Superare la sfida dei Brics. Quale logica segue Trump?
di Alessandro Visalli
«Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.»
Tommasi di Lampedusa
Quello che segue è un tentativo del tutto prematuro di ipotizzare la logica d’azione della nuova amministrazione americana; una riflessione sugli eventi dal solo punto di vista del nuovo establishment statunitense. Prematuro perché dovrà essere lo svolgersi degli eventi a chiarire la direzione delle cose, e in parte retrospettivamente illuminare le intenzioni. La superficie delle cose ci dice che, da una parte, l’amministrazione Usa prosegue, esasperandola ulteriormente, la tendenza di fondo neoliberale di svuotare le macchine redistributive e di controllo dello Stato (affidando il compito di macellaio a una nuova agenzia e a un imprenditore senza scrupoli, come il sudafricano Elon Musk); dall’altra sembra condurre una brutale politica estera di radicale revisione dell’impostazione ‘wilsoniana’ prevalente in tutto il Novecento[1]. Accompagna questa doppia lama di forbice una retorica radicalmente ostile all’universalismo progressista, fondata su argomenti presi dal catalogo del conservatorismo tradizionalista.
Si tratta, dunque, di una costellazione di policy ancora apparentemente incoerente, che non può essere ricondotta direttamente allo schema liberali/fascisti (storicamente poi non tanto incompatibili[2]), dal momento che il fascismo storicamente esistito (quello ‘eterno’ lo possiamo lasciare ai fantasmi della propaganda) è sempre stato iperaccentratore e statalista, mentre qui tutto parla di una triplice ritirata.
La nostra ipotesi è che si tratti in sostanza della finale assunzione del fatto che il triplice deficit (bilancio dello stato, bilancia commerciale e saldo finanziario complessivo) è insostenibile ormai nel medio periodo, e la “sconfitta dell’Occidente” di cui parla Todd nel suo libro[3], rende non più sostenibile la sovraestensione imperiale pretesa dagli ultimi governi USA (da Clinton in poi, almeno, democratici e repubblicani).
Ovvero rende il sogno post Guerra Fredda del Mondo Unipolare (la cui immagine economica e ideologica è la cosiddetta “globalizzazione”) ormai irraggiungibile di fronte alla triplice sfida persa: quella economica, e ora anche tecnologica[4], con la Cina (e l’estremo oriente in generale); quella militare con la Russia (che, ormai, da sola produce più armi di tutto l’Occidente, e non ne vuole sapere di crollare economicamente, o, tanto meno, di isolarsi diplomaticamente)[5]; quella politico-diplomatica con i Brics[6].
L’establishment Occidentale non voleva accettare questo fatto, e opponeva narrative sempre più stridenti, rilanci ideologici sempre più altisonanti, minacce sempre più vuote. Tante parole, pochi fatti, a ben vedere.
L’avvio della nuova amministrazione sembra indicare un mutamento di rotta all’enorme nave Usa.
Proverò a ipotizzare che sia in corso un tentativo che chiamerò di “ritirata imperiale”.
Ovvero lo sforzo, che potrebbe benissimo fallire, di ridurre il perimetro di protezione (che oggi, nell’impostazione “wilsoniana”, si vorrebbe esteso all’intero pianeta e coincidente con la vocazione universale della ‘democrazia’) al contempo, però, intensificando il prelievo imperiale sulla base di un accordo-globale di non interferenza geograficamente orientato (si parla, con formula giornalistica, di “Nuova Yalta”). In altre parole, l’idea della nuova amministrazione sembrerebbe essere di ridurre le spese e aumentare le entrate da saccheggio (le migliori, perché non devo dare alcuna contropartita). In termini marxiani avviare un nuovo ciclo di “accumulazione primitiva”.
Passare, in altri termini, da un preteso monopolio della forza politica-economica-militare – travestita sempre più malamente da missione universalista – a un oligopolio a tre, fondato sulla semplice potenza, travestita retoricamente da rispetto multiculturale e delle tradizioni di civiltà.
Ma questo ipotizzato progetto coinvolge anche la Cina? E, in caso negativo, come può essere sensato perseguirlo[7]. In caso affermativo prevede la doppia disgregazione, di fatto se non formale, sia dell’Unione Europea sia dei Brics? E come allineare potenze di secondo livello, ma grandi, come quelle citate, di paesi come Giappone, India, Germania, Inghilterra, Francia, etc.?
Si tratta di domande cruciali, nelle quali c’è lo spazio anche di una critica politica e della ricostruzione di una relativa soggettività.
In sostanza, infatti, il sistema politico-economico cinese è concorrente oggettivo, se non soggettivo[8], del sistema politico-economico Occidentale. La sua civiltà, come anche quella indiana, islamica, alcune radici di quella russa, il buen vivir sudamericano, molte civiltà africane, o del pacifico orientale, non si lascia ridurre a ombra di quella Occidentale sulla strada di un maggiore o minore “avanzamento” verso l’unico e comune progresso (fatto coincidere con la “modernità”). Per toccare questa enorme questione, si può ricordare come Xi Jimping nel 2019 riassume la differenza: le civiltà comunicano attraverso la diversità, imparano l’una dall’altra attraverso gli scambi e si sviluppano attraverso l’apprendimento reciproco”[9] e, in un discorso del 2014, richiamando il concetto di ‘armonia senza conformità’[10] che riconosce il mutuo apprendimento, senza gerarchia o maestri, come la forza motrice del progresso dell’umanità. Più profondamente qui ‘razionale’ e ‘vero’ sono concepiti come prodotti del ‘vivente’ (Dao) che è immerso in una totalità di relazioni, anziché come in occidente, come attributi oggettivati dell’essere (interpretati da un potere). I popoli di tutto il mondo, in questa prospettiva, sono interdipendenti “io sono in te, tu sei in me” e formano un “destino comune”. Il pensiero strategico cinese è pieno di questa concettualizzazione; invece di agire per dominare (e uniformare il mondo) punta a che tutto, secondo la sua propensione, si trasformi (hua). Cerca di restare “sotto il cielo” per individuare “dove va la luce”, accompagnando la situazione al suo massimo potenziale ed effetto. Nel concetto di tianxia (spesso tradotto in “la via del cielo”) è incluso questo particolare universalismo concreto, che implica una dialettica dell’inclusione, e concepisce la razionalità come prorompere da una situazione collettiva accettata senza coercizione (anziché essere radicata nel cogito individuale), e la verità come prodotto dell’armonia. È in questo senso che il mondo è di tutti, 大道之行也天下為公, “quando prevarrà la Grande Via, l’Universo apparterrà a tutti”, un verso del testo confuciano “I riti”, ripreso da Qing Kang Youwei e dal Sun Yat-sen nell’espressione “Tian xia wei gong”[11].
Il punto è che tutte le polarizzazioni proprie della razionalità occidentale-greca, come uomo/dio, invisibile/visibile, eterno/mortale, certo/incerto, permanente/mutevole, potente/impotente, puro/misto, certo/incerto non sono presenti in Cina[12], e la tecnica corrisponde a relazioni diverse con gli dei, gli umani e il cosmo. Agisce una sorta di ‘risonanza’ (ganying) che genera un sentimento in relazione a un’obbligazione morale (sia in senso sociale che politico), effetto della unità tra l’umano e il cielo. Ovvero dell’umanizzazione del divino avvenuta in Cina (mentre in occidente avviene il movimento opposto di separazione). Ganying implica un’omogeneità tra tutti gli esseri e un’organicità delle relazioni tra parte e parte e parte/tutto.
Anche sul piano strettamente dell’ordinatore economico-politico, che con queste radici è strettamente legato nell’ordine dello sviluppo storico (del quale l’epoca dell’umiliazione coloniale, il movimento di modernizzazione, la guerra con il Giappone e la rivoluzione, sono caposaldi ineliminabili), il sistema cinese è fondato: sulla centralità della proprietà pubblica, che serba un ruolo secondario a quella privata; sulla distribuzione primaria basata sul lavoro, e solo secondaria sui diritti di proprietà; su un sistema di mercato basato e guidato dallo Stato e soggetto a una “pianificazione limitata”; sulla “legge dello sviluppo proporzionale” di marxiana derivazione. A partire dai primi anni duemila (16° Congresso) la teoria guida è quella delle “tre rappresentanze” (il Partito deve rappresentare i requisiti per lo sviluppo delle forze produttive, della cultura avanzata e della stragrande maggioranza del popolo). L’idea è di superare entrambi i modelli contrapposti della Guerra Fredda: l’ingiusto sistema di proprietà privata incontrollato e la conseguente distribuzione secondo il capitale e i suoi derivati, da una parte, e la rigidità di un sistema basato su una distribuzione egualitaria e burocratizzata[13].
Ritengo che questo tentativo di dissoluzione per incorporamento parziale della sfida egemonica dei Brics andrà incontro a enormi difficoltà e, in ultima analisi, fallirà. Ma questo sembra il tentativo e in questa direzione si potrebbero interpretare le future pressioni, minacce, ricatti e anche azioni militari della nuova leadership statunitense: gestire una ritirata strategica che consenta di salvare l’essenziale.
In sostanza, se così fosse infatti, la “ritirata imperiale” presupporrebbe di vincere quattro battaglie:
- Lacerare i campi Occidente/Oriente. Complessi politico-ideologici di lunga formazione almeno dal XIX secolo. Verrebbe in tal senso superata la presunzione di amicizia nel campo occidentale e la stessa sua nozione (che si nutre di quella di Oriente). Ad esempio, quella tra Stati Uniti ed Europa, o Giappone.
- Sfidare la pretesa dell’universalismo occidentale di essere la forma definitiva e superiore dell’umano. O, almeno, travestirla sotto vesti conservatrici anziché progressiste (che sono quelle più naturali almeno dall’illuminismo in poi).
- Affermare una brutale chiarezza gerarchica, dimenticando l’ipocrisia dell’ “Ordine basato su Regole”, da sostituire con un semplice e chiaro “Ordine basato sulla Forza”.
- Dividere lo sforzo di dominio tra pochi, e quindi imporre la sottomissione di molti, riducendo in conseguenza il costo di protezione e i relativi obblighi. Ciò al prezzo di ridurre in estensione l’area di estrazione imperiale[14], e per questo intensificarla dove possibile.
Naturalmente bisogna superare difficoltà ciclopiche e battere avversari potentissimi:
- Rompere le interconnessioni e regolare le pendenze (impegni e debiti) economico-finanziarie che attraversano il mondo in un’inestricabile rete di interdipendenza e relazione;
- Contenere gli appetiti interni e cambiare cavallo alla carrozza (dal traino del sistema militare-industriale-finanziario che guida la politica Usa, almeno da Truman, a un nuovo centro industriale-finanziario con il sistema militare in secondo piano);
- Disciplinare le potenze intermedie, sbarrando loro la strada verso la grandezza (ovvero Europa, India, Giappone, Brasile, mondo arabo e persiano, etc…);
- Condurre guerre di aggiustamento nei ‘giardini di casa’ (nuova dottrina Monroe[15]), senza che scivolino in guerre di confronto egemonico. La divisione dei compiti vorrebbe dire che, come nella Guerra Fredda, in sostanza ognuno ha licenza di spazzare il proprio cortile.
In conclusione, è questa ipotesi da noi accettabile, possiamo considerarla un miglioramento?
Io credo sia, se anche fosse questo il progetto (e un progetto a questa scala è sempre al più uno schema che si adatta alle situazioni man mano che si danno), solo una nuova forma del progetto di sempre del liberalismo occidentale:portare a funzione, in favore dei ceti possidenti e della stabilità che ne deriva, ogni energia utopica e spinta che suscita dal basso. Nella fattispecie l’energia che genera la critica all’universalismo progressista in parti crescenti della classe media occidentale. Critica all’universalismo progressista che, sia inteso, condividiamo nella sua degenerazione imperiale e classista.
Credo sia, alla fine, una forma di riproposizione del medesimo dominio, interno ed esterno; per la stessa natura dello schema spartitorio che sembra essere proposto, e per la ragione per la quale viene proposto: ridurre e concentrare la forza, al fine di estrarre molto più valore da stati subalterni, evitando che questi ultimi sfruttino i giochi di sponda che una fase realmente multipolare consentirebbe. Estrarre quindi valore e potenza dalla Groenlandia, malgrado la Danimarca; dal Canada e dal Messico (vicini a un egemone ‘pattizio’, come l’Ucraina alla Russia e quindi indiscutibilmente stati a sovranità limitata); da Panama, che deve essere ricondottoal “giardino di casa” degli Usa e non della Cina; domani dal Venezuela, Nicaragua, Bolivia, Brasile, … da allineare con le buone o le cattive, espellendo i cinesi, magari con un nuovo Piano Condor; dai paesi europei, uno a uno e separatamente; dal Medio Oriente, nel quale fare nuovi resort sulla spiaggia e, ovviamente, oleodotti; dall’Africa (che sarà spartita in un nuovo Congresso di Berlino del 1884?); dal risiko orientale.
Dalla fase unipolare, ascendente con la mondializzazione nel ventennio ’90-’10, e dalla fase di affermazione multipolare nell’ultimo decennio, si passerebbe così direttamente a una stabilizzazione tripolare che, come nella Guerra Fredda, vedrebbe una moderata e ordinata competizione tra poli egemonici sullo sfondo dell’accordo comune a impedire l’ascesa di altri membri al club del dominio (o all’indipendenza e autodeterminazione).
Tutto questo è la padella o la brace?