L’Unione europea tra sovranismi e tecnocrazia
di Antonio Cantaro
Pubblichiamo la relazione tenuta da Antionio Cantaro a Reggio Emilia lo scorso 20 gennaio 2025 nell'ambito del corso dell'Università popolare su "Quale futuro per la democrazia occidentale"
Da dove iniziare una storia dell’Unione europea tra sovranismi e tecnocrazia, come ci chiede la nostra iniziativa di questo pomeriggio?
Non era semplice, ci ho pensato a lungo. Alla fine – perdonerete l’azzardo – ho deciso di cominciare da oggi lunedì 20 gennaio 2025, il giorno in cui Donald Trump diventa ufficialmente il 47 esimo Presidente degli Stati Uniti, di cui peraltro è stato anche il 45 esimo. Magari un’altra volta metterò un punto a questo azzardo con un altro ben più memorabile giorno. Il 12 ottobre 1492, quando alcuni membri di una delle caravelle di Cristoforo Colombo, stremati da mesi viaggio transoceanico, gridarono con un senso di vittoria e di liberazione Terra Terra. Pensavano che fossero le Indie e invece era un Nuovo continente. Terra terra in un senso certamente molto diverso da quello in cui lo dice oggi Trump a proposito della Groenlandia e altri territori. Diverso, ma non troppo distante nel suo significato simbolico. Certamente a parti invertite. Oggi a gridare terra terra non sono l’europeo Colombo e la sua ciurma, i vecchi colonizzatori, bensì l’americano Trump e il naturalizzato americano Elon Trump quando si occupano di noi, dell’Europa.
Nel mio azzardo sono confortato dall’editoriale di una Rivista francese per me, in genere, abbagliata da troppo macronismo per essere affidabile. Una rivista troppo eurocentrica, troppo franco centrica, sin dal nome, Le Grand Continent. Ma che, in questa occasione, muove felicemente lo sguardo non da quanto accade nella provincia del mondo, nel Vecchio Continente, ma da quanto accade nel Nuovo Continente, nella sua capitale, Washington.
Per antica tradizione il giorno dell’insediamento di un nuovo Presidente è un momento repubblicano, un momento incentrato sul potere civile americano – l’essere costituzionalmente gli Usa una Repubblica – più che l’essere gli Usa, di fatto, anche un impero.
Il cerimoniale – ricorda la rivista francese – ha sin qui sempre ‘registrato’ questa scelta, nel senso che nessun Capo di Stato o di Governo vi è mai stato invitato. A voler sottolineare la differenza con la tradizione romana nella quale l’imperium conferisce al suo titolare non solo il potere civile all’interno della capitale (imperium domi) ma anche il potere militare fuori Roma (Imperium militiae). Il cerimoniale è simbolo, messaggio, sovrastruttura di una struttura.
Il suo mutamento, al di là della consapevolezza che ne abbiano i suoi organizzatori, non può essere sottovalutato. Questa volta alla cerimonia di inaugurazione sono stati invitati molti dei suoi alleati stranieri, Miley, Netanyahu, Orban, il Presidente di El Salvator Naybi Bukele, l’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro e altri. Alcuni non andranno altri si, a quanto pare almeno un capo di governo europeo, la Signora Meloni. Vedremo quanti saranno.
Ma questo forse è un dettaglio. Quello che conta è che Trump abbia pensato la giornata di oggi non come una inaugurazione ma come una incoronazione. Probabilmente, già nelle prossime ore osservatori e commentatori liberal, ironizzeranno su questo, lo interpreteranno come l’ennesima caduta di stile di un uomo volgare, populista e sovranista, che ignora le regole e il bon ton democrat. E, invece, anche questa volta si sbagliano: quelle regole le conosce bene e le vuole cancellare sin dal cerimoniale, per far capire che una altra epoca si è aperta nei rapporti dell’America con il resto del mondo. E con l’Europa, della quale parlerò più ravvicinatamene nella seconda parte della mia ‘storia’. E se alla fine all’inaugurazione/incoronazione ci sarà tra i capi di governo solo Gorgia Meloni, il significato – come potete capire – sarà ancora più forte e chiaro.
I commentatori liberal hanno ancora una volta capito poco del marchio di fabbrica America first. Pensano che si tratti semplicemente di autarchico populismo isolazionista in politica estera e di protezionismo commerciale (l’annunciata guerra dei dazi). La fine dell’America come era una volta. Una mezza verità, cioè una mezza bugia, sia per quanto concerne l’America democratica del XX secolo, sia per l’epoca della prima presidenza Trump, sia per l’epoca che si sta per aprire con la seconda Presidenza Trump. Le cose sono assai più complicate, specie – come dirò più avanti – per noi europei.
Concentriamo ancora l’attenzione sul presente. A proposito dell’epoca che si apre oggi, lunedì 20 gennaio 2025, Lorenzo Castellani, un giovane scienziato della politica, ha coniato l’espressione accelerazione reazionaria. Io appartengo ad altra generazione e preferisco gramscianamente parlare di rivoluzione passiva. La sostanza, dal punto di vista analitico, non cambia molto e, perciò, mi avvarrò, quasi alla lettera, delle acute considerazioni del giovane ricercatore.
L’alleanza che ha portato Trump al potere per la seconda volta è significativamente diversa e più ampia di quella con cui ha battuto Hillary Clinton nel 2016. Ridurre tutto alla catena America first/isolazionismo/protezionismo significa ignorare i tre bacini elettorali che hanno condotto Trump alla vittoria e dei quali è ora veicolo e interprete nel modo estremamente pragmatico cosa solo Lui sa fare.
Primo bacino politico. I populisti, l’elettorato rurale e delle classi lavoratrici, l’elettorato delle piccole città, del lavoro manuale e della concretezza, che reclama di far fronte ai guasti delle delocalizzazioni, dell’invasione di prodotti stranieri, dell’immigrazione indiscriminata. Di porre, insomma, riparo ai guasti sociali, economici ed esistenziali della belle époque del globalismo neoliberale: re-industrializzazione e di re-territorializzazione all’insegna dello slogan America first allo stato puro, se non fosse per la crescita di consenso che questo programma ha questa volta suscitato anche tra le minoranze etniche.
Secondo bacino politico. L’elettorato tradizionale repubblicano, legato ai valori tradizionali, alla libertà di impresa, all’avversione per il fisco.
Terzo bacino politico. Un nuovo elettorato, piccolo ma influente, trascinato dalla Silicon Valley e da Wall Street che ha sposato le idee trumpiane sul fisco e sulla ri-territorializzazione del capitalismo manifatturiero ma entro un orizzonte ancora più de-territorializzato e libertario quando sono in ballo gli interessi e le visioni del futuro delle grandi compagnie tecnologiche e finanziarie.
Una coalizione di interessi socialmente ed economicamente eterogenea, tenuta insieme da un mix di chiusura e apertura, di protezionismo ed espansionismo, di valori tradizionalisti e futuristi. Tenuta insieme dalla richiesta di protezione della classe media e, allo stesso tempo, dall’orizzonte visionario di una oligarchia tecno-capitalista, di una metafisica del futuro, la vita su Marte, di metaverso e di intelligenza artificiale. Tutte imprese e progetti che per essere progettati e realizzati richiedono appropriazione e controllo di risorse minerali, di altri territori, che li contengano ovunque essi siano. Razzi, ronde spaziali proiettate verso la possibilità di vita extraterrestre per gli esseri umani, robot, auto senza conducente, finanza globalizzata alla ricerca della prossima shumpeteriana distruzione creativa, industria delle nuove e vecchie energie.
Una accelerazione reazionaria. Non solo Elon Musk, ma un vasto mondo di capitalisti tecnologi e investitori quali Pether Thiel, fondatore di Paypall; il gestore di hedge fund Bill Achamann; il Presidente di JP Morgan Jamie Dimon. Un vasto mondo interessato a integrare il protezionismo con una politica economica e commerciale aggressiva. Oggi, da subito, verso l’Europa, rappresentata, in ragione della sua debolezza tecnologica e politica, come tentata da una maggiore apertura nei confronti della Cina, il competitore e nemico per eccellenza del presente e del futuro americano. L’Europa, vittima designata, già colpita duramente dalle conseguenze della guerra in Ucraina, dalla concorrenza sui capitali condotta a suon di rialzi dei tassi di interesse e dai provvedimenti neomercantilistici varati da Biden (IRA: sussidi ed esenzioni per la produzione e installazione di tecnologie low-carbon, veicoli elettrici, pannelli solari e batterie. Chips Act: sovvenzioni per la manifattura dei semiconduttori). Da questo punto di vita, la trump-economics come ulteriore radicalizzazione della Biden-economics, con le grandi big tec che vedono nella nuova amministrazione l’occasione per avere ancor più campo libero, in particolare nel settore digitale.
L’Europa come ventre molle dell’impero americano, altro che chiusura dell’impero americano nei confini della Repubblica Usa. Altro che deglobalizzazione. Piuttosto, conservazione del benessere e dell’identità americana affidate al dominio della globalizzazione da parte delle tecno-economie capitaliste di un Continente che si pensa tutt’altro che chiuso nei suoi confini. Che continua a vedere il mondo e il cosmo come un’open space.
Questa è l’ideologia profonda, non da oggi, dell’impero. Una ideologia americana, declinazione attualizzata, in salsa trumpiano-muskiana, della dottrina Monroe.
All’origine, nell’Ottocento, una dottrina a tutela dell’emisfero occidentale contro le pretese colonialiste del Vecchio mondo, nel presupposto che tutto il continente americano fosse parte della ‘naturale’ sfera d’influenza degli Stati Uniti. Annuncio di una Translatio imperi che si dispiegherà compiutamente nel corso del XX secolo. Quando? Quando la rivoluzione spaziale della moderna aeronautica (e poi della radio, del telefono, del telegrafo, dei media e oggi delle tecnologie dell’informazione) ridurrà grandemente le distanze spazio-temporali e gli Usa cominceranno a ‘leggere’ anche le vicende che si svolgono da altre parti del mondo come qualcosa che li riguarda, qualcosa che offre loro la chance di porsi alla guida di una nuova epoca.
Siamo, per così dire, alla dottrina Monroe 2.0. Una torsione espressamente imperialista della dottrina Monroe, eticamente legittimata da una narrazione progressiva dei destini dell’umanità. Grazie alla densa connettività assicurata dall’elemento aria, il mondo può, infatti, ora venire rappresentato come ‘ontologicamente’ più piccolo, più globale, più uno (One World) e destinato, man mano che viene sempre più conosciuto e ‘frequentato’ dai popoli, a veder a recedere i conflitti. Un mondo in cui le rivendicazioni nazionalistiche e le politiche di potenza appaiono ‘oggettivamente’ insensate. Recessive, grazie anche all’estensione dei principî ‘pacifici’ dell’economia liberale e dell’economia globale.
Metafisica, a uno sguardo lungo e disincantato. L’Air age ha, invero, il suo “battesimo di fuoco”, in senso reale e metaforico, immediatamente dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor. Si tratta ora di giustificare l’ingresso nella seconda guerra mondiale e di fare degli Stati Uniti il perno del futuro ordine mondiale. Con il connesso potere – diritto-dovere – della potenza in ascesa di esercitare un controllo su larga scala, di garantire, tutte le volte che lo ritenga necessario, la pace attraverso la forza (peace through strength)
La dottrina Monroe in salsa trumpiano-muskiana è una sorta di dottrina Monroe 4.0. Un’altra forma, forse, di imperialismo, ma altrettanto violenta come le annunciate guerre ibride, guerre commerciali, tecnologiche, finanziarie per coloro che non si adeguano alla geografia dei confini a la carte.
Panama, Golfo americano, Canada cinquantunesimo Stato a stelle strisce, non sono un caso, manifestazione di una esuberanza partorita in un momento di incontinenza. E la Groenlandia, al di là del suo specifico valore economico- tecnologico per i materiali che contiene (terre rare, petrolio, gas, ecc.) è un paradigma del trumpiano-muskiano mondo open space. Il simbolo di ciò che la nuova amministrazione statunitense pensa degli spazi e degli altrui territori quando li considera come uno strumento utile per i suoi special interests.
V’ è qui un tratto costante dell’ideologia americana, il cui lessico e la cui mutevole strumentazione non devono far velo sui suoi evidenti tratti di continuità. L’ideologia europea è attrezzata a fare i conti con le “Nuove Compagnie delle Indie” alla Musk che vogliono essere libere di occupare i territori del Vecchio continente, libere di scorrazzare senza vincoli e regole nei suoi spazi? È il tema che, assai sinteticamente e sommariamente, toccherò nella seconda parte del mio azzardato excursus.
L’Europa, nei termini che ho già evocato, è una delle poste in gioco della nuova Presidenza imperiale americana, l’Europa è nell’agenda del trumpismo. Bene, anzi male. Male perché l’Europa e la sua principale proiezione istituzionale, l’Unione, oggi non è affatto attrezzata per questa vera e propria sfida esistenziale. Perché? Per, si dirà, il peso della storia, per il peso di un Continente che per secoli nella modernità si è pensato come il centro del mondo, come il centro dell’impero ma ha poi dovuto cedere lo scettro del comando al Continente che essa aveva scoperto e inventato. E poi, con la seconda guerra mondiale, l’umiliazione di essere stata salvata dal disastro in cui si era cacciata da due potenze extraeuropee, dalla Russia e dagli Stati Uniti.
C’è del vero in questa ideologia consolatoria sul declino del Vecchio continente. Ma l’Europa non si è fermata nel secondo dopoguerra a contemplare il destino cinico e baro e ha provato a ricostruirsi e a giocare un ruolo di potenza civile che, in continuità con la parte migliore della sua storia, ne riscattasse l’immagine e il ruolo. Facesse dell’Europa persino un modello, si pensi al suo Stato sociale, allo straordinario sviluppo che questo ha avuto nei cosiddetti trenta d’oro (1945-1975) e al decisivo contributo che l’Europa sociale ha dato alla rinascita anche economica e materiale del Vecchio continente.
Parallelamente a questa sacrosanta ricostruzione dell’identità civile e sociale, l’ideologia europea si è misurata anche con il tema di come riscostruire la sua autonomia politica in un mondo prima bipolare, poi unipolare e oggi, di fatto, multipolare. E lo ha fatto essenzialmente con due discorsi molto diversi tra loro ma che in tempi recenti sembrano convergere in un comune paradigma tecno-sovranista.
Chiamerò, per comodità comunicativa, il primo discorso, il discorso del giurista. E il secondo discorso, il discorso del geopolitico.
Il discorso del giurista è quello sostanzialmente delle classi dirigenti del secondo dopoguerra. È il discorso di chi affida la ricostruzione dell’autonomia politica del Vecchio continente all’“unione sempre più stretta dei popoli europei”, un’espressione normativa sempre presente in tutti i Trattati, da Roma a Lisbona.
A lungo, la conferma delle proprietà magiche dell’unità economica, giuridica, istituzionale è stata a lungo rintracciata in una sorta di legge della storia secondo la quale da quando il processo di integrazione sovranazionale ha mosso i primi passi negli anni ‘50, la Comunità e l’Unione sono sempre uscite, rafforzate dalle crisi. Questa dogmatica certezza è stata scossa, nei primi decenni del ventunesimo secolo, dai concreti rischi di disintegrazione prodotti dalla crisi dei debiti sovrani, dalla Brexit, dalla pandemia e, oggi, dalla guerra in Ucraina. Il fideismo unionista ha così ceduto il passo ad una sua variante, il fideismo identitario: la retorica che recita che sia possibile sopperire al deficit di unità e, quindi, di autonomia con la declamazione retorica dell’identità. L’Europa economica, l’Europa geoeconomica, l’Europa fortezza e così via, a seconda dei tempi.
Il discorso del geopolitico è il discorso della potenza, un discorso a lungo minoritario nel secondo dopoguerra ma che dopo la caduta del Muro di Berlino e la narrazione della fine della storia, ha guadagnato crescenti consensi nelle classi dirigenti unioniste e nel discorso pubblico.
Il discorso del geopolitico suona grosso modo così. Il deficit di autonomia politica dell’Europa non dipende dalla sua incompiuta unità, ma dal fatto che sin dalle origini del processo di integrazione la Comunità prima e l’Unione poi non hanno saputo pensarsi e progettarsi come una vera potenza. La politica è solo potenza e se non lo sei, sei niente; sei solo una pedina nel gioco del Risiko delle grandi potenze, incapace di innalzare confini nei confronti di chi ti invade, persino dei disperati che premono alle tue frontiere per un barlume di benessere.
In Lucio Caracciolo – in particolare nel libro del 2022 La pace è finita – il discorso si radicalizza a tal punto da considerare il fideismo unionista e il discorso del giurista che lo alimenta e legittima come concausa, se non come causa principale, del non essere l’Europa una autonoma potenza politica. Insomma, il discorso retorico dell’unità e dell’identità come una sorta di ideologia consolatoria dell’altrui potenza, della potenza americana in Europa e della propria impotenza.
Sostiene Caracciolo. “L’europeismo ha partecipato e continua a partecipare dello sfarinamento dell’incerto spazio vetero-continentale. Dice Europa e s’accomoda volentieri in Anti-Europa. L’europeismo è antieuropeo, al pari dell’imperialismo americano”. Quello dell’Europa unita, incalza Caracciolo, è un miraggio che affonda le sue origini “nella radice illuministica virata in hegelismi e marxismi vari da cui germina il mito del dopo-storia”. Così, in un sol colpo, Caracciolo liquida il pensiero occidentale moderno, tutto accomunato dall’ingenua pretesa di ricavare dal dover essere, dall’imperativo dell’Europa come destino, l’essere, l’Europa unita.
Per Caracciolo questa ideologia è stata alimentata dal complice ipnotico universo europeista della pace perpetua. Pura idea perché a differenza della fine della storia in salsa americana, non poggia su un soggetto geopolitico, ma sorge dalla sconfitta post 1945 quale onirica compensazione della retrocessione delle potenze europee da dominanti a suffraganee dell’egemone a stelle e strisce.
Una condanna senza appello, quella di Caracciolo. L’idea di Europa ha perso perché, incalza il Direttore di Limes, nega la storia. E ne è, dunque, negata. È utopia, senza spazio e senza tempo. Metaverso ante litteram. Più degli americani, “abbiamo davvero creduto” di essere lo scopo della storia: “abbiamo immaginato l’Europa come lo spazio che per primo avrebbe superato lo Stato nazionale in vista di un utopico impero universale del diritto e della pace”.
La prosa è seducente e graffiante. Ma non mi persuade, né dal punto di vista filosofico né da quello storiografico. Non ho il tempo oggi per soffermarmi sul valore politico e profetico della kantiana idea regolativa della “pace perpetua”, né sul significato epocale, emancipatorio, che nella storia del mondo hanno avuto le due rivoluzioni dell’illuminismo europeo, la Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione russa del 1917, senza le quali nemmeno Caracciolo potrebbe pensare e oggi noi non saremmo qui nemmeno a discutere.
Non mi persuade ma non è questo oggi il punto. Il punto è che la geopolitica popolare alla Caracciolo è diventata da qualche tempo l’ideologia dell’Unione europea e la logica della potenza il suo linguaggio ufficiale. L’Europa geopolitica di cui parla sempre, più o meno a sproposito, la Signora Von der Lyen. L’Europa della sicurezza militare e tecnologica di cui parla spesso anche il nostro Mario Draghi. L’Europa potenza militare. L’ascesa di un inedito sovranismo all’insegna del motto Europe first mimando – ‘a fin di bene’, naturalmente – il trumpiano America first.
Un sovranismo europeo ‘emancipato’ dalle autarchiche pulsioni dei sovranismi nazionalistici, tanto se questi non dovessero convincersi da soli della loro impresentabilità, ci sarà sempre in Romania – e da qualche altra parte – un’Alta Corte pronta d’impero a cancellarli dall’agone democratica. A conferma del fatto che il problema drammatico dei prossimi anni non è la grande distanza tra regimi autocratici e regimi democratici, ma il fatto che i secondi assomigliano sempre più ai primi e con i primi condividono le medesime pulsioni e posture belliciste.
Per avere un nostro posto nel mondo io penso che bisogna uscire tanto dall’integralismo formalista del giurista quanto dall’integralismo della forza del geopolitico. Né il fideismo unionista del primo, né il fideismo della potenza del secondo, sono un terreno adeguato e favorevole per l’autonomia dell’Europa.
La vera e autentica autonomia – la madre di tutte le autonomie – è l’autonomia dall’appropriazione senza confini delle forze che governano i mercati, autonomia dalla supposta neutralità, razionalità e trasparenza della tecno-economia capitalista. È solo esteriormente che l’attuale postura atlantista-bellicista delle classi dirigenti dell’Unione ripara a questo deficit di autonomia. In realtà, prefigura, un’Europa ancor più dipendente e subalterna. Un’Europa a rimorchio dell’odierno disordine globale che “regna” nel mondo, lontana dall’essere un soggetto di riferimento capace di indicare quell’orizzonte di giustizia, di cooperazione, di pace che sia pur, tra freni e timidezze, i padri fondatori del processo di integrazione europee avevano indicato quando collegavano strettamente il processo di integrazione sovranazionale ad un riscatto dell’Europa dal suo passato coloniale e allo sviluppo civile, sociale ed economico dell’Africa.
Ci vorrebbe autonomia di pensiero, oggi merce rara tanto tra gli intellettuali quanto tra le classi dirigenti dell’Unione. E, siccome l’autonomia di pensiero è come il coraggio di manzoniana memoria (“uno, se non c’è l’ha, mica se lo può dare”), il tema è allora quello di come rifondarla questa autonomia. Come, cioè, mandare pacificamente in pensione gli attuali governanti e costruire una classe dirigente all’altezza della sfida della space age.
Se non vogliamo contrapporre a questa sfida il regno di utopia e dei buoni sentimenti dobbiamo essere consapevoli – come esemplarmente emerge dalla narrazione trumpista-muskiana del mondo – che la specifica forma nella quale il politico è tornando in auge è sempre più quella della lingua della potenza. “Lo Stato e l’impresa – come aveva già intravisto mezzo secolo fa Jean-François Lyotard, il cantore della condizione post-moderna – abbandonano la narrazione legittimante idealista o umanista per giustificare il nuovo gioco: quello della potenza. Non si assumono scienziati e tecnici, né si acquistano apparecchiature, per sapere la verità, ma per accrescere la potenza”.
La forza normativa – pratica e visionaria di questa narrazione – è enorme. Solo un’altra e autonoma narrazione del mondo può frenarne la deriva distruttiva. Hic Rhodus, hic salta.
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