Di fronte alla quarta guerra mondiale1
di Claudia Pozzana e Alessandro Russo
Una guerra globalizzata prolifera nell’attuale “disorientamento del mondo”, come lo chiama Alain Badiou,2 e al tempo stesso lo riduce all’impotenza, perfino alla complicità. Assistiamo ai prodromi di una guerra, di cui cominciamo appena a valutare la peculiare novità in termini di distruttività e di estensione, destinata a perdurare e aggravarsi per molti anni, perfino decenni. Per ritrovare il filo di un orientamento, cioè per pensare politicamente questa guerra, occorre ampliare l’orizzonte a nuovi riferimenti intellettuali, e riconsiderare le precedenti idee sulla guerra e sui suoi inestricabili rapporti con la politica.
La guerra nel mondo umano ha una specifica storicità. Sorge in una fase cruciale dello sviluppo dell’umanità, il neolitico, e ha come condizioni fondamentali l’appropriazione privata, inclusa quella delle donne nella famiglia, e la formazione di apparati statali separati che detengono il monopolio della violenza. Gli argomenti di Engels su questo punto restano preziosi.
Le guerre hanno sempre avuto come obbiettivo l’assoggettamento di un nemico al quale sottrarre una proprietà, o impedire di estendere la sua. Che nella mitologia omerica la guerra per antonomasia abbia come posta in gioco la proprietà di una moglie mostra quanto intricate, e al tempo stesso brutalmente semplici, siano le radici della guerra.
Cionondimeno la guerra non deriva da una presunta natura umana, tanto meno da una sua “animalità”. Essa ha una portata infinitamente più distruttiva e sproporzionata di tutte le forme di aggressività che strutturano, da sempre, il mondo degli esseri viventi. La guerra, invece, ha avuto un inizio e può avere una fine, a condizione che l’umanità riesca a inaugurare un’era completamente nuova.
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Un’impasse del pensiero militare oggi
Il disorientamento politico generale, di cui si avvale l’odierna guerra globalizzata, ne aumenta la forza distruttiva e al tempo stesso costituisce il maggior ostacolo a pensarla. Anche per gli studiosi militari la guerra contemporanea è un enigma. “Il volto del dio della guerra è diventato indistinto” 3, scrivevano già alla fine del secolo scorso Qiao Liang e Wang Xiangsui,
I due autori, noti a livello internazionale come i “due colonnelli cinesi”, hanno elaborato una prospettiva originale con la teoria della “guerra senza limiti”, intesa come novità radicale dell’orizzonte militare. Questa tesi implica due livelli: uno più operativo, cioè l’estensione illimitata del tradizionale campo di battaglia su terreni conflittuali diversi da quello dello scontro armato; e un altro, più essenziale, che riguarda il carattere “senza limiti” dell’odierna distruttività della guerra in quanto tale.
Il primo livello comprende, ad esempio, la guerra commerciale, inclusi dazi e sanzioni; la guerra per il monopolio delle nuove tecnologie; il controllo delle reti informatiche, inclusi cyber attacks; le guerre finanziarie condotte sia dai grandi stati, USA in testa, sia da potentati della finanza, capaci di assoggettare interi paesi; inoltre, anche gli attentati terroristici condotti da piccoli gruppi armati contro grandi paesi. I due autori cinesi sostengono che questi nuovi “campi di battaglia” stanno superando la portata del conflitto propriamente militare.
Il generale italiano Fabio Mini, anch’egli originale teorico militare e principale interlocutore di Qiao e Wang, pur riconoscendo la fondatezza dell’analisi, ha obiettato che lo scontro militare negli ultimi decenni non è diventato affatto secondario, ma è stato anzi brutalmente amplificato dalle nuove circostanze di quella che lui ha chiamato “la guerra dopo la guerra”.4
Sul secondo livello della tesi della “guerra senza limiti” (più precisamente della “guerra oltre i limiti”, 超限战争, chaoxian zhanzheng) l’accordo tra i tre autori è maggiore, ma mostra altresì un’angoscia condivisa, che riguarda un’autentica impasse. “Guerra oltre i limiti” indica anche l’estensione illimitata dei conflitti bellici nel mondo, senza che il pensiero militare contemporaneo più elaborato possa individuare un punto d’arresto delle ostilità. Queste prospettive teoriche delineano alcune caratteristiche nuove dell’attuale guerra globalizzata, ma non riescono a prevederne alcuna fine.
È significativo che questi pensatori non si fermino a descrivere le novità dell’orizzonte della guerra, ma siano tormentati dal problema di come pensarne i limiti, senza rassegnarsi alla constatazione che essa sia interminabile. Tuttavia, i “limiti della guerra” che essi propongono sono molto più opachi delle loro analisi, e in definitiva sono soluzioni immaginarie. Nella postfazione all’edizione italiana del volume cinese, intitolata “Alla ricerca dei limiti”, Mini spera che il riconoscimento dell’“Uomo” e dei suoi valori fondamentali sia capace di fermare la guerra globale. Ma oltre al fatto che senza ridefinire teoricamente le capacità del soggetto umano il riferimento all’Uomo resta ben più “indistinto” del “volto del dio della guerra”, come ignorare che negli ultimi decenni le peggiori aggressioni militari siano state battezzate “interventi umanitari”?
Qiao Liang, in un successivo volume del 2015,5 spera che la Cina possa instaurare a livello mondiale un sistema di credito “multipolare” che sostituisca il colonialismo finanziario “unipolare” degli USA, aprendo così a una situazione di reciproco vantaggio capace di fermare i conflitti fra gli stati. Questa è anche la prospettiva “win-win” promessa da Xi Jinping con la “Belt and Road Initiative”, che in realtà ha fatto emergere l’ostilità frontale tra USA e Cina, vero orizzonte dell’attuale situazione di guerra globale.
Nell’attuale disorientamento radicale c’è comunque da imparare anche dalle impasse delle teorie militari, che sono oggi più che mai un terreno rarissimo del pensiero. D’altronde, l’angosciosa “ricerca dei limiti” è sempre stata una sfida costitutiva del grande pensiero militare da Sun Zi a Clausewitz.
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Le tre guerre mondiali del Novecento e il loro limite
La tesi di Qiao Liang e Wang Xiangsui si articola però su una periodizzazione troppo ristretta rispetto alla situazione odierna. Il punto di partenza della “guerra senza limiti” è per loro la prima Guerra del Golfo (1990-91). Guerra certamente importante, perché avvenuta sul bordo finale della Guerra Fredda e alla vigilia del collasso dell’URSS. Tuttavia, oggi essa è un riferimento insufficiente per pensare il carattere “senza limiti” della nuova guerra mondiale, che in questi mesi l’invasione russa dell’Ucraina e le prove di guerra tra USA e Cina attorno a Taiwan annunciano sinistramente.
È indispensabile invece ripensare l’insieme delle guerre del Novecento, che è stato il secolo della mondializzazione della guerra. Benché si sia abituati a parlare di due guerre mondiali, ne vanno considerate tre, perché la Guerra Fredda fu anch’essa mondiale. Con la differenza essenziale che lo scontro diretto tra USA e URSS rimase molto contenuto sul terreno militare, rispetto alla potenza distruttiva di entrambi i contendenti. La narrativa corrente, secondo la quale la Guerra Fredda non diventò calda per via del reciproco ricatto nucleare, 6 è una lettura militarista che non tocca l’essenziale di quella situazione.
Quella che va considerata a pieno titolo la Terza Guerra Mondiale fu “raffreddata” da un peculiare fattore politico. Vi furono minacce, ricatti e provocazioni da entrambe le parti, ma non giunsero mai al confronto militare aperto, perché la Guerra Fredda, prima che uno scontro tra eserciti, fu una sfida tra due modelli di società e di stato. Ciò che contrapponeva i “due blocchi”, fatta la tara della retorica propagandistica di cui entrambi fecero largo uso, era una competizione su un terreno principalmente civile. Essa verteva in particolare su quale dei due sistemi fosse il più giusto nella limitazione delle disuguaglianze. I due blocchi si rimproveravano reciprocamente, l’uno per una falsa uguaglianza mascherata di libertà, l’altro per una falsa libertà mascherata di uguaglianza.
In effetti, per almeno tre decenni dopo la Seconda Guerra Mondiale in entrambi i blocchi si moltiplicarono gli interventi statali volti a contenere le disuguaglianze sociali. Quelle politiche statali, lungi dall’essere un’evoluzione naturale dei governi moderni, furono il risultato di un’eccezione. In mezzo mondo, dall’Europa dell’Est fino all’Estremo Oriente, erano attive sperimentazioni alternative al capitalismo. L’esistenza di grandi stati comunisti imponeva anche agli stati capitalisti di moderare la logica intrinseca della valorizzazione del capitale, cioè l’estorsione illimitata di plusvalore dalla forza-lavoro, e destinare risorse rilevanti alla riduzione delle disuguaglianze. Il welfare state fu il prodotto di quella grande competizione ideologica, e il suo declino a partire dagli anni Ottanta-Novanta fu a sua volta il risultato della riaffermazione globale del capitalismo.
La Guerra Fredda non comportava antagonismi di natura economica, perché tra i due blocchi le relazioni commerciali erano ridottissime. Fu l’intenso confronto propriamente politico tra socialismo e capitalismo a impedire grandi scontri militari. La singolarità di quell’epoca fu che un antagonismo altamente ideologico costituì il vero “limite della guerra”.
Da questa prospettiva sulla Terza Guerra Mondiale (detta “Guerra Fredda”) e sui motivi che ne limitarono l’antagonismo militare, occorre ripensare al ruolo che svolse, anche nelle altre due guerre mondiali, l’esistenza di un’idea organizzata di superamento del capitalismo.
Nonostante il discredito contemporaneo del comunismo novecentesco, dopo la restaurazione integrale del capitalismo negli anni Ottanta, è innegabile che l’insurrezione bolscevica abbia neutralizzato l’interventismo militare della Russia zarista e fermato il massacro di decine di milioni di persone su tutti i fronti, soprattutto giovani soldati. La tesi di Lenin, “La rivoluzione ferma la guerra”, era tutt’altro che l’astuto colpo di mano di un bandito senza principi, come è ormai luogo comune dire, il quale avrebbe avuto facilmente la meglio su quegli ingenui menscevichi, signori d’altri tempi che non riuscivano a smentire la parola data sulla continuazione della carneficina. La politica di Lenin era articolata su un’analisi affilata, sia delle condizioni economiche della prima guerra mondiale, sia delle prospettive teoriche marxiste sul superamento del capitalismo e sull’estinzione dello stato. L’imperialismo, fase suprema del capitalismo (1916) e Stato e rivoluzione (1917) sono scritti nello stesso contesto.
Nella Seconda Guerra Mondiale, la Resistenza antifascista ebbe molteplici componenti (liberali, cattolici, comunisti), ma l’esistenza organizzata di idee politiche che cercavano una strada alternativa al capitalismo fu determinante per la sconfitta dell’Asse Germania-Italia-Giappone. La guerra partigiana in vari paesi d’Europa, la “Grande guerra patriottica” dell’URSS e la “Guerra di popolo” maoista nella resistenza contro l’invasione giapponese, furono condizioni anzitutto politiche che portarono alla fine della guerra.
Tra queste condizioni, la strategia della “guerra popolare di lunga durata” è oggi la più ignorata, nonostante sia stata ampiamente teorizzata negli scritti militari di Mao. Perfino i due colonnelli cinesi se ne disinteressano, quando invece dovrebbero ricordarla non solo per il suo esito vittorioso, ma anche perché darebbe loro una spinta teorica nella “ricerca dei limiti”.
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Mao e la guerra mondiale incombente a metà degli anni Sessanta
Ancor più misconosciute sono oggi la politica estera e quella militare di Mao durante la Guerra Fredda, in particolare dagli anni Sessanta7. Le sue iniziative in questi campi meritano invece di essere ripensate, senza concessioni alla denigrazione pregiudiziale che le oscura da decenni, in Cina più che altrove.
A metà degli anni Sessanta, nel momento in cui la Guerra Fredda rischia di diventare uno scontro globale, con l’escalation militare americana in Vietnam, la politica di Mao svolge un decisivo ruolo di limitazione. Due le sue posizioni principali. In politica estera, completo sostegno alla resistenza vietnamita, rifiutando però categoricamente qualsiasi alleanza con l’URSS. In politica interna, l’integrazione dell’esercito nella vita civile, che riprende lo stile della “guerra popolare prolungata”, ma guarda altresì molto lontano, fino a un programma di estinzione dell’apparato militare separato, anche se sul breve periodo si incaglia nelle tumultuose vicende della Rivoluzione Culturale.
Il dissidio con l’URSS si articolava a sua volta su due piani. Uno riguardava la determinazione dei maoisti affinché la Cina non fosse coinvolta nell’antagonismo tra i due blocchi, posizione che si era già manifestata a metà degli anni Cinquanta, nell’iniziativa diplomatica della Conferenza di Bandung per la costituzione di un fronte neutralista di paesi “non allineati”. L’altro piano era l’aspro dissidio ideologico tra PCC e PCUS, che riguardava propriamente la natura dello stato socialista e la sua differenza col capitalismo.
Entrambi questi terreni di iniziativa politica costituirono un limite della guerra. La presa di distanza del PCC dall’antagonismo tra i due blocchi fu un grande fattore di “raffreddamento” della Terza Guerra Mondiale. Inoltre, il dissidio sino-sovietico accentuò la natura ideologica dell’opposizione tra socialismo e capitalismo, e quindi ne mise in primo piano il carattere civile su quello militare. Nonostante il dilagare negli ultimi decenni di litanie sui “danni delle ideologie”, bisogna invece riconoscere che furono proprio i contrasti ideologici a prevenire negli anni Sessanta una “guerra senza limiti”. Oggi è semmai proprio la “fine delle ideologie” uno dei fattori di illimitatezza della guerra.
L’intransigenza di Mao nel rifiuto di un’alleanza militare con l’URSS in funzione anti-USA, mantenendo al tempo stesso il pieno sostegno alla guerriglia di liberazione nazionale vietnamita, fu d’altronde oggetto di grandi contrasti ai vertici del PCC. Nel 1965, di fronte alla crescente aggressività USA in Vietnam, molti alti dirigenti del partito consideravano inevitabile e perfino auspicabile un’alleanza militare con l’URSS, mettendo da parte i dissidi ideologici. Il PCUS, dal canto suo, rivolgeva direttamente, o indirettamente attraverso altri partiti comunisti, appelli conciliatori.
L’opposizione di Mao fu categorica, ma tutt’altro che condivisa ai vertici del partito. Nella primavera del 1965, al premier sovietico Kosygin che proponeva di costituire un’alleanza militare e accantonare le divergenze ideologiche, Mao rispose che quelle divergenze sarebbero potute “durare 9000 anni”.8 Invece, pochi mesi dopo, in un incontro con una delegazione del PCI che passava per Pechino di ritorno da Hanoi, Deng Xiaoping assicurò accoratamente i “compagni italiani” che la situazione sarebbe presto cambiata perché, di fronte a un’ulteriore escalation militare americana, la Cina e l’Unione Sovietica erano pronte a un’alleanza militare che avrebbe “annientato l’imperialismo americano”.9 Nel febbraio del 1966 Mao intervenne personalmente a bloccare una dichiarazione congiunta che Liu Shaoqi e Deng Xiaoping stavano per sottoscrivere con il Partito Comunista Giapponese (filosovietico) per un “fronte unito antimperialista” guidato da URSS e Cina.10 Fu una grande fortuna per il mondo intero che Mao si sia ostinatamente opposto a quel disegno avventurista.
Come si vede dalle date, quelle divergenze si intrecciarono con gli scontri politici della Rivoluzione Culturale che sarebbero esplosi nell’estate, quando Liu e Deng, sotto la spinta dei movimenti di massa, persero le loro posizioni dirigenti nel partito. Si aprì un decennio di grandi sperimentazioni politiche, che comportarono anche fatali impasse distruttive e soprattutto autodistruttive, tentativi di rettifica e di rilancio, ma si chiusero con la “negazione integrale” di ogni loro valore col ritorno sulla scena di Deng Xiaoping. Le controversie sulla valutazione della Rivoluzione Culturale sono destinate a durare decenni, se non secoli, come per la Rivoluzione Francese e la Rivoluzione d’Ottobre. Non è possibile qui neppure sfiorarne i termini.11 Ci limiteremo a citare un’iniziativa di Mao, alla vigilia degli eventi rivoluzionari, che riguarda esattamente il problema della guerra e dell’esercito.
In una celebre “Lettera a Lin Biao” del 7 maggio 1966, 12 Mao accentua una concezione dell’esercito profondamente non militarista, radicata nella strategia della guerriglia degli anni Trenta e Quaranta. Certo, la situazione era diversa e la minaccia di uno scontro militare globale distruttivo era effettivamente all’orizzonte. Ciò alimentava non solo le posizioni filosovietiche ai vertici del partito, ma anche la richiesta di una forte “professionalizzazione” dell’esercito da parte dei vertici militari.
L’iniziativa di Mao nel maggio 1966 era dunque molto controcorrente. “Anche nell’eventualità di un guerra mondiale”, scriveva a Lin Biao, l’Esercito Popolare di Liberazione avrebbe dovuto essere una “grande scuola”. Questa dichiarazione continua ad essere equivocata, in Cina più che altrove, come se avesse mirato alla militarizzazione della società cinese. Al contrario, quello era un programma politico di civilizzazione dell’esercito, vale a dire la riduzione della separazione dell’apparato militare dello stato dalla società.
A rendere ancora più lungimirante quel programma era che esso si articolava con obbiettivi molto dettagliati di riduzione della divisione del lavoro. L’esercito doveva essere una “grande scuola” nel promuovere la disarticolazione delle barriere tra i differenti tipi di lavoro nella società, in particolare tra manuale e intellettuale. I soldati, scriveva Mao, avrebbero dovuto anche dedicarsi in parte all’agricoltura, all’industria e allo studio teorico. Viceversa, i contadini avrebbero dovuto essere anche in parte operai, studenti e soldati; gli operai avrebbero dovuto essere anche loro in parte contadini, studenti e soldati; gli studenti e tutti coloro impegnati in attività intellettuali, compresi tutti i funzionari statali, avrebbero dovuto essere anche in parte soldati, contadini e operai.
Questo alternarsi dei ruoli sociali era coerente con la prospettiva comunista elaborata già da Marx, Engels e Lenin, secondo i quali l’abolizione delle disuguaglianze di classe avrebbe potuto realizzarsi solo con l’abolizione della divisione del lavoro. L’originalità della posizione di Mao consisteva non solo nel guardare ai tempi molto lunghi di questa prospettiva, ma anche nel cogliere la radice originaria dell’intreccio tra la stabilizzazione della divisione sociale del lavoro e la costituzione di apparati militari e burocratici dello Stato separati dalla società. Era questa la ragione più profonda, ma anche la posta in gioco più ardua, del proposito di trattare la civilizzazione dell’esercito come fulcro della riduzione della divisione del lavoro.
Quel programma politico di Mao, lungi dall’essere “utopico”, come solitamente viene etichettato tutto ciò che egli fece dalla metà degli anni Cinquanta in poi, era invece minuziosamente articolato. Il suo aspetto più straordinario, e in definitiva più realistico, fu di essere formulato in quelle circostanze di massimo pericolo di una guerra mondiale, con l’intervento militare degli USA ai confini meridionali della Cina. Mao promuoveva una serie di sperimentazioni politiche comuniste, nonostante la possibilità di una guerra imminente, e proprio perciò prendeva la sola strada per limitarne la portata. Pochi anni dopo, sarà al Mao della Rivoluzione Culturale che Nixon e Kissinger si rivolgeranno come principale interlocutore per trovare una via d’uscita dalla guerra del Vietnam.
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La pulsione di morte del capitale
Sostenere che l’esistenza di idee politiche organizzate per il superamento del capitalismo abbia costituito il limite delle guerre mondiali del Novecento richiede un chiarimento fondamentale. Come mai il capitalismo è di per sé incapace di trovare un limite alla guerra ed è anzi la condizione della sua illimitatezza? Proviamo a delineare quattro aspetti della questione: (i) le risorse che gli Stati contemporanei possono destinare alla guerra; (ii) i loro reciproci antagonismi; (iii) la peculiare forma di autorità esercitata dal comando capitalistico; (iv) l’esorbitante potenza distruttiva delle odierne tecnologie militari.
(i) Quando gli Stati entrano in guerra riversano su scopi distruttivi immense risorse, le quali non vengono certo dal cielo, ma vengono dal prodotto del lavoro umano, estorto dai proprietari dei mezzi di produzione. Nell’odierno regime capitalistico queste risorse vengono dal plusvalore estorto ai salariati. È evidente che, maggiore è il plusvalore estorto, maggiore è la disponibilità di risorse che gli Stati possono indirizzare verso la distruzione, e dunque maggiori sono le possibilità che essi entrino in guerra. Nel capitalismo globalizzato l’estorsione di plusvalore è tendenzialmente illimitata.
(ii) Lenin aveva già chiarito oltre un secolo fa l’irriducibile bellicismo intrinseco ai rapporti inter-capitalistici. Oggi vanno certamente esaminate analogie e differenze con le circostanze geopolitiche della Prima Guerra Mondiale. Tuttavia l’odierna guerra globalizzata sfata le illusioni circa un’evoluzione pacifica del capitalismo, sia nella versione di rapporti “win-win” propagandata negli ultimi anni dal governo cinese, sia in quella di un unico “impero” mondiale fatto di reti di interconnessioni economiche e politiche, che una ventina d’anni fa aveva avuto una certa influenza tra i pensatori politici radicali in Europa e in USA.13 La guerra in corso mostra invece la violenza degli antagonismi tra potentati capitalistici, organizzati attorno a grandi stati e alleanze fra stati. Il capitalismo, lungi dall’esser regolato dalla cavalleresca concorrenza tra onesti uomini d’affari, è animato dalla cupidigia della “lupa”, la quale “dopo il pasto ha più fame che pria”.
(iii) La natura singolare dell’autorità capitalistica è di comandare un’entità astratta, la forza-lavoro. Il comando capitalistico viene esercitato facendo astrazione da tutto ciò che nell’umanità non è riconducibile a una peculiare merce, la forza-lavoro, che può essere annessa in linea di principio a tutti i sistemi di produzione. Questa intercambiabilità è una condizione fondamentale per realizzare la massima valorizzazione del capitale. Questo procedimento di astrazione, questo atto dell’astrarre la forza-lavoro da ogni altra possibilità del soggetto umano, è l’antecedente logico dell’estorsione del plusvalore.
Esso è altresì il nucleo della distruttività illimitata del capitalismo. Questa astrazione comporta non semplicemente la separazione, ma propriamente la distruzione di ogni altra possibilità dell’umanità. Ciò che non è riconducibile alla forza-lavoro è inesistente. Solo come presunto “proprietario” che vende la sua forza-lavoro sul “libero mercato” il salariato ha valore esistenziale; anzi, in termini formali e giuridici egli ha il massimo valore esistenziale, al pari di qualsiasi altro proprietario di merci. Nel diritto borghese, colui che vende la sua forza-lavoro e colui che la compra hanno uguale valore.
Senonché, vendere e comprare forza-lavoro, benché “scambiate a valore eguale” sono tutt’altro che equivalenti. Nel “mercato del lavoro”, termine che pretende di esibire la massima neutralità, si realizza l’annientamento soggettivo di ogni salariato. Nell’essere riconosciuto esclusivamente come venditore di tale merce, qualsiasi altra possibilità di esistenza soggettiva è nulla. Quindi, al di fuori dell’obbligo di erogare forza-lavoro, la quale viene valutata e scambiata come una merce al pari di tutte le altre, ogni altro surplus di esistenza del soggetto umano, di per sé infinito, è destinato a essere annientato.
(iv) Freud ha sostenuto che le grandi invenzioni tecniche della civiltà sono la realizzazione di desideri umani. L’esistenza di tecnologie per l’annientamento del mondo, lungi dall’essere il mero risultato dello sviluppo della scienza e della tecnica, è anch’essa la realizzazione di un desiderio, un potente desiderio di morte. Certo, ci vuole un enorme know-how tecnico e immense conoscenze scientifiche per produrre armi atomiche, ma la loro capacità di annientare numerose volte ogni forma di vita sul pianeta è anzitutto radicata nella distruttività propria dell’autorità capitalistica. 14
La pulsione di morte del capitale ha due obbiettivi complementari: eliminare i concorrenti nel processo di auto-valorizzazione, e annientare ciò che dell’umanità non è riducibile alla mera forza-lavoro. Lacan appaiava plusvalore e plus-godere: il godimento capitalistico è l’illimitata coazione a ripetere l’appropriazione di plusvalore. La regola fondamentale del capitalismo è la sua legge di morte. Marx ed Engels scrissero che il capitalismo è capace di creazioni formidabili, ma tutto ciò che crea è destinato alla distruzione prima ancora di consolidarsi. Ora che il capitalismo ha conquistato il mondo intero, cos’altro può desiderare se non distruggerlo?
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Il capitalismo USA nella quarta guerra mondiale
Lo scontro tra USA e RPC è oggi l’orizzonte fondamentale che determina a livello mondiale gli sviluppi dei conflitti e le possibili alleanze tra Stati. Le ostilità aperte iniziano nel 2018 con la guerra commerciale di Trump, con dazi e sanzioni, allo scopo di bloccare la Belt and Road Initiative di Xi Jinping; si intensificano con la presa in ostaggio di Meng Wanzhou, top executive di Huawei, la maggiore azienda informatica cinese; e raggiungono il punto finora più critico con la visita a Taiwan della Speaker della Camera, Nancy Pelosi. L’ostilità anticinese del governo USA è bipartisan. 15
Nonostante che la Belt and Road Initiative fosse stata inizialmente accolta con favore e promesse di collaborazione da parte di molti stati anche europei, Trump intervenne senza esitazioni a bloccare ciò che l’élite del potere USA considera una grave minaccia alla propria egemonia economica, finanziaria, tecnologica e infine militare. Gli USA imposero senza mezzi termini ai paesi vassalli, soprattutto europei, di troncare gli accordi già previsti e di assumere atteggiamenti sempre più ostili al governo cinese.
Come mai un’iniziativa che si presentava come altamente pacifica, “multilaterale” e allineata alle “leggi del mercato” globale ha suscitato una reazione tanto violenta da parte degli USA? Anzitutto perché il mercato capitalistico non ha altra “legge” se non la valorizzazione del capitale, la quale non si fida di promesse di reciproco vantaggio. L’espansione della sfera d’azione di un nuovo potentato capitalistico, vale a dire delle sue capacità di appropriazione di plusvalore, comporta inevitabilmente la riduzione di quelle di altri potentati già esistenti.
Per confermare la supremazia delle sue capacità di appropriazione, il capitalismo americano, assieme ai suoi vassalli, continua ad essere il principale fattore di guerra nel mondo. Fabio Mini scrive che l’interventismo militare è una “costante geopolitica” del governo USA. 16 Tuttavia, dopo la fine della Guerra Fredda e il collasso dell’URSS, l’imperativo strategico della supremazia militare mondiale ha assunto caratteri ancora più illimitatamente distruttivi. Qiao Liang e Wang Xiangsui hanno buone ragioni a datare l’inizio della “guerra senza limiti” con la prima Guerra del Golfo, la quale va evidentemente considerata come la premessa della seconda, l’invasione dell’Iraq.
L’essenza di questa illimitatezza, però, non consiste tanto nell’espansione della guerra a nuovi “campi di battaglia” extra-militari, ma nel fatto che tutti gli interventi americani negli ultimi tre decenni – oltre all’Iraq, Jugoslavia, Afghanistan, Libia, Siria – hanno mirato non solo alla sconfitta di eserciti nemici, ma soprattutto alla distruzione degli apparati civili degli Stati vinti.17 Oggi è ancora questo l’obbiettivo del “regime change” in Russia, apertamente dichiarato da Biden, e non può che essere questo l’obbiettivo, benché ancora implicito, del minacciato confronto militare con la Cina. L’avventurismo di questa strategia egemonica trascina oggi gli USA in una spirale distruttiva e autodistruttiva destinata a coinvolgere l’intero pianeta.
Henry Kissinger, oggi quasi centenario, sostiene che “la prova di valutazione di una politica è come finisce una guerra e non come inizia”18, mentre il governo americano è da decenni impegnato a iniziare guerre senza sapere come concluderle19. È chiaro che egli si assegna il merito di aver contribuito a far finire una guerra disastrosa, quella del Vietnam. Tuttavia, Kissinger riuscì in quell’impresa non perché modificò dall’interno la “costante geopolitica” della politica estera USA, ma perché si appoggiò all’esistenza di quel grande fattore di limitazione della guerra che era in quegli anni la politica maoista.
Kissinger e Nixon, per quanta spregiudicatezza e astuzia geopolitica abbiano impiegato nell’impresa, furono anche molto perspicaci nel cogliere la possibilità che veniva proprio da quella sperimentazione radicale di andare oltre il capitalismo. Certo, non ne condividevano nulla, ma capivano che quella sperimentazione era eterogenea all’estensione mondiale di una guerra che gli USA avevano provocato, che sapevano di non poter vincere, e dalla quale non avevano altre strade per uscire. Oggi invece, per gli USA la difficoltà insormontabile di moderare il loro connaturato interventismo militare è che al mondo non c’è altro che il capitalismo in varie forme. Quindi neanche Kissinger è in grado di indicare una via d’uscita al bellicismo degli USA e non riesce ad andare oltre la constatazione sconsolata che un conflitto globale è alle porte. I suoi ripetuti appelli ai governi americani per evitare uno scontro catastrofico con la Cina restano inascoltati.
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Il capitalismo cinese nella quarta guerra mondiale
Nell’attuale situazione di guerra il principale nuovo attore è il capitalismo cinese. Come mai, quando la Cina era il luogo di una straordinaria sperimentazione politica di una via oltre il capitalismo fu possibile l’apertura di relazioni pacifiche con gli USA – fu Mao il primo a volerle e a perseguirle – mentre oggi che in Cina si è instaurato un regime capitalistico incombe tra i due paesi una guerra globale? Non c’è nulla di destinale in questo conflitto, niente a che vedere con uno “scontro di civiltà” o con una “Thucydides trap”.20 L’antagonismo discende anzitutto dalla riaffermazione globale del capitalismo a partire dagli anni Ottanta e dal ruolo che vi ha svolto il governo cinese dopo la sconfitta della Rivoluzione Culturale.
Per esaminare i vettori che spingono il capitalismo cinese in questa spirale di guerra, la questione va considerata a partire dalla fine degli anni Settanta, con l’inizio delle “riforme”, nome ufficiale dell’instaurazione dell’economia capitalistica in Cina. Due sono i nodi principali: i caratteri propri del capitalismo cinese, e l’espansione dell’apparato militare separato dalla società.
La doppia autorità
Il capitalismo cinese si fonda su un peculiare sistema di doppia autorità.21 Vige anzitutto un’autorità prescrittiva classicamente capitalistica, fondata sul “libero mercato” di una forza-lavoro altamente flessibile, precaria e a basso costo. La sua componente fondamentale è costituita dalle centinaia di milioni di migranti interni dalle campagne con contratti di pochi mesi, che si spostano incessantemente da un luogo all’altro in cerca di lavoro. Su di essi viene esercitata anzitutto l’autorità che prescrive modi e tempi dell’erogazione della forza-lavoro.
Accanto ad essa vige l’autorità interdittiva del Partito Comunista, che vieta qualsiasi organizzazione politica indipendente. Il PCC è per statuto la sola “avanguardia della classe operaia”, espressione che, lungi dall’essere vuota retorica, va intesa come la rigorosa proibizione dell’esistenza politica autonoma dei salariati. In Cina non esiste neppure il diritto di sciopero, che viene sanzionato con l’arresto e la detenzione di almeno tre anni.
Questa doppia autorità ha fatto la fortuna dei capitali di tutto il mondo, che da decenni sono avidamente attratti in Cina, dove la delocalizzazione della produzione permette di assumere lavoratori a buon mercato sottoposti a un disciplinamento inflessibile. Ciò ha certamente fatto anche la fortuna del capitalismo cinese, che peraltro ha acquisito tecnologie d’avanguardia proprio grazie alla delocalizzazione. Che sia straniero o cinese, è comunque un capitalismo intransigente, che esige la massima precarietà e subordinazione.
Uno degli esempi più noti è l’insieme di fabbriche-dormitorio Foxconn, con oltre un milione di dipendenti in varie zone della Cina. Questa impresa è un intrico di rapporti tra il capitalismo americano (essa è il maggiore produttore di dispositivi Apple), il capitalismo taiwanese (quello del proprietario, Terry Gou) e l’autorità interdittiva del PCC, che garantisce l’“armoniosa stabilità” delle relazioni capitale-lavoro, oltre a fornire il supporto logistico e ad organizzare la veloce mobilità di centinaia di migliaia di lavoratori in base alle variazioni dei piani produttivi. 22 È notevole che la Apple in Cina sia finora rimasta fuori dal dispositivo delle sanzioni americane.
Il sistema della doppia autorità è un elemento di forza interna, ma è altresì un fattore di debolezza esterna. Questo sistema non è esportabile, neppure in territori che appartengono geo-culturalmente alla Cina. A Hong Kong esso non è riuscito a mantenere la stabilità se non imponendo la National Security Law, che è di fatto una legge marziale. Ancor più è illusoria l’unificazione pacifica con Taiwan. Se anche la RPC potesse occuparla militarmente, cosa tutt’altro che facile, comunque non potrebbe governarla senza drastiche misure repressive. Dovrebbe portare centinaia di migliaia di militari e funzionari dal Continente, oltre a neutralizzarne altrettanti sull’isola. L’ossatura fondamentale della doppia autorità può esistere solo in Cina, perché può contare su cento milioni di membri del Partito Comunista. Esso è finora la garanzia della stabilità e dell’espansione del capitalismo cinese.
La crescente separatezza dell’apparato militare
L’altro grande fattore che trascina la Cina nella guerra globale è la separazione dell’esercito dalla società. L’EPL era stato fondato da Mao nel 1927 e si era sviluppato nel corso della “guerra popolare prolungata”, con un forte radicamento nella società, specialmente negli strati più bassi della popolazione rurale. La vittoria nella guerra di resistenza antigiapponese e nella successiva guerra civile contro il Guomindang fu il risultato non soltanto di un’originale strategia militare, ma soprattutto dell’integrazione politica dell’esercito nella vita sociale. Il proposito di Mao nel maggio 1966 di fare dell’esercito una “grande scuola”, come s’è detto sopra, rivalutava questa tradizione politica e perfino puntava a fare della riduzione della separazione tra esercito e società la leva del progetto comunista di riduzione della divisione sociale del lavoro fino al suo superamento.
Quel proposito incontrò un ostacolo decisivo meno di due anni dopo, con la prima tragica auto-sconfitta della Rivoluzione Culturale, la degenerazione delle organizzazioni politiche indipendenti in bande paramilitari nel 1967-68. Quelle che erano state la grande novità del primo anno della Rivoluzione si annichilirono reciprocamente, con la sola eccezione di Shanghai, in un’insensata lotta armata per un’immaginaria “presa del potere”. Ne conseguì, come risposta automatica dell’apparato militare, un intervento repressivo dell’EPL, che impedì sì ulteriori distruzioni, ma ebbe anche come effetto, sia la definitiva chiusura di quelle organizzazioni sperimentali, sia la riaffermazione dell’esercito come apparato separato, in una direzione ben diversa dalla “grande scuola” sognata da Mao. 23
Dopo la sconfitta della Rivoluzione Culturale e la restaurazione di Deng Xiaoping, l’espansione della separatezza dell’apparato militare è diventata una costante delle politiche governative cinesi. Una prima tappa fu la guerra contro il Vietnam del 1978, fuori da qualsiasi logica di “guerra di popolo”, e per di più rivolta contro un paese fino a poco prima strettamente alleato. Deng la motivò come un atto di mera supremazia: al Vietnam bisognava “dare una lezione” (上一课shang yi ke).
Il vero punto di non ritorno della separazione dalla società fu però la repressione del movimento del 1989, a Pechino e in decine di altre città cinesi, dove l’esercito attaccò brutalmente masse inizialmente pacifiche che pretendevano di essere partecipi delle grandi decisioni statali. Quell’intervento militare in funzione di guerra interna, con varie centinaia di morti, segnò la fine completa di qualsiasi carattere “popolare” dell’EPL. La vantata “modernizzazione” e professionalizzazione dell’esercito cinese negli scorsi decenni equivale alla sua espansione come apparato statale separato.
Karl Kautsky a Pechino
Un’obiezione possibile ai nostri argomenti sul capitalismo nell’attuale guerra globalizzata, e su quello cinese in particolare, è che essi sono “ideologici” e comunque si fondano su riferimenti di un’epoca già conclusa. Noi in effetti attribuiamo grande importanza alle idee e alle loro conseguenze materiali. Mao diceva che “lo spirito si trasforma in materia, la materia si trasforma in spirito”. Riconosciamo inoltre che una parte dei nostri riferimenti (non tutti) sono posizioni teoriche elaborate – molto controcorrente, lo sottolineiamo – nell’epoca del comunismo novecentesco. Possono illuminare qualcosa del capitalismo cinese oggi? C’è chi ha chiamato in causa perfino un grande economista inglese del Settecento per analizzare la Cina contemporanea.24 Noi ci limiteremo a una polemica fra marxisti europei dell’inizio del Novecento. Dopo tutto, il governo cinese è oggi strenuamente “marxista”.
Nella nota polemica con Kautsky il problema centrale di Lenin era come pensare politicamente la prima guerra mondiale e come farla finire mettendo in opera un progetto rivoluzionario comunista. Di Kautsky criticava due posizioni correlate, sulla natura dell’imperialismo e sulla teoria marxista dello stato. Entrambe queste posizioni di Kautsky convergevano, sosteneva Lenin, nel produrre un radicale disorientamento tra i partiti socialdemocratici dell’epoca e infine alimentavano l’opportunismo “patriottico” con cui quei partiti votavano i “crediti di guerra”, dando così via libera al massacro di milioni di europei.
Lenin criticava anzitutto la teoria kautskiana dell’“ultraimperialismo”, cioè di un accordo fra le potenze imperialiste per la spartizione del mondo, che non sarebbe sfociata in un conflitto armato. Lenin la definiva “ultrastupidità” e dimostrava che l’imperialismo, “fase suprema del capitalismo”, portava alla guerra, come inevitabilmente stava avvenendo. Inoltre Lenin polemizzava sul fatto che Kautsky, allora considerato uno dei massimi conoscitori delle teorie marxiste, avesse “dimenticato” che al cuore del progetto politico comunista di Marx ed Engels c’era non tanto la lotta di classe, ma l’estinzione dello stato, cioè dei suoi apparati militari e burocratici separati.25
Certo, i tempi son cambiati e gli avversari non son più gli stessi. La posta in gioco non è più l’espansione colonialista. E soprattutto non c’è all’orizzonte alcun progetto rivoluzionario comunista. Tuttavia lo scontro in atto riguarda nuovamente la supremazia nell’appropriazione di plusvalore. La teoria di un capitalismo “multipolare” pacifico in cui le relazioni tra potentati capitalistici siano regolate da una dinamica “win-win” è la versione odierna dell’“ultraimperialismo”.
Parallelamente, il super-marxista PCC, da Deng a oggi, punta a rafforzare gli apparati statali, sia burocratici sia militari, e “dimentica” che l’obbiettivo principale del progetto comunista – certo, anche il nodo più problematico e controverso – è stato fin da Marx la drastica riduzione della separatezza dello Stato dalla società. Lenin aveva sostenuto che l’ipertrofia degli apparati militari degli stati europei nei decenni precedenti era stata uno dei principali vettori della prima guerra mondiale. Nella situazione odierna, la tendenza principale è ancora una volta la crescita delle capacità militari degli Stati, quello cinese ai primi posti.
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Lo scenario iniziale della guerra
Ampliare le prospettive sull’orizzonte mondiale è indispensabile per pensare politicamente questa guerra e guardare lontano ai suoi sviluppi. Lo scenario europeo da cui la guerra è iniziata appare indecifrabile senza considerare gli antagonismi globali che la sovradeterminano.
Europa, USA
Tuttavia, vanno anche considerate le cause interne che rendono l’Europa un pericoloso fattore di guerra. C’è anzitutto la debolezza intrinseca della celebrata “unità europea”, mascherata di eccellenza burocratica e di corsa al riarmo, ma in realtà divenuta sempre più succube della supremazia finanziaria e militare degli USA. La Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha proclamato con feroce soddisfazione che “gli ucraini sono pronti a morire per il sogno dell’Europa”.26 Ciò a cui assistiamo è invece non solo la morte degli ucraini e dei russi, ma anche la morte del “sogno europeo”.
All’indomani della Seconda Guerra Mondiale, alle radici di questo “sogno” c’era il desiderio, profondamente sentito, che l’Europa non fosse più lo scenario di quella guerra devastante che l’aveva martoriata per tre decenni. Quel progetto di unificazione pacifica tra paesi d’Europa comprendeva perfino posizioni miranti a una possibile indipendenza dagli scontri tra le superpotenze. Ad esempio, De Gaulle in Francia che uscì dalla NATO (Sarkhozy è rientrato), Aldo Moro in Italia che cercava una politica estera autonoma, e si ricordi anche che i movimenti di massa degli anni Sessanta in Europa scandivano lo slogan “fuori dalla NATO”.
Il fallimento del “sogno europeo” inizia esattamente all’indomani della caduta dell’URSS. L’Europa prende decisamente la strada dell’unificazione delle oligarchie finanziarie, con una crescita ipertrofica di apparati burocratici e militari separati dalla società. Questo processo è parallelo, o meglio conseguente, all’esaurimento dei partiti parlamentari, i quali avevano esercitato nei vari paesi, pur tra mille ambiguità, un elemento di moderazione della separatezza dello stato.
L’instaurazione dell’euro, ben più che una moneta comune, è la costituzione di un super-governo dell’Europa, gestito da organismi burocratico-finanziari che impongono – autocraticamente, è il caso di dirlo – le politiche economiche ai singoli paesi, nel totale disprezzo della volontà dei governati. Il caso della Grecia è esemplare. Le politiche di ferrea “austerity” sono state imposte dalla “troika” (Commissione Europea, BCE e FMI) nonostante un referendum popolare che le aveva rifiutate a grande maggioranza.
Altrettanto smisurata è la crescita degli apparati militari dell’Europa unificati nella NATO, la cui separatezza è suggellata dal fatto che il centro decisionale è situato fuori dall’Europa, nel governo USA. La subordinazione militare è peraltro complementare a quella economico-finanziaria. Gli USA hanno riversato sull’Europa le conseguenze della loro crisi del 2008, e oggi impongono agli stati europei sia l’aumento delle spese militari sia i costi economici e sociali delle sanzioni imposte alla Russia.
L’obbiettivo degli Stati Uniti è destabilizzare radicalmente la Russia e al tempo stesso subordinare gli Stati europei alla prossima guerra con la Cina. Kissinger critica la decisione di aprire contemporaneamente due fronti di ostilità, Russia e Cina, che secondo lui indeboliscono la potenza globale degli USA. Gli USA tuttavia sembrano puntare a entrambi gli obbiettivi, ma in successione: uno scontro con la Cina dopo aver azzerato la Russia e aver conquistato il completo controllo militare e diplomatico sull’Europa. A cosa possa portare questo disegno avventuristico lo stiamo appena cominciando a vedere. Lo scontro NATO-Russia era stato accuratamente preparato da anni. L’invasione russa dell’Ucraina, per quanto all’apparenza inattesa, è stata una mossa compiuta all’interno di questo quadro di ostilità.
Ucraina, Russia
L’invasione russa dell’Ucraina è il terreno più oscuro della situazione. Si può però intravedere in questa oscurità l’intreccio di almeno tre componenti: la sovrapposizione di una posta in gioco globale e una locale, la distruttività del narcisismo identitario, il disorientamento politico completo circa un bilancio dell’URSS.
1. Quanto all’intrico globale/locale del conflitto, da un lato, il governo USA ha prontamente incorporato lo scontro tra Russia e Ucraina nel quadro dei suoi obbiettivi a lungo termine, la competizione globale con la Cina . D’altro lato, sia la strategia russa sia quella ucraina sono confinate a un conflitto localizzato: è un classico scontro militare per ridefinire le frontiere tra due stati. Tuttavia, entrambi i contendenti sono stati di fatto trascinati nel conflitto da scelte strategiche superiori, uno come alleato, l’altro come avversario della potenza USA. Nessuno di loro è in grado di decidere l’esito dello scontro rispetto alla contraddizione globale che lo sovradetermina.
2. Il carattere strettamente locale è esasperato e bloccato dalla deriva identitaria che indirizza l’ostilità reciproca tra i due governi. L’automatismo distruttivo e autodistruttivo del narcisismo, dell’affermazione incondizionata dell’immagine di sé, ostacolo primordiale di ogni soggetto umano, viene amplificato non solo dalla dimensione collettiva dello scontro, ma ancor più dalla prossimità tra i contendenti. Che le due identità, di Russia e Ucraina, abbiano profonde somiglianze e interconnessioni, nelle attuali circostanze alimenta l’odio.
Il paradosso del conflitto tra due “immagini di sé” molto somiglianti era stato definito da Freud “narcisismo delle piccole differenze”. Lui vedeva nell’insofferenza tra popolazioni molto vicine la manifestazione di un’ostilità primaria rispetto alla propria immagine di sé, che è il nocciolo dell’identità.27 La somiglianza reciproca fa da ostacolo all’identità, producendo un attaccamento alle “piccole differenze”, che diventano così il fondamento, ancor più immaginario, delle rispettive identità; e comporta altresì la negazione dei molti elementi in comune che possiedono.
L’ostilità è in definitiva l’insofferenza nei confronti dell’“altro” sempre presente all’interno del “medesimo”. L’Io puro non esiste, o meglio rappresenta un ideale che si può perseguire solo depurando l’Io da ogni alterità, cioè distruggendola. Nel caso delle “piccole differenze” – che si tratti di individui o di comunità – l’ostilità esteriorizza in modo ancora più radicale un nemico da eliminare per affermare la pienezza dell’identità. Questa in realtà è sempre minacciata dall’interno, a causa della sua debolezza costitutiva: l’incompiutezza dell’immagine di sé nel soggetto umano. È straziante vedere l’automatismo dell’ostilità narcisistica all’opera nel rapporto tra i governi di due paesi, la cui storia moderna è così intrecciata sul piano materiale e spirituale: cultura, lingua, arte, storia e politica, legami personali e familiari tra la gente.
3. A fomentare la reciproca ostilità, anzi ciò che rende oggi inestricabile il groviglio, c’è soprattutto un fattore di somiglianza politica (o meglio di assenza di politica) tra le due “identità”. Russia e Ucraina sono due pezzi staccati dell’ex URSS, che hanno in comune molto di più di quanto non lascino intendere le rispettive propagande di guerra. Esse condividono un’organizzazione dell’economia sorta dal collasso dello stato socialista e dalla privatizzazione dell’economia statale. In ciascuna dominano fazioni oligarchiche che sono per il momento alleate attorno a un capo supremo. Ma soprattutto, in entrambi i paesi la disperante incapacità di fare un bilancio politico della storia dell’URSS viene supplita dalla propaganda di un’identità nazionale di cui va ripristinata la purezza.
L’URSS viene considerata la responsabile della negazione dell’identità nazionale tanto della Russia quanto dell’Ucraina. Nel discorso di Putin del 21 febbraio,28 che è stato la dichiarazione di guerra, il principale oggetto polemico è anzitutto Lenin, ben più che la NATO e l’“Occidente”. Era stato Lenin, dice Putin, che aveva gettato le basi di un’autonomia dell’Ucraina, in combutta coi “bolscevichi assetati di potere” (detto da uno che se ne intende). Viceversa, per il governo ucraino, l’URSS aveva imposto un’unificazione fittizia dalla quale ora l’Ucraina si deve depurare per ripristinare l’orgoglio nazionale calpestato.
Un episodio delle prime settimane di guerra condensa la tragedia del mancato bilancio della storia politica dell’URSS. In Ucraina è stata abbattuta con grande clamore mediatico un’enorme statua in cui due operai, uno russo e uno ucraino, sorreggevano insieme il simbolo dell’unità tra i due popoli. Entrambe le figure sono state decapitate, a partire ovviamente da quella russa. La distruzione ha una portata che va ben oltre il contrasto tra i due paesi. Quella decapitazione azzera simbolicamente il punto più intricato e controverso del comunismo statale, la promessa dell’esistenza politica degli operai come fondamento di un internazionalismo pacifico. I termini di quella promessa erano che per abolire e superare l’inesistenza degli operai nel capitalismo occorresse includere la “classe operaia” all’interno dello stato socialista. Oggi, a tre decenni dal disfacimento di quella promessa, e nella desolante assenza di qualsiasi pensiero su cosa essa fosse stata e perché avesse fallito, operai russi e ucraini sono arruolati per uccidersi a vicenda.
Il groviglio locale/globale, l’ostilità identitaria e l’assenza di un bilancio politico del Novecento rendono lo scontro tra Russia e Ucraina sempre più feroce. Entrambi i contendenti sono ugualmente incapaci di deciderne gli sviluppi. Al momento dell’invasione, Putin ha forse sopravvalutato il carattere locale dello scontro e sottovalutato la strategia globale USA. Probabilmente contava sul fatto che gli USA fossero troppo impegnati a preparare il conflitto con la Cina e avrebbero lasciato scoperto il fronte europeo, permettendogli, o almeno non contrastando efficacemente, la sua “operazione militare speciale”. Le provocazioni USA sull’indipendenza di Taiwan lasciavano prevedere che sarebbe stata l’Asia Orientale il primo scenario della guerra globale.
Gli USA hanno invece colto immediatamente l’occasione, che in realtà attendevano da tempo, e di cui avevano contribuito a creare le condizioni. Hanno lanciato una risposta militare “per procura”, dirigendo a distanza sia la NATO sia l’Ucraina, e in definitiva determinando anche le mosse della Russia, in una guerra alla quale per ora non sembrano avere intenzione di partecipare direttamente, ma che puntano a far durare il più a lungo possibile.
Gli USA si adoperano affinché questa guerra locale resti aperta a tempo indeterminato, impedendo ogni soluzione negoziale. Tuttavia, a breve termine l’obbiettivo di un “regime change” in Russia, pur dichiarato all’inizio spavaldamente da Biden, comporterebbe un intervento militare americano diretto, con esiti catastrofici incontrollabili. Gli USA puntano invece per ora a fomentare una guerra di logoramento che, oltre alla rovina dell’Ucraina, indebolisca contemporaneamente sia la Russia sia l’Europa. Questa seconda opzione non è meno avventuristica e infine devastante della prima, perché punta a creare le condizioni della superiorità americana nella Quarta Guerra Mondiale.
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Può esistere un limite di questa guerra?
Gli sviluppi globali di questa guerra europea sono imprevedibili nei dettagli, ma si vede chiaramente la loro tendenza fondamentale. Si è aperta un’epoca nella quale la guerra si va imponendo come l’effettivo governo del mondo.
Nella situazione attuale, per tracciare i compiti politici di iniziative che possano far deviare il corso di questa tendenza mortifera occorre fronteggiare un dilemma radicale. Dalla guerra del capitalismo globalizzato non si può uscire senza uscire dal capitalismo. Nelle attuali circostanze non esiste nessun limite intrinseco che possa fermare la guerra in corso; ma non esiste altresì nessuna idea organizzata capace di sperimentare un al di là del capitale, con l’aggravante che le sperimentazioni precedenti sono fallite, e che resta irrisolto il problema di quale bilancio farne.
Il mondo va reinventato politicamente, impresa di lunga durata che coinvolgerà più generazioni, e che dovrà difendersi dalla crescente minaccia di una distruttività illimitata. Che l’umanità riesca a trovare strade per questa reinvenzione del mondo, prima della sua distruzione, è il rischio più estremo che essa abbia incontrato nella sua storia.
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