Cosa attendersi da Hamas1
di Alessandro Mantovani
Le voci di un imminente cessate il fuoco a Gaza e di uno scambio di prigionieri-ostaggi fra Hamas e Israele si rincorrono da giorni2 e, con le dichiarazioni di Londra e Washington di un possibile riconoscimento dello Stato palestinese, non si può escludere una prossima fine delle operazioni militari. Cosa avverrà dopo? Una parte di questa risposta si trova nella natura e nella storia dell’organizzazione che più delle altre ha lasciato il suo segno sullo storico attacco a Israele del 7 ottobre 2023: Hamas, che in arabo significa “zelo”, ed è l’acronimo di Ḥarakat al-Muqāwama al-Islāmiyya (“Movimento di resistenza islamica”).
I Fratelli musulmani
Nel 1928 in Egitto, allora sotto mandato britannico, nasce un movimento islamista chiamato Fratellanza musulmana. Fondatore Hassan Al-Banna, il quale predica un ritorno all’Islam originario, non conseguibile senza fine del dominio straniero. Il rigorismo dei Fratelli musulmani respinge tanto il conservatorismo delle gerarchie quanto la secolarizzazione sul modello occidentale (per Al-Banna l’Islam contiene in sé la dimensione politica).
Inizialmente i “Fratelli” si limitano al terreno religioso e culturale. Presto Al-Banna realizza che per il suo progetto è necessario permeare la società. Si rivolge allora agli ulema, ai capi delle confraternite religiose, ai notabili, ai funzionari dello Stato, ma anche agli studenti, ai contadini, ai lavoratori. Mano mano che la “Fratellanza” cresce, e cresce rapidamente (siamo negli anni ‘20 del secolo scorso e l’Egitto è in ebollizione), essa non solo penetra nelle istituzioni caritative e di assistenza, bensì ne fonda e sviluppa una rete capillare. Prassi che diventerà il suo marchio distintivo. Dalla metà degli anni ‘30, pur non costituendo un partito, i Fratelli entrano anche nell’agone politico.
Lo sviluppo della Fratellanza – che si va dotando di una complessa struttura gerarchica - è impressionante in svariati campi: prima di tutto l’educazione, con la fondazione di scuole finanziate da imprenditori vicini all’islamismo; poi la prestazione di assistenza medica, l’attività di stampa ed editoriale, la creazione di sindacati delle professioni e dei lavoratori; inoltre la creazione di gruppi giovanili dediti allo sport, alle attività sociali, ai servizi d’ordine nelle manifestazioni. E di gruppi femminili. Non solo: grazie agli appoggi di cui gode nelle classi medie, nelle professioni liberali, negli ambienti mercantili e imprenditoriali, i Fratelli creano imprese, società per azioni, servizi finanziari, fondano sezioni in numerosi paesi arabi. Parallelamente, seguendo l’indicazione di AL-Banna del dovere della Jihad, sviluppano un’organizzazione militare semi-clandestina.
I Fratelli in Palestina
La prima filiale palestinese dei Fratelli musulmani risale al 1945. Nella guerra arabo israeliana del 1948 la sua organizzazione militare riceve il battesimo del fuoco. Il prestigio dei Fratelli cresce dopo il grande esodo (Nabka) perché essi assumono la parte dei difensori della causa palestinese e dell’onore arabo e musulmano contro la viltà ed i cedimenti del Cairo e delle capitali arabe. Su di loro si abbatte dunque la repressione della monarchia di Faruk, che pur li aveva tollerati e talvolta favoriti e integrati.
Dopo la proclamazione dello Stato d’Israele e l’occupazione della Cisgiordania da parte delle truppe di Amman e del Sinai da parte dell’Egitto, la Fratellanza palestinese si lega nella sua maggioranza allo Stato hascemita. Nella striscia di Gaza la storia dei Fratelli segue le alterne vicende dei rapporti con l’amministrazione egiziana. Nel 1949 sono messi fuori legge dopo che uno di loro ha ucciso il Primo ministro (Al-Banna stesso è assassinato nel 1949). In seguito alla rivoluzione militare del 1952, a cui i Fratelli hanno contribuito in modo determinante grazie alla loro influenza sulle masse popolari, i rapporti col nuovo potere degli ufficiali, inizialmente buono, si deteriora rapidamente. Nel 1954, dopo un attentato dei Fratelli contro Nasser, essi sono costretti, anche a Gaza, nell’illegalità.
Dunque la lotta anti sionista della Fratellanza in Palestina precede Al-Fatah, il partito di Yasser Arafat, fondato nel 1958. Va tenuto presente che i primi militanti di questa nuova organizzazione sono per lo più studenti palestinesi delle università egiziane, ex membri della Fratellanza musulmana, a cui rimproverano la passività e la mancanza di operatività nella lotta contro Israele dopo la repressione del 1954. Nel 1965, a seguito di un presunto progetto di colpo di Stato loro attribuito, i Fratelli sono colpiti da un’ulteriore e violentissima repressione. Il nuovo ideologo del movimento, Sayyid Qutb, il quale ha radicalizzato l’eredità di Al-Banna, è condannato a morte insieme ad altri esponenti dell’organizzazione.
La sconfitta araba nella guerra arabo-israeliana del 1967 segna il fallimento del nazionalismo laico. Ciò costituisce il terreno di un revival islamista. In Egitto la Fratellanza, con l’andata al potere di Sadat nel 1970, gode di un periodo di buoni rapporti con le istituzioni. In questo nuovo clima – tollerati dalla nuova amministrazione israeliana che punta a indebolire l’OLP - i Fratelli musulmani di Cisgiordania e Gaza riannodano le fila. Grazie ai loro buoni rapporti con Amman sviluppano le proprie attività sociali e caritative. A favore di tali attività, dopo la “guerra del petrolio” del 1973 e le colossali fortune accumulate dai paesi dell’OPEC, beneficiano di un notevole incremento di finanziamenti. Lo Sceicco Yassin, loro leader indiscusso, fonda così nel 1973 L’Unione islamica, movimento legale precorritore di Hamas, attivo soprattutto a Gaza. Oltre a varie associazioni (per l’infanzia, le donne, i profughi, ecc.) si moltiplicano le moschee collegate alla Fratellanza: a Gaza da 77 nel 1967 sono 450 vent’anni dopo.
La rivoluzione islamista iraniana del 1979, la sconfitta dell’OLP in Libano nel 1982, la progressione delle colonizzazioni ebraiche nei Territori occupati, la nascita di Hezbollah libanese, sono altrettanti fattori che determinano negli anni ottanta del secolo scorso una crescente radicalizzazione politica nell’islamismo in generale e palestinese in particolare. L’Unione islamica di Yassin inizia la sua penetrazione fra gli studenti universitari (fortissima la sua influenza all’Università di Gaza, che gode di cospicui finanziamenti dai paesi arabi), nei sindacati, nelle Camere di commercio e nelle associazioni professionali, in particolare dei medici, degli avvocati e degli ingegneri. Parallelamente sviluppa una struttura militare illegale e un’azione politica volta a contendere all’OLP l’inflenza sulle masse, partita che si gioca sul controllo delle istituzioni sociali e assume forme violente. In Egitto, al contrario, giunto Mubarak al potere, i Fratelli musulmani rifiutano il richiamo alla lotta armata e partecipano alle elezioni su posizioni moderate.
Hamas
La creazione di Hamas, in seguito alla prima Intifada (1987), corrisponde all’assunzione, da parte della Fratellanza musulmana di Palestina, della Jihad, e rappresenta la maturazione di un lungo percorso, parallelo alla crisi dell’OLP dopo la sconfitta libanese e l’esilio in Tunisia3. Maturazione che è anche mutazione: il nazionalismo palestinese, coniugato con un linguaggio islamico, prende il posto dell’universalismo dei Fratelli musulmani. La famosa Carta fondativa di Hamas (Mithaq) dell’agosto 1988, tirata in ballo in questi mesi per un suo presunto anti semitismo, distingue in realtà tra ebrei e sionisti, dichiarando guerra solo a questi ultimi. Il suo punto essenziale è la rivendicazione di tutta la Palestina in una fase in cui l’OLP e la sua forza principale, Fatah, mostrano sempre più la loro dipendenza dalle manovre compromissorie ispirate dalla Lega Araba. La nuova organizzazione non può ancora vantare il seguito di Al-Fatah, ma ne guadagna costantemente. Se ne accorge Israele, che dal 1988 inizia a reprimerla sistematicamente, arrestando numerosi dirigenti e, nel 1989, lo stesso Sceicco Yassin. Hamas si difende istituendo, grazie ai suoi legami storici con i Fratelli musulmani di Giordania, un santuario nel Regno hascemita (che diverrà fondamentale quando, in seguito, sarà dichiarato movimento terrorista).
Con l’arresto di Yassin è Abu Marzuq, ingegnere che ha studiato al Cairo con un dottorato negli Usa, a riorganizzare il movimento, avvalendosi di una nuova generazione di militanti, provenienti da professioni liberali, ben introdotti negli ambienti finanziari delle reti islamiche internazionali, partigiani di una “islamizzazione dall’alto” della società. Il centro estero ha la preminenza su quello interno e dirige i flussi finanziari che vanno a sostenere le numerose attività sociali e assistenziali. Nell'ultimo decennio del secolo scorso l'organizzazione apre numerose filiali e centri di addestramento militare nei paesi arabi (Libano, Sudan, Iran) e intrattiene rapporti con i servizi segreti di alcuni di questi paesi. Uno specifico accordo politico militare è siglato con l'Iran nel 1992. Viene stabilita una collaborazione militare con Hezbollah.
Centro interno, centro estero e braccio militare
Il rapporto tra il centro estero e quello interno di Hamas non è privo di contrasti: mentre il primo dimostra una maggiore intransigenza nei rapporti con Israele e l’OLP, il secondo, a più riprese, spingerà per adottare una linea più pragmatica, o addirittura accomodante, con l’una e con l’altra. Il centro estero vanta un maggiore controllo sul braccio militare, le Brigate ʿIzz al-Dīn al-Qassām. Maggiore controllo, ma probabilmente non un controllo pieno, in quanto i militanti delle brigate possono essere considerati l’ala più radicale dell’organizzazione. Il centro politico ha sempre ufficialmente riconosciuto loro totale indipendenza di iniziativa. Caso emblematico il fatto che la dirigenza di Hamas abbia dichiarato di essere venuta a conoscenza dell’attacco del 7 ottobre 2023 solo il giorno stesso4. Si tratta in parte sicuramente di un’ipocrisia diplomatica finalizzata a fornire una faccia più rassicurante all’ala politica; l’indipendenza e impenetrabilità dell’ala combattente è però un’essenziale misura di sicurezza, e su questa base è assai verosimile che il braccio militare abbia usato il peso delle sue azioni per influire a modo suo sulla linea politica di tutto il movimento. È più volte avvenuto infatti che sue azioni militari – siano state esse o meno concordate col centro estero - siano arrivate a scompaginare faticose trattative diplomatiche messe in campo dall’organizzazione dell’interno con l’avversario sionista, con l’OLP o con l’Autorità nazionale palestinese.
Gli uffici di Hamas all’estero hanno sempre mantenuto una rigorosa politica di “non interferenza” negli affari interni dei paesi che li ospitano (la Giordania in particolare). Se dunque da un punto di vista dei palestinesi dell’interno il centro estero si presenta come sostenitore dell’intransigenza verso Israele, da quello della dimensione panaraba della questione palestinese le cose vanno diversamente. All’alleanza con le masse arabe contro i loro governi Hamas preferisce un buon rapporto con le capitali del Medio e Vicino Oriente. Non senza effetti: quando sauditi e kuwaitiani tagliano i loro aiuti all'OLP (per la posizione pro Iraq assunta da Arafat durante la campagna irachena nel Kuwait), essi vengono dirottati verso l'organizzazione islamista palestinese, che si trova a beneficiare di grandi introiti finanziari (70 milioni di dollari nel 1996 secondo i servizi segreti israeliani). Altre fonti di finanziamento sono le ONG e le associazioni culturali islamiche in Europa e negli Stati Uniti.
Hamas e gli accordi di Oslo
Il processo che dalla Conferenza di Madrid (1991) porta agli accordi di Oslo I (1993) sposta verso Hamas il radicalismo politico palestinese. Mentre l'OLP cessa ogni azione armata contro Israele, Hamas, che contesta gli accordi, continua le sue azioni. In contemporanea alla road map di Oslo gli Stati Uniti dichiarano Hamas organizzazione terroristica. Nel 1994 si verificano i primi scontri armati con la polizia dell'Autorità nazionale palestinese (ANP) da poco installata. Nel 1999 l'organizzazione viene proibita in Giordania, dove fino allora aveva goduto di appoggi delle stesse autorità e di un'esistenza semi legale; trasferisce pertanto i suoi uffici a Damasco, in Siria, la quale, in buoni rapporti con l'Iran e con Hezbollah libanese, vede in Hamas un alleato contro Israele.
Tutti questi sviluppi dipendono dal fatto che Hamas respinge gli accordi di Oslo sui “due Stati” in Palestina. Ma quanto a fondo? Posto che, come per ogni movimento nazionalista è accaduto, Hamas è percorsa da più correnti, le quali rappresentano ognuna le diverse componenti di classe che partecipano al movimento nazionale, e che dunque sui rapporti con Israele, l’OLP e l’ANP, esistono al suo interno visioni diverse o addirittura divergenti, l’analisi delle prese di posizione del movimento porta a concludere che questo rifiuto non è così intransigente come i media israeliani e occidentali ancor oggi vogliono far credere: all’interno di Hamas trova posto una robusta corrente che ritiene irrealistica la rivendicazione della Palestina “dal fiume Giordano al mare”. Ad esempio già nel 1989, in un’intervista al quotidiano Al Nahar, lo sceicco Yassin aveva dichiarato accettabile uno Stato palestinese indipendente in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza “come primo passo”. Altri leader, in momenti successivi, dipendenti dal barometro politico, da valutazioni pragmatiche, ma anche dalle diverse anime che ispirano Hamas, si sono espressi per alcune varianti di compromesso.
La differenza fondamentale tra l’OLP e Hamas, sotto questo profilo, è che quest’ultima non accetta un riconoscimento formale di Israele, e dichiara di mantenere intatta – rimandandola però a un futuro indefinito - l’opzione storica su tutta la Palestina. E nel rifiuto di deporre le armi. Anche qui però bisogna distinguere. Nel 1997 Hussein di Giordania comunica agli israeliani che Hamas è disposta a una tahdi’ah (“calma” o “tregua”) di ben trent’anni. Altre proposte più limitate (ad es. di dieci anni) verranno avanzate successivamente, scontrandosi però sempre col rifiuto degli israeliani. Nel 1998, 1999 e 2000, in segno di “buona volontà”, Hamas sospende le azioni militari.
La seconda Intifada accresce il prestigio di Hamas perché, se è vero che Israele si è disimpegnata dalla Striscia, gli insediamenti ebraici in Cisgiordania si sono invece moltiplicati, frustrando le speranze che il processo di pace aveva instillato in una parte del popolo palestinese. Ma gli islamisti si mostrano molto cauti: accettano infatti di stabilire, nel corso del movimento di massa, strutture di coordinamento con Fatah e le altre forze della resistenza. All’interno di Hamas si discute su come relazionarsi con l’ANP: opporsi al processo di Oslo non significa necessariamente respingere qualsiasi rapporto con essa. Esemplare è la partecipazione di intellettuali di Hamas alla commissione di preparazione dei programmi scolastici per le scuole di Cisgiordania e Gaza. Malgrado contrasti anche violenti con l’ANP, tra il 2003 e il 2005 per Hamas l’ipotesi di entrare in una OLP riformata è sul tavolo. Dato che lo Statuto dell’OLP prevede il riconoscimento di Israele, entrandovi questo punto ne risulterebbe implicitamente accettato.
La vittoria elettorale del 2006
La morte di Arafat nel 2004 apre un fase concitata. Si preparano le elezioni dell’ANP e Hamas risolve di presentarsi con la lista Riforma e cambiamento, il cui programma è alquanto lontano dal documento fondativo del 1988. È un programma moderato che dichiara sì la sharia “fonte principale” della futura legislazione della Palestina, ma non l’unica; la lotta armata a Israele è appena accennata. Il linguaggio è prossimo a quello della democrazia occidentale. Si parla di “società civile”, di “pluralismo”, di “alternanza del potere”, di separazione dei poteri rappresentativo, giudiziario ed esecutivo, di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, di “sicurezza della proprietà”, di “diritti delle donne”. I candidati della lista di Hamas sono tecnici, imprenditori, professori universitari, insegnanti, predicatori, semplici cittadini, e una pattuglia di donne.
La svolta partecipativa è ben accolta dall’Occidente. L’idea di integrare Hamas nell’ANP equivale per le cancellerie di mezzo mondo a tagliarle le unghie, ma ciò a cui non sono preparate, soprattutto Tel Aviv e Washington, è la vittoria degli islamisti. Eventualità che nessuno, incluso Hamas, si attende. Dopo lo spoglio delle schede la sorpresa: Riforma e cambiamento ha conquistato il 56 per cento dei seggi.
Israele blocca subito le rimesse delle imposte della ANP, che Tel Aviv amministra. Ciò benché Hamas faccia mostra di molta moderazione: cerca di formare un governo di coalizione, di unità nazionale, propone un “governo del Presidente”. Il programma che Hamas avanza per la coalizione accetta il rispetto degli accordi sottoscritti dall’OLP con Israele e le risoluzioni dell’ONU sulla Palestina, e fa riferimento ai confini precedenti il 1967, la cosiddetta “linea verde”. Le posizioni dei moderati di Hamas vanno più lontano: Abul Abed dichiara che “La soluzione è uno stato palestinese che comprenda Cisgiordania e Gaza, con la sua capitale a Gerusalemme Est. Questo non mi obbliga a riconoscere Israele. La realtà è che Israele esiste ed è uno stato riconosciuto da molti, e con questo fatto devo fare i conti.”5. Si suggerisce cioè una “coesistenza pacifica”. Secondo Paola Caridi, dal 2005 in poi, in sostanza, il tentativo egli islamisti è stato di superare la Carta del 1988 senza smentirla. Tentativo che non ha scalfito la sordità degli interlocutori.
Tutte le proposte per giungere a un governo nazionale vengono bocciate da Abbas, premuto da israeliani e occidentali. Hamas è infine costretto a varare un governo monocolore, definito “il governo dei professori” per lo sfoggio di docenti universitari, professionisti, specialisti, tecnici, letterati, giuristi, la maggioranza dei quali ha studiato nelle Università occidentali. Il tutto allo scopo di rendere il più presentabile possibile il gabinetto. Scandite da confronti armati e tregue, le tormentate trattative tra Abbas e Hamas approdano l’8 febbraio 2007 a un sofferto accordo su un governo di unità nazionale: esso dovrà “rispettare le legittime risoluzioni arabe e internazionali firmate dall’OLP”. Per Hamas una notevole concessione.
Hamas al timone di Gaza
A questo punto gli Stati Uniti si mettono di traverso e impongono ad Abu Mazen di mandare tutto all’aria; nel frattempo danno assistenza ai corpi di sicurezza del Presidente. Dopo un paio di mesi iniziano le violazioni dell’accordo. Ci si prepara allo scontro, che inizia il 7 giugno. Il 14 tutta la Striscia di Gaza è nelle mani di Hamas. A Ramallah Abbas insedia un nuovo primo ministro e mantiene con la benevolenza degli israeliani il controllo della Cisgiordania.
Una volta presa in mano l’amministrazione della Striscia, Hamas deve fronteggiare la risposta dello Stato sionista, ossia il blocco di Gaza che dura tutt’ora, spalleggiato da quello imposto dall’Egitto al valico di Rafah. Nel 2008 ha luogo la campagna militare israeliana “Piombo fuso”. Per uscire dall’isolamento il governo islamista promuove varie iniziative, tra cui merita menzionare, dopo l’elezione nel 2009 di Barak Obama, il tentativo di aprire un canale con il nuovo Presidente americano (che viene anche invitato a Gaza). Nello stesso anno Hamas e Israele sembrano sul punto di raggiungere un’intesa per una nuova tregua di un anno e mezzo, in cambio dell’apertura dei valichi tra la Striscia e il territorio israeliano. Non se ne farà nulla.
La frustrazione del popolo palestinese contro un’istituzione – l’ANP – che non controlla il proprio territorio e verso lo stesso soffocante governo di Hamas nella Striscia porta al rafforzamento del Jihad palestinese. Nel febbraio 2010 giovani manifestanti vengono manganellati dalla polizia dell’ANP a Ramallah.
Influsso della “Primavera araba”
La Palestina non può non risentire della “primavera araba” iniziata in Tunisia alla fine del 2010. Il 15 marzo 2011 la gioventù scende in piazza a Ramallah e Gaza City contro l’idea di una nazione palestinese confinata a Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. È una contestazione che non coinvolge solo l’ANP, ma - specie nell’ottobre - la stessa Hamas, la quale mobilita le sue forze di sicurezza per farvi fronte. Sotto la spinta della piazza ANP e Hamas raggiungono un’intesa di riconciliazione (Accordo del Cairo del 4 maggio 2011). La questione centrale è ancora la riforma dell’OLP ammettendovi Hamas. L’accordo stabilisce che un governo nazionale unitario dovrà sorgere col consenso di tutte le parti e dopo nuove elezioni (che non avranno mai luogo). Il governo israeliano ribadisce di non accettare un governo che includa Hamas. Ciò benché da quest’ultimo siano di nuovo partire profferte di tregua (questa volta di quindici anni). Dopo quanto abbiamo visto, va capito che il reiterato rifiuto dei sionisti in tal senso è in gran parte un pretesto per proseguire indisturbati la politica di colonizzazione.
Uno dei fattori della rivoluzione egiziana di piazza Tahrīr è l’appoggio alla causa palestinese: il popolo egiziano è insofferente verso la politica filo israeliana di Mubarak. La sua caduta nel 2011 porta i Fratelli musulmani alla vittoria nelle elezioni dell’anno seguente (Partito libertà e giustizia) con un programma il quale - benché ispirato alla Sharia – prevede uno stato parlamentare e l’accettazione del libero mercato capitalistico6. Muhammad Mursī diviene Presidente.
Di conseguenza Hamas non è più confinata nel blocco di Gaza. Il Qatar entra in campo finanziando la costruzione di strade nella Striscia. Passo cui si accompagna l’ospitalità garantita a Doha alla leadership islamista, dopo che essa nel 2011 ha abbandonato la Siria in fiamme.
Il confronto del novembre 2012 tra Israele e Hamas è la prima guerra di Gaza nell’era del secondo risveglio arabo. Il 20 novembre dieci ministri degli Esteri dei più importanti paesi arabi visitano Gaza, riconoscendo in sostanza il ruolo di Hamas nella regione. Il 29 l’ONU ammette la Palestina quale “Stato non membro” e “osservatore permanente”. C’è un conto da pagare: Hamas decide di accettare un esecutivo guidato da Abbas. “Abbiamo una sola autorità e un punto di riferimento,” dice Khaled Meshaal, voce di Hamas. “Ed è l’Olp.”.
La sconfitta delle primavere arabe compromette anche gli apparenti progressi compiuti dalla causa palestinese. L’Egitto, dopo il colpo di Stato di Al-Sisi, riprende il blocco di Gaza. Il governo della Striscia perde centinaia di milioni di dollari di introiti fiscali e deve fronteggiare di nuovo la penuria. Hamas tenta ancora, nel 2014, la carta della riconciliazione palestinese. L’accordo firmato a Gaza City il 23 aprile riflette lo statu quo: Fatah comanda in Cisgiordania, Hamas nella Striscia.
Il 1° maggio 2017 Hamas pubblica un importante Documento di principi e politiche generali7: al solito esso definisce i confini storici della Palestina come inalienabili e rifiuta il riconoscimento di Israele. L’art. 20 però dichiara la disponibilità a scendere a compromessi su un futuro stato palestinese lungo la Linea verde, salvaguardando il diritto al ritorno dei rifugiati. L’articolo 29 riafferma la necessità di una riforma dell’OLP, inclusiva di tutte le parti.
Nel 2018 sorge dal basso, scavalcando Hamas, il movimento della “Grande marcia del Ritorno”. La leadership affronta il pericolo di una perdita di consenso. In effetti un sempre maggior numero di capi di Hamas risiede all’estero (in particolare in Turchia e nel Qatar) e la popolazione comincia a percepirli come staccati e lontani. Ne è una conferma la nascita nel 2022, in particolare nell’area di Nablus e Jenin, di nuovi gruppi armati che non si identificano con Fatah, Jihad islamico, FPLP o Hamas (ad es. la “Tana dei leoni” a Nablus).
L’operazione “Alluvione Al-Aqsa” e le sue prospettive
L’azione del 7 Ottobre rappresenta con ogni probabilità anche una reazione a questa tendenziale perdita di popolarità. In tale cornice - se consideriamo che vi hanno partecipato tutte o quasi le formazioni militari della resistenza palestinese, incluse la Jihad e le Brigate dei martiri AL-Aqsa legate a Fatah e presumibilmente la stessa “Fossa dei leoni”8– essa rappresenta per Hamas un innegabile successo egemonico.
Se così è, cosa possiamo attenderci nelle prossime settimane o mesi? Molti osservatori hanno espresso l’opinione che – ufficialmente scatenata come risposta alla profanazione della Moschea AL’Aqsa di Gerusalemme – l’operazione del 7 ottobre, per quanto militarmente e propagandisticamente efficace, manchi di un chiaro obiettivo strategico, a meno di non ritenere tale solo l’interruzione del processo di normalizzazione tra Israele e le capitali arabe implementato dagli “accordi di Abramo”; un obiettivo che non giustificherebbe, a sé solo, la carneficina di civili palestinesi e la devastazione di Gaza che inevitabilmente ne è seguita.
La Dichiarazione congiunta firmata a Beirut il 28 dicembre scorso da Hamas, Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, Movimento del Jihad islamico palestinese, Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina, Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina - Comando Generale9, non fa appello alla mobilitazione delle masse arabe contro i governi del Medio Oriente e anzi si rivolge proprio a questi ultimi, che mille volte hanno tradito la causa palestinese, affinché non la abbandonino10. Pertanto lo scopo dell’azione non era quello di stimolare un processo rivoluzionario regionale, il quale verosimilmente sarebbe l’unica strada percorribile verso una non fittizia soluzione della questione palestinese. Né si rivolge ai palestinesi di Cisgiordania affinché rovescino il governo fantoccio di Ramallah, legato mani e piedi a Washington e Tel Aviv; anzi chiede “un incontro nazionale globale che includa tutti i partiti senza eccezioni, per attuare quanto concordato nei precedenti dialoghi palestinesi”. Un chiaro ramoscello d’ulivo porto ad Abu Mazen affinché ripartano quei negoziati e si riformulino quegli accordi di unità nazionale che già hanno fallito in innumerevoli passate occasioni11.
Alla luce di quanto sopra, le critiche – peraltro piuttosto blande - contenute nella Dichiarazione alla politica dei “due Stati”12 e le dichiarazioni in tal senso di alcuni leader di Hamas13, ritengo siano da considerare più di facciata che di sostanza, anche se, come s’è visto, l’organizzazione non è nuova a divergenze interne e a prese di posizione contraddittorie.
La storia di Hamas, a partire dai Fratelli musulmani, ce lo dice: siamo di fronte a un movimento nazionalista di origine piccolo-borghese che ha sviluppato nel suo corso legami organici con la borghesia palestinese e – sia pur tra conflitti e alleanze ora con questo ora con quello – legami con i paesi arabi e islamici che nemmeno i peggiori tradimenti delle capitali del Medio Oriente sono valsi a interrompere. Non è una critica morale: i movimenti rivoluzionari possono essere obbligati ad avvalersi di alleanze e accordi temporanei con chiunque possa offrire opportunità favorevoli alla loro causa. Tuttavia la coerenza della lotta nazionale è tanto maggiore quanto meno essa fa affidamento sull’aiuto peloso di regimi che opprimono le masse popolari e amano lo statu quo e quanto più cerca di far leva invece sullo sconvolgimento di quest’ultimo e sui sentimenti rivoluzionari delle masse popolari. E sotto questo profilo Hamas non sembra, lo abbiamo visto, promettere bene.
A che pro questa disamina?
Dopo il 7 ottobre 2023 in Italia - anche se piuttosto deboli rispetto a quanto visto altrove - molteplici sono state le iniziative in sostegno alla resistenza palestinese. Con questo di caratteristico: la presenza di “rappresentanti palestinesi” definiti dalle più svariate sigle esopiche14. Col risultato di trovarsi – il più delle volte in assoluta buona fede – ad applaudire inconsapevolmente esponenti di tendenze (come Fatah) o istituzioni (come l’ANP) - che in realtà hanno già rinunciato da tempo a una seria lotta contro lo Stato sionista, facendo propria la parola d’ordine dei “due Stati”. Da parte degli organizzatori delle numerose iniziative grandi e piccole si è cioè ignorato o voluto soprassedere sulle differenze anche notevoli fra i diversi gruppi palestinesi che operano nella diaspora italiana. In parte ciò è dipeso dai palestinesi stessi i quali, in cerca di un più largo consenso alla loro causa, hanno evitato di metterle sul tavolo (il che non ha impedito che emergessero comunque15). E d’altra parte non si può certo chieder loro mancanza di discrezione, soprattutto in uno Stato che si schiera con Israele e definisce terroristi i militanti della resistenza. Il vero problema è invece che la giusta “solidarietà incondizionata” con la causa nazionale palestinese si è sovente trasformata nelle nostre variopinte sinistre in appoggio acritico verso le formazioni che – tant bien que mal – tale causa nazionale organizzano.
Da parte mia penso che la vera solidarietà con la lotta nazionale palestinese obblighi i comunisti a denunciare fin d’ora i limiti del nazionalismo borghese che nella fase attuale la dirige. A questo fine, memore dell’immeritata fama di cui l’OLP godette in passato presso la nostra sinistra estrema, ritengo utile mettere in guardia da un eccesso di credito verso l’artefice principale dell’attacco del 7 ottobre in territorio israeliano e verso chi nella diaspora lo rappresenta.
Scusi la freddura.
Lei non vede i motivi dell'anonimato, ma esistono, li rispetto e non intendo palesarmi.
Mi dispiace, ma vi assicuro che non perdete molto, sono anonimo e banale da tutti i punti di vista, come vita e come persona.
Saluti