Tra Nietzsche e Auschwitz
di Salvatore Muscolino
Discutere di Adorno a 50 anni dalla morte significa discutere di un intellettuale decisamente fuori moda soprattutto perché la società è affetta oggi da uno specialismo sfrenato che è quanto di più lontano vi sia dall’idea che egli aveva dell’intellettuale e del sapere.
Protagonista indiscusso della prima generazione della Scuola di Francoforte, Adorno ha offerto contributi sul piano della critica musicale, su quello sociologico e filosofico che sono fondamentali per comprendere un’intera stagione della storia culturale europea ed Occidentale.
In questa occasione, la domanda alla quale vorrei provare a rispondere è se l’impianto categoriale del pensiero di Adorno sia ancora oggi valido considerato che la sua opera ha costituito e costituisce un punto di riferimento imprescindibile per tutti coloro si richiamano alla grande eredità della Teoria critica: penso a Jürgen Habermas, Albert Wellmer, Axel Honneth fino ad arrivare agli esponenti più giovani come Rahael Jaeggi.
Lo scenario nel quale viviamo oggi è quello della cosiddetta postmodernità e quindi per una valutazione d'insieme del pensiero di Adorno è necessario interrogarsi su come egli si collochi rispetto a questo orizzonte culturale. Ad uno sguardo complessivo, credo che non sia azzardato considerare l’intera riflessione adorniana come un chiaro esempio del carattere “tragico” del pensiero filosofico dopo Nietzsche. È Nietzsche infatti il campione di quel “pensiero negativo” che attaccando la soggettività moderna e rifiutando qualsiasi mediazione razionale tra pensiero e mondo ha portato il logos filosofico ad esaurimento riducendolo sostanzialmente a “volontà di potenza”. Se il problema della filosofia contemporanea è il nichilismo, Nietzsche è colui che sostenendo la sconnessione di pensiero e realtà e riducendo tutto a “interpretazione” deve essere considerato il vero “profeta” della parabola del pensiero novecentesco verso il nichilismo.
Nella critica radicale operata da Nietzsche vengono coinvolti non soltanto il pensiero razionalistico da Platone a Kant ma anche quello dialettico hegelo-marxista perché entrambi ripresentano, camuffati, la “mediazione” introdotta dalla religione giudaico-cristiana (e la conseguente sconnessione tra Vita e civiltà).1 Il pensiero critico-dialettico, inaugurato da Hegel e recuperato dalla Scuola di Francoforte, viene rovesciato però da Adorno e spinto fino alle sue possibilità ultime: Dialettica Negativa infatti non è soltanto il testamento propriamente filosofico di Adorno (insieme alla Teoria estetica) ma potrebbe essere interpretato anche come l’esaurimento del pensiero dialettico- negativo.
Dopo Adorno, infatti, la svolta comunicativa impressa alla Teoria critica da Habermas rappresenta un chiaro congedo dal Negativismo adorniano mentre la recente “svolta” hegeliana propugnata da Axel Honneth, sebbene sia finalizzata al recupero di un impianto critico-dialettico, si fonda però su una visione della Modernità e della democrazia formale difficilmente inquadrabile, mi pare, all’interno di un impianto categoriale rigorosamente adorniano.
Questo primo ordine di considerazioni consente una prima conclusione sull’attualità del pensiero di Adorno: la sua opera rappresenta l’apice filosofico (e/o metafisico?) del pensiero critico- dialettico che oggi appare difficilmente riproponibile nel suo Negativismo radicale come mostrano i principali sviluppi interni alla stessa Scuola di Francoforte.
È possibile, tuttavia, interrogarsi sulle istanze originarie del pensiero adorniano (e quindi anche della Teoria critica) per cercare di capire se si tratte di istanze ancora valide e attuali al di là dell’impianto categoriale del pensiero di Adorno.
Il contributo adorniano, ma forse più in generale l’ambizione della Teoria critica nel suo insieme, è infatti quello di declinare una nuova forma di “marxismo” dopo Nietzsche (e dopo Freud!). Nelle prime pagine di Dialettica dell’Illuminismo, che rimane un’opera chiave per comprendere Adorno, il riferimento al carattere radicalmente storico della “verità” è senza ombra di dubbio un chiaro tributo pagato a Nietzsche.
Tuttavia, contra Nietzsche, l’attenzione alla categoria illuminista e marxista dell’emancipazione si pone come una sorta di correttivo che Adorno e i francofortesi hanno difeso contro l’abisso del nichilismo verso il quale ricadono le varie forme di filosofia postnietzschiana da Heidegger a Foucault e ai vari postmodernismi.
Non essendo possibile fare un’analisi complessiva e sistematica dell’opera di Adorno vorrei limitarmi soltanto ad evidenziare alcuni spunti di riflessione sulla sua produzione filosofica più matura.
Come ormai è noto, infatti, nell’ultimo decennio della sua vita Adorno è impegnato soprattutto nella stesura di Dialettica negativa (poi pubblicata nel 1966) e nel 1960-61, nel 1964-65 e nel 1965-66 tiene corsi sull’ontologia e la dialettica, sulla storia e la libertà e sulla dialettica negativa. Direi che nelle riflessioni adorniane di questi anni emerge la profondità degli interessi squisitamente filosofico-metafisici del nostro autore. Non è un caso infatti che l’ultima parte di Dialettica negativa sia intitolata proprio Meditazioni sulla metafisica perché Adorno ha perfettamente chiaro come la “metafisica” sia inaggirabile. Bisogna intendersi, però, su che cosa significhi la parola metafisica nel lessico adorniano.
Sostanzialmente Adorno usa questa parola in due diverse accezioni, una negativa e una positiva.
Quella negativa è mutuata proprio da Nietzsche: si tratta della tentazione da sempre presente nel pensiero filosofico di individuare un mondo trascendente, eterno, immutabile che costituisca l’autentica realtà/verità rispetto al mondo sensibile, effimero e falso.2 Questo modo di intendere la metafisica è giudicato negativamente perché porta a svalutare la reale e concreta esperienza umana in tutte le sue molteplici declinazioni nella speranza di ridurre il mondo dell’esperienza a un principio unitario, stabile e positivo. Il pensiero metafisico, per Adorno, è basato pertanto sul principio d’identità cioè sul tentativo di esprimere in modo concettuale la “positività” dell’essere. Quest’ultimo, in conclusione, viene interpretato come un qualcosa di stabile, appunto non soggetto al divenire storico. Siccome il pensiero metafisico è un pensiero di tipo concettuale, tutta la storia occidentale altro non è quindi che la conseguenza del gesto metafisico iniziale: l’affermazione del primato del concetto e della forma rispetto a ciò che è materiale, mutevole…3
La seconda accezione, quella positiva, ricorre invece quando Adorno parla di “esperienza metafisica”, cioè quel confrontarsi del pensiero umano con le “domande ultime” che però non assume affatto una valenza affermativa, come accade nella metafisica tradizionale, ma piuttosto critico- negativa.4 Alla filosofia/metafisica è connesso strutturalmente questo momento critico verso l’esistente che è necessario per garantire il carattere “aperto” del pensiero: quest’ultimo allora deve basarsi sul non- identico, ossia su ciò che non è sussunto sotto la tirannia del concetto e che resiste ad ogni “omologazione”.5
In altre parole, per Adorno, il compito della metafisica, cioè del pensiero critico-dialettico, è quello di mantenersi continuamente aperto verso il superamento dei concetti stessi sui quali esso necessariamente si basa. Nel lessico adorniano ciò significa garantire il “primato dell’oggetto” nel senso che il Reale non può mai essere assorbito interamente dal pensiero come è accaduto nell’idealismo. Trattandosi di una conoscenza di tipo concettuale, la filosofia deve sempre combattere contro questa tensione/ambizione a sussumere il Reale sotto di sé senza riuscire a “tutelarlo” nella sua alterità.6 Questo è il significato della famosa frase contenuta in Dialettica negativa: «L’utopia della conoscenza sarebbe quella di aprire l’aconcettuale con i concetti, senza omologarlo a essi».7
Il dramma dell’esistenza e del pensiero è che tutta la storia umana, cioè ciò che noi chiamiamo civiltà (Kultur), non consiste in altro se non nella «repressione della natura e delle tracce della natura non dominata».8 La storia umana viene pertanto riletta da Adorno secondo una griglia di tipo freudiano9 per cui l’essere umano e/o la natura, è sottoposto ad un processo di repressione della propria energia pulsionale da parte della civiltà.
Ancora una volta è Nietzsche, per Adorno, ad aver colto “filosoficamente” in tutta la sua profondità questa grande sovrastruttura che regge la storia umana.10 Conseguentemente a questo schema, sul quale per altro si fonda Dialettica dell’Illuminismo, Adorno crede che sia nel campo nell’arte che il non-identico riesce ad emergere contro la reificazione totale del Reale. Per adempiere a questo scopo, la musica, la poesia, il teatro… devono possedere un carattere di “negazione” rispetto al concetto e al pensiero reificante: «Tutte le opere d’arte, anche quelle affermative, sono a priori polemiche. L’idea di un’opera d’arte conservatrice è un controsenso. Separandosi enfaticamente dal mondo empirico, dal loro altro, esse rivelano che questo mondo deve diventare altro, e sono così inconsapevoli prototipi del cambiamento del mondo».11
Qui, a mio avviso, emerge un secondo elemento problematico nel pensiero di Adorno: la ragione umana viene da lui concepita come “ragione strumentale” cioè come ragione finalizzata alla sottomissione del proprio “oggetto”, sia questo la natura o l’uomo stesso. Influenzato, come tutti i primi francofortesi dalle analisi weberiane e freudiane, Adorno ricostruisce, come ho accenavo prima, la storia della cultura umana come una forma di progressiva repressione della natura e dell’uomo nel tentativo, tipico della metafisica tradizionale, di ridurre tutto al principio di identità. Per questa ragione il luogo privilegiato in cui il “non-identico” può reclamare i propri diritti contro la “ragione strumentale” diventano le varie forme di produzione musicale, artistica e letteraria. Nell’ambito “filosofico”, invece, il compito della critica si limita, dialetticamente, a mantenere una dinamica di “apertura” contro la “chiusura in sé” del pensiero.12
In generale, il “non-identico” emerge come “sofferenza” contro i meccanismi di riproduzione sociali che mortificano le esigenze umane che sono innanzitutto di tipo corporeo: «Il momento corporeo annuncia alla conoscenza che la sofferenza non deve esserci, che deve andare diversamente».13 La speranza e la tensione utopica verso una realtà alternativa a quella esistente sono legati quindi alla categoria della sofferenza. Il “dolore” e la “negatività”, scrive Adorno, sono il motore del pensiero dialettico14 per cui, freudianamente, egli crede che essi emergano come sintomi di patologie sociali che sono frutto sostanzialmente di un ego che si percepisce come danneggiato nella sua razionalità.15
Nel Novecento, l’apice della “sofferenza” intesa come sintomo della patologia sociale complessiva della Modernità è Auschwitz. Il genocidio, infatti, è l’applicazione perfetta di quel principio di identità che muove la storia umana ab origine. Infatti, se è vero che negli ultimi anni Adorno lascia aperta la questione intorno all’origine dell’antagonismo, sia esso stato un evento contingente o necessario nella storia umana,16 è vero anche che una volta iniziato il “processo” esso appare de facto irreversibile. Il principio di identità che si manifesta nella ragione universale è contraddittorio in sé perché «esso perpetua la non-identità in quanto repressa e offesa».17
Credo di non far torto alla logica implicita del discorso adorniano dicendo che Auschwitz non rappresenta soltanto la manifestazione chiara del carattere illusorio di ogni metafisica ottimista. Più in profondità, sembra che Auschwitz rappresenti in sé l’esito necessario della storia umana figlia del gesto metafisico iniziale.
Questa conclusione mi sembra implicita nelle pagine in cui Adorno si interroga sul problema della “morte”. Adorno prende posizione contro Schopenhauer e Heidegger sostenendo che l’esperienza della “morte” non è “fenomeno biologico originario”18 ma è intrecciato piuttosto alle dinamiche socio- storiche. Per questa ragione, la morte ad Auschwitz ha assunto un carattere nuovo legato alla soppressione totale di ogni particolarità, cioè di ciò che di più importante vi sia per l’uomo:
«L’individuo viene espropriato della cosa ultima e più misera rimastagli. Che nei campi di concentramento non fu più l’individuo a morire, ma l’esemplare, modifica necessariamente anche il morire al provvedimento. Il genocidio è l’integrazione assoluta, che si prepara ovunque gli uomini vengono omologati […] Auschwitz conferma il filosofema che la pura identità è la morte».19
Benché Adorno voglia prendere le distanze da Heidegger sottolineando il carattere storico dell’esperienza della morte, in realtà però finisce con il “comprendere” Auschwitz con una griglia molto simile a quella utilizzata dal suo rivale.
Già in Minima moralia (1951), Adorno scrive: «Le distruzioni delle città europee, come i campi di lavoro e di concentramento, non fanno che eseguire e completare ciò che lo sviluppo immanente della tecnica ha deciso da tempo circa il destino delle cose».20
In modo analogo nel 1949, Heidegger discutendo l’ambiguo concetto del Gestellt commenta in questo modo la tragedia dei campi di concentramento: «L’agricoltura è oggi industria alimentare meccanizzata, che nella sua essenza è lo Stesso della fabbricazione di cadaveri nelle camere a gas e nei campi di concentramento, lo stesso del blocco e dell’affamamento di intere nazioni, lo stesso della fabbricazione di bombe all’idrogeno».21 22
Pur dissentendo radicalmente da Heidegger di cui lamenta la profonda ambiguità verso il nazismo, Adorno sembra condividerne nella sostanza la griglia interpretativa: ad Auschwitz l’evoluzione “necessaria” del gesto metafisico iniziale verso la catastrofe raggiunge l’apice. Certamente, però, Adorno mantiene una sensibilità “morale” verso questo “epilogo tragico” della storia della metafisica che in Heidegger, come noto, non si ritrova.
Da questa cornice discende il monito adorniano: dopo Auschwitz nessuna parola, nemmeno quella teologica «ha immutato diritto».23
A questo punto credo che emerga la ragione per la quale il pensiero adorniano, ma più in generale la Teoria critica, pur muovendosi dopo Nietzsche, si ponga in netta antitesi agli sviluppi nichilistici propri del pensiero postmoderno. È lecito domandarsi, infatti, come Auschwitz possa essere considerata una “tragedia” nell’ambito di una negazione radicale del Logos come accade nel paradigma postmoderno.
Non è un caso che sia Habermas che Honneth, cioè i principali esponenti della seconda e terza generazione della Scuola di Francoforte, abbiano insistito nel prendere le distanze dagli autori postmoderni incapaci, ai loro occhi, di dar vita ad un pensiero realmente critico verso l’esistente in grado poi di arginare la razionalità strategico-strumentale tipica della forma-di-vita capitalistica, anzi ponendosi quasi come sovrastruttura culturale del capitalismo stesso.24 In questo senso, sia Habermas che Honneth mantengono in vita proprio l’istanza adorniana di una “critica razionale” verso l’esistente per non sfociare in un nichilismo disperato dove anche Auschwitz rischi di diventare un mero “accidente” come tanti altri.
Detto questo, però, è giusto domandarsi se l’impianto categoriale di Adorno nel suo insieme non porti ad esiti problematici. Personalmente, credo che proprio gli sviluppi impressi da Habermas aiutino a far luce sulle aporie alle quali va incontro il Negativismo adorniano.
Il presupposto adorniano per il quale l’energia critico-dialettica emerge in certe forme di musica o di letteratura il cui qualificatore è la “negazione” suscita infatti le seguenti domande: è possibile fare ancora teatro dopo Beckett? È possibile fare musica dopo Schönberg?25
A queste domande, se ne potrebbe aggiungere un’altra non meno importante: è giusto considerare la democrazia formale, per quanto imperfetta, quasi al pari del totalitarismo? Questi possibili esiti paradossali hanno spinto Habermas a proporre uno sviluppo della Teoria critica in grado di garantire una valutazione più ottimistica della democrazia e della Modernità e in generale della storia umana nel suo insieme. Per evitare il rischio di un pensiero come quello adorniano dove le tensioni utopiche e messianiche (l’unico modo, cioè, di parlare ancora di emancipazione!) possono emergere solo in prossimità della “catastrofe”, cioè quando la dinamica di Aufklärung si è manifestata nella sua pienezza (Auschwitz), Habermas difende una forma di razionalità comunicativa accanto alla razionalità strumentale: grazie ad essa egli cerca di difendere l’utilità delle procedure democratiche come le uniche in grado di salvare un’idea di “validità razionale” delle norme giuridiche e morali in uno scenario senza dubbio post-metafisico ma non necessariamente nichilista.
Più in generale, la svolta comunicativa impressa da Habermas alla Teoria critica è utile anche per una lettura della Modernità meno unilaterale rispetto a quella adorniana la quale, paradossalmente, rischia di avvicinarsi troppo a quella di un autore come Foucault che, da parte sua, rileggendo la Modernità tramite la griglia della biopolitica, sembra non riconosce alcuna conquista in termini di emancipazione alle grandi lotte condotte in età moderna.
D’altra parte, proprio in riferimento ad Auschwitz, il dovere della “memoria” affinché la tragedia non si ripeta non può non presentarsi oggi come un compito “collettivo” che va garantito dalla società democratica per la società democratica. Come ha osservato con grande amarezza Primo Levi, i responsabili dell’Olocausto non erano mostri ma esseri umani tanto quanto le vittime, solo che «erano stati educati male».26 Allora la difesa della Memoria oggi è un dovere “collettivo” che va articolato dentro la prassi democratica a tutti i livelli perché solo la democrazia, per quanto imperfetta e viziata da logiche distorsive di varia natura, può mantenerla in vita con la consapevolezza che ciò che è accaduto «può accadere ancora».27
Dal mio punto di vista, allora, difendere la razionalità comunicativa come proposto da Habermas è stato certamente un passaggio fondamentale all’interno della Scuola di Francoforte contro gli esiti problematici del Negativismo adorniano. Come emerge, tuttavia, nell’ultima produzione habermasiana, il limite del pensiero post-metafisico emerge laddove le “questioni ultime” espulse dalla porta rientrano dalla finestra. In una conferenza del 14 ottobre 2001, Habermas rileva, a proposito della questione del “male”, come la filosofia debba mantenere un rapporto di dialogo con la religione (soprattutto quella cristiana) proprio per salvaguardare quei contenuti etico-normativi che la “ragione comunicativa” non sembra in grado di garantire da sola in una società secolarizzata: «Come oggi risulta chiaro da uno spregiudicato riattualizzarsi di questa eredità biblica, non disponiamo ancora di un concetto adeguato per definire la differenza semantica tra ciò che è moralmente sbagliato e ciò che è realmente malvagio nel senso più profondo».28
Le parole di Habermas rappresentano la presa d’atto dei limiti strutturali di un pensiero post- metafisico che, come è stato giustamente osservato, non è assimilabile al pensiero adorniano che nell’“esperienza metafisica” mantiene invece un afflato forte verso le “questioni ultime” in linea con la tradizione filosofica occidentale.29
Allora, come ha sostenuto giustamente Adorno, è il riferimento alle questioni ultime a rendere la “tensione metafisica” il qualificatore fondamentale dell’essere umano. A noi tocca oggi il compito di decidere se tale compito può essere declinato soltanto in chiave dialettico-negativa con gli aspetti problematici ad essi connessi oppure se sono possibili percorsi alternativi.
Comments
Heidegger concluse che solo un dio ci può salvare.
Sia Gesù Cristo il salvatore assoluto che Karl Marx il tedentore dalla schiavitù del capitale sulla terra si o incontrano in una sorta di ontologia politica e della prassi già al di là di ogni metafisica e al di la del bene e del male su un terreno religioso.