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analisidifesa

A letto con il nemico

di Gianandrea Gaiani

04729135 33de 4bb1 8fd5 17e9b7f0c8fe 3114x1742 scaled.jpgLe indagini della magistratura tedesca sul sabotaggio dei gasdotti Nord Stream minacciano di aprire una nuova frattura politica tra i Paesi europei circa il sostegno all’Ucraina. Dopo tre anni di inchiesta, gli investigatori federali tedeschi ritengono di aver raccolto prove che portano a un’unità d’élite di Kiev come responsabile dell’attacco avvenuto nel settembre 2022 nel Mar Baltico contro i gasdotti subacquei che uniscono Russia e Germania.

Il 10 novembre Wall Street Journal ha riportato l’attenzione su un attentato terroristico contro gli interessi di Germania ed Europa che senza dubbio può essere definito il più grave attacco strategico alla Germania dalla fine della Seconda guerra mondiale.

Un attentato (la Procura Generale russa ha aperto un’indagine per terrorismo internazionale del tutto ignorata qui in Occidente) di cui comprensibilmente non si vuole più parlare in un’Europa che si ostina a considerare stretti alleati i suoi carnefici.

A proposito di “guerra ibrida” e “guerra delle percezioni” (di cui va tanto di moda parlare) meglio ricordare che per mesi politici, opinionisti e media allineati hanno puntato il dito contro Mosca per l’attentato ai gasdotti e chi faceva notare quanto fosse ingenuo ritenere che i russi facessero esplodere infrastrutture energetiche che avevano pagato oltre 20 miliardi di euro e che dopo la guerra avrebbero potuto riprendere a rifornire l’Europa di gas russo veniva bollato come “putiniano”.

Del resto è apparso subito chiaro che le responsabilità erano evidentemente da ricercare in Ucraina e tra i suoi alleati.  Le conclusioni dell’indagine giudiziaria tedesca potrebbero quindi mettere a dura prova i rapporti tra alcuni Paesi alleati dell’Ucraina e tra europei e Kiev.

La squadra di investigatori ha ricostruito nei dettagli la dinamica del sabotaggio che fece esplodere i gasdotti Nord Stream 1 e 2, considerati dai detrattori dell’opera un simbolo della dipendenza energetica europea dal gas russo che però, meglio non dimenticarlo, ha assicurato per anni flussi infiniti di energia a prezzo conveniente costituendo il cardine dello sviluppo economico europeo.

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lafionda

Dall’autonomizzazione fallita alla nuova subalternità

di Salvatore Palidda

America spaccata.jpgPaese sconfitto alla seconda guerra mondiale (insieme a Germania e Giappone), l’Italia fu costretta a una quasi totale sottomissione alla nuova potenza mondiale dominante lo spazio euro-mediterraneo.

Ma prima di descrivere questa svolta storica e poi gli sviluppi sino a oggi, è utile una digressione storica-geopolitica. Ricordiamo che il sea power (il potere marittimo teorizzato da Mahan[1]) impone che la potenza che vuole dominare uno spazio geopolitico deve accaparrarsi il controllo dei punti cruciali per esercitarlo. Nello spazio euro-mediterraneo l’Italia è il principale punto geostrategico in quanto la penisola e le sue isole sono situate al suo centro. Sin dai tempi di Cartagine e poi di Roma ciò era evidente, tant’è che Roma poté battere la rivale solo accaparrandosi del controllo della Sicilia per sfruttarne la posizione geostrategica, l’enorme risorsa di legname per costruire la sua flotta e quella di grano per pagare il soldo ai suoi militi.[2] E all’epoca delle repubbliche marinare -in assenza di un potere imperiale dominante- queste potevano rastrellare ricchezze enormi non solo grazie all’abilità e alla ferocia dei loro pseudo-nobilotti, noti come i più sperimentati pirati del mondo (più di quelli che la regina Elisabetta aveva integrato nella sua flotta per affermare la sua potenza che però in Mediterraneo doveva arborare la bandiera genovese per potere navigare senza problemi). Il successo di queste potenze marittime fu soprattutto grazie all’intesa ben oliata con i sultani della simile potenza marittima che era Costantinopoli. Ciò, nonostante le crociate o pseudo-guerre di religione, poiché condividevano con i genovesi, i veneziani, i pisani e gli amalfitani la stessa logica dell’accumulo di ricchezze (il business innanzitutto). Inoltre, via via si impadronirono dei punti nevralgici dello spazio mediterraneo rubando non solo le ricchezze ma anche i saperi locali e facendone schiavi i dominanti costretti a pagare somme enormi per riscattare la loro emancipazione. Ma poi queste repubbliche marinare cercavano sempre l’intesa con la potenza spagnola dominante il Mediterraneo (vedi Braudel, 2010).

Dopo Yalta, l’assetto del mondo bipolare impose che l’Italia doveva collocarsi nella sfera occidentale che passava sotto l’egemonia degli Stati Uniti. L’internazionale comunista stabilì che i partiti dei paesi occidentali si adeguassero per definire e seguire le loro specifiche “vie nazionali al socialismo”.

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Un blog di Rivoluzionari Ottimisti

Quando l’ingiustizia si fa legge, ribellarsi diventa un dovere

Sudan, genocidio fuori campo: l’oro, il Mar Rosso e le vite che non contano

di Mario Sommella

mbtohèù.jpgGenocidi a geometria variabile

Nell’ultimo anno il dibattito pubblico è stato costellato di parole enormi: “genocidio”, “crimini di guerra”, “pulizia etnica”. Si discute, spesso in modo strumentale, di Gaza e della Palestina; si invocano i tribunali internazionali, si litiga sui numeri, si prova perfino a stabilire una gerarchia del dolore. Ma mentre il mondo si accapiglia su ciò che vuole o non vuole vedere, c’è un altro genocidio che si consuma quasi nel silenzio: quello in Sudan.

Non è una tragedia minore. È semplicemente un genocidio che cade fuori dall’inquadratura: troppe poche telecamere, troppo nero il colore dei corpi massacrati, troppo evidente l’intreccio tra rapina di risorse, neocolonialismo, interessi militari e finanziari di mezzo mondo.

Dal 2023 ad oggi, la guerra tra le Forze Armate Sudanesi (SAF) e le milizie paramilitari delle Rapid Support Forces (RSF) ha ucciso decine di migliaia di persone e spinto alla fuga oltre 12 milioni di esseri umani: la più grande crisi di sfollamento al mondo, con più di 8 milioni di profughi interni e milioni di rifugiati nei paesi vicini.

Alcune stime parlano ormai di oltre 150 mila morti complessivi, solo nell’ultima fase del conflitto.

Eppure, nelle scalette dei telegiornali, questa guerra quasi non esiste.

 

Dal Darfur a El Fasher: un genocidio annunciato

Per capire che cosa sta accadendo oggi, bisogna tornare al Darfur, inizio anni Duemila: il governo di Omar al-Bashir arma le milizie arabe janjāwīd per reprimere la ribellione delle popolazioni non arabe. Villaggi rasi al suolo, stupri di massa, deportazioni: un’intera regione trasformata in laboratorio di pulizia etnica. La comunità internazionale arriverà a parlare di genocidio, gli Stati Uniti lo dichiarano formalmente nel 2004, ma la macchina di morte non verrà mai davvero smantellata.

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lantidiplomatico

Perché accuso 63 nazioni di complicità nel genocidio di Gaza

Middle East Eye intervista Francesca Albanese

nerèpaj9jhdLa relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, Francesca Albanese, ha accusato le principali potenze europee, tra le quali Regno Unito, Italia e Germania, di complicità nel genocidio di Gaza e ha avvertito che i funzionari dei loro governi dovranno affrontare conseguenze legali.

In un'intervista rilasciata al podcast Expert Witness il 3 novembre, Albanese ha discusso i risultati del suo ultimo rapporto, intitolato  Gaza Genocide: A Collective Crime , in cui ha citato prove della presunta responsabilità di 63 stati nel consentire le violazioni del diritto internazionale da parte di Israele. 

Nonostante le prove schiaccianti di genocidio e atrocità di massa a Gaza e in Cisgiordania, gli stati più potenti d'Europa continuano a fornire copertura diplomatica, militare e politica a Israele, ha dichiarato a Middle East Eye.

Ha criticato il primo ministro britannico Keir Starmer per non aver riconosciuto il rischio di genocidio e per la presunta complicità del suo governo nella condotta di Israele contro i palestinesi.

"Il Regno Unito è uno di quei casi interessanti in cui la leadership politica ha contribuito a creare consenso attorno alla guerra che Israele ha scatenato contro la popolazione di Gaza", ha ricordato.

Ha inoltre denunciato la repressione del Regno Unito nei confronti di Palestine Action, affermando che ha contribuito a creare "un clima di complicità".

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metis

Il "Grande Gioco" del Medio Oriente

di Enrico Tomaselli

noer7igtheiL’operazione Al Aqsa Flood del 7 ottobre 2023 è indiscutibilmente un evento che ha cambiato completamente il quadro geopolitico mediorientale, ed i suoi effetti sono destinati a protrarsi ancora a lungo. Ovviamente, il primo e più evidente è stato lo stop al processo di stabilizzazione-integrazione, avviato da Trump durante il suo primo mandato, e che va sotto il nome di Accordi di Abramo. Riaccendendo violentemente i riflettori sulla questione palestinese, ha messo in luce come sia semplicemente impossibile immaginare un disegno strategico per la regione senza affrontare questo nodo.

In ogni caso, sia durante la fase finale della presidenza Biden, che durante il primo anno del secondo mandato di Trump, la strategia statunitense è stata sostanzialmente basata sulla delega completa a Israele, affinché risolvesse militarmente la questione; Netanyahu, oltretutto, assicurava di poterlo fare in modo pressoché definitivo. Ma due anni di guerre su sette fronti diversi hanno dimostrato non solo che la sicumera del leader israeliano era del tutto infondata, ma che al contrario lo sforzo bellico di Tel Aviv è valso sostanzialmente a far crescere a dismisura la dipendenza dello stato ebraico da Washington. Esattamente come è stato per l’Ucraina di Zelensky, a un certo punto è apparso chiaro che il proconsole statunitense nella regione non era più in grado di svolgere il ruolo di proxy militare, e che persino sotto il profilo politico stava determinando più danni di quanto fosse possibile immaginare. E non solo sul piano internazionale, ma anche nel cuore elettorale dell’impero.

Ciò ha reso necessario che fosse Washington a riassumere le redini del gioco. Ovviamente per gli Stati Uniti non è possibile sganciarsi dal conflitto mediorientale così come stanno facendo con quello ucraino. Intanto, perché la potente lobby sionista negli states non lo permetterebbe. E poi perché non c’è un equivalente dei paesi europei per ricoprire un ruolo di supplenza. Da tempo, sicuramente da quando Netanyahu ha iniziato la sua ormai ventennale carriera politica, il rapporto tra Tel Aviv e Washington è progressivamente mutato, sino al punto che oggi Israele è diventato un vero e proprio simbionte.

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seminaredomande

Sudan. L’altro genocidio

di Francesco Cappello

Il Sudan si trova al centro di dinamiche che rischiano di comprometterne ulteriormente l’integrità. Sono attivi fenomeni che provocano instabilità, ottimali per la continuazione dell’accaparramento delle risorse del paese africano da parte di agenti esterni

cq5dam.thumbnail.cropped.750.422.jpegNon si tratta di una guerra civile tribale, ma di un genocidio pianificato alimentato da potenze straniere interessate alle ricchezze naturali, in particolare l’oro, complici la mancanza di attenzione internazionale e la complicità di paesi occidentali che sostengono l’RSF (forze di intervento rapido paramilitari) come fa la Francia, Israele, EAU e altri [*].

Il conflitto attuale è l’esplosione di una tensione irrisolta risalente, come vedremo, ai crimini del Darfur e al fallimento della transizione post-El Bashir, dove i generali in competizione, finanziati e armati da potenze esterne, si contendono il controllo strategico ed economico di un paese estremamente ricco di oro. Le vaste riserve d’oro del Sudan agiscono da calamita geopolitica, attirando l’interesse di potenze esterne che, attraverso il finanziamento di gruppi armati (le FSR, eredi delle milizie genocidarie), trasformano la ricchezza potenziale in un ciclo di violenza e guerra per procura.

 

L’entità dei massacri a danno della popolazione

A partire dall’inizio del secolo a oggi, l’analisi della letteratura consente di ricostruire alcune stime di massima sull’entità dei massacri a danno della popolazione civile. Un rapporto del Council on Foreign Relations (via il database CRED) stima che, nel periodo da settembre 2003 a gennaio 2005, ci siano state circa 121.582 morti nella regione del Darfur, con un “eccesso di mortalità” stimato di circa 118.142 morti. Université catholique de Louvain. Altre fonti (tra cui studi epidemiologici e analisi dell’ONU) riportano che fino al 2008 il totale delle morti (violenza + malattia/fame) potrebbe essersi avvicinato a circa 300.000 persone nella regione del Darfur. Guardian

Fonti più recenti relative al conflitto scoppiato nel 2023 indicano che solo nei primi mesi della guerra ci sono stati decine di migliaia di morti civili — ad esempio, un articolo riporta che il conflitto dal 2023 avrebbe causato “almeno 40.000 morti” in Sudan. AP News

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metis

Quattro teatri per Trump

di Enrico Tomaselli

2024 12 12T101748Z 2046294152 MT1SIPA000M5CH4N RTRMADP 3 SIPA USA 1.jpgChe l’elezione di Trump alla presidenza degli Stati Uniti fosse dovuta a un insieme di fattori, di cui due principali, l’ho sempre sostenuto e ne sono assolutamente convinto. Il primo di questi è stato che una parte minoritaria del deep power statunitense riteneva urgentemente necessario modificare il modo in cui veniva gestita la strategia imperial-egemonica degli USA, in particolare da quel blocco di potere che possiamo identificare nella convergenza tra il mondo politico democratico (inteso come partito) e i neocon. Il secondo, la disponibilità su piazza di una figura – Trump appunto – che aveva le caratteristiche necessarie per poter competere vittoriosamente alle elezioni, con riferimento in particolare al movimento MAGA.

Tutto ciò, naturalmente, va comunque inquadrato alla luce di un presupposto ovvio ma spesso ignorato, ovvero il fatto che per una potenza imperiale è assolutamente fondamentale avere una strategia globale che ragioni su tempi lunghi, e che quindi non può essere soggetta a cambiamenti radicali ogni quattro anni, sulla base delle alternanze alla presidenza. Ciò implica non solo che tali strategie vengano definite prevalentemente al di fuori delle singole amministrazioni, ma che vi sia un apparato che provvede non solo a elaborarle, ma anche ad assicurarsi che vengano applicate. Ed è precisamente ciò che chiamiamo correntemente deep state (e che io preferisco definire deep power); che non va però immaginato come una organizzazione segreta, una sorta di Spectre, ma – appunto – come un insieme di poteri, istituzionali e non, la cui durata non è soggetta al voto popolare, e la cui composizione può, entro certi limiti, essere mutevole.

Alla luce di quanto detto, appare chiaro come un presidente degli Stati Uniti, per quanto formalmente dotato di grandi poteri, sia di fatto limitato, nel suo agire, da un quadro generale predeterminato. E Trump non fa eccezione. Per quanto ami pensarsi e presentarsi come un monarca, ogni sua scelta è possibile all’interno di questo ambito circoscritto. Che però, altrettanto ovviamente, deve in qualche misura tener conto anche delle oscillazioni dell’elettorato, cui in ultima analisi spetta formalmente il potere di scelta dei suoi rappresentanti.

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Il progetto mediorientale di Israele e Stati Uniti: egemonia o collasso?

di Roberto Iannuzzi

Le turbolenze interne a Israele, l’accelerazione del declino americano e le contraddizioni del piano Trump potrebbero mandare in fumo l’intero progetto egemonico israelo-americano per la regione

Vice President Joe Biden visit to Israel March 2016 25279812749.jpgProprio nei giorni scorsi Israele ha commemorato il trentennale dell’assassinio di Yitzhak Rabin, il primo ministro che nel 1993 aveva firmato gli Accordi di Oslo dando il via al “processo di pace” israelo-palestinese.

Rabin fu assassinato il 4 novembe 1995 da Yigal Amir, un estremista ebreo che si opponeva alla nascita di un’autonomia palestinese in Cisgiordania in base agli Accordi di Oslo.

Ricordando Rabin, Dennis Ross (all’epoca inviato USA per il Medio Oriente, e ora membro del Washington Institute for Near East Policy, un think tank filo-israeliano di orientamento neocon) ha tracciato un parallelo fra quegli anni e la fase attuale.

 

L’idea di una “nuova Oslo

Allora, gli Stati Uniti avevano appena sconfitto Saddam Hussein, e il presidente George H. W. Bush ne approfittò per lanciare la Conferenza di Madrid (1991) che avrebbe fatto da premessa agli Accordi di Oslo.

Oggi come allora, “i nemici di Israele sono in rotta”, ha scritto Ross. Tel Aviv “ha duramente colpito Hezbollah e Hamas; il regime di Assad in Siria è crollato; e la guerra dei 12 giorni condotta da Israele e Stati Uniti ha inferto un colpo significativo all’Iran”.

Ross conclude che “come accadde con Bush nel 1991, pochi paesi sono disposti a dire di no al presidente Donald Trump”.

Il ragionamento dell’ex inviato statunitense è indirizzato al premier israeliano Benjamin Netanyahu, accusato da Ross di non avere la stessa capacità di Rabin di cogliere le “opportunità” offerte dalla storia.

Ross ricorda che:

“Rabin cercò di trarre vantaggio da quelle circostanze collaborando con gli Stati Uniti per perseguire la pace con Siria, Giordania e palestinesi.

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linterferenza

L’Occidente al tramonto e in guerra

di Alessandro Visalli

9023367 21125829 hhhhhh.jpgSiamo al tramonto, e siamo sotto l’aspra necessità della guerra. Indispensabile, fatta e minacciata, spesso con servizievoli procuratori, per continuare a estrarre valore dal mondo pieno e coltivare il vuoto nel quale siamo precipitati. Un vuoto da tempo creato da un ‘essere sociale’ che non sa liberarsi dalle conseguenze di una libertà pensata come licenza e arbitrio solitario. Ostinatamente inconsapevole della profondità costitutiva della relazione sociale, e della responsabilità che ne deriva.

L’essere sociale del medio-Occidente vive infatti dell’insolubile contraddizione di pensarsi individuale. Di immaginarsi intersezione casuale di monadi disincarnate, dedite liberamente alla coltivazione del proprio vuoto. Un vuoto fatto di possessi compulsivi ed escludenti, di idiosincratici desideri, sommando la più assoluta eteronomia e dipendenza dalla contingente forma del mercato. Ma, al contempo, l’Occidente riesce a immaginare questa forma puramente contingente, recentissima, come normativamente universale.

Vaste conseguenze si disseminano da questo stato: nell’impossibilità di salvare la coesione sociale e l’agire politico coerente che ne deriva, la tecnica di governo del vuoto si rivolge alla creazione e rapida sostituzione di sempre nuovi miti e nemici. Si ottiene per questa via ciò che per altri promana da una superiore consistenza sociale. Lo abbiamo posto nel Capitolo primo e poi ripreso nel sesto.

Lo sforzo in corso, nelle capitali dell’Occidente collettivo, e certamente nel suo centro statunitense, è di reagire al fallimento del modello di accumulazione finanziarizzato (gestito da quello che nel primo Capitolo abbiamo descritto come il “network globalista”) concependo un nuovo progetto:

in primo luogo, transitare alla centralità della “logica territorialista”, per riportare sotto controllo quegli spiriti animali della finanza che ormai avvantaggiano soprattutto gli avversari;

per riuscire serve un metodo di finanziamento delle immani spese necessarie per ribilanciare il modello di sviluppo con metodi di autorità, dunque serve l’estrazione dalle provincie;

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L’impossibile rinascita dell’industria americana (parte 1)

di Ferdinando Bilotti

4333.0.26650006 kLwF U341015794402357JB 656x492Corriere Web Sezioni.jpgDopo decenni passati a sentire tessere le lodi del libero mercato, la fissazione di Trump per i dazi può destare sconcerto. Tuttavia, considerato di per sé, il principio della penalizzazione delle importazioni è tutt’altro che strampalato. Nel XIX e XX secolo, il protezionismo ha costituito uno strumento fondamentale per i paesi sottosviluppati che aspiravano a dotarsi d’una propria industria. Gli stessi Stati Uniti, nei decenni a cavallo del 1900, fecero ampiamente ricorso ai dazi doganali, per proteggere le proprie imprese nascenti e riuscire così ad assurgere al ruolo di potenza manifatturiera.

Già, ma oggi? Il ritorno a una simile politica è giustificato?

In linea teorica, sì. Come abbiamo già spiegato negli articoli del 21 agosto e del 6 ottobre, gli USA hanno subito un esteso processo di deindustrializzazione, che ha avuto conseguenze molto gravi per la loro economia e che minaccia di compromettere persino la tenuta delle loro finanze pubbliche e le loro capacità militari. Tassare le importazioni sembra dunque una strategia sensata, anzi addirittura obbligata. I dazi riducono la competitività di prezzo dei manufatti esteri e quindi avvantaggiano chi produce in patria. Ciò dovrebbe stimolare le aziende nazionali a riportare negli USA le attività che avevano delocalizzato e quelle straniere che esportano verso gli Stati Uniti a servire questo mercato impiantando in loco delle proprie fabbriche. Beninteso, la messa fuori gioco di chi produce più a buon mercato avrebbe un impatto negativo sul costo della vita; ma la reindustrializzazione accrescerebbe il reddito degli abitanti (si tenga presente che oggi molti statunitensi vivono in condizione di disoccupazione, sottooccupazione od occupazione dequalificata), compensando questa conseguenza negativa.

Tutto bene, quindi? Beh… no. Vi sono infatti alcuni fattori che remano contro la possibilità di rilanciare, tramite il protezionismo, il made in USA. Lo sviluppo industriale richiede abbondante forza lavoro qualificata (dai tecnici laureati agli operai specializzati, passando per il personale amministrativo di vario genere) e quindi un sistema scolastico e universitario in grado di formarla; ma gli Stati Uniti non ce l’hanno, in quanto la loro istruzione pubblica è troppo scadente e quella privata è troppo cara.

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Se la Cina ha vinto

di Dario Di Conzo

Se l’obiettivo di un titolo apodittico come “La Cina ha vinto” è convincere il lettore della validità della propria tesi, Alessandro Aresu vi riesce pienamente. L’autore invita il lettore a osservare lo scontro di questo inizio di XXI secolo attraverso gli occhi di Wang Huning: il teorico del Partito, professore e attuale membro del Comitato […]

VRrL.jpg BO302552Se l’obiettivo di un titolo apodittico come La Cina ha vinto (Feltrinelli Editore, Milano, 2025, €15) è convincere il lettore della validità della propria tesi, Aresu vi riesce pienamente. Centonove pagine che, pur dense e concettualmente stratificate, si leggono in una sola giornata di pioggia, lasciando anche il lettore più scettico con la persistente impressione che, in effetti, la Cina possa davvero aver vinto. Una volta svanito l’impatto iniziale, sorgono tuttavia le domande: cosa ha vinto, e in che modo? Contro chi, invece, è chiaro fin dall’inizio: gli Stati Uniti.

Il libro si colloca in un dialogo aperto con due decenni di letteratura oscillante tra catastrofismo e trionfalismo. Se The Coming Collapse of China di Gordon Chang (2001) inaugurava il genere ormai screditato della Cina prossima al collasso, Has China Won? (2020) di Kishore Mahbubani ne offriva il riflesso speculare in chiave interrogativa. Aresu, al contrario, trasforma il dubbio in un’affermazione tanto provocatoria quanto rivelatrice. Eppure, la vittoria che descrive non è né economica né militare: prima di tutto, è intellettuale.

L’autore invita il lettore a osservare lo scontro di questo inizio di XXI secolo attraverso gli occhi di Wang Huning: il teorico del Partito, professore e attuale membro del Comitato permanente del Politburo che, da Jiang Zemin a Xi Jinping, accompagna da oltre tre decenni la leadership comunista. Wang è al tempo stesso oggetto e soggetto della narrazione: studiato, citato e utilizzato come dispositivo narrativo. Ispirandosi al suo libro più celebre, America against America, e al diario politico del suo periodo americano, Aresu adotta la voce del professore di Shanghai per fondere teoria politica e introspezione. Le riflessioni di Wang sul declino della vitalità spirituale americana diventano la lente attraverso cui il volume interpreta il riallineamento geopolitico del XXI secolo. In effetti, la lucidità dell’analisi di Wang e la sua straordinaria capacità di anticipare la traiettoria degli Stati Uniti hanno reso questo Tocqueville contemporaneo famoso ben oltre i ristretti circoli della sinologia e degli osservatori del Partito-Stato. Come scrive evocativamente Aresu, “L’assalto a Capitol Hill, il 6 gennaio 2021, ha fatto entrare America contro America nella leggenda”.

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intelligence for the people

Ucraina: i falchi sulle due sponde dell’Atlantico mettono all’angolo Trump 

di Roberto Iannuzzi

Incapace di superare l’idea di un mero congelamento del conflitto, Trump ha finito per abbracciare le posizioni antirusse degli europei e degli elementi più intransigenti della sua amministrazione

037a223b 0143 4618 a859 c8d5e5ed9356 2048x1365.jpgLe relazioni fra Stati Uniti e Russia hanno registrato un serio peggioramento. Dopo la telefonata del 20 ottobre fra il segretario di Stato USA Marco Rubio e il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov, il primo ha raccomandato che la Casa Bianca cancellasse il previsto incontro fra i presidenti dei due paesi a Budapest.

Poi, il dipartimento del Tesoro ha annunciato dure sanzioni contro le due principali compagnie petrolifere russe, Rosneft e Lukoil, “a seguito della mancanza di un serio impegno, da parte della Russia, verso un processo di pace che ponga fine alla guerra in Ucraina”.

Due giorni dopo, il 22 ottobre, il Wall Street Journal ha rivelato che l’amministrazione Trump aveva tolto le restrizioni all’impiego ucraino di missili a lungo raggio forniti dagli alleati europei (i quali impiegano componenti e dati di targeting provenienti dagli USA).

Trump ha definito la rivelazione una “fake news”, ma il fatto che la possibilità di autorizzare gli attacchi sia passata dal Pentagono al generale Alexus Grynkewich, comandante (di origini bielorusse) delle forze USA in Europa, e che i dati di targeting siano forniti dagli americani, lascia pochi dubbi sulla veridicità della notizia.

Il 21 ottobre uno Storm Shadow britannico ha colpito un impianto chimico russo a Bryansk. Le restrizioni all’impiego di tali missili erano state introdotte da Elbridge Colby, sottosegretario alle politiche del Pentagono, “falco” riguardo alla Cina ma notoriamente scettico nei confronti dell’impegno militare USA in Ucraina e Medio Oriente.

A luglio, due esperti militari americani avevano scritto che, così come il generale Michael Kurilla aveva vinto la battaglia contro Colby in Iran (da poco bombardato dagli USA), Grynkewich avrebbe dovuto fare lo stesso in Ucraina.

Analogamente, il segretario al Tesoro Scott Bessent ha fatto la parte del leone nell’annunciare le sanzioni alle compagnie petrolifere russe. Su Truth, il suo social preferito, Trump ha semplicemente ripubblicato l’annuncio del dipartimento del Tesoro, un po’ sottotono e senza alcuna enfasi.

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tempofertile

Pino Arlacchi, La Cina spiegata all’Occidente

di Alessandro Visalli

med 1200x630 11 1200x630.jpgIl libro di Pino Arlacchi[1] tenta un’impresa di notevole ambizione, fornire un quadro generale dell’Universo Cina partendo da una prospettiva storica comparativa e accedendo, nella Seconda e Terza parte, ad analizzarne le specificità interne di lungo e breve periodo. Il punto di partenza dell’autore è molto noto: la Cina e l’India, prese nel loro insieme, sono sempre state nel corso della storia umana il centro gravitazionale centrale per così dire ‘oggettivo’, solo da duecento anni sono divenute periferia e ora stanno ‘riemergendo’. Al contrario, solo per periodi limitati (come durante la fase apicale dell’Impero romano) quello che chiamiamo, con formula che contiene in sé il confronto e la polarità, “Occidente”[2] ha potuto confrontarsi alla pari con lo splendore “orientale”, fino a che negli ultimi trecento anni ha preso il sopravvento, seguendo un percorso che gradualmente ha acquistato energia a partire dalla ‘scoperta’ cinquecentesca dell’America e dal dominio dei commerci di lunga percorrenza e poi delle colonie. Per la gran parte del tempo, migliaia di anni, questo è stato, invece, economicamente, demograficamente e in termini culturali, periferia.

Fino al 1820, il polo orientale vedeva presenti, in un’area tutto sommato ristretta, oltre la metà del genere umano e della produzione (soprattutto dopo i massacri americani condotti in America da spagnoli, portoghesi e anglosassoni ai danni di circa un quarto della popolazione mondiale dell’epoca). A quella data solo il 2% della produzione mondiale era in Usa e solo il 5% nella Gran Bretagna. Anche il tenore di vita, ci racconta Arlacchi, era superiore in ampie aree del mondo orientale. Infine, la tecnologia, come mostrano diversi autori[3], era più avanzata sotto molti profili, salvo quella militare. Tale condizione cessò negli ultimi anni del XVII e primi del XIX secolo e furono ratificati dalle guerre dell’oppio (1840 e 1860)[4], è ciò che normalmente viene definito la “Grande divergenza[5].

Concentrandosi sulla Cina, i fattori che la resero stabile per migliaia di anni sono: il non-espansionismo; la meritocrazia politica. A questi fattori si aggiunge ora il sistema politico non-capitalistico. Questi tre fattori sono oggetto specifico del libro.

A questa stabilità plurimillenaria che attraversa invasioni e sostituzioni di dinastie, fasi di oscuramento e anarchia, rivolte enormemente sanguinose (come quella dei Taiping), conservando il percorso culturale, si oppone un’esperienza del tutto diversa.

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volerelaluna

Primi passi verso un nuovo ordine mondiale?

di Vincenzo Comito

imper.jpgOrmai sembrano quasi tutti d’accordo sul fatto che il vecchio ordine mondiale, varato nel dopoguerra e governato da allora dagli Stati Uniti con un corteo di vassalli – dai paesi dell’Unione Europea, a Canada, Giappone, Australia, Nuova Zelanda, Corea del Sud –, non solo traballa, ma sembra perdere pezzi consistenti ogni mese che passa, grazie anche all’accelerazione impressa al processo dallo stesso Trump. Per altro verso, si percepisce chiaramente il fatto che viviamo in un’epoca di difficile transizione, periodo nel quale il vecchio ordine non riesce più a governare le cose e uno nuovo non riesce ancora, dal canto suo, a emergere adeguatamente, ciò che porta a disordini e confusione. Si può a questo proposito ricordare ad esempio che la crisi del 1929 fu causata almeno in parte dal fatto che la Gran Bretagna non aveva ormai più la forza necessaria per gestire gli avvenimenti, mentre gli Stati Uniti non l’avevano ancora. Bisognerà attendere la seconda guerra mondiale perché il passaggio delle consegne si verifichi e perché gli Stati Uniti abbiano ormai la capacità necessaria a governare le cose del mondo.

Riconoscendo tutti che viviamo un periodo di transizione, meno d’accordo ci si trova su verso quale indirizzo ci stiamo comunque dirigendo e su quale dovrebbe o potrebbe essere il nuovo assetto del potere mondiale. Da più parti ci si rende comunque conto che il futuro non si dovrebbe configurare almeno completamente come il secolo della Cina, paese pure in forte crescita sui fronti commerciale, economico, tecnologico, militare; e questo anche per la grande riluttanza, anzi lo scarso interesse, del paese asiatico verso l’ipotesi di diventare il nuovo paese dominante, sostituendo gli Stati Uniti. Una delle poche cose su cui quasi tutti sono di nuovo d’accordo è invece che, in ogni caso, di fatto nei prossimi decenni Cina e Stati Uniti saranno ancora e di gran lunga le potenze più importanti del mondo, forse con l’aggiunta dell’India, che dovrebbe, tra 10-15 anni, superare anch’essa il PIL degli Stati Uniti, utilizzando almeno nel calcolo dello stesso PIL il criterio della parità dei poteri di acquisto.

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jacobin

Il mondo dopo il declino americano

Arman Spéth intervista Michael Roberts

Trump declino americano jacobin italia.pngPer descrivere la situazione mondiale odierna è diventato più difficile evitare i cliché. La guerra economica scatenata da Donald Trump, il crescente rifiuto della Cina di accettare le sue provocazioni e la guerra in corso in Ucraina hanno generato livelli di incertezza sistemica mai visti dal periodo tra le due guerre mondiali, se non prima. Il timore di un’altra grande crisi, o addirittura di un’altra grande guerra, è comprensibilmente diffuso, soprattutto in Europa, la regione che rischia di perdere di più dall’emergente «Guerra fredda».

Quanto di questa turbolenza è da attribuire a un leader americano incostante e quanto è il risultato di trasformazioni strutturali più profonde? L’emergere di potenze in grado di rivaleggiare con gli Stati uniti indica la possibilità di un ordine globale più giusto, o un ordine egemone viene semplicemente sostituito da un altro? E, soprattutto, cosa significa tutto ciò per la vita e le prospettive politiche di lavoratori e lavoratrici?

In questa intervista, Arman Spéth ha parlato con l’economista marxista Michael Roberts, autore dei libri The Great Recession: A Marxist View e The Long Depression, per avere il suo punto di vista sulla sempre più frammentata economia globale e sulle sue ricadute politiche.

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Le dislocazioni geopolitiche cui stiamo assistendo sarebbero incomprensibili senza considerare la seconda amministrazione di Donald Trump. Dal suo ritorno al potere, sia la politica interna che quella estera degli Stati uniti hanno innegabilmente cambiato rotta e, dato il ruolo egemone degli Usa a livello globale, questo ha inevitabilmente avuto ripercussioni sul resto del mondo.