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L’oligarchia tecnocratica al potere negli Usa. La risposta dei Brics

di Alfonso Gianni

As cover 74.pdfLa rivincita di Trump è stata brutale, per le modalità con cui è stata conseguita e per le sue dimensioni. C’è chi più cortesemente l’ha definita eccezionale, riferendosi soprattutto al fatto che solo un’altra volta un ex presidente americano è stato rieletto. Ma era accaduto più di cent’anni fa, precisamente nel 1893, un’altra epoca storica, quando il democratico Grover Cleveland ritornò nello studio ovale, dopo che per quattro anni vi si era insediato il repubblicano Benjamin Harrison.

Questa volta abbiamo avuto un ex presidente che non solo non ha voluto mai riconoscere l’esito delle elezioni del 2020, ma ha incitato all’assalto del Campidoglio a Washington nel giorno in cui il Congresso si apprestava a registrare la vittoria di Biden, lasciando sul terreno cinque morti (un agente e quattro manifestanti), spavaldamente sicuro della sua impunità; ha capitalizzato in campagna elettorale gli effetti degli attentati subiti – o ritenuti tali – esponendo il suo corpo leggermente ferito come una promessa di vittoria e una minaccia per i perdenti; ha rovesciato un numero incredibile di insulti sui suoi antagonisti e persino su settori dell’elettorato a cui pure sarebbe andato a chiedere il voto.

Eppure tutto questo è stato spazzato via come d’incanto dalla vittoria elettorale, così come sono stati ridicolizzati i sondaggi che fino all’ultimo prevedevano un testa a testa fra i due candidati, che non c’è mai stato. Insieme a tutto ciò sono state affossate le illusioni dei democratici, che le elezioni di Mid-term dell’8 ottobre del 2022 avevano tutto sommato premiato, permettendo loro di guadagnare quel seggio che gli dava la maggioranza al Senato e contenendo la perdita alla Camera, solo nove eletti in meno. Tanto più che si trattava di una cosa insolita, visto che quelle elezioni hanno avuto perlopiù esiti in controtendenza rispetto al partito del presidente in carica.

Il gradimento di Biden risultava sempre basso, non oltre il 45%, ma la sua forza politica aveva tenuto. A quella data non si erano ancora generalizzate tra la popolazione le preoccupazioni per i costi crescenti per l’economia americana determinati dal prolungarsi della guerra russo-ucraina e non era ancora iniziata l’invasione di Israele a Gaza. Si calcola che l’appoggio crescente all’Ucraina – con in più il via libera dato da Biden per l’utilizzo dei missili Atacms, prodotti dalla Lockheed Martin, per colpire in profondità il suolo russo - sia costata fin a ora 64 miliardi di dollari ai contribuenti americani.1

Le dimensioni del successo di Trump nel voto popolare, politicamente assai più significativo dal momento che pur non determinando l’elezione non viene distorto dal sistema elettorale in vigore negli Usa, sono state considerevoli. Anche se il suo sorpasso rispetto a Kamala Harris può dirsi “in discesa”, nel senso che il suo consenso è cresciuto meno di quanto sia diminuito quello nei confronti della sua avversaria. Tra il 2020 e il 2024 Trump ha aumentato il suo bottino elettorale di circa 2milioni e 400mila voti (mentre la Harris è arretrata di più di 7 milioni di voti rispetto a quelli presi da Biden), raggiungendo così la cifra considerevole di 76milioni e 668mila 904 votanti a suo favore. Tra questi non solo i lavoratori a spasso delle zone deindustrializzate, la famosa Rust Belt, ma anche latino e afroamericani, donne e giovani, sfondando quindi, anche se non in modo travolgente, nel campo di raccolta di consensi più tradizionalmente democratico. Una affermazione che può dirsi storica, anche perché era dal 2004, con George W. Bush, che un repubblicano non vinceva anche il voto popolare

 

Lo spostamento a destra della società americana

Grazie a questi voti e al sistema elettorale, Trump si è assicurato un potere praticamente assoluto. Ha in mano la Camera e il Senato, la Corte suprema, la maggioranza degli Stati e quella dei giudici federali, ma soprattutto il voto del 5 novembre ha segnato un deciso spostamento a destra della società statunitense.

E’ pur vero che non in tutti gli Stati, laddove si è votato anche su quesiti referendari, che per lo più hanno riguardato i temi dell’aborto e della immigrazione, vi è stata coincidenza tra il senso del pronunciamento referendario e il voto per Trump. Prendiamo, ad esempio, il caso della Florida ove l’aborto è vietato dopo sei settimane di gestazione. Il limite è stato confermato dal voto referendario - ma va considerato che per fare passare la proposta di annullare quel divieto con l’intenzione di rendere poi possibile l’aborto anche in uno stato più avanzato della gestazione era richiesta una maggioranza del 60% - mentre i sostenitori di questa proposta hanno raggiunto il 57%, comunque la maggioranza dei votanti.

In altri sette Stati, pur nella diversità della formulazione dei quesiti, hanno prevalso nel voto referendario le proposte che comunque spingevano nella direzione di un allungamento temporale e di un allargamento della possibilità di fare ricorso all’aborto. Tra questi va ricordato il Missouri, dove Trump ha vinto con quasi il 60% dei voti, ove è prevalsa la volontà di introdurre il diritto all’aborto in Costituzione.

Anche negli Usa si sono quindi verificati casi significativi e non isolati di una diversificazione nell’orientamento di voto tra quello per il candidato a presidente e quello su questioni che riguardano da vicino condizioni di vita e libertà delle singole persone, quale è certamente il diritto di abortire.

Certamente questi elementi indicano la presenza di resistenze e di controtendenze nella popolazione statunitense, ma non invertono la direzione del vento verso destra che investe la società. Ove la polarizzazione tra le scelte politiche, almeno per quanto riguarda quelle legate direttamente alla Presidenza, si è ulteriormente accentuata. D’altro canto siamo davanti a un processo di lungo periodo, che ha avuto una spinta decisiva con l’elezione di Ronald Reagan nel 1981 e l’affermazione a livello internazionale della dottrina neoliberista, e che ha visto le forze reazionarie più o meno direttamente legate al Partito repubblicano lavorare nel profondo dell’immaginario collettivo e nei gangli intermedi delle istituzioni senza trovare un’adeguata capacità di resistenza e di iniziativa, se non addirittura un ventre molle delle forze liberal e di sinistra che fanno riferimento al Partito democratico, i cui esponenti, anche quando hanno occupato lo studio ovale, non hanno mancato di deludere i propri fin troppo generosi sostenitori.

Hanno lavorato a questo spostamento a destra forze consistenti e ramificate, come le chiese evangeliche ed i vari circoli ove le culture reazionarie, fino alle credenze esoteriche, hanno funzionato assai peggio che un semplice “oppio dei popoli”, ma come una sorta di Fentanyl virtuale.

 

Non sarà come prima

La rivincita di Trump non riporterà le cose come erano prima di Biden. Quel processo di non breve periodo, che nelle pagine di questa rivista da anni avevamo individuato - e nominato con un ossimoro più reale che apparente - “rivoluzione restauratrice” del capitalismo, subisce un ulteriore balzo in avanti. Si tratta quindi di capire su cosa si poggia, quale è la leva che gli dà forza e in che direzione esattamente spinge.

Alexandria Ocasio-Cortez, l’esponente certamente più vivace fra gli eletti alla Camera del Partito democratico (per lei è la quarta volta)2, dopo avere riconosciuto le dimensioni enormi della sconfitta subita ha aggiunto che “In America ha vinto il fascismo, e lo ha fatto conquistando segmenti di classi lavoratrici, un fenomeno che ha precisi antecedenti storici. Oggi i titolari della nostra democrazia sono Musk, Bezos e la classe corporativa”3. Parole non lievi, come si può ben leggere. Ma se la definizione di fascismo applicata al sistema di potere che si delinea con Trump, anche grazie alle figure – sarebbe forse meglio dire ai figuri – con cui, a quanto si può ora sapere, il tycoon intende formare la sua squadra di governo, ci appare più sfocata, non così individuante, la seconda parte della sua dichiarazione allude in effetti ad una nuova dimensione degli organi di governo della classe dirigente.

Ed è qui che emerge il carattere rivoluzionario e restauratore del potere trumpiano. Le vecchie definizioni del governo come guardiano notturno o come comitato di affari della borghesia appartengono ormai ad una fase trascorsa della storia del capitalismo. Siamo di fronte e non da oggi – si pensi allo stesso fenomeno a noi ben noto del “berlusconismo” – all’irrompere degli attori economici, degli agenti del processo di finanziarizzazione dell’economia, direttamente e senza mediazioni, sulla scena del quadro politico. Anche questo è un aspetto non secondario della crisi della politica che si avverte nelle società capitalisticamente sviluppate.

La centralizzazione del capitale a livello mondiale non fa solo capo a figure impersonali, come possono essere i potenti fondi di investimento, ad esempio le Big Three (BlackRock, Vanguard e State Street), ma trova i suoi interpreti e le sue punte apicali in persone fisiche, non solo visibili, ma che volutamente e continuamente si autoespongono sulla ribalta economica come su quella politica, a sottolineare l’inesistenza oramai di una linea di separazione tra i due teatri.

 

Il ruolo determinante di Elon Musk

Il caso più eclatante è certamente quello di Elon Musk che ha sostenuto apertamente e copiosamente la campagna elettorale di Trump. Tra i due quello destinato a contare e durare di più è il padrone di X, di Tecla e di tanto altro. Commenta giustamente Lucio Caracciolo “Musk non riflette la luce del sole Trump perché emette la sua. Ed è abituato a muoversi per conto proprio. Per esempio cedendo tecnologia americana ai cinesi e concordando con i russi la sua strategia dei satelliti per evitare che Putin gliene abbatta qualcuno [tornerò più avanti su questo specifico punto]. Alcuni sospettano che non fosse per la nascita sudafricana, Musk si lancerebbe nella corsa per la Casa Bianca 2028. Ma in attesa di lanciarsi su Marte lui preferisce fare il padrone su Terra. Altro che presidente dell’America in declino”.4

Il formidabile aiuto di Musk a Trump, che ha reso così imprevedibilmente netta la sua vittoria, non si è limitato – non si limita né si limiterà a maggiore ragione dopo l’insediamento del tycoon nella Casa Bianca – alle enormi donazioni di denaro (si potrebbe meglio dire investimenti visto che sono tutt’altro che senza ritorno) in sostegno alla campagna elettorale di Trump e neppure alla diffusione dei suoi messaggi attraverso i potentissimi mezzi di comunicazione (e di manipolazione dell’opinione pubblica) di cui dispone. Al di là della carica formale che – e se – rivestirà, Musk vuole essere parte agente in prospettiva dominante, ma fin da subito condizionante di un governo oligarchico-tecnologico che non si arresta all’America, ma punta al mondo nel suo complesso e perfino allo spazio infinito che ci circonda.

Sarebbe un errore giudicare i suoi atteggiamenti, spesso non poco sopra le righe e finanche buffi, come una manifestazione appena aggiornata di un futurismo che effettivamente fu la dimensione culturale che accompagnò il fascismo europeo, specialmente al suo sorgere. Così come non coglieremmo nel segno se pensassimo di assistere solo ad un passaggio dalla democrazia a quella che si potrebbe chiamare “emocrazia”, vale a dire, come ha scritto la politologa Catherine De Vries, a “un sistema politico in cui il dibattito è guidato da emozioni e sentimenti piuttosto che da evidenze e argomentazioni; in cui l’attenzione, piuttosto che il contenuto, è la moneta della politica; in cui la differenza fra mentire o dire la verità conta molto meno della differenza fra ciò che è intrattenimento e ciò che è noioso”. Quindi una sorta di berlusconismo potenziato e internazionalizzato post mortem del suo, a questo punto si potrebbe dire, geniale inventore.5 Certamente tutti questi elementi ci sono nella figura e nell’attività di Elon Musk, ma non ne esauriscono il quadro.

 

La contraddizione fra capitalismo e democrazia

Qui esplode in modo ancora più evidente e gravido di conseguenze un tratto in sé non nuovo e di cui abbiamo spesso discusso: la contraddizione fra il capitalismo maturo e la democrazia.6 Questo aspetto è ormai colto appieno da diversi osservatori e studiosi. Paolo Benanti, consigliere di Papa Francesco sui temi dell’intelligenza artificiale, rivolge uno sguardo aspramente critico verso l’utilizzo massiccio e male indirizzato della tecnologia digitale: “Oggi questi supernodi di comunicazione, le piattaforme, guidati da altre idee e dalla necessità di capitalizzare i dati degli utenti, hanno trasformato quel sogno in uno dei peggiori incubi per la tenuta del sistema democratico.”7

Del resto i guru del nuovo corso della Silicon Valley decisamente spostato a destra, non hanno mai nascosto le loro teorizzazioni reazionarie. Peter Thiel, fondatore insieme a Musk di Pay Pal, e di tante altre società, tra cui Palantir Technologies – il nome Palantir, pietra veggente, è tratto, non a caso, dal Signore degli anelli di Tolkien8 – cominciò a sostenere economicamente e politicamente Donald Trump fin dal 2016. Ora è più legato a James David Vance il neo vicepresidente degli States. Già nel 2009 scriveva: ”Non credo che libertà e democrazia siano compatibili … perché i sussidi concessi ai poveri e il voto alle donne, gruppi ostili in modo pregiudiziale alle idee libertarie, rendono impossibile la democrazia capitalista”9 Una dichiarazione che si può tranquillamente definire eversiva di qualunque sistema democratico, a maggiore ragione se “fragile”, come Biden ha definito quello americano. Ma con l’aggravante di un carico di odio di genere e di censo che ha radici nelle origini più cupe della storia del capitalismo, quando i suoi spiriti animali si manifestavano in una barbarie che oggi ci viene riproposta, appena ricoperta da una patina futurista-tecnologica.

Curtis Yarvin, un famoso blogger americano, cattolicissimo e anche lui adorato da Vance, ribadisce gli stessi concetti in modo, se possibile, ancora più crudo e chiaro: “Qualcuno ci accusa di propugnare l’oligarchia, ma guardate l’America del XXI secolo, i laureati delle università Ivy League, le scuole top, governano da generazioni, pensando al potere e non al popolo: gli Stati Uniti d’America devono trasformarsi in una start-up, governata da un Amministratore Delegato Nazionale a Washington, Dittatore se volete, un Re che ripulisca il Paese, come il programmatore ripulisce il software dai bug, gli errori”10 Fermiamoci pure qui.

 

La concentrazione di crescenti ricchezze in poche mani

E’ sufficientemente chiaro quale è e quanto sia tossico il brodo di cultura che ha partorito l’attuale destra, che ha fatto sì che la Silicon Valley da “giardino anticonformista” sia diventata la rampa di lancio per una rivoluzione restauratrice. Il motore del cambiamento - e non dobbiamo avere paura di cadere in una sorta di materialismo volgare nell’affermarlo - è stato l’accrescersi smisurato della ricchezza in poche mani, che ha cancellato qualunque residuo etico, ogni pulsione autenticamente libertaria, qualsivoglia concetto di limite. L’intreccio di questa tecnologia del digitale con l’industria bellica, dimostrabile per tutte le imprese e le figure qui citate - e le tante che non è possibile qui ricordare - ha completato l’opera, stabilendo un legame strettissimo e forse indissolubile tra questo capitalismo - che punta all’intelligenza artificiale come potenzialmente sostitutiva dell’umano e allo spazio quale nuova fonte inesauribile di estrazione di ricchezze che la natura esausta della Terra non riesce più a dare in quella misura - e la guerra, più precisamente un sistema di guerra. La crisi economica e finanziaria scoppiata nel 2007 in Usa e l’anno seguente nel resto del mondo, quella pandemica del 2020, le terribili guerre dal 2022 in poi, in Ucraina e nel MedioOriente, hanno cambiato mosse e posizioni del e nel capitale globale e in questo processo il carattere oligarchico delle classi dominanti si è sempre più accentuato. Secondo il rapporto Oxfam Inequality Inc. del 2020 i cinque uomini più ricchi al mondo – Elon Musk, Bernard Arnault (azienda del lusso Lvmh), Jeff Bezos (Amazon), Larry Ellison (Oracle), Warren Buffet – avevano raddoppiato le loro ricchezze mentre il 60% della popolazione mondiale si era impoverita. In questi ultimi quattro anni le fortune dei primi cinque sono aumentate del 114%.11 I tentativi di tassarle sia a livello internazionale che nei vari paesi rientrano, almeno finora, nell’ambito di ottimi studi, che però non hanno ancora incontrato né la volontà né la forza politica di metterli in pratica.12 Sono ben lontani i tempi nei quali, mi riferisco agli anni Trenta dello scorso secolo, negli Usa furono introdotte aliquote marginali del 90% sui redditi più alti, misura che rimase in vigore per quasi cinquant’anni.

 

L’idea di una nuova Lega delle nazioni

Le ambizioni di Musk non restano circoscritte al pur ampio perimetro degli Usa. Tralasciando per ora le prospettive dei viaggi su Marte, quelle di estrarre da corpi celesti materie e terre rare indispensabili allo sviluppo del digitale e dell’intelligenza artificiale – la Space Economy 13 per dirla in breve – e altre proiezioni verso un futuro in parte già diventato realtà e rimanendo invece sul suolo terrestre, è in corso non solo la delegittimazione continua dell’Onu e delle sue organizzazioni, denigrate e insultate senza ritegno dai vari Trump e Netanyahu, ma anche il tentativo di dare vita a nuovi sistemi di alleanza e organismi internazionali per rimarcare che il mondo deve voltare pagina. Su questo fronte corre in aiuto di Trump un altro esponente dell’orrido campionario umano di cui si avvale il capitale globale. Si tratta dell’argentino Javier Milei il quale, anche per oscurare gli insuccessi in patria dopo la sua sciagurata elezione alla presidenza, avanza lodi e proposte a Trump. E da questi viene immediatamente ricambiato con messaggi di questo tenore “Javier, voglio congratularmi con te per il lavoro fatto, per avere reso l’Argentina di nuovo grande”.14 La proposta del presidente argentino – relatore alla Conferenza di Azione politica conservatrice (Cpac) tenutasi a metà novembre a Mar-a-Lago, è quella di dare vita a una nuova Lega delle Nazioni che trae ispirazione da quella del 1919, di cui dovrebbero fare parte oltre agli Stati Uniti e all’Argentina, anche Israele e l’Italia (non a caso è già annunciato come imminente un viaggio di Giorgia Meloni a Buenos Aires).

Il programma di questa “nuova” organizzazione sarebbe quello di combattere le pur minime manifestazioni di progressismo ovunque si trovino e in qualunque modo si esprimano, di difendere a oltranza la proprietà privata, di promuovere trattati di libero commercio e di cooperazione militare, considerando l’Agenda 2030 delle Nazioni unite per lo sviluppo sostenibile “un programma sovranazionale di stampo socialista [!] che attenta alla sovranità degli Stati e violenta il diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà delle persone”15. Il ritiro della delegazione argentina dalla Cop29 è perfettamente coerente con questa impostazione, come lo è l’entrata a piedi giunti di Musk nello scontro in atto da parte del governo italiano contro la magistratura.

 

Musk e il mercato cinese

Quindi America first sì, ma fino a un certo punto, perché l’oligarchia tecnologica al potere sa bene che è in atto da tempo un declino americano e una transizione egemonica mondiale da Ovest ad Est. Il violento carattere reazionario e restauratore della rivincita trumpiana, il precipitare dentro un sistema di guerra si spiega anche come un brusco tentativo di invertire questo processo. Si potrebbe dire che siamo di fronte al colpo di coda della tigre ferita, come dicevano i compagni cinesi d’antan. Infatti il nemico da parte della Amministrazione Trump è individuato nella Cina più che nella Russia di Putin. I dazi sulle merci cinesi al 60% e, seppure in misura minore su quelle europee, fanno parte di una guerra commerciale che Trump vuole intraprendere. Poco gli importa, a quanto pare, che simili mosse possano alimentare una spinta inflazionistica sui prezzi interni, malgrado che proprio l’aumento dell’inflazione che colpisce i ceti più poveri in un paese, come gli Usa, privo di welfare state, dovrebbe essere stato, secondo diversi analisti, una delle cause del malcontento dei ceti popolari che ha contribuito non poco all’affermazione elettorale trumpiana. D’altro canto le guerre commerciali sono da sempre state uno degli aspetti delle lotte di classe proiettate a livello internazionale.16 E una vera e propria guerra fra gli Usa e la Cina, che avrebbe inevitabilmente le dimensioni di uno scontro bellico di proporzioni mondiali con l’intervento di armi nucleari, è tutt’altro che esclusa. Anzi alcuni analisti statunitensi la prevedono in tempi tutt’altro che biblici, cioè fra una decina di anni.

Si potrà certamente valutare meglio quale sarà la politica estera e commerciale degli Usa una volta che Trump si sarà insediato. Ma fin d’ora si può intravedere un elemento di complessità da tenere d’occhio per valutare correttamente gli avvenimenti del prossimo futuro.

Torniamo pure a Elon Musk. Non bisogna dimenticare che questi è stato l’ideatore di OpenAi, dalla quale poi si è staccato per integrare la start-up proprio in Tesla, la sua creatura automobilistica.17Il mercato cinese è il secondo più grande per Tesla dopo gli Usa. La gigafactory di Shangai, inaugurata nel 2019, è rapidamente diventata il centro di produzione maggiore dell’impresa. Questo ha comportato una competizione crescente e sempre più aspra fra Tesla e Byd, grande azienda automobilistica cinese. Musk si è recato in Cina, avendo incontri al massimo livello, per governare questo processo. Il punto su cui si gioca la partita è dare vita pratica e pienamente affidabile al sistema Fsd (Full Self Driving), ovvero l’auto interamente robotizzata guidata senza intervento umano, già sperimentata per le strade di New York.18 “L’obiettivo finale di Musk per Tesla (progetto per lui comunque in certo modo ancillare rispetto a SpaceX) – osserva Alessandro Aresu – è che venga riconosciuta, anche per ragioni di valutazione, come un’azienda basata sull’intelligenza artificiale applicata alla robotica e alla manifattura su vasta scala, più che semplicemente sulla produzione di veicoli elettrici. […]Proprio questo apre un problema cinese per Musk tutt’altro che irrilevante: come farà Tesla a chiedere al Partito comunista un pieno accesso al mercato cinese, compresa la possibilità di prendere dati e metterli in uno dei suoi megacluster statunitensi, nello stesso mondo in cui gli Stati Uniti chiudono il loro mercato al software automobilistico cinese, a ogni variante di computer su ruote cinese che è ‘minaccia alla sicurezza nazionale’ per il provvedimento dell’amministrazione Biden del 23 settembre 2024?”19 e che – aggiungo - stando alle intenzioni proclamate, quella di Trump sembra volere inasprire con l’innalzamento dei dazi?

 

E l’Europa che fa?

In tutto ciò è più che urgente e necessario domandarsi che cosa fa l’Unione europea, visto che il nostro vecchio continente rischia di rimanere intrappolato tra la politica dei dazi trumpiana e il prolungarsi della guerra ai suoi confini orientali.

Stando alle mediocri vicende che accompagnano la composizione della Commissione europea e che sembrano assorbire del tutto l’attenzione dei paesi e dei partiti nazionali, c’è ben poco da aspettarsi. Eppure l’Europa dovrebbe in qualche modo reagire.

Il problema se le è posto Thomas Piketty, ma, a dire il vero, la soluzione da lui prospettata non appare convincente. L’eminente studioso vorrebbe poggiare una ripresa di iniziativa europea nel contesto mondiale di nuovo sull’asse franco-tedesco, che continua a considerare lo “zoccolo duro” della Ue. Peccato che questo zoccolo sia assai eroso dai guai politici ed economici che i due paesi citati stanno attraversando. Soprattutto la Germania, stretta fra recessione e crisi politica, che da un momento all’altro può diventare crisi di governo. Piketty rilancia – ma si tratta di un lancio debole - e scrive che “è importante stabilire una base istituzionale e politica solida. La cosa più logica sarebbe partire dall’Assemblea parlamentare franco-tedesca (Apfa) creata nel 2019 nel quadro del rinnovo del trattato bilaterale fra Francia e Germania”20 che finora – si è riunita un paio di volte – ha svolto un ruolo solo consultivo, facendo assai poco parlare di sé.

E’ assai difficile che possa farlo ora. L’idea è in fondo quella di un’unione rafforzata fra alcuni paesi (Piketty cita anche la Spagna e l’Italia) che è apparsa più volte nel corso della storia della Ue. Ma ora rischierebbe di naufragare da subito sullo scoglio della formazione di un debito comune e sul fatto che eventuali eurobond verrebbero collegati immediatamente all’incremento della spesa militare. Forse una via diversa può cominciare a delinearsi se la Ue avesse la forza di alzare la testa e guardare al di fuori di sé e del perimetro atlantico. Ma questo finora non è successo e anche l’importante vertice dei Brics a Kazan è stato oggetto più di dileggio svalutante che di serie considerazioni.

 

I Brics a Kazan per un nuovo multilateralismo

Quasi un quarto di secolo fa, precisamente nel 2001, un economista britannico conservatore, che ricoprì cariche importanti nella Goldman Sachs e anche nel governo britannico di Cameron, Terence James O’Neill, coniò l’acronimo Bric – ed è per questo che il mondo lo ricorda – avvertendo che Brasile, Russia, India e Cina erano destinate in un prossimo futuro a trainare l’economia mondiale. Possiamo dire che il barone inglese ci prese. Anche se per lui la profezia si presentava piuttosto distopica. Da allora, passando attraverso un crescente disordine mondiale, segnato da guerre di ogni tipo – 55 sono quelle attualmente in corso, secondo un attendibile calcolo -, crisi molteplici di dimensioni planetarie, economiche, finanziarie, pandemiche che hanno bruscamente ridimensionato le sorti magnifiche e progressive della globalizzazione dell’ultimo ventennio del secolo scorso, il numero dei paesi attorno a quei primi quattro è venuto crescendo. Nel 2010 l’acronimo è cambiato in Brics, grazie alla adesione del Sudafrica. Più recentemente si sono uniti al gruppo paesi – tra loro assai diversi per ragioni economiche e politiche – quali l’Egitto, l’Etiopia, l’Iran, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Di conseguenza anche la sigla iniziale è cambiata ancora una volta: “Brics Plus”.

In questo modo si è giunti al XVI vertice dei Brics, tenutosi tra il 22 e il 24 ottobre nella città della Federazione Russa di Kazan, sotto la presidenza di Vladimir Putin. La versione Brics Plus/Outreach, adottata nell’ultimo giorno del summit, ha permesso di allargare la partecipazione a paesi che stanno maturando l’adesione al gruppo o sono comunque interessati a esso, raggiungendo quindi la cifra di 36 paesi, perlopiù appartenenti a quello che è stato chiamato il Global South, con la presenza anche di Stati aderenti alla Nato, come l’onnipresente Turchia fisicamente rappresentata da Erdogan.

Erano presenti anche l’Anp con il suo presidente Abu Mazen in rappresentanza dello Stato di Palestina e il Segretario Generale dell’Onu Antonio Guterres. Quest’ultima presenza ha particolarmente indispettito la stampa internazionale di orientamento mainstream fino a spingere alcuni commentatori a scrivere che questo atto di presenza di Guterres era solo l’ultima dimostrazione di quello che secondo loro le Nazioni Unite avrebbero perso, ovvero l’autorità morale di parlare a nome dell’umanità. Accusa non lieve, che si aggiunge, questa sì, a un continuo processo di delegittimazione dell’Onu, dei suoi organi, del suo Segretario generale, che è arrivato fino all’aggressione armata all’Unifil da parte dell’esercito israeliano, alla dichiarazione da parte di Israele di persona non gradita – e quindi impedita all’ingresso in quel paese – nei confronti dello stesso Guterres fino all’indicibile dichiarazione di Netanyahu sull’Assemblea dell’Onu quale “una palude di bile antisemita”.

Malgrado i tentativi di sminuire l’importanza delle decisioni assunte dal summit dalla stampa europea e filoamericana, appare evidente l’impossibilità, benché la si sia perseguita, di ridurre l’evento a una platea per Putin o di sostenere l’inconsistenza degli esiti raccolti nella Dichiarazione finale, siamo di fronte a un evento mondiale di prima grandezza, ben di più di una speranza che si accende in un mondo e in un periodo cupi. L’incontro di Kazan, anche per il contesto mondiale nel quale si è venuto a collocare, costituisce un sensibile passo in avanti rispetto ai precedenti vertici dei Brics, senza bisogno di nascondere limiti e problemi che pure si sono evidenziati e non avrebbero potuto non esserci né restare nascosti.

 

L’importanza dell’evento

Anzitutto va ricordata la dimensione quantitativa, sotto diversi aspetti, che i Brics rappresentano nel contesto mondiale. Le cifre non possono essere esatte all’ultimo decimale, ma anche i commentatori meno favorevoli attribuiscono al blocco dei Brics il 35,6% del Pil globale in termini di parità di potere d’acquisto, superando quindi il G7 che non raggiunge il 31%, mentre contano il 44,4% della popolazione mondiale contro meno del 10% che vive nei paesi del G721. Rappresentano dunque quasi la metà della popolazione vivente sul pianeta. Non solo, ma sono in crescita da ogni punto di vista, mentre le aggregazioni dei paesi forti non godono di particolari successi22. Impossibile quindi non prenderne atto, seppure in dimensioni molto riduttive e svalorizzanti come ha fatto la stampa internazionale mainstream.

Uno dei modi per depotenziare gli esiti di un incontro politico, quando non si può usare il silenzio né altri sistemi, è quello ben noto di attribuire al medesimo pretese che in realtà non erano in partenza realistiche per poi gridare al fallimento. Ed è il metodo che è stato seguito in questo caso. Si sono visti, sì erano tanti, hanno chiacchierato, ma infine non hanno concluso nulla. Questo è il cliché utilizzato a piene mani. Così è stata trattata la Dichiarazione finale in 134 punti, come se fosse un albo dei sogni senza nessuna possibilità di attuazione, anche perché, si è subito sottolineato, non tutti erano d’accordo su tutto. Va detto che a questo clichè si è sottratto Romano Prodi, giustamente preoccupato dell’assenza di un ruolo dell’Europa in questo grande processo di cambiamento del quale i Brics si offrono come parte attiva.23

Che “Cindia” fosse una invenzione linguistica e che invece tra Cina e India siano in corso tensioni non solo di confine, ma anche di carattere economico e di relazioni internazionali, non è un segreto per nessuno. Ma anche su questo punto l’incontro di Kazan ha forse rappresentato qualche passo in avanti, visti i numerosi colloqui bilaterali che si sono tenuti a margine del vertice tra i principali leader, come quello tra il Presidente cinese Xi e il primo ministro indiano Modi, tra i quali non avveniva un incontro formale da cinque anni e di cui sicuramente andranno valutati con attenzione gli effetti in un prossimo ravvicinato.

 

Ciò che tiene insieme i Brics

Questa è una delle principali caratteristiche della modalità che unisce i Brics: quella di non considerare l’appartenenza a questi ultimi come esclusiva ed escludente rispetto ad altre contemporanee collocazioni. Il caso della Turchia è esemplare da questo punto di vista: è un paese della Nato, ma non per questo non viene accettata, anzi, nel concerto dei Brics. Il che comporta una visione del mondo come interno a un processo di trasformazione, per cui blocchi ed alleanze, egemonie e supremazie, dipendenze e protagonismi non sono dati una volta per tutte, ma possono essere oggetto di una modificazione anche radicale. Si tratta di una critica implicita ma profonda ad una logica divisiva cui erano e sono tuttora legate visioni della separazione del mondo in blocchi: o con me o contro di me. La lettura prevalente, anche nel campo dei simpatizzanti, che si è data degli esiti del vertice di Kazan, come di una sfida lanciata all’Occidente, rischia di adagiarsi su uno schema teorizzato e praticato da chi fin qui ha dominato il mondo, e vuole continuare a farlo, e quindi di essere deviante. Se non ci si libera da questa interpretazione unilaterale risulta difficile comprendere, ad esempio, come Lula possa essere uno dei principali e più attivi attori nel rilancio e nella crescita dei Brics e al contempo si prepari ad ospitare in Brasile il 18 e 19 novembre di quest’anno il G20, annunciando che le proprie priorità riguardano l’inclusione sociale, la lotta alla fame, la transizione energetica, il sostegno allo sviluppo e le riforme del sistema di governance internazionale. Coerentemente si sottolinea la positività della inclusione dell’Unione Africana nel G20, già decisa a Nuova Delhi nel 2023 (punto 14 della Dichiarazione).

 

La dichiarazione finale di Kazan

Un programma ambizioso, come si vede, che naturalmente riempie anche le pagine della Dichiarazione finale di Kazan. Come ad esempio in uno dei primi punti, il settimo, ove si riconosce esplicitamente il valore della “chiamata all’azione del G20 sulla riforma della governance globale lanciata dal Brasile durante la presidenza del G20”24. La strategia per la costruzione di un mondo multipolare, equo e sicuro (come dice il titolo della Dichiarazione finale di Kazan), non poggia principalmente attraverso la creazione di un altro polo contrapposto a quello statunitense da tempo in declino - ma ancora persistente - capace di creare le condizioni di un nuovo bipolarismo, quanto attraverso un lavoro di erosione, riforma e/o sostituzione delle istituzioni politiche ed economiche che hanno retto il mondo dopo il secondo conflitto mondiale, sia ai tempi della “guerra fredda” fra Usa e Urss, sia a quelli del Washington consensus del post ’89.

Non è forse azzardato intravedere qui - cioè nella concezione di un mondo che per la propria pace rifiuta alla radice la divisione in blocchi contrapposti cui tutti i paesi dovrebbero aderire scegliendo o l’uno o l’altro - tracce lasciate, e lungamente sedimentate nel tempo, dalla Conferenza di Bandung del 1955, svoltasi in una situazione mondiale completamente diversa dall’attuale, che intendeva unire quelli che allora venivano definiti i “paesi non allineati”, quindi non attratti né nella sfera statunitense né in quella sovietica.

Quindi la Dichiarazione (punto 8) difende l’Onu dall’attacco cui è attualmente sottoposto dalle forze di destra e filoatlantiche, Israele in testa, ribadendo però la necessità di una sua integrale riforma “incluso il suo Consiglio di sicurezza, al fine di renderlo più democratico, rappresentativo, efficace ed efficiente e (prevedendo) la rappresentanza dei paesi in via di sviluppo al suo interno”. Così si sottolinea l’importanza della riforma dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) dando vita, a questo fine, all’istituzione del Brics Informal Consultive Framework, denunciando al contempo le “misure coercitive unilaterali illegittime, tra cui le sanzioni illegali, sull’economia mondiale” (punto 10).

 

I limiti che pure emergono

L’impianto della Dichiarazione risponde quindi alla necessità di rimuovere le cause di fondo, economiche e sociali, che non solo determinano le profonde diseguaglianze esistenti tra i paesi e al loro interno, ma costituiscono anche la base materiale su cui si sviluppano le guerre. Non è un caso – io credo – che si giunga a parlare esplicitamente e dettagliatamente di un impegno a prevenire i conflitti “anche affrontandone le cause profonde” solo dal punto 25 in poi. Ove la parte preponderante è dedicata alla condanna di Israele e alla richiesta del “cessate il fuoco” immediato a Gaza e in Libano, nella prospettiva della “istituzione di uno Stato di Palestina sovrano, indipendente e vitale in linea con i confini riconosciuti a livello internazionale nel giugno 1967, con Gerusalemme Est come capitale che vive fianco a fianco, in pace e in sicurezza con Israele” (punto 30). La Dichiarazione sottolinea la necessità di porre fine alle “guerre dimenticate” dell’Africa subsahariana, ribadendo il fondamentale principio delle “soluzioni africane ai problemi africani”.

Quasi assente è invece ogni riferimento al conflitto russo-ucraino. Per quanto se ne possano comprendere le ragioni - cui si aggrappa la stampa mainstream per qualificare Kazan come un palcoscenico per Putin – non si può non vedere qui uno di quei limiti che, come detto all’inizio, non vanno sottaciuti e tanto meno nascosti. Se ne parla solo al punto 36, ove vengono ricordate “le posizioni nazionali relative alla situazione in Ucraina e dintorni, come espresse nei forum appropriati, tra cui l’Unsc e l’Unga” e si sottolinea che “tutti gli Stati dovrebbero agire in modo coerente con gli scopi e i principi della Carta delle Nazioni Unite nella loro interezza e interrelazione.” E si prende atto “con apprezzamento delle pertinenti proposte di mediazione e buoni uffici, volte a una risoluzione pacifica del conflitto attraverso il dialogo e la diplomazia”. Per quanto corretti siano questi richiami, essi appaiono troppo generici e isolati in un documento così corposo. Chi ha voluto o volesse derubricare il vertice di Kazan a una passerella filoputiniana, dovrebbe invece riflettere sul fatto che Putin ha invece perso l’occasione per fare emergere, in una sede così autorevole, che piani di pace sono stati avanzati ma del tutto ignorati sull’altare della prosecuzione della guerra fino alla vittoria. In particolare sono state le potenze occidentali che hanno alimentato questo mito, visto che la prosecuzione dello scontro bellico conviene a chi punta a creare un sistema e un’economia di guerra. La crescita in Borsa delle imprese collegate alla fabbricazione di armamenti non lascia dubbi su chi se avvantaggi.

La Dichiarazione si occupa anche di sostenere l’Onu nello sforzo di dare vita a una governance globale dell’intelligenza artificiale (punto 78), ma indubbiamente il piatto forte del vertice di Kazan, e su cui era sfidato dalle potenze a esso contrarie, era ed è quello che concerne il complesso tema di una nuova architettura finanziaria globale.

 

La questione di una nuova moneta

Chi si attendeva che da Kazan potesse nascere immediatamente un nuovo Bancor25, può anche fingere di dirsi deluso, ma rientriamo nei casi in cui si alza troppo l’asticella per assicurarsi che qualunque balzo risulti fallimentare. Il percorso di creazione di una nuova moneta, alternativa alla primazia del dollaro e quale sbocco logico e concreto al processo di dedollarizzazione già in corso negli scambi internazionali, non è certamente breve né lineare, ma possiamo dire che è cominciato e che proprio il vertice di Kazan ha fornito una spinta importante, se non decisiva, al suo tragitto. Ed è questo il terreno, la persistente forza del dollaro, per quanto meno rifulgente di un tempo, su cui ancora resiste, oltre che su quello militare, il primato mondiale degli Stati Uniti.

La Dichiarazione ne parla diffusamente in diversi punti raccolti nel capitolo “Promuovere la cooperazione economica e finanziaria per uno sviluppo globale equo”. Mette in rilievo il “ruolo chiave” che in questo ambito può e deve giocare la New Development Bank (Ndb), la banca per lo sviluppo diventata operativa nel 2016 con sede principale a Shanghai, di cui è presidente dal marzo del 2023 Dilma Rousseff.

In sostanza i Brics puntano a “esplorare la fattibilità di collegare l’infrastruttura dei (loro) mercati finanziari […]la fattibilità dell’istituzione di una infrastruttura indipendente di regolamento e deposito transfrontaliero, Brics Clear, […] nonché la capacità di riassicurazione indipendente Brics con partecipazione su base volontaria” (punto 66). Non sono solo parole. Già negli ultimi anni si sono sviluppati gli scambi bilaterali fra i Brics. Nell’ultimo anno anche come effetto delle sanzioni e del tentativo di isolamento della Russia operato dalle potenze occidentali, si è verificato l’aumento degli scambi tra Russia, India e Cina e tra Russia e Iran avvenuto sulla base delle monete locali. Lula in particolare, da quando è tornato ad essere il presidente del Brasile, è un sostenitore dell’interscambio che scavalchi il dollaro e usi le monete dei singoli paesi.

 

La questione alimentare

La Dichiarazione ha anche affrontato i problemi alimentari su scala mondiale, sottolineando al punto 73 “che la resilienza delle catene di fornitura e il commercio senza ostacoli in agricoltura assieme alla produzione nazionale sono fondamentali per garantire la sicurezza alimentare e i mezzi di sussistenza, in particolare per gli agricoltori a basso reddito o con risorse limitate, nonché per i paesi in via di sviluppo importatori netti di cibo”. Da qui il favore verso l’istituzione di una piattaforma di cereali (Brics Grain Exchange) come proposto dalla Russia, con l’intenzione di estendere le sue funzioni anche ad altri settori agricoli.

Di particolare rilevanza appare il punto 108 dedicato alle politiche del lavoro e dell’occupazione, puntando a quella piena e di qualità, grazie ad un apprendimento permanente e sostenuta da una retribuzione “equa e una protezione sociale per tutti”. Mentre gli ultimi articoli riguardano il ruolo fondamentale della cultura nell’ottica di uno sviluppo sostenibile e dei rapporti con la società civile e con i movimenti femminili. Un accenno fugace, certamente, ma non di poco conto.

Siamo quindi di fronte all’ambizione di trattare molti degli aspetti che sconvolgono il mondo contemporaneo, cercando di fornire delle risposte in positivo. Non tutti e non tutti nel modo adeguato. La continua ripetizione della locuzione “sviluppo sostenibile” non può certamente nascondere l’assenza di una adeguata riflessione propositiva sulle tematiche cruciali del riscaldamento climatico e delle scelte da operare per contenerlo. Così come il tema di un percorso pacifico in un innovativo sviluppo globale, entro un nuovo ordine mondiale da costruire, presente in quasi tutte le 32 pagine del documento finale, rende ancora più necessaria, direi obbligatoria, un’iniziativa per il disarmo e la non proliferazione del nucleare sia militare che civile. Su questi limiti e mancanze ha pesato certamente il carattere eterogeneo dal punto di vista economico, politico e sociale dei paesi presenti. Allo stesso tempo tali diversità non hanno provocato contrasti insanabili, anzi sono insieme una ricchezza e una sfida da superare per chi si riconosce in un simile percorso, che bisognerà seguire con attenzione, evitando, in particolare noi che viviamo nel vecchio continente, ogni forma di eurocentrismo. Esattamente il contrario di quanto hanno scritto in modo spregiativo quanto stolido, Aleksandr Gabuev e Oliver Stuenkl su Foreign Affairs, per i quali l’eterogeneità farebbe dei Brics una “zuppa di lettere cucinata da un analista di Goldman Sachs”.26


Note
1 La cifra è riportata nell’articolo di Roberto Bongiorni “Dopo mille giorni i russi sono impantanati” in Il Sole 24 Ore del 19 novembre 2024
2 Alexandria Ortasio- Cortes, fa parte dei Democratic Socialists of America (Dsa), una Organizzazione nettamente di sinistra fondata nel 1982 da Michael Harrington, definito da Bhaskar Sunkara, fondatore ed editore della nota rivista trimestrale Jacobin (della quale esiste anche un’edizione italiana), come un “pensatore marxista profondamente sottovalutato”
3 La citazione è tratta da Luca Celada “Con un presidente ‘plenipotenziario’ sono tempi cupi” in il manifesto di venerdì 8 novembre 2024
4 Lucio Caracciolo “Gli ostacoli dietro la vittoria” in la Repubblica di Venerdì 8 novembre 2024
5 Catherine De Vries è presidente dell’Institute for European Policymaking dell’Università Bocconi.
Co-autrice, assieme a Sara Hobolt di Political Entrepreneurs: The Rise of Challenger Parties in Europe, Princeton University Press, giugno 2020. La citazione è tratta dal suo articolo “Dalla democrazia all’emocrazia. Trump ha vinto le elezioni grazie alla lezione di Berlusconi” in Affari&Finanza di Lunedì 18 novembre
6 Ne abbiamo diffusamente parlato in un Convegno organizzato dalla Fondazione Cercare Ancora, tenutosi il 24-25-26 ottobre 2013, articolato in quattro sessioni, con relazioni di James Kenneth Galbraith, Heinz Bierbaum, Etienne Balibar e Marco Revelli con conclusioni generali di Fausto Bertinotti, i cui atti sono raccolti nel volume Capitalismo finanziario globale e democrazia in Europa, Ediesse, Roma 2013
7 Paolo Benanti “Elezioni americane, la democrazia offuscata ai tempi del digitale” in Il Sole 24 Ore del 29 ottobre 2024
8 John R.R. Tolkien Il Signore degli anelli, Bompiani, Milano 2020
9 Vedi Flavio Natale “Le elezioni americane mostrano che la Silicon Valley non crede più nella democrazia”, nel sito di Asvis 31 0ttobre 2024
10 Vedi il longform de la Repubblica,”Silicon Valley, in fondo a destra” a cura di Carlo Bonini, Gianni Riotta e Laura Pertici. Produzione Gedi Visual del 20 settembre 2024
11 Vedi Flavio Natale cit.
12 Si veda, ad esempio, Emmanuel Saez, Gabriel Zucman Il trionfo dell’ingiustizia. Come i ricchi evadono le tasse e come fargliele pagare, Einaudi, Torino 2020
13 Vedi Simonetta Di Pippo Space Economy. La nuova frontiera dello sviluppo, Bocconi University Press, Milano 2020
14 Ne scrive Claudia Fanti: “Milei sogna di avere ‘relazioni carnali’ anche con l’Italia di Meloni” in il manifesto di sabato 16 novembre 2024
15 Vedi nota 14
16 Si veda a questo riguardo l’interessante lavoro di Matthew C. Klein e Michel Pettis Le guerre commerciali sono guerre di classe. Come la crescente diseguaglianza corrompe l’economia globale e minaccia la pace internazionale, Einaudi, Torino 2021
17 In particolare su questo aspetto si veda Alessandro Aresu, Geopolitica dell’intelligenza artificiale, Feltrinelli, Milano 2024
18 “A New York, dove è legale, siamo saliti a bordo per provare la nuova funzione Full Self Driving della vettura di Elon Musk” in Wired, 3 luglio 2024
19 Alessandro Aresu “The Fast and the Furious. Byd, Tesla e l’industria delle industrie” in Limes 10/2024
20 Thomas Piketty: “L’Europa deve reagire alla vittoria di Trump” in Internazionale del 15 novembre 2024
21 Poiché, come ho già accennato, sia sulla stampa generalista quanto in quella dal taglio più specializzato sulle questioni internazionali, vi sono differenze nel calcolo di queste quantità, ho preferito fare riferimento a uno degli articoli più antipatizzanti verso gli esiti del summit di Kazan, come quello di Rosalba Castelletti “I Brics crescono e litigano” in Affari&Finanza del 28 ottobre 2024. Confidando su studi più approfonditi in un prossimo futuro.
22 Come osserva giustamente Tonino Perna “Brics. Rivoluzione monetaria e nuovo ordine mondiale” il manifesto del 22 ottobre 2024.
23 Scrive infatti Romano Prodi in un editoriale su Il Messaggero del 26 ottobre 2024 (“Sfida Brics. L’Europa grande assente”): “...nessuno poteva illudersi che il vertice di Kazan cambiasse l’esistente ordine mondiale e nemmeno mettesse le basi per un futuro cambiamento. Il vertice tuttavia ha raggiunto alcuni obiettivi non certo trascurabili …”
24 Le citazioni dalla Dichiarazione finale della Dichiarazione di Kazan del 23 ottobre 2024, contenute nel presente articolo, sono tradotte dall’originale inglese consultabile al seguente link https://cdn.brics-russia2024.ru/upload/docs/Kazan_Declaration_FINAL.pdf?1729693488349783 
25 Ovvero l’unità di conto internazionale che John Maynard Keynes propose, non ascoltato, a Bretton Woods nel 1944
26 La citazione è riportata nel già citato articolo di Rosalba Castelletti su Affari&Finanza
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Comments

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Alfonso Gianni
Tuesday, 03 December 2024 10:35
Nell'articolo ho messo in luce il carattere ambiguo (forse un eufemismo) di diversi paesi dei Brics plus o aspiranti tali. Non credo quindi di avere sparso facili illusioni. Ma di avere richiamato l'attenzione su un processo che, pur in modo tutt'altro che lineare, ha ripreso ad attivarsi. Credo che convenga seguirlo non con la lente delle ideologie, tantomeno quella sempre deformante dei facili innamoramenti, ma seguendo il principio dell'analisi concreta di una situazione concreta e in movimento. Cosa, mi rendo conto, non facile data la complessitèà della vicenda mondiale che lascia alle spalle rassicuranti dicotomie. Grazie, comunque, dell'attenzione di colotro che hanno avuto la pazienza di leggere e di commentare.
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Alfred
Wednesday, 04 December 2024 21:07
Grazie a lei.
L'articolo non crea facili illusioni, descrive il divenire in atto. Che lo vogliamo o no i brics sono un'alternativa. Visto quanto sono eterogeni e quanto e' cambiato il contesto mondiale dalla fine degli anni 90 possiamo anche sperare che siano almeno un nale diverso rispetto a quello che conosciamo benissimo. Personalmente non sono affezionato al male attuale e non penso che i brics saranno il messia in terra. Per il semplice fatto che non possono esserlo e per convivere al momento scelgono di potenziare le diplomazie piuttosto che puntarsi missili nucleari a vicenda. L'attuale egemone (presunto tale) opera con coazione a ripetere che ormai conosce anche il mio gatto. Il branco al seguito segue ubbidiente. Scorrazzano davanti alle coste della Cina e si lamentano se i cinesi si imbronciano, vorrei vedere se i cinesi e i russi pattugliassero con corazzate le coste della Florida con la scusa che Cuba e il Venezuela non si sentono sicuri.
Perche' dovrei avere paura dei brics che per stare insieme devono cercare di stare nei loro confini di stato e di influenza? Spero non facciano entrare la Turchia, in quel caso le dinamiche sarebbero gioco forza diverse. Fino a quando si tratta di vedere Cina e India che mettono fine a contenziosi territoriali senza spararsi fa solo piacere. Cosa diventeranno? Chi lo sa?
Sappiamo forse quanto reggera' l'occidente collettivo la prossima crisi economica forte? Sappiamo se l'europa (gli europei) reggeranno il peso dell'ucraina e dei guerrafondai al potere?
stranamente a me i brics non preoccupano, mi preoccupa la dissoluzione dell'europa e a seguire inevitabili conflitti tra paesi e anche simil guerre civili all'interno delle nazioni. Siamo dentro un processo di impoverimento rapidissimo che ancora ci sorprende e ci congela, quando verra' il momento di svegliarsi (la fame e il freddo fanno questo brutto effetto) non so cosa verra' fuori.
Rispondendo anche a Franco Trondoli
Che la Russia venga a colmare di sua sponte vuoti in europa... l'ha mai fatto? A parte la spartizione egemonica dopo la guerra mi sembra che i russi finita l'urss abbiano lasciato i polacchi, gli slovacchi ecc alla loro strada. Prima di arrivare in Germania dovrebbero avere voglia di riprendersi i polacchi, gli ungheresi e compagnia cantante. Considerando che in tre anni hanno preso il 30% dell'ucraina e sono entrati in conflitto di malavoglia, cercando di ottenere una neutralita' garantita sino a narzo del 2022... che dire a me non sembrano per niente motivati. Hanno parecchio spazio a casa loro, sono grandi +/- come l' intera america del sud (centroamerica escluso) e non arrivano a 200.000 abitanti. Come cavolo farebbero a controllare la Germania i polacchi, gli ungheresi?
Invece i tedeschi, i polacchi, i francesi, gli italiani si che hanno avuto la tentazione di invadere la Russia, tenga presente che anche le mire Nato (di cui questi paesi fanno parte) sono volte a controllare la Russia per interposti ucraini.
Non proiettiamo sui russi ambizioni che sono, manifeste, della nostra area geopolitica. Se mai in europa l'egemone levera' l'ancora (temo dovremo attendere parecchio per una scelta di sua sponte) l'europa si dovra' arrangiare.
Forse a qualcuno verra' pure in mente di andare a chiedere accordi con i russi ... sa il gas, il grano, i fertilizzanti, il petrolio, l'uranio, il titanio e un po' tutti gli elementi della tabella periodica ... forse Mendeleev il genio che l'ha strutturata non e' stato russo per caso ... forse avevano abbondanza di tutti i campioni che servivano
Saluti
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Alfred
Wednesday, 04 December 2024 21:16
200 milioni, non 200.000 scusate
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Franco Trondoli
Monday, 02 December 2024 16:05
Non c'è scampo Aniello, i nostri girano come i girini nell'acqua sporca non capendo che i BRICS sono solamente un'alleanza tattica che andrà a riposizionarsi nel tempo. l'Europa Occidentale è fritta perché, anche A.Gianni lo dice, Francia e Germania non saranno mai alleati Sistemici.
Chi terrà l'avanzata Russa verso Occidente se la "Nuova Nato" di Trump si ritirerà dal "conflitto" contro la
Russia ?. Perché l'appetito viene mangiando e se si crea un "vuoto" nel centro Europa i Russi si sentiranno in dovere di riempirlo. Sarà la Germania in primis a doverli fronteggiare..!!
La Storia e la Geografia non barano.
Ovviamente nei prossimi anni tutto sarà in evoluzione ed ebollizione.
Resto convinto che tra Usa, Cina e Russia; gli Usa troveranno un accordo, anche se non assoluto, piuttosto consistente, o con i Russi , o con i Cinesi. Non vedo un accordo strategico il giusto tra Russia e Cina.
Tutto sommato, vedo gli Usa che possono trovare delle "affinità" sia con i Russi o con i Cinesi.
Comunque sia, in ogni caso, l'Italia è troppo debole in tutto ormai per poter scegliere. Farà quello che decideranno i più forti al momento. Per ora , siamo sudditi degli Usa. Domani chissà..potremo diventare sudditi di qualcuno altro.. ma sempre sudditi saremo. Perché un'Europa unita, federata e potente non potrà mai esistere. Almeno per i prossimi 500 anni.
Buona Fortuna
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