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L’Europa in preda al panico per la strategia statunitense di stabilità con la Russia
di Alastair Crooke, conflictsforum.substack.com
Alastair Crooke parla della più recente strategia per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Trump che critica il tentativo degli Stati Uniti di ottenere il primato mondiale definendolo un fallimento
Le amministrazioni statunitensi elaborano periodicamente una Strategia per la Sicurezza Nazionale (NSS) (il presidente Donald Trump ne ha redatta una durante il suo primo mandato). Per lo più, questi documenti delineano una versione idealizzata della politica estera e della sicurezza di un’amministrazione e non hanno grande importanza pratica, a causa di ciò che viene tralasciato: gli interessi politici ed economici consolidati degli Stati Uniti; il profondo consenso in politica estera supervisionato dalla classe dirigente dello Stato di sicurezza profonda; e le politiche sostenute dal collettivo dei grandi donatori.
Tuttavia, questo NSS pubblicato di recente si legge in modo piuttosto diverso, attribuendo un distintivo tono “America First” alla politica estera degli Stati Uniti, evitando l’egemonia globale, il “dominio” e le crociate ideologiche, a favore di un realismo pragmatico e transazionale incentrato sulla protezione degli interessi nazionali fondamentali: sicurezza nazionale, prosperità economica e predominio regionale nell’emisfero occidentale.
Gli Stati Uniti, quindi, “non sosterranno più l’intero ordine mondiale come ‘Atlante’ e si aspettano che l’Europa si faccia carico di una parte maggiore dei propri oneri di difesa”, afferma l’NSS.
Critica la precedente ricerca del primato globale da parte degli Stati Uniti definendola “un fallimento” che ha finito per indebolire l’America, e definisce la politica di Trump come una “correzione necessaria” alla posizione precedente. Accetta quindi l’orientamento verso un mondo multipolare.
Due obiettivi chiave della politica estera sono stati sfumati anziché radicalmente riformulati.
In primo luogo, la Cina viene declassata da “minaccia primaria” e “minaccia progressiva” a concorrente economico (Taiwan è considerata uno strumento di deterrenza).
Riguardo alla Russia, si legge:
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Nuova strategia Usa e chi non vuol capire
di Giorgio Ferrari
A proposito della nuova strategia degli Stati Uniti e le reazioni che ha suscitato
L’accoglienza riservata da quasi tutti gli organi di stampa italiani, sopratutto quelli di area esplicitamente democratica, al documento della Casa Bianca (National security strategy 2025) è stata – a mio modo di vedere – ipocrita e anche miope.
Di tutto il suo contenuto, quello che viene posto in risalto è l’attacco all’Europa, omettendo di citarne o banalizzandoli, molti altri aspetti niente affatto irrilevanti.
Ho già espresso il mio punto di vista su Trump (https://www.labottegadelbarbieri.org/la-retorica-del-male-assoluto-e-il-tracollo-della-democrazia/) ma ritengo utile riportare un brano del mio intervento perché mi sembra assolutamente pertinente all’argomento di cui si discute oggi.
Trump ha fatto capire agli alleati europei che l’Atlantismo da Truman in poi (non quello di Roosevelt che era ancora un “patto” anti nazista esteso all’Urss), iniziato con il bombardamento atomico del Giappone e proseguito con la guerra fredda e con la Nato, non gli interessa più di tanto perché è superato dagli eventi storici occorsi negli ultimi 35 anni (caduta dell’Urss) e se l’Europa vuole continuare a mantenerlo in piedi che se lo paghi e, soprattutto, se ne assuma le responsabilità politiche. Queste cose Trump le sosteneva già durante la sua prima presidenza o ci si è dimenticato che il ritiro dall’Afghanistan fu deciso da lui (accordo di Doha del febbraio 2020) e poi effettuato con ritardo da Biden nel 2021? Trump non vuole continuare a finanziare guerre, non perché sia un pacifista, ma perché gli costano molto di più di quanto gli rendano e se ne promuoverà una sarà con la Cina, vero antagonista globale ma soprattutto commerciale, come s’è visto con la guerra dei dazi.
Questa rimodulazione dell’Atlantismo, dopo la pubblicazione del documento della Casa Bianca, è interpretata, a seconda dei casi, come un tradimento; un regalo alla Russia o un tentativo di destabilizzare l’Europa (il più gettonato) e non c’è verso che chi azzarda queste considerazioni le inquadri, con un minimo di realismo, nel contesto internazionale. Ma andiamo con ordine.
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La “brutta vittoria della Russia” e la “finis Europae”
di Eros Barone
1. La crisi finanziaria del 2008 e la svolta protezionista
I massimi rappresentanti della politica internazionale non si peritano di affermare a chiare lettere che la guerra in Ucraina, così come il conflitto israelo-palestinese e, più in generale, i venti di guerra che soffiano impetuosi nel periodo che stiamo vivendo, costituiscono un ‘turning point’ di portata storica non solo sul terreno della definizione dei confini territoriali, ma anche nel senso che gli esiti delle guerre in corso potrebbero contribuire a delineare il volto del futuro economico mondiale. Si tratta, per l’appunto, delle cause materiali dei conflitti militari, ossia degli interessi economici che muovono i conflitti militari contemporanei, in Ucraina e nel resto del mondo.
Orbene, per comprendere questo determinante ordine di cause occorre partire da una grande svolta, che da diversi anni caratterizza la politica economica degli Stati Uniti d’America: la crisi finanziaria del 2008. 1 In quella congiuntura critica gli americani si sono resi conto, infatti, che stavano importando molte più merci di quante ne riuscissero a esportare, e che così stavano accumulando un ingente debito verso l’estero, non solo pubblico ma anche privato: un debito potenzialmente insostenibile. Basti pensare che il passivo netto americano verso l’estero è arrivato a 18.000 miliardi di dollari, un primato negativo senza precedenti. Di contro, l’attivo netto cinese verso l’estero è arrivato a 4.000 miliardi, l’attivo netto russo a 500 miliardi, e così via. Sennonché il problema è che il creditore può utilizzare il suo attivo per cominciare ad acquisire il capitale del debitore. In altre parole, l’Oriente può iniziare a comprare aziende occidentali, ponendo in atto quel fenomeno che Marx definisce come “centralizzazione del capitale” in un nucleo ristretto di grandi imprese. Tale tendenza è tipica del capitalismo; la novità è però che, questa volta, si tratta di grandi imprese orientali.
Dinanzi a questa nuova tendenza, di una potenziale centralizzazione capitalistica nelle mani dei grandi creditori orientali, dal 2008 in poi l’amministrazione americana ha compiuto una svolta: non più verso il libero scambio globale ma verso un protezionismo sempre più unilaterale e aggressivo.
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La ricompensa dei servi (sciocchi)
di Gianandrea Gaiani
Quanto clamore per le dure critiche espresse nei confronti degli europei da Donald Trump e dagli Stati Uniti nel nuovo documento di Strategia di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti, pubblicata dalla Casa Bianca.
Di tale documento si sono già occupati su Analisi Difesa sia Giacomo Gabellini che Giuseppe Gagliano, per cui non staremo a riproporne i contenuti se non per commentare il ruolo dell’Europa. Trump ha di fatto ribadito il disprezzo per la classe dirigente europea, o almeno per gran parte di essa, come aveva già fatto il vicepresidente JD Vance lo scorso anno alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco.
L’Amministrazione Trump denuncia le “aspettative irrealistiche” dei leader europei sulla guerra in Ucraina, cioè siamo così creduloni da ritenere che gli ucraini possano vincere quella guerra che proprio gli statunitensi della precedente amministrazione Biden e i britannici ci hanno imposto di continuare a sostenere perché avrebbe logorato la Russia.
Il documento statunitense parla apertamente di una “’progressiva erosione della civiltà europea”. L’Europa “rischia di diventare irriconoscibile entro vent’anni o meno” se le tendenze attuali non verranno invertite, riferendosi soprattutto a immigrazione selvaggia, crollo demografico, perdita delle identità nazionali e della fiducia collettiva a causa del dirigismo della Ue.
Trump ha perfettamente ragione in proposito ma, a dire il vero, non mi pare che in termini di immigrazione e sicurezza le città americane stiano meglio di quelle europee, considerato che lo stesso Trump le ha definite dei “campi di battaglia”.
L’agenda europea – ha detto il vice segretario di Stato Christopher Landau – è “contraria agli interessi americani” e la “burocrazia non eletta, antidemocratica e non rappresentativa dell’Ue a Bruxelles persegue politiche di suicidio di civiltà”.
Anche questa affermazione appare condivisibile nella sua seconda parte mentre l’affermazione “l’agenda europea è contraria agli interessi americani” tradisce l’aspettativa padronale tipica dell’atteggiamento statunitense nei confronti delle “colonie”.
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Una strategia per un mondo che non esiste più
di Giuseppe Gagliano
La nuova Strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, pubblicata nel novembre 2025, è un testo che pretende di essere una bussola per i prossimi anni, ma finisce per somigliare più a una dichiarazione d’intenti ideologica che a un vero manuale di sopravvivenza in un mondo complesso e frammentato. Dietro il linguaggio solenne, le celebrazioni dell’“America forte” e i toni autocelebrativi, si intravede una potenza che fatica a riconoscere i propri limiti e a convivere con la fine della propria supremazia indiscussa.
Il documento parte da un atto d’accusa contro le élite del dopo guerra fredda: avrebbero inseguito il miraggio di un dominio planetario permanente, sacrificando industria nazionale, classe media e credibilità internazionale. Per rimediare, la nuova linea propone un ritorno alla “priorità degli interessi nazionali” e al rifiuto di istituzioni e vincoli sovranazionali. Ma, invece di produrre una vera ricalibratura, questa svolta rischia di diventare solo una versione più dura e più chiusa dello stesso universalismo americano: la convinzione che la sicurezza degli Stati Uniti coincida con l’ordinamento del mondo secondo criteri stabiliti a Washington.
Sovranità come parola magica
La parola chiave della nuova dottrina è “sovranità”. Sovranità dei confini, del mercato interno, del sistema energetico, delle filiere industriali, perfino del discorso pubblico, visto come minacciato da potenze straniere, piattaforme digitali e organizzazioni internazionali. Non è solo una preoccupazione legittima, dopo decenni di delocalizzazioni e dipendenze strategiche: è una vera ossessione.
Ogni fenomeno viene ricondotto alla stessa matrice: migrazioni di massa, accordi commerciali, organismi multilaterali, intese sulla tutela del clima, tutto sarebbe un modo per indebolire l’identità e la sicurezza statunitensi.
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La guerra immaginaria: il piano tedesco contro la Russia e l’economia di guerra europea
di Mario Sommella
Quando ho letto dello “scoop” del Wall Street Journal sul piano di guerra tedesco contro la Russia, ho avuto la sensazione di tornare indietro nel tempo. Non alla Guerra fredda, ma a qualcosa di peggiore: un’Europa che, pur in crisi industriale e sociale profonda, trova nella minaccia esterna il collante per chiedere sacrifici infiniti ai cittadini e profitti infiniti al complesso militare-industriale.
Secondo quanto ricostruito dal WSJ e ripreso da diversi media, Berlino ha messo nero su bianco un maxi-piano di 1.200 pagine, battezzato “Operation Plan Germany” (OPLAN DEU), che descrive nel dettaglio come fino a 800 mila soldati tedeschi, americani e di altri paesi Nato verrebbero proiettati verso est, attraverso porti, fiumi, ferrovie e autostrade tedesche, in caso di attacco russo all’Alleanza. Il documento viene presentato come un ritorno alla “mentalità da Guerra fredda”, con un coinvolgimento “di tutta la società”, cioè con infrastrutture civili integrate strutturalmente nella macchina militare.
Il tutto parte da una premessa: funzionari tedeschi e comandanti Nato sostengono che la Russia potrebbe essere “pronta e disposta” ad attaccare l’Europa tra i due e i cinque anni, e che un eventuale armistizio in Ucraina le consentirebbe di riorganizzarsi per colpire un paese Nato. Quindi, dicono, bisogna prepararsi subito.
Io penso esattamente il contrario: questo tipo di narrazione non serve a “prevenire” una guerra, ma a renderla più probabile e a blindare un gigantesco riarmo che ha molto più a che vedere con i conti dell’industria che con la sicurezza delle persone.
Un colosso territoriale in crisi demografica, non un impero in espansione
Partiamo dalla “minaccia russa” così come viene raccontata. La Russia è il paese più esteso del pianeta, con una popolazione che oggi si aggira attorno ai 144-146 milioni di abitanti, in calo e con un’età mediana alta.
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Una nuova politica estera per l’Europa
di Jeffrey D. Sachs
La sottomissione dell’Europa agli Stati Uniti deriva quasi interamente dalla sua paura predominante della Russia, una paura che è stata amplificata dagli Stati russofobi dell’Europa orientale e da una falsa narrativa sulla guerra in Ucraina. Basandosi sulla convinzione che la sua più grande minaccia alla sicurezza sia la Russia, l’UE subordina tutte le altre questioni di politica estera – economica, commerciale, ambientale, tecnologica e diplomatica – agli Stati Uniti. Ironia della sorte, si aggrappa a Washington anche se gli Stati Uniti sono diventati più deboli, instabili, imprevedibili, irrazionali e pericolosi nella loro politica estera nei confronti dell’UE, al punto da minacciare apertamente la sovranità europea in Groenlandia.
Per tracciare una nuova politica estera, l’Europa dovrà superare la falsa premessa della sua estrema vulnerabilità nei confronti della Russia. La narrativa di Bruxelles-NATO-Regno Unito sostiene che la Russia sia intrinsecamente espansionista e che invaderà l’Europa se ne avrà l’opportunità. L’occupazione sovietica dell’Europa orientale dal 1945 al 1991 dimostrerebbe oggi questa minaccia. Questa falsa narrativa interpreta in modo errato il comportamento russo sia nel passato che nel presente.
La prima parte di questo saggio mira a correggere la falsa premessa secondo cui la Russia rappresenta una grave minaccia per l’Europa. La seconda parte guarda avanti a una nuova politica estera europea, una volta che l’Europa avrà superato la sua irrazionale russofobia.
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Ucraina al bivio: mentre l’Occidente litiga, Mosca vede avvicinarsi la vittoria
di Roberto Iannuzzi
Leader europei e falchi americani sabotano l’ennesimo piano Trump, Zelensky cerca di trarsi d’impaccio dallo scandalo sulla corruzione, i russi sono pronti a una soluzione militare
Le ultime settimane sono state molto dure per il presidente ucraino Volodymyr Zelensky.
Costretto sulla difensiva dai gravi episodi di corruzione legati alla compagnia di stato Energoatom, e da una coincidente campagna di pressione europea volta a fargli abbassare l’età minima di arruolamento, egli si è visto cadere addosso la tegola dell’ennesimo piano di pace promosso dal presidente americano Donald Trump.
Se le pressioni europee puntano a estendere la base di reclutamento dell’esercito ucraino con l’obiettivo di contrastare l’avanzata russa, e dunque sostanzialmente di prolungare il conflitto (Kiev non ha alcuna speranza di rovesciarne le sorti), il nuovo piano Trump apparentemente intende porre fine alle ostilità attraverso concessioni altrettanto dure da digerire per Zelensky.
Si è dunque messo in moto un meccanismo già visto nei mesi passati: di fronte alla proposta della Casa Bianca, Kiev ha espresso le proprie perplessità, alleati europei e falchi americani sono corsi in aiuto del governo ucraino elaborando “controproposte”, Trump ha affermato che il piano non era immodificabile, aprendo così la strada ad una formulazione concordata con Kiev.
Il risultato sarà probabilmente un piano digeribile per Ucraina e partner europei, e del tutto indigesto per Mosca. L’ultimatum del 27 novembre inizialmente imposto da Trump a Zelensky per accettare il piano, pena la sospensione degli aiuti militari e di intelligence, nel frattempo è svanito.
Una Casa Bianca priva di reale potere contrattuale
Ripercorrendo la breve storia degli sforzi negoziali compiuti dall’amministrazione Trump, ci si rende conto che essi sono apparsi sempre meno credibili con il passare dei mesi, e che l’ultimo piano “in 28 punti” è probabilmente nato morto.
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Dal caos nel MAGA agli insuccessi industriali: è segnata la fine del neoliberismo
di OttoParlante - La newsletter di Ottolina
Il Marru
I datacenter di Trump si scontrano con i suoi elettori: la reindustrializzazione neoliberista è fallita. Gli Stati Uniti entrano nella fase più assurda della loro traiettoria tecnologica: il presidente spinge per costruire più datacenter per competere con la Cina sull’AI… e sono proprio i suoi elettori MAGA a ribellarsi. Il paradosso fotografato da Reuters è il simbolo del fallimento del progetto di reindustrializzazione neoliberista: si voleva riportare l’industria in America, ma senza toccare proprietà privata, mercato immobiliare suburbano, consumi energetici e autonomia locale; un’impossibilità logica. I datacenter richiedono acqua, energia, terreni, infrastrutture; generano traffico, rumore, calore, trasformano quartieri, hanno bisogno di reti energetiche stabili – cosa che negli USA non esiste più, dopo decenni di deregolamentazione e privatizzazioni selvagge. Ma la base elettorale di Trump non vuole alcun sacrificio: nessuna turbina vicino casa, nessun elettrodotto, nessun complesso industriale; not in my backyard! Si vuole la potenza americana, ma senza pagarne il prezzo materiale. Nel frattempo, la Cina avanza.
L’antitrust MAGA è morto: quando lasci tutto ai monopoli, i monopoli ti mangiano. A proposito di fallimenti neoliberisti, secondo Naked Capitalism, negli Stati Uniti sta finendo anche l’illusione che il mercato si autoregoli da solo; il Dipartimento di Giustizia dominato dall’agenda MAGA ha ufficialmente abbandonato la funzione antitrust: invece di perseguire RealPage, un colosso accusato di aver coordinato aumenti illegali dei prezzi degli affitti in tutto il Paese, ha scelto un patteggiamento simbolico, una pacca sulla spalla, un buffetto che sancisce la resa dello Stato davanti ai monopoli. E questo è forse più grave dei fallimenti industriali, perché tocca la struttura profonda del capitalismo americano: senza antitrust, non esiste più concorrenza, ma solo oligopoli.
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Il futuro cupo dell’Europa
di John J. Mearsheimer
Questo discorso è stato pronunciato durante una conferenza tenutasi al Parlamento europeo a Bruxelles il 10 novembre 2025
L’ Europa è oggi in profonda difficoltà, principalmente a causa della guerra in Ucraina, che ha avuto un ruolo chiave nel minare quella che era stata una regione in gran parte pacifica. Purtroppo, è improbabile che la situazione migliori negli anni a venire. Anzi, è probabile che l’Europa sia meno stabile in futuro di quanto non lo sia oggi.
L’attuale situazione in Europa è in netto contrasto con la stabilità senza precedenti di cui l’Europa ha goduto durante il periodo unipolare, che durò all’incirca dal 1992, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, fino al 2017, quando Cina e Russia emersero come grandi potenze, trasformando l’unipolarismo in multipolarismo. Ricordiamo tutti il famoso articolo di Francis Fukuyama del 1989, “La fine della storia?”, in cui sosteneva che la democrazia liberale era destinata a diffondersi in tutto il mondo, portando con sé pace e prosperità. Questa argomentazione era ovviamente completamente sbagliata, ma molti in Occidente ci hanno creduto per oltre 20 anni. Pochi europei immaginavano, all’apice dell’unipolarismo, che l’Europa si sarebbe trovata oggi in così gravi difficoltà.
Quindi, cosa è andato storto?
La guerra in Ucraina, che a mio avviso è stata provocata dall’Occidente, e in particolare dagli Stati Uniti, è la causa principale dell’insicurezza europea odierna. Tuttavia, c’è un secondo fattore in gioco: lo spostamento dell’equilibrio di potere globale nel 2017 dall’unipolarismo al multipolarismo, che avrebbe sicuramente minacciato l’architettura di sicurezza in Europa. Ciononostante, ci sono buone ragioni per pensare che questo spostamento nella distribuzione del potere fosse un problema gestibile. Ma la guerra in Ucraina, unita all’avvento del multipolarismo, ha garantito grossi problemi, che difficilmente si risolveranno nel prossimo futuro.
Vorrei iniziare spiegando come la fine dell’unipolarismo minacci le fondamenta della stabilità europea. Poi discuterò degli effetti della guerra in Ucraina sull’Europa e di come questi abbiano interagito con il passaggio al multipolarismo, alterando profondamente il panorama europeo.
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The War Must Go On
di Alfonso Gianni
Rallenta su un fronte, quello palestinese, s’inasprisce sull’altro, quello russo-ucraino, proprio mentre, e forse proprio per questo, cominciano a circolare proposte di pace, che a quanto ci è dato per ora di sapere non sono poi tanto diverse da quelle avanzate poco dopo l’inizio della guerra, casomai peggiorative per l’Ucraina; senza oscurare i cinquanta e più focolai di guerra tutt’ora accesi, di cui il più grave è forse quello “dimenticato” in Sudan, o quelli che possono aprirsi da un momento all’altro (vedi gli Usa contro il Venezuela): il sistema di guerra, che ormai sovraordina le relazioni internazionali, non si ferma. Al contrario si autoalimenta. Attraverso inganni e autoinganni, falsità e costruzioni immaginarie di nemici alle porte. Nulla ci viene risparmiato, perché la guerra non è più la prosecuzione della politica con altri mezzi, è la sostituzione della politica. Conseguentemente della diplomazia, ridotta ad ancella muta di un simile cambiamento.
Per averne un’ennesima prova, basta gettare l’occhio sulla risoluzione approvata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu sul conflitto in Palestina, che non ha fatto altro che ribadire i venti punti del cosiddetto piano di pace presentato da Trump alcune settimane fa. Un piano che fin dal suo primo annuncio si presentava come un ricatto rivolto ad Hamas e ai palestinesi: o accettate questo o sarete distrutti. Il principio di realtà è totalmente ignorato, anzi capovolto. Anche i più realisti, che non osavano chiamare i venti punti trumpiani un piano di pace, ma al massimo un progetto di tregua o anche soltanto un momentaneo “cessate il fuoco”, sono stati smentiti. Per quanto persino quest’ultimo fosse meglio del genocidio continuo, e come tale da più parti era stato accolto, tutto si può dire tranne che abbia retto alla prova dei fatti. A meno che non si voglia, come i vari inviati ed esponenti dell’Amministrazione Trump hanno fatto, fingere che una tregua possa tranquillamente “tenere” ed essere definita tale a fronte del perdurare delle uccisioni giornaliere di palestinesi, delle distruzioni operate dall’esercito israeliano in terra di Palestina, del consolidamento del possesso del 53% del territorio, demarcato dalla famigerata linea gialla, delle violenze, rivolte persino contro i molli tentativi dell’esercito israeliano di contenerne la furia aggressiva, perpetrate dai coloni in Cisgiordania, la cui condizione è ulteriormente peggiorata con l’invasione di Gaza da parte dell’Idf.
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La guerra e la moneta
di Stefano Lucarelli
Un programma per l’alternativa dovrebbe sottolineare che le condizioni economiche per la pace passano per una riprogettazione del sistema monetario internazionale
Marco Bertorello e Giacomo Gabbuti nel loro appello su Jacobin Italia invitano a riflettere su un percorso possibile che dalla critica dell’economia conduca a un programma per l’alternativa. Un invito nobile e urgente che ho visto ciclicamente riproporsi negli ormai 36 anni che separano la nostra esistenza dall’evento che simbolicamente ha segnato il passaggio da un assetto mondiale a un altro. La caduta del Muro di Berlino, con il suo portato di speranze tradite, ha infatti accelerato quei processi istituzionali che hanno visto il trionfo della privatizzazione globale che, passando per guerre volte a esportare la democrazia, crisi finanziarie, reali, ecologiche, pandemie, reazioni protezionistiche da parte della potenza egemone e nuove guerre, ha amplificato sempre più gli squilibri economici fra paesi.
Il nodo del sistema monetario internazionale
Tutte le volte che viene sollevato il problema dell’alternativa, ci si rivolge anzitutto agli economisti, come se fossero depositari di saperi se non salvifici, quanto meno utili per aprire nuovi orizzonti di analisi. In effetti gli economisti dovrebbero sapere che il sistema economico internazionale del dopoguerra, il gold-exchange standard, il rapporto di cambio tra valute agganciato al dollaro e non più all’oro come stabilito a Bretton Woods, sorge da un peccato originale: fare di una valuta nazionale, il dollaro, la valuta di riserva internazionale. Com’è noto, quel sistema venne sospeso nel Ferragosto del 1971, unilateralmente, dal Presidente Nixon per realizzare un sistema di cambi flessibili in cui l’accettazione del dollaro come valuta di riserva internazionale non poggia più su ragioni economiche ma su ragioni politiche, o, per meglio dire, su rapporti di forza. Qui stanno i motivi principali della tendenza agli squilibri globali che, date certe condizioni, possono condurre a profonde tensioni finanziarie e commerciali, favorite dalla deregolamentazione finanziaria, fino a sfociare in vere e proprie guerre.
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L'imboscata
di OttolinaTV
Witkoff Leaks: l’incredibile storia della Fuga di Notizie del Secolo per impedire la Pace in Ucraina
“Witkoff dovrebbe essere processato per alto tradimento, e Trump per incapacità di intendere e di volere”; da ieri notte, gli hooligan del giardino fiorito sono in fiamme. Bloomberg, infatti, ieri sera ha lanciato lo scoop dell’anno: è l’intercettazione di una telefonata di oltre un mese fa tra l’inviato USA Steve Witkoff e il consigliere di Putin Yuri Ushakov dove, però, invece che prendersi a male parole, parlano in modo amichevole e informale di come arrivare a un piano di pace “simile a quello in 20 punti per Gaza”. Tanto è bastato a mandare su tutte le furie i tifosi della guerra senza fine che, ormai, sono sull’orlo di una crisi di nervi e che, presi dall’entusiasmo per la nuova occasione di far saltare di nuovo tutti i negoziati, si sono dimenticati di farsi la domanda più importante: ma chi è che si è permesso di intercettare uno dei più alti funzionari USA mentre svolgeva un compito così delicato e, poi, di passare l’intercettazione alla stampa, manco fosse un Fabrizio Corona qualsiasi? D’altronde, come commenta sagacemente Simplicius The Thinker, vanno capiti: “Per l’establishment NeoCon e per gli europei non si tratta solo di salvare l’Ucraina e la guerra contro la Russia, ma anche di salvare la propria pelle e la propria carriera politica”; Simplicius sposa a pieno la logica del nostro appello per mandarli #tuttiacasa – e, cioè, che se una classe dirigente decide, contro il volere del popolo, di portarti in guerra, e poi quella guerra la perde pure, non dovrebbe più essere legittimata a governare nemmeno il condominio e, nella migliore delle ipotesi, dovrebbe ritirarsi a vita privata.
Ma andiamo per gradi; il punto di partenza, ovviamente, è il piano di pace in 28 punti che, qualche giorno fa, ha travolto come uno tsunami il business as usual della guerra d’attrito contro la Russia in Ucraina, un piano che è stato accolto come una resa totale a Mosca (che, effettivamente, quando per 3 anni prendi solo pizze e, nel frattempo, hai pure svuotato i magazzini, è uno degli esiti più probabili). La controparte russa aveva apprezzato, perché, per la prima volta, si cercava di rispondere agli obiettivi veri dell’operazione militare speciale; concedere a Putin la vittoria, però, è impensabile, perché se viene meno il mito dell’invincibilità dell’Occidente collettivo, per le élite parassitarie occidentali la cosa si mette veramente male.
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Motivazioni economiche dietro la tregua e il destino di Gaza
di Maurizio Brignoli*
Il grande vantaggio della guerra (nel nostro caso della distruzione volta a favorire pulizia etnica e genocidio) per il capitale è di distruggere il plusvalore in eccesso che determina la crisi da sovrapproduzione e di trasferire il plusvalore, dato che la guerra non ne crea di nuovo, ai vincitori e ha il grande pregio, sempre e solo per chi ne esce vittorioso, di permettere una ridistribuzione, un trasferimento (un furto) di ricchezza.
Lo sterminio israeliano di Gaza, accompagnato dalle molteplici operazioni militari in cui Israele è impegnata, è da inserirsi all’interno di un conflitto più ampio, la famosa “terza guerra mondiale a pezzi” di bergogliana memoria che si sta trasformando sempre più in un’unità completa e realizzata, di stampo interimperialistico in cui Israele svolge, almeno per ora, il ruolo di imperialismo regionale al servizio di Washington.
La ricostruzione
Su Gaza sono state riversate 200.000 tonnellate di esplosivi che hanno portato alla distruzione di case, terreni agricoli, ospedali, scuole, università, moschee, chiese, monumenti, siti storici, primari obiettivi della distruzione non solo fisica ma anche culturale e civile dei palestinesi. Il Programma dell’Onu per lo sviluppo (Undp) il 14 ottobre ha annunciato che serviranno 20 miliardi di dollari nei prossimi tre anni per iniziare la ricostruzione a Gaza, parte di un piano di ripresa complessivo quantificato dall’ultimo Interim Rapid Damage and Needs Assessment (Irdna) su Gaza da parte dell’Onu, dell’Ue e della Banca Mondiale, in 70 miliardi di dollari il cui completamento potrebbe richiedere decenni[1]. Solo la rimozione delle macerie è un compito improbo dato che i bombardamenti hanno prodotto almeno 55 milioni di tonnellate di detriti, sufficienti a riempire Central Park a New York fino a un’altezza di 12 metri o a costruire 13 piramidi di Giza[2].
La distruzione si trasforma quindi in occasione per dare vita a un nuovo processo di accumulazione con lauti affari per le imprese israeliane, saudite, americane, inglesi, italiane, qatariote e altre che si spartiranno gli appalti per la ricostruzione, ma non si può neppure escludere che qualche buon affare potrà farlo quella borghesia compradora palestinese che collabora con Israele.
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In corsa contro il tempo per concludere il conflitto in Ucraina
di Gianandrea Gaiani
“Spero di incontrare presto il Presidente Zelenskyy e il Presidente Putin, ma solo quando l’accordo per porre fine a questa guerra sarà definitivo o nelle sue fasi finali” ha scritto ieri serra (in Italia) Donald Trump in un post su Truth confermando che le trattative sono ancora aperte e il risultato non può essere dato per scontato.
Del resto il piano di pace per fermare la guerra in Ucraina presentato dagli Stati Uniti e con ogni evidenza messo a punto congiuntamente con la Russia in seguito ai colloqui tra l’inviato speciale statunitense Steve Witkoff e l’inviato russo Kirill Dmitriev, sembra essersi moltiplicato al punto che le proposte sul tavolo sono almeno tre.
Il piano americano in 28 punti, è stato giudicato positivamente dai russi. In una telefonata con Recep Tayyip Erdogan, Vladimir Putin ha detto il 24 novembre che “queste proposte, nella versione che abbiamo visionato, sono coerenti con le discussioni del summit in Alaska e, in linea di principio, possono formare la base per un accordo di pace finale”.
Tra i punti salienti il piano prevede che ai russi venga riconosciuta l’annessione di Crimea, Lugansk e Donetsk con il ritiro delle truppe ucraine da quel 10 per cento di quest’ultima regione che ancora controllano.
Nelle regioni di Kherson e Zaporizhia, anch’esse annesse alla Russia con il referendum del settembre 2022 e attualmente in mano ai russi rispettivamente per il 76 e 80 per cento, è previsto che i russi conservino il controllo delle aree sotto il loro controllo al momento della firma dell’accordo.
Se a Kherson i due eserciti sono separati dal Fiume Dnepr, confine naturale che al momento i russi non sembrano voler oltrepassare in forze, a Zaporizhia le forze di Mosca stanno accelerando le operazioni offensive.
Come previsto da Analisi Difesa, in vista di un possibile accordo che congeli il fronte, i russi premono da sud e da est per giungere a ridosso dell’omonimo capoluogo regionale, obiettivo pe5seguibile una volta caduta Hulyapole dove i russi hanno ormai raggiunto la periferia dopo aver conquistato i villaggi a est e nord est della cittadina dove le truppe di Mosca cercano di interrompere la via di rifornimento per Huliapole (nella mappa).
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