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manifesto

Regole e deregulation, risposta a Guido Rossi

di Alberto Burgio

L'intervento di Guido Rossi (il manifesto 26/11) mette con forza l'accento sulla gravità della recessione mondiale, non esitando a compararne gli effetti con quelli di possibili «rischi apocalittici», dalla guerra atomica al collasso ambientale, alle pandemie prodotte dall'uso sconsiderato delle biotecnologie. Sono paragoni scioccanti, ma qualche volta è meglio esagerare - sempre che di eccessi si tratti - che sottovalutare.

Il discorso è importante, considerata la portata delle conseguenze sociali della crisi, anche sul versante delle contromisure. Rossi indica con chiarezza una strada: l'imposizione, da parte dei Paesi più influenti sulle dinamiche di sviluppo (a cominciare dall'Ue), di norme e sanzioni ispirate a principi giuridici globali (global legal standards) rispettosi dei diritti umani. L'idea è che una nuova disciplina giuridica globale sia necessaria per arrestare la dinamica in atto e per impedire l'esplosione di nuove crisi sistemiche.

Per molti versi condivisibile, questa impostazione suscita tuttavia qualche dubbio circa l'efficacia della proposta. Rossi punta il dito sull'assenza (o inadeguatezza) delle regole incaricate di disciplinare l'attività finanziaria (in particolare gli investimenti speculativi), sulla carenza (o assenza) di controlli e sulla frequenza di gravi violazioni. Il problema c'è ed è indubbiamente grave, anche se non convincono le analisi (non per caso diffuse) che vi scorgono la causa principale della crisi. Il deficit di regolamentazione e la strenua difesa della forma giuridica delle spa, basata sulla responsabilità limitata degli azionisti (una vera e propria istigazione al rischio iperspeculativo), recano la responsabilità dell'abnorme estensione della leva speculativa verificatasi nel corso dell'ultimo quindicennio, della opacità nell'impiego delle risorse investite, della proliferazione di paradisi fiscali e dell'uso criminale delle informazioni (insider trading) da parte di managers super-pagati. Il punto è che per affrontare correttamente questo problema bisogna fare un passo ulteriore: chiedersi da dove derivi un deficit di regole, controlli e sanzioni che è stato un aspetto fondamentale del modello di sviluppo affermatosi nel corso degli ultimi trent'anni.

Si è forse trattato di sviste, errori, omissioni? Di manifestazioni di miopia o irrazionalità? Il limite di giudizi del genere è che i criteri in base ai quali sono formulati ignorano i moventi di attori-chiave, a cominciare dai detentori di grandi capitali finanziari. È banale, ma conviene tenerlo presente: un'azione «irrazionale» dal punto di vista generale può essere del tutto razionale da qualche punto di vista particolare. In questo caso: la de-regolamentazione delle attività finanziarie (e non solo) è stata perseguita con determinazione e sistematicità - razionalmente - sin dagli anni di Reagan, e ha conosciuto un trionfo con Clinton e Bush jr., in quanto è servita a imporre nuove regole del gioco. Spesso non lo si vede perché si rimane prigionieri dello schema ideologico che rappresenta il liberismo come assenza di politica, credendo davvero che esso consista nell'autoregolamentazione dei mercati. A dimostrazione che nei provvedimenti assunti o omessi a cavallo tra gli anni Novanta e i primi di questo decennio (l'abolizione dei vincoli all'impiego speculativo dei depositi da parte delle banche commerciali, la mancata regolamentazione dei derivati, la tolleranza di un rapporto di 30:1 tra debito e capitale) non vi sia nulla di improvvisato, è bene considerare che essi ricalcano il complesso delle scelte che negli anni '20 portarono alla Grande crisi.

La de-regolamentazione ha permesso la finanziarizzazione dell'economia globale, e quest'ultima non ha solo prodotto una upper class di magnati: è stata (con le guerre umanitarie o preventive) lo snodo cruciale per la costituzione di un'enorme potere del capitale privato nel conflitto con il lavoro (via delocalizzazione e precarizzazione) e con i poteri politici democratici, forzandoli a massicce privatizzazioni. In Italia dovremmo essere facilitati nello sforzo di riconoscere il ruolo costituente della de-regolamentazione: chi potrebbe pensare che la de-penalizzazione di gravi reati finanziari (voluta dalla destra e non abrogata dal centrosinistra) sia casuale, e non un cardine di un modello sociale e di governo?

Il nesso che salda de-regolamentazione giuridica e costituzione materiale del neoliberismo suggerisce che difficilmente l'introduzione (di per sé necessaria) di nuove regole giuridiche potrebbe essere sufficiente a risolvere questa crisi e a prevenirne di nuove. Anzi: autorizza seri dubbi sulla stessa possibilità di introdurre, rebus sic stantibus, regole giuridiche efficaci a questo fine (come sembrano dimostrare la presenza nell'amministrazione Obama di grandi architetti della deregulation del calibro di Larry Summers e Timothy Geithner, o la sorte toccata ancora di recente alla rinnovata proposta di introdurre la Tobin tax).

Allora forse bisogna porsi anche un'altra domanda: c'è la volontà (e la forza) di mettere in discussione non soltanto la disciplina giuridica vigente ma anche la realtà materiale (sociale-economica) soggiacente: il complesso di interessi e poteri oligarchici consolidatosi grazie alle norme giuridiche vigenti? In positivo: c'è la volontà (la forza) di imporre una programmazione pubblica dello sviluppo coerente con precisi obiettivi e vincoli: piena occupazione, distribuzione equa della ricchezza sociale, compatibilità sociale e ambientale della produzione (de-mercificazione di risorse e servizi costitutivi del diritto di cittadinanza)?

Domande retoriche, si dirà, almeno a giudicare dalle misure «anti-crisi» sin qui adottate dai governi dei Paesi «avanzati». Ma il fatto che la risposta sia negativa non autorizza la rimozione della domanda. Il terreno problematico sul quale concentrare l'attenzione è questo (e coinvolge un corollario essenziale: la perdurante egemonia del neoliberismo sulla classe dirigente, comprese le principali forze «progressiste»). Tanto più che fermarsi al terreno giuridico, non prendendo in considerazione il terreno sociale-economico soggiacente, comporta un altro problema.

La struttura materiale degli interessi prevalenti definisce in concreto il senso di ciò che si rappresenta come «universale» - e lo connota in chiave particolaristica. Càpita così anche per quei «diritti umani» ai quali si ispirano i global legal standards. Nel nome dei diritti umani sono state scatenate le guerre degli ultimi vent'anni, a partire dalla prima guerra del Golfo. E forse non è casuale che tra i teorici della governance globale figuri Michael Walzer, fautore delle «guerre giuste» in Jugoslavia e Afghanistan e sostenitore del diritto umano di «uccidere deliberatamente degli innocenti» (così Walzer scrisse a proposito dell'attacco a Ground Zero) nel caso in cui sia minacciata la «sopravvivenza morale» di una comunità.

Anche per i principi etici sembra valere quanto osservato a proposito delle norme giuridiche: alla base opera e incide un complesso di interessi materiali che va indagato, poiché conferisce senso, definisce finalità, determina effetti.

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