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lafionda

Il tramonto del diritto internazionale nel nuovo disordine globale

di Elena Basile

034140828 969f7a49 b796 4fa9 8a24 41a8455400e2.jpgC’era una volta il Diritto internazionale. Nel dopoguerra le potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale hanno dato vita a un sistema di organizzazioni internazionali che traduceva in norme i rapporti di forza politici. Il diritto, com’è noto, non è avulso dalla politica e dalla società. Il Consiglio di Sicurezza, formato da 5 membri permanenti detentori del potere di veto, contraddice l’uguaglianza degli Stati sovrani, che pure è un principio onusiano. L’ostilità nata nell’immediato dopoguerra tra USA e URSS ha minato alla base l’efficacia di un’Organizzazione che aveva l’ambizione dell’utilizzo della forza legittima. Le mediazioni tra Mosca e Washington nel sistema bipolare hanno tuttavia permesso in alcuni casi all’ONU di funzionare. Cito spesso la crisi di Suez oppure quella del Kippur, al fine di evidenziare come il Cds sia riuscito, dato l’accordo tra le principali potenze, a temperare la violenza e a porre le condizioni per una mediazione.

Nel 1991, con la dissoluzione dell’URSS e l’inizio dell’unipolarismo, gli Stati Uniti, rimasti soli sulla scena internazionale, avrebbero potuto dare inizio a un sistema basato sul rispetto tra gli Stati, l’applicazione del diritto, la cooperazione in sostituzione della competizione e del dominio. Non mi sembra che così sia stato. Mi piacerebbe ascoltare in proposito i tanti politici e intellettuali che hanno interpretazioni differenti di quanto è accaduto. È ormai noto come le guerre di esportazione della democrazia, le rivoluzioni colorate, le primavere arabe, l’invasione della Libia siano state violazioni aperte dell’ordine internazionale creato nel dopoguerra.

In breve, potremmo sostenere che, a partire dal 1997, l’OSCE e l’ONU (nei suoi aspetti di organizzazione della sicurezza internazionale, non in quelli settoriali che continuano a funzionare) siano state sostituite dalla NATO. L’Occidente poteva permettersi di applicare le norme “à la carte” e di affermare di farlo a nome della Comunità internazionale, concetto piuttosto ambiguo, in quanto gli sviluppi delle dinamiche internazionali, con la nascita dei BRICS e del Sud Globale, hanno dimostrato come il cosiddetto “Western World” sia divenuto una minoranza politica, economica, tecnologica e demografica. Gli USA continuano a detenere un potere riconosciuto, basato sulla supremazia militare e su una governance economica costruita a loro vantaggio. L’egemonia tuttavia è crollata.

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acropolis

Sfere di sicurezza contro sfere di influenza

Una riconsiderazione dei confini delle grandi potenze

di Jeffrey D. Sachs

cbcfa7cf2da6471b66b54ed056729452 AP25245276637140 1 1.jpg“Vorrei sostenere che le grandi potenze hanno ragione ad affermare una “sfera di sicurezza” nei rispettivi vicinati che le altre grandi potenze non dovrebbero violare, come ad esempio nessun allargamento della NATO all’Ucraina e nessuna base militare russa in Messico, ma che ciò è diverso da una “sfera di influenza” che potrebbe implicare il “diritto” degli Stati Uniti di interferire negli affari interni (non di sicurezza) del Messico o della Russia di interferire negli affari interni (non di sicurezza) dell’Ucraina. Sto pensando, in sostanza, a una Dottrina Monroe generalizzata e reciproca, ma non a un Corollario Roosevelt.”

Avvertenza: Alla fine dell’articolo potete leggere uno scambio di idee e considerazioni del Prof. Jeffrey Sachs con il Prof. John Mearsheimer.

Pochi concetti nelle relazioni internazionali sono così controversi come quello di “sfere di influenza”. Dalla spartizione coloniale del XIX secolo alla divisione dell’Europa durante la Guerra Fredda, le grandi potenze hanno ripetutamente rivendicato il diritto di intervenire nella politica, nell’economia e negli accordi di sicurezza dei loro vicini. Tuttavia, questo linguaggio familiare confonde due nozioni molto diverse: la legittima necessità delle grandi potenze di prevenire un accerchiamento ostile e la pretesa illegittima delle grandi potenze di interferire negli affari interni degli Stati più deboli. La prima è meglio descritta come una sfera di sicurezza, la seconda come una sfera di influenza.

Riconoscere questa distinzione è più che semantico. Chiarisce ciò che dovrebbe essere accettato come legittimo nella politica mondiale e ciò a cui si dovrebbe resistere. Aiuta anche a rivalutare dottrine storiche come la Dottrina Monroe e la sua successiva reinterpretazione nel Corollario Roosevelt, e fa luce sui dibattiti contemporanei tra Russia e Cina da un lato e Stati Uniti dall’altro in materia di sicurezza nazionale.

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La bolla dell’AI sull’orlo dell’esplosione. Gli USA si ritirano dall’Asia per risolvere i guai a casa?

OttoParlante - La newsletter del Marru (8/09/25)

di Giuliano Marrucci

a1 Immagine 2025 09 08 075023.jpgLa costruzione di un Nuovo Ordine Globale non è un pranzo di gala. Ed ecco, così, che dopo aver passato un’intera settimana a celebrare le magnifiche sorti e progressive della leadership cinese – che tra SCO, parate, Power of Siberia 2 e chi più ne ha più ne metta, ha raggiunto una serie straordinaria di traguardi storici – è bene iniziare la settimana con una lunga disamina di tutti i dubbi e di tutti i nodi insoluti che rimangono da sciogliere; e mettetevi pure comodi, perché l’elenco è decisamente lunghino e, vista la mole, probabilmente anche un po’ caotico.

Il punto di partenza migliore è il dibattito che è nato su X tra alcuni degli osservatori (e sostenitori) più attenti e lucidi dell’ascesa del Nuovo Ordine Multipolare: a dare il via è stato il solito Arnaud Bertrand (se non lo fate già, seguitelo su X: in assoluto uno dei profili più informativi e interessanti dell’intera piattaforma) che, partendo da un articolo su Politico, ha lanciato la più stimolante delle provocazioni: “Gli USA”, afferma, “si stanno effettivamente ritirando dall’Asia”. La riflessione nasce dalle indiscrezioni sull’ultima bozza della nuova Strategia di Difesa Nazionale del Pentagono: Il piano del Pentagono dà priorità alla patria rispetto alla minaccia cinese, titola con enfasi Politico; e questo “segna un netto distacco dalla prima amministrazione Trump, che puntava a scoraggiare Pechino”. 

Secondo l’articolo, appunto, “Una bozza della più recente Strategia di difesa nazionale” porrebbe “le missioni nazionali e regionali al di sopra della lotta contro avversari come Pechino e Mosca”; “Un cambiamento radicale rispetto alle recenti amministrazioni”, sottolinea Politico, “incluso il primo mandato del presidente Trump, durante il quale lo stesso documento definì Pechino il più grande avversario degli Stati Uniti”. L’aspetto divertente è che, oggi come durante il Trump 1.0, il responsabile del documento è sempre lo stesso: Elbridge Colby. Per chi segue Ottolina, una vecchia conoscenza: ne avevamo parlato qui ormai 3 anni fa, in occasione della pubblicazione del suo libro Strategy of denial, che avevamo definito il Mein Kampf degli USA. Secondo Arnaud la motivazione è chiara: “Ora che è al potere ha accesso a informazioni di intelligence reali, e deve aver capito quando sarebbe stato vano ogni sforzo.

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«Perché l’Iran non può avere armi nucleari e Israele sì?»

di Emmanuel Todd

Dal Giappone, l’antropologo francese analizza la questione nucleare iraniana e i doppi standard occidentali

Foto Todd Iran.jpegL'autore de «La sconfitta dell’Occidente» sfida i pregiudizi occidentali sull’Iran. Con una lettura controcorrente, Emmanuel Todd sostiene che, come il Giappone, anche l’Iran potrebbe dotarsi di armi nucleari senza destabilizzare la regione. Lo studioso avverte che l’approccio unilaterale di Israele e degli Stati Uniti distorce la percezione e ostacola la comprensione del Paese erede dell’Impero persiano, che vanta oltre 2.500 anni di storia.

l punto di vista di un esperto su un tema di attualità.

Quella che segue è la traduzione in italiano di un’intervista rilasciata di recente in Giappone. Il fatto di esprimermi regolarmente in Giappone su questioni geopolitiche (da almeno 20 anni) mi ha aiutato a sviluppare una visione del mondo de‑occidentalizzata, una coscienza geopolitica non narcisistica. Come si vedrà, è stata la mia riflessione di lunga data sull’eventuale acquisizione dell’arma nucleare da parte del Giappone a portarmi a un atteggiamento piuttosto sereno di fronte alla questione iraniana.

Le democrazie europee non vanno bene. Non possono più essere descritte come pluraliste per quanto riguarda l’informazione geopolitica. La possibilità di esprimermi sui grandi media giapponesi mi ha permesso di sfuggire al divieto che in Francia pesa su qualsiasi interpretazione non conforme alla linea occidentalista. Le reti di Stato (France‑Inter, France‑Culture, France 2, France 3, La 5, France‑Info eccetera) sono agenti particolarmente attivi – e incompetenti – del controllo dell’opinione geopolitica.

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intelligence for the people

L’instabilità mondiale si sposta verso l’emisfero occidentale

di Roberto Iannuzzi

eb7b1172 fcb8 4c8e 87ff d735288cdce0 2048x1365La Cina è inarrivabile. L’Occidente frana dall’interno. L’ex superpotenza USA dispiega la propria residua forza militare, e quella dei suoi alleati in crisi, in America Latina, Europa e Medio Oriente 

Mentre al vertice della Shanghai Cooperation Organization (SCO) di Tianjin il gigante cinese si è posto nettamente alla guida del mondo non occidentale, Stati Uniti e paesi europei sono alle prese con crescenti crisi politiche, economiche e sociali al proprio interno.

Militarmente, Washington si sta concentrando in primo luogo sul continente americano, scaricando sugli europei i costi di un conflitto ucraino sempre più fallimentare, e lasciandosi trainare dal disastroso avventurismo israeliano in un Medio Oriente sempre più in fiamme.

 

Arroccamento americano

Questa realtà potrebbe presto trovare conferma nella nuova Strategia di Difesa Nazionale del Pentagono. Una bozza del documento è attualmente allo studio del Segretario alla Difesa Pete Hegseth.

Secondo indiscrezioni, essa antepone per la prima volta la protezione del suolo nazionale e del continente americano all’esigenza di contrastare avversari come Russia e Cina.

Sebbene il documento possa ancora subire modifiche, si tratta per molti versi di una tendenza già in atto.

Il Dipartimento della Difesa ha inviato navi da guerra ed aerei F-35 nei Caraibi, ed ha mobilitato migliaia di uomini della Guardia Nazionale per mantenere l’ordine a Washington e Los Angeles, in un paese sempre più frammentato e diviso (come conferma il recente assassinio dell’attivista conservatore Charlie Kirk).

Se questa realtà trovasse riscontro nel nuovo documento del Pentagono, si tratterebbe di uno stravolgimento rispetto alla Strategia di Difesa Nazionale del 2018, sotto la prima amministrazione Trump, la quale poneva al primo posto il contenimento della Cina.

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intelligence for the people

Il vertice SCO a Tianjin apre una finestra sul nuovo mondo multipolare

di Roberto Iannuzzi

Gli eventi del vertice hanno messo in evidenza potenzialità e rischi di un nuovo ordine che si rafforza di pari passo con il tumultuoso declino di un Occidente sempre più smarrito e paranoico

7a7d7e83 4b0f 460f 9522 cfc367540d79 940x580.jpgMentre l’Occidente è assorbito dalle turbolenze nei rapporti transatlantici e da un crescente declino economico e politico, la Cina ha riunito un folto gruppo di leader non occidentali nella città settentrionale di Tianjin, ponendosi alla guida di un “Sud Globale” sempre più determinato a far sentire la propria voce nelle questioni internazionali.

I ventisette leader si sono incontrati a partire dal 31 agosto per celebrare il 25° Vertice della Shanghai Cooperation Organization (SCO), durante il quale il presidente cinese Xi Jinping ha invocato una nuova era di governance globale che salvaguardi i paesi in via di sviluppo e si opponga alle politiche coercitive occidentali e allo scontro fra blocchi contrapposti.

La SCO nacque nel 2001, è governata dal Consiglio dei Capi di Stato che si riunisce annualmente, e include una Struttura Regionale Anti-Terrorismo (RATS, secondo l’acronimo inglese). Essa trae origine dal gruppo dei Cinque di Shanghai (Cina, Kazakistan, Kirghizistan, Russia e Tagikistan) costituitosi nel 1996 per risolvere dispute di confine e contrastare le ingerenze esterne nella regione centroasiatica.

Ai Cinque di Shanghai si sono poi associati nel corso degli anni l’Uzbekistan (in coincidenza con la nascita della SCO), India e Pakistan (nel 2017), l’Iran (2023) e la Bielorussia (2024).

Ai dieci membri dell’Organizzazione si aggiungono due stati “osservatori” (Mongolia e Afghanistan) e quattordici “partner di dialogo” (Arabia Saudita, Armenia, Azerbaigian, Bahrein, Cambogia, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Maldive, Myanmar, Nepal, Qatar, Sri Lanka e Turchia).

A Tianjin anche il Laos è entrato a far parte di quest’ultimo gruppo, portando a 27 il numero totale di paesi partecipanti.

 

Critica dell’attuale ordine internazionale

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“Mamma, ho visto un comunista”: D’Alema va a Pechino, vede Xi, si innamora e getta nel paniko i media italiani

di OttolinaTV 

a2 Immagine 2025 09 04 101335.jpgContinua il panico nelle redazioni dei media filogovernativi: la dimostrazione di forza degli Stati canaglia degli ultimi giorni, per i pennivendoli suprematisti, ha rappresentato uno choc senza precedenti; la comfort zone è stata demolita, e non erano preparati. Davvero credevano alle minchiate che scrivevano sulla Russia pompa di benzina con la bomba atomica e sulla Cina copiona sull’orlo del collasso a causa degli sprechi pubblici. Visto che non si sono accorti di questo enorme treno contro cui stavano andando a sbattere, ora sono terrorizzati che quel treno possa arrivare anche nel loro giardino di casa e vedono ovunque piloti in grado di guidare quel treno, compreso nei baffetti del leader Massimo. L’occhio di riguardo di Massimo D’Alema per Pechino non è una novità: da tempo baffino pronuncia parole ragionevoli sul sistema cinese, sulla sua ascesa pacifica e sul suo ruolo nel Mondo Nuovo. Questo week end la relazione, però, ha fatto un salto di qualità: alla storica parata del 3 settembre, l’unico italiano ufficialmente presente era proprio lui, l’ex primo ministro della repubblica italiana che durante la parata, intervistato da un’emittente cinese, ha avuto l’ardire di affermare che aveva accettato con piacere l’invito “in forza della memoria e del ricordo di una lotta eroica come fu quella del popolo cinese per la sconfitta del nazismo e del fascismo”; “Confido che qui da Pechino venga un messaggio per il ritorno di uno spirito di amicizia tra tutti i popoli”.  Apriti cielo…I soliti comunist”, titola il Giornale; D’Alema sfila col nemico. Il leader di sinistra alla parata militare con i dittatori. Xi minaccia il mondo. D’Alema in estasi, rilancia Libero; L’amore della sinistra per i dittatori non muore mai.

Il mio commento preferito, però, è del giornale preferito dai sovranelli per Trump, La Verità: D’Alema si intrufola pure a Pechino, e aiuta Xi a riscrivere la Storia. In che senso? Beh, ve l’ho appena detto: L’”ex premier”, sottolinea l’occhiello, “cita il contributo del dragone alla sconfitta del nazismo” che però, secondo La Verità, sarebbe “immaginario”. 

La Cina, che ha perso 35 milioni di uomini per respingere l’invasione giapponese mentre gli USA, fino all’ultimo, al Giappone fornivano acciaio e petrolio, non avrebbe in realtà dato nessun contributo alla sconfitta del nazifascismo: “Quello che è andato in scena a Pechino è stato un maestoso festival dell’orrore” scrive Francesco Bonazzi nell’articolo; ma “D’Alema che va a battere le mani all’Asse del Male è troppo anche per l’Asse del Male”.

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L'Europa sottomessa... ma a chi?

di Ferdinando Bilotti

jmpohndnvpèParte 1

Attraverso l’Ucraina, gli Stati Uniti stanno conducendo una guerra contro la Russia.

Attraverso la guerra contro la Russia, stanno conducendo una guerra contro l’Europa.

Promuovendo l’isolamento economico della Russia, gli USA hanno indotto l’Unione Europea a stabilire sanzioni che hanno ridotto le sue importazioni di idrocarburi da tale nazione. L’attentato al gasdotto Nord Stream, che con tutta probabilità è opera degli stessi Stati Uniti, ha ulteriormente compromesso l’afflusso di risorse energetiche dal suo territorio. Come se non bastasse, la Russia ha reagito alle sanzioni con delle misure ritorsive, consistenti nella limitazione delle proprie esportazioni di altre materie prime, in uso nell’industria e nell’agricoltura. Le imprese europee hanno dovuto così fare i conti con una penuria di molti prodotti di cui si servivano e con un rincaro dei loro prezzi, dovuto all’insorgere di fenomeni speculativi e alla sostituzione delle importazioni russe con altre meno a buon mercato (a cominciare dal gas di scisto statunitense, più costoso di per sé e reso ancora più caro dall’onerosità del trasporto via nave e dei trattamenti di liquefazione e rigassificazione cui va sottoposto).

L’industria continentale, quindi, si è ritrovata a produrre a costi più alti, con conseguente perdita di competitività sul versante dei prezzi cui era in grado di offrire i propri manufatti. Ciò l’ha resa interessata a valutare una delocalizzazione delle proprie attività in altre nazioni, ancora in grado di offrire energia a basso costo e magari dotate di condizioni più favorevoli anche sotto altri aspetti (ad esempio: minori tutele per i lavoratori e normative ambientali meno rigide). Fra i paesi a possedere tali requisiti c’erano proprio gli Stati Uniti, che oltretutto presentavano la caratteristica di costituire un importante mercato di sbocco per le produzioni europee.

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A Pechino gli Stati sovrani “cospirano” contro il dominio USA

di Ottolinatv

Vladimir PutinA poche ore dal trionfale summit SCO di Tianjin, Pechino mette sul tavolo il piatto forte: la colossale parata che si è tenuta stamattina a Pechino è costellata da una serie infinita di fatti ed eventi di portata storica, a partire dal fatto che, come ricorda il South China Morning Post, è “la prima volta che Kim, Xi e Putin, tutti considerati rivali degli Stati Uniti, si sono riuniti nello stesso luogo, inviando un forte segnale di unità contro l’Occidente guidato dagli Stati Uniti”. “Oggi ci riuniamo solennemente per commemorare l’80° anniversario della vittoria della Guerra di resistenza del popolo cinese contro l’aggressione giapponese e della Guerra mondiale antifascista” ha ricordato nel suo breve, ma intenso, intervento Xi Jinping; un atto dovuto “per ricordare insieme la storia e onorare la memoria dei martiri”, ma anche per “coltivare la pace e creare il futuro”. “La guerra di resistenza del popolo cinese contro l’aggressione giapponese” ha sottolineato Xi “è una parte importante della guerra antifascista mondiale. Il popolo cinese ha compiuto grandi sacrifici a livello nazionale e ha contribuito in modo significativo alla salvezza della civiltà umana e alla salvaguardia della pace mondiale”; “Oggi, l’umanità si trova nuovamente di fronte alla scelta tra pace o guerra, dialogo o scontro, vittoria per tutti o somma zero. Il popolo cinese si schiera fermamente dalla parte giusta della storia e del progresso della civiltà umana, aderisce al percorso dello sviluppo pacifico e lavora fianco a fianco con i popoli di tutti i paesi per costruire una comunità con un futuro condiviso per l’umanità”. “Il grande rinnovamento della nazione cinese è inarrestabile! La nobile causa della pace e dello sviluppo per l’umanità trionferà sicuramente!”. Se volete una rassegna piuttosto esaustiva di tutto quello che è stato messo in mostra dal punto di vista militare, vi consiglio questo lungo articolo su Guancha o il canale Telegram della nostra Clara Statello, che stamattina era particolarmente in forma e su di giri.

Mi vorrei concentrare piuttosto sul significato politico e sulle reazioni: “Il significato della parata militare del 3 settembre”, scrive su Guancha Shen Yi, professore di Politica Internazionale all’Università di Fudan, “sta diventando sempre più evidente”:

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laboratorio

La Germania sta rinascendo come potenza militare?

di Domenico Moro

Riarmo tedesco.jpegRecentemente in Germania il governo di coalizione tra democristiani (CDU) e socialdemocratici (SPD), guidato dal cancelliere Friedrich Merz, ha preso alcune decisioni che portano a un massiccio riarmo e rafforzamento militare. Si tratta di un fatto che non può non destare preoccupazione, perché il riarmo e il militarismo della Germania nel secolo scorso sono stati precursori delle due guerre mondiali.

Proprio per prevenire la minaccia della rinascita della potenza militare della Germania, questa, dopo la Seconda guerra mondiale, era stata divisa in due Stati, la Repubblica democratica tedesca a est e la Repubblica Federale a ovest. Dal 1990, però, il paese è di nuovo riunito in un solo Stato. La preoccupazione per la rinascita militare tedesca deriva oggi anche dall’enorme potenza industriale della Germania, che è la terza economia mondiale per Pil nominale e di gran lunga la prima in Europa anche per popolazione.

Dalla fine della Seconda guerra mondiale fino a oggi, però, la Germania è stata un gigante economico ma un nano politico e soprattutto militare, tanto che l’esercito tedesco è stato definito “un gruppo di boy scout particolarmente aggressivo”. Merz, invece, ha dichiarato che intende fare delle Forze armate tedesche quelle più forti in Europa e, per questo, ha abolito, in riferimento alle spese militari, quello che era un tabù, il vincolo al debito, permettendo finanziamenti illimitati al settore militare. La Germania, in Europa, è, del resto, l’unico grande paese che, secondo il credo neoliberista, può permettersi ingenti finanziamenti statali, perché ha un debito pubblico pari al 63% del Pil, mentre la Francia ha un debito del 116% e l’Italia del 137%.

Ad ogni modo, l’aumento della spesa militare era stato già impresso dal precedente governo del socialdemocratico Olaf Scholtz. Secondo il Sipri, tra 2020 e 2024 la spesa militare pro capite tedesca era passata da 637,52 a 1044,42 dollari, un aumento molto più sostenuto di quelli avvenuti in Francia, passata da 811,69 a 972,62 dollari, e in Italia, passata da 548,44 a 638,76 dollari.

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Pace in Ucraina: pochi spiragli e tante ombre

di Francesco Bascone

L’analisi dell’ambasciatore Francesco Bascone dopo il vertice di Anchorage fra Donald Trump e Vladimir Putin

angloriam weimar otto dix skat playersNon sappiamo se il vertice russo-americano di Anchorage sia destinato a figurare nei libri di storia, come prima tappa nel percorso di uscita da questa guerra o se finirà nel secchio delle occasioni mancate. La stragrande maggioranza dei commentatori osserva che l’aggressore ha ottenuto la piena riabilitazione da parte di Washington senza nulla concedere (questo punto andrà approfondito) e che Donald Trump, convinto di ammaliarlo con le sue lusinghe, si è lasciato ammaliare. Tanto è vero che ha prontamente sconfessato la propria promessa di pesanti sanzioni in caso di rifiuto della tregua.

Questa concessione alla metodologia di Putin – puntare rapidamente a concordare le linee generali per un accordo di pace mentre si continua a combattere – sarebbe difendibile se si trattasse di un paio di settimane, lasso di tempo previsto da Trump per un bilaterale Volodymyr Zelensky – Vladimir Putin, seguito forse da un trilaterale con lui stesso e se in cambio si fosse ottenuta una chiara disponibilità russa ad attenuare le proprie pretese.

A prima vista, non sembra sia così: il presidente russo ha ribadito che gli obiettivi dell’operazione militare speciale rimangono invariati e che un incontro al vertice deve essere preceduto da una lunga fase preparatoria.

Trump, ripetendo ancora una volta che la colpa della guerra è di Joe Biden, ha dato un assist a Putin. Il presidente russo ci ha visto una conferma della propria tesi secondo cui la Russia aveva le sue buone ragioni nel 2022 per attaccare l’Ucraina e che ora la guerra può essere fermata solo se verranno eliminate le cause di quella decisione. Cioè concordare una nuova Yalta.

Se si tiene conto, inoltre, del cinico invito al «realismo» rivolto da Trump a Zelensky, e implicitamente ai suoi amici europei («la Russia è una grande potenza, l’Ucraina no») c’è poco da illudersi sulle condizioni di pace che, secondo lui, Kiev dovrebbe rassegnarsi ad accettare.

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Il ritorno di James Monroe

di Enrico Tomaselli

Doctrina Monroe.jpgLa ormai storica tensione tra Stati Uniti e Venezuela vede, in questi giorni, un inasprirsi della postura aggressiva da parte di Washington, anche se poi – alla resa dei conti – questa appare essere più una grande operazione di psyop. Gli USA  hanno sempre osteggiato la Rivoluzione Bolivariana di Chavez, ma da quando gli è succeduto Maduro la pressione statunitense si è decisamente fatta ben più forte. Innumerevoli tentativi di golpe, il sostegno a personaggi al limite del ridicolo come Guaidò – autoproclamatosi presidente ad interim, prima di sparire nel nulla da cui era emerso – per approdare infine all’accusa di essere un narcotrafficante, anzi di essere a capo del Cártel de los Soles. Molto opportunamente, nelle scorse settimane è stata innalzata la taglia su Maduro a 50 milioni di dollari (quasi fossimo nel far west), ed è stato approvato un ordine esecutivo segreto che equipara i cartelli della droga ad organizzazioni terroristiche, e rende possibile agire contro di loro con le forze armate.

La questione, però, al di là dello specifico venezuelano, va inquadrata in un contesto assai più ampio. L’America Latina, almeno a partire dalla proclamazione della cosiddetta Dottrina Monroe – affermata dal presidente James Monroe nel 1823 – ha sempre considerato il sub-continente americano come il proprio cortile di casa. Dietro lo slogan “l’America agli americani”, infatti, la dottrina mirava essenzialmente a garantire l’egemonia USA nell’emisfero occidentale; l’intento primario era quello di azzerare l’influenza europea, adottando un linguaggio propagandistico di tipo sovranista-populista, ma lo scopo ultimo era appunto quello di sostituirsi agli europei, e con il termine “americani” intendeva effettivamente nord-americani.
Questo dominio statunitense sull’America Latina è sostanzialmente durato per tutto il novecento, ed è stato caratterizzato da spietate dittature, massacri di popolazioni indigene, e completo diritto di saccheggio da parte delle multinazionali americane.

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transform

La vittoria di Trump nella guerra dei dazi

di Alfonso Gianni

2025 04 03T103222Z 515470366 RC2XPDAPOPSV RTRMADP 3 USA TRUMP TARIFFS RESULTS.jpgLa partita dei dazi fra Usa e Ue si è giocata non a caso a Turneberry, in uno dei campi di golf di proprietà di Trump e si può tranquillamente dire che è stata una debacle per gli interessi europei. Ci vuole una buona dose di faccia tosta per affermare, come ha fatto Ursula Von der Leyen, che si è trattato di un risultato “enorme” corrispondente al “massimo” che si sarebbe potuto ottenere. Tanto più che si era partiti da dichiarazioni da un lato ottimistiche, dall’altro bellicose. Le prime facevano credere che si potesse puntare a un risultato finale sul tipo di uno “zero per zero”. Le seconde che si poteva percorrere la strada di una guerra commerciale di non breve durata. La prima ipotesi è stata subito bersagliata dall’aggressività spavalda di Trump che ha continuamente alzato l’asticella delle tariffe doganali. Una tattica del continuo rialzo che però già prevedeva un punto di caduta. Esattamente quel 15% che aveva trovato già una sua applicazione nel confronto con il Giappone e che in quello con la Ue rappresenta una indubbia vittoria tutt’altro che solo simbolica da parte di Trump.

Va sempre considerato che la guerra dei dazi è stata cominciata dal tycoon all’interno di una più ampia strategia di politica economica e finanziaria giocata a livello internazionale. E’ quanto sta scritto nel corposo documento del novembre del 2024, stilato dal suo principale consigliere economico, Stephen Miran, che suggerisce all’Amministrazione americana di alternare il “bastone e la carota” (testuale nel paper citato) nei rapporti con i vari paesi sullo scenario internazionale. In questa visione l’applicazione dei dazi e la loro ipertrofica minaccia preventiva, costituisce il bastone, mentre la carota sarebbe rappresentata dalla continuazione di una protezione militare, o meglio la rinuncia a un totale o parziale abbandono della stessa. Qui emerge già un primo elemento che pone fin dall’inizio in vantaggio la posizione negoziale (si fa per dire) di Trump.

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analisidifesa

Non esistono garanzie senza rischi

di Gianandrea Gaiani

2fab2c656faadae5cb65b42d414e2101 1755543385 extra large.jpegCome spesso è accaduto da quando è iniziata la guerra russo-ucraina, la situazione è grave ma non seria, come sta dimostrando il dibattito sulle garanzie di sicurezza da offrire Kiev.

Garanzie necessarie in un ipotetico scenario futuro in cui un’ipotetica pace si instauri tra Mosca e Kiev in seguito a un ipotetico accordo di cui al momento non si vedono i presupposti, neppure quelli ipotetici considerato che l’Ucraina non ha accettato di cedere i territori perduti e già in mano ai russi, prima condizione per portare Mosca al tavolo delle trattative.

I leader europei sono rientrati esultanti da Washington tra lo scetticismo di molti osservatori che, come Analisi Difesa, hanno cercato di valutare gli eventi con un approccio pragmatico.

Il giornale web americano Politico evidenzia infatti che vi sono profonde divergenze tra gli alleati occidentali sul tipo di garanzie di sicurezza da offrire all’Ucraina.

Nella sua edizione europea, Politico sottolinea come, nonostante le pressioni del presidente statunitense Donald Trump e l’apertura a protezioni simili all’articolo 5 della NATO” come proposto dall’Italia, non sono stati definiti ne’ il perimetro ne’ le modalità di attuazione di tali garanzie.

Durante l’incontro con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e i leader europei del 18 agosto, Trump ha escluso l’invio di truppe statunitensi in Ucraina, lasciando l’onere agli alleati europei. Il primo ministro britannico Keir Starmer ha confermato l’impegno a lavorare a una “forza di rassicurazione” da schierare in caso di cessazione delle ostilità. Anche il presidente francese Emmanuel Macron ha parlato di una missione congiunta con Regno Unito, Germania e Turchia, ma i dettagli restano vaghi, precisa Politico.

Fonti europee riferiscono che gli scenari ipotizzati prevedono un possibile mandato di combattimento per le truppe occidentali, senza però attribuire loro il compito di far rispettare la pace. Concetto non molto chiaro che sembra sottintendere che la responsabilità militare resterebbe alle forze armate ucraine.

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analisidifesa

Gli gnomi bellicosi

di Gianandrea Gaiani

Fronten.jpgLa stragrande maggioranza delle nazioni europee, stati membri di UE e NATO, in prima fila nell’esortare il continente al riarmo per essere pronti a combattere i russi che entro pochi anni di certo invaderanno l’Europa (fino a Lisbona come diceva qualche illustre opinionista italiano), non dispongono di forze da combattimento numericamente credibili e non sarebbero in grado, in caso di guerra aperta, neppure di presidiare i propri confini, figuriamoci di difenderli.

Basta prendere le dichiarazioni roboanti dei diversi premier, ministri e in qualche caso di capi di stato maggiore o alti ufficiali (soprattutto in Nord Europa) e confrontarli con i dispositivi militari che queste nazioni “bellicose” sono in grado di mettere in campo oggi, cioè tre anni mezzo dopo l’inizio della guerra in Ucraina che, a dire di molti, vede i soldati di Kiev combattere anche per noi.

In molti casi, la consistenza degli strumenti militari di diverse nazioni europee si rivela un bluff, ancor più clamoroso se lo si affianca alla veemenza con cui esaltano il rischio di guerra con la Russia e la necessità di un massiccio riarmo, sollecitando e pressando politicamente le grandi nazioni europee che dispongono di forze armate quanto meno credibili nei numeri e nelle capacità.

 

Avvertenze

I dati citati in questo articolo provengono dal Military Balance 2025 dell’International Institute fior Strategic Studies. Nelle valutazioni non è stato tenuto conto delle riserve mobilitabili nei diversi paesi in caso di guerra.

Non si tratta di una dimenticanza ma della considerazione che i tempi di mobilitazione, addestramento e inserimento in prima linea dei riservisti richiedono nella miglior delle ipotesi molte settimane.