivincita del capitale contro le conquiste da parte del mondo del lavoro che avevano caratterizzato i “30 anni gloriosi”. Si spiega così che la quota del reddito destinata ai lavoratori è passata, in alcuni decenni, dal 60% del Pil al 40%. Si spiegano così i tagli ai servizi pubblici, quali la sanità, la scuola, i trasporti, le pensioni da fame a cui andranno incontro gli attuali lavoratori. Si spiegano le privatizzazioni per “fare cassa”, le esternalizzazioni delle gestioni a scapito dei diritti dei lavoratori, la precarizzazione del lavoro, frammentato in mille contratti atipici, le false partite Iva, il lavoro semischiavistico nei campi o quello dei rider, la fine del diritto al reintegro per i licenziati senza giusta causa.

Recentemente si è aggiunto un nuovo tassello. Il debito per sostenere i servizi sociali rimane disdicevole, ma quello per aumentare le spese negli armamenti è buona cosa e non considerato nel cosiddetto patto di stabilità, un meccanismo che obbliga gli Stati a rientrare a tappe forzate dall’indebitamento fuori dai parametri. Si civettano gli Stati Uniti che debbono la loro potenza economica prevalentemente al complesso militare-industriale, dimenticando che gran parte della nostra spesa militare serve ad arricchire l’industria bellica americana. Si consente di indebitarci per fare la guerra, ma tale debito esiste comunque, per esso si pagano ugualmente gli interessi. Solo che si può far finta che non esista e le spese per interessi e per i rimborsi, andando ad aggravare il bilancio dello Stato, si tradurranno in ulteriori tagli ai servizi essenziali.

Infine, si prospettano le novità annunciate dal grande banchiere e statista Draghi in un rapporto all’Unione europea commissionatogli dalla von der Leyen. Di fronte a un’economia europea devastata dalle conseguenze della guerra in Ucraina, cannibalizzata, con il consenso idiota delle classi dirigenti europee, dagli Usa per via delle sanzioni contro la Russia, che era la nostra maggiore fornitrice di prodotti energetici e materie prime; di fronte alla necessità di accrescere la competitività, l’ex governatore Bce propone ingenti investimenti pubblici, oltre 800 miliardi, nelle nuove tecnologie dual use (cioè impiegabili utilmente per uccidere) e nel comparto militare tout court. I soldi pubblici dovrebbero essere raccolti tramite emissione di titoli europei, ma andrebbero girati alle imprese private e senza la possibilità di interferire nelle loro scelte. In alcuni casi, addirittura, si prevede di eliminare l’obbligo della rendicontazione delle spese finanziate dall’Unione europea. Ma come si raccoglierebbero queste somme?

I risparmiatori dovrebbero essere indotti (con incentivi o con la potestà di imperio) a togliere i loro risparmi dal sistema bancario ordinario per collocarli nella finanza, esponendoli così a maggiori rischi. Draghi propone anche di devolvere maggiori quote del Tfr ai fondi di investimento. L’indebitamento sarebbe, quindi, centralizzato nell’Unione europea. Gli Stati dovrebbero solo far fronte pro quota alle maggiori spese del servizio di tale debito e in più vedrebbero probabilmente accrescere gli interessi del proprio, perché un titolo emesso dall’Italia, dalla Spagna o dalla Grecia è certamente meno appetibile di uno emesso dalla Bce e quindi, per essere accettato dal mercato, deve assicurare un maggiore rendimento. Il famoso spread rifarebbe capolino in una veste rinnovata. Quale Europa allora avremo di fronte? Un’Europa del grande capitale finanziario, che delega ad esso le scelte economiche, che fa strage di diritti sociali, che brutalizza i lavoratori e prepara una grande guerra, in cui in realtà è già dentro spavaldamente, non solo con un piede, in omaggio alla nostra sudditanza all’imperialismo americano.

I guasti all’economia europea provocati dalle sanzioni autolesionistiche alla Russia sono noti. Ora si profila anche un’escalation terribile in Medio Oriente. Il conflitto con l’Iran determinerebbe la chiusura dello stretto di Hormuz, bloccando il transito di petrolio via mare che costituisce poco meno di un terzo del suo commercio complessivo. L’impatto sulle forniture energetiche sarebbe importante e potrebbe ulteriormente aggravarsi se l’Iran e parte del mondo arabo decidessero per ritorsione di mandarci l’oro nero col contagocce e a prezzi aumentati. Anche in questo caso sarebbe l’Europa a farne le maggiori spese sia perché molto più dipendente, rispetto agli Usa, da queste importazioni, sia perché i traffici lungo il Mar Rosso interessano prevalentemente il nostro continente. L’economia europea, già in stato agonico, riceverebbe il colpo finale. Eppure, rimane irremovibile la nostra adesione a tutte le sciagurate guerre volute dagli States. E a farne le spese non sarebbero certo i capitali, liberi di muoversi e di trasferire altrove quello che resta del nostro apparato industriale.

Di fronte al pericolo di una catastrofe planetaria, alla strage dei diritti e alle sofferenze prodotte da una crisi ormai cronica, le classi dominanti hanno bisogno di tenere sotto controllo il livello del conflitto sociale. Da qui la concentrazione dei grandi media in pochissime mani e i tentativi di restringere gli spazi di democrazia. Quello che aveva pontificato Licio Gelli nel suo programma di rinascita democratica è stato in buona parte realizzato. Del resto, la banca d’affari JP Morgan, in un documento del 2013, aveva auspicato il superamento dalle Costituzioni europee nate dalla sconfitta del nazifascismo perché offrono troppo spazio alle lotte dei lavoratori. Le leggi elettorali che distorcono la rappresentanza e premiano le forze poste al centro degli schieramenti, l’umiliazione dei parlamenti ridotti a ratificatori di provvedimenti governativi, il progetto di riforma presidenzialistico, l’autonomia differenziata e, ultimo solo per l’ordine cronologico, il Decreto sicurezza 1660, si possono spiegare proprio con il bisogno che non si formi una forte opposizione sociale. Draghi intende metterci del suo anche sulla democrazia. Nel suo rapporto caldeggia che molti dei residui poteri ancora di pertinenza degli organi elettivi degli Stati vengano trasferiti agli organi a-democratici dell’Unione Europea i quali, a loro volta, dovranno trasferirli ai grandi gruppi finanziari.

Se questo è il disegno del nemico di classe occorre attrezzarci per difendere gli interessi del popolo italiano e non permettere alle destre di esternare impunemente la retorica del sovranismo. Esse, in realtà, confondono le acque ma tutelano gli interessi dei grandi gruppi capitalistici, come ha fatto in questi giorni Meloni incontrandosi con Elon Musk e Larry Fink per svendere loro un bel pezzo della nostra residua sovranità e della nostra economia.

Dobbiamo, quindi, rivelare che non sono certo le destre a tutelare gli interessi nazionali, ma una politica economica che rilanci la funzione programmatrice dello Stato, i rapporti proficui con la Cina, i Brics e i popoli dei Paesi emergenti, la mobilitazione contro la guerra, contro le politiche neoliberiste, contro le istituzioni europee, contro i pericolosi rigurgiti neofascisti e contro il restringimento degli spazi di resistenza.

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Comments

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Mattia
Monday, 21 October 2024 16:49
Giusto andare contro l'Unione europea del Capitale e della guerra,ma non è giusto ritornare alla vecchia Europa delle nazioni.A rischiare grosso dalla guerra in Ucraina e non solo è proprio l'Ue,subalterna agli Usa in tutto,incapace di autonomia,di concreta unità politica.Se vuole contare nel mondo multipolare non può continuare ad andare in ordine sparso.E' necessaria un 'Unione europea che metta al centro la libertà,la giustizia sociale.l'ambiente,la solidarietà...L'Europa con al centro la moneta,la finanza...non andrà molto lontano.
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Paolo
Tuesday, 15 October 2024 19:57
FALLITI SENZA SCAMPO E SENZA SCAMPO IN GUERRA ‼️‼️‼️‼️‼️

BINGO‼️‼️‼️‼️‼️
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