Fai una donazione

Questo sito è autofinanziato. L'aumento dei costi ci costringe a chiedere un piccolo aiuto ai lettori. CHI NON HA O NON VUOLE USARE UNA CARTA DI CREDITO può comunque cliccare su "donate" e nella pagina successiva è presente (in alto) l'IBAN per un bonifico diretto________________________________

Amount
Print Friendly, PDF & Email

Il ritorno di James Monroe

di Enrico Tomaselli

Doctrina Monroe.jpgLa ormai storica tensione tra Stati Uniti e Venezuela vede, in questi giorni, un inasprirsi della postura aggressiva da parte di Washington, anche se poi – alla resa dei conti – questa appare essere più una grande operazione di psyop. Gli USA  hanno sempre osteggiato la Rivoluzione Bolivariana di Chavez, ma da quando gli è succeduto Maduro la pressione statunitense si è decisamente fatta ben più forte. Innumerevoli tentativi di golpe, il sostegno a personaggi al limite del ridicolo come Guaidò – autoproclamatosi presidente ad interim, prima di sparire nel nulla da cui era emerso – per approdare infine all’accusa di essere un narcotrafficante, anzi di essere a capo del Cártel de los Soles. Molto opportunamente, nelle scorse settimane è stata innalzata la taglia su Maduro a 50 milioni di dollari (quasi fossimo nel far west), ed è stato approvato un ordine esecutivo segreto che equipara i cartelli della droga ad organizzazioni terroristiche, e rende possibile agire contro di loro con le forze armate.

La questione, però, al di là dello specifico venezuelano, va inquadrata in un contesto assai più ampio. L’America Latina, almeno a partire dalla proclamazione della cosiddetta Dottrina Monroe – affermata dal presidente James Monroe nel 1823 – ha sempre considerato il sub-continente americano come il proprio cortile di casa. Dietro lo slogan “l’America agli americani”, infatti, la dottrina mirava essenzialmente a garantire l’egemonia USA nell’emisfero occidentale; l’intento primario era quello di azzerare l’influenza europea, adottando un linguaggio propagandistico di tipo sovranista-populista, ma lo scopo ultimo era appunto quello di sostituirsi agli europei, e con il termine “americani” intendeva effettivamente nord-americani.
Questo dominio statunitense sull’America Latina è sostanzialmente durato per tutto il novecento, ed è stato caratterizzato da spietate dittature, massacri di popolazioni indigene, e completo diritto di saccheggio da parte delle multinazionali americane.

Vero e proprio simbolo di questa fase storica è stata la Escuela de las Américas, stabilita a Panama nel 1946, ed in cui sono stati formati pressoché tutti i quadri militari sudamericani. Nomi come Videla, Rios Mont, Pinochet, hanno segnato tragicamente la storia del continente, e sono a ben diritto iscritti nel libro dell’infamia. Questo dominio incontrò una prima battuta d’arresto alla fine degli anni cinquanta, con la rivoluzione cubana – che infatti Washington, nonostante l’isola caraibica non costituisca alcuna minaccia, non ha mai perdonato. E poi, lungo gli anni sessanta e settanta, vedrà il sorgere di movimenti rivoluzionari e di guerriglia un po’ ovunque. Tutti repressi nel sangue dagli ex-cadetti della Escuela.
Tra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI, il controllo statunitense sul sub-continente si è via via allentato, o quantomeno ha assunto forme meno violente, lasciando spazio all’affermarsi di democrazie rappresentative – più o meno effettivamente tali.

Ciò che sta accadendo oggi, va però inquadrato nel più ampio mutamento radicale del contesto geopolitico globale. Se infatti quella fase di ammorbidimento delle forme di controllo corrispondeva all’âge d’or del dominio unipolare statunitense, susseguente alla caduta dell’URSS, e in questa trovava la sua spiegazione, il livello di competizione planetaria attuale, e le innumerevoli sfide che gli Stati Uniti devono affrontare, impone un ripiegamento-ridislocamento assai significativo.
Washington, infatti, deve fare i conti con l’insostenibilità economica e industriale della sua sovraestensione globale, e per prepararsi a una significativa proiezione nell’indo-pacifico, laddove deve cercare di contrastare-contenere la crescita della Cina, è costretta per un verso a ritirarsi sostanzialmente dall’Europa, e per un altro a riaffermare in maniera stringente il controllo sul cortile di casa, dove oltretutto in questi decenni è cresciuta la capacità di penetrazione da parte dei nemici: Cina, Russia e Iran, in particolare.

Alla piccola Cuba, infatti, negli ultimi anni si è aggiunto il Nicaragua – assai vicino a Mosca – la Colombia e, appunto, il Venezuela. Mentre paesi come il Brasile (membro fondatore dei BRICS) e il Messico, hanno assunto una postura sempre più indipendente dall’influenza nord-americana. In questo contesto, si segnala una forte penetrazione commerciale cinese, soprattutto verso i paesi del versante pacifico, mentre Russia e Iran hanno sviluppato forti relazioni con i suddetti paesi, Venezuela in particolare.
A fare di Caracas l’obiettivo principale, in un certo senso il punto d’appoggio su cui fare leva per scardinare ogni forma di resistenza all’egemonia statunitense nel subcontinente, sono diversi fattori. Innanzi tutto, per una ragione ideologica: la Rivoluzione Bolivariana, essenzialmente socialista, viene vista come il fumo negli occhi, e costituisce un pericoloso focolaio d’infezione per tutta l’America Latina; e oltretutto rende più facile dipingerla come una dittatura, e giustificare così l’azione destabilizzante ed eversiva degli USA.

Ma naturalmente ci sono anche altri elementi. Il fatto che il Venezuela sia considerato il paese con i più ricchi giacimenti di petrolio al mondo, per dirne uno. Ma anche il fatto che sia un paese né troppo piccolo né troppo grande, e che presenti una parte di popolazione – erede della borghesia compradora che per anni ha vissuto facendo la cresta sul petrolio e garantendo il dominio delle multinazionali – che ancora spera di rovesciare il socialismo bolivariano e tornare al potere.
Tutto questo fa del Venezuela un bersaglio privilegiato. La pressione statunitense, quindi, si esercita prevalentemente su questo paese, identificato come principale ostacolo alla ripresa di un ferreo controllo egemonico sull’intero Sud America. E si pone obiettivi di breve e medio termine.

Ovviamente, la prima cosa cui mira Washington è cercare di interrompere – o quantomeno di ridurre – le relazioni tra Caracas, Mosca e Teheran. È interessante notare che alcuni media occidentali hanno recentemente parlato della possibilità che la Russia potrebbe dispiegare i suoi missili Oreshnik nel paese caraibico. Appare abbastanza evidente che si tratta di una operazione di psyop da parte dell’intelligence occidentale, dato che è estremamente difficile pensare che Mosca – oltretutto in una fase di riapertura delle relazioni bilaterali con Washington – possa decidere di schierare una delle sue armi migliori (e di cui probabilmente non dispone in grandi quantità) a difesa di Caracas, peraltro rischiando una nuova crisi dei missili come quella di Cuba nel 1962. Assai più credibile, e interessante, è invece l’ipotesi avanzata da alcuni blog militari russi, che si chiedono quale sarebbe l’effetto della fornitura al Venezuela dei droni Geran. Che però, a mio avviso, rimane improbabile – mentre assai più possibile sarebbe la fornitura della tecnologia iraniana degli Shahed (su cui poi i russi hanno sviluppato il Geran).

Secondariamente, l’obiettivo è il petrolio. All’inizio dell’anno, Trump ha imposto dazi secondari del 25% ai paesi che acquistano petrolio da Caracas. Ma, si badi bene, non ha posto alcuna limitazione all’acquisto da parte delle aziende statunitensi. Anzi, il mese scorso ha concesso a Chevron una licenza di sei mesi per riavviare la produzione e l’esportazione di petrolio in Venezuela, revocando un precedente divieto [1]. Il provvedimento serve per un verso a limitare l’export venezuelano verso la Cina, e per un altro vale da carota offerta a Maduro, mentre viene agitato il bastone.

E con questo, arriviamo ai giorni nostri. Il 14 agosto scorso, il Segretario di Stato Marco Rubio ha annunciato lo spiegamento di forze navali e aeree statunitensi nel Mar dei Caraibi, con la missione ufficiale di contrastare il traffico internazionale di droga. Secondo le notizie diffuse dai media (l’agenzia britannica Reuters), tre cacciatorpediniere USA – USS Gravely, USS Jason Dunham e USS Sampson – sarebbero stati diretti verso le acque internazionali prospicienti il Venezuela. Una settimana dopo, sempre la Reuters informa che gli Stati Uniti avrebbero ordinato l’invio di uno squadrone anfibio nel Mar dei Caraibi meridionale. Le navi designate sono l’USS San Antonio, l’USS Iwo Jima e l’USS Fort Lauderdale. Questo gruppo avrebbe a bordo – viene detto – 4.000 marines. Insomma una minaccia apparentemente molto consistente. Tanto che il governo venezuelano decide, come contromossa, di mobilitare la Milizia Nazionale Bolivariana, composta da 4,5 milioni di uomini e donne.

Ma questo gran rumore di sciabole, cosa significa effettivamente?
Il gruppo dei tre cacciatorpediniere, si è scoperto [2], non è mai stato mandato nei caraibi. Incrociando dati ufficiali della US Navy, rapporti di dispiegamento e tracciamenti satellitari, è risultato che:
– l’USS Sampson si trova attualmente nell’Oceano Pacifico orientale, a oltre 3.500 chilometri dal Venezuela
– l’USS Jason Dunham risulta inattivo presso la base navale di Mayport in Florida, dove è rientrato dopo un dispiegamento nel Mar Rosso contro gli Houthi
– Solo l’USS Gravely opera effettivamente nella regione, ma nel Golfo del Messico e in missione di supporto alla Guardia Costiera americana in operazioni antidroga di routine.
Inoltre, è stato fatto notare che tutte e tre le navi citate appartengono al Comando Nord statunitense (NORTHCOM), mentre il Venezuela ricade sotto la giurisdizione del Comando Sud (SOUTHCOM).

Restava lo Iwo Jima (IWO) Amphibious Ready Group (ARG). Senonché, l’USNI News (U.S. Naval Institute) [3] informa che il gruppo IWO-ARG il 19 agosto è stato costretto a rientrare alla base navale di Norfolk, in Virginia, per evitare l’uragano Erin. Cosa che, oltretutto, ha portato alla luce un ulteriore elemento. La missione ufficiale dell’IWO-ARG, infatti, era quella di dirigersi verso la Carolina del Nord per imbarcare i Marines della 22ª Unità Expedicionaria di Camp Lejeune. Tra Norfolk e Camp Lejeune ci sono 203 miglia nautiche, che una nave come l’USS Iwo Jima può percorrere in meno di 12 ore a velocità di crociera. Ma le navi sono rimaste in mare per quasi cinque giorni interi, senza nemmeno avvicinarsi al Venezuela [4].
Insomma, tutto appare essere una manovra di pressione sul governo venezuelano, abilmente orchestrata tra Dipartimento di Stato e Pentagono, con la Reuters a fare da megafono. Ma poiché il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, non c’è voluto molto affinché venisse fuori come in realtà non ci fosse alcun reale dispiegamento navale vicino alle coste della Repubblica Bolivariana.

Per completare il quadro, dobbiamo aggiungere ancora qualche elemento. Ovviamente, se queste evidenze sono state rilevate da chi fa giornalismo indipendente (diversamente da ciò che fa la Reuters…), non ci vuole molto a capire che il governo venezuelano doveva esserne perfettamente consapevole. Se, quindi, ha deciso di prendere sul serio la minaccia è essenzialmente per ragioni politiche, esattamente speculari a quelle per cui l’amministrazione USA ha messo in piedi questa sceneggiata. E infatti ciò è servito a spingere i governi del Messico, della Colombia, di Cuba, dell’Iran, della Russia e della Cina a mettere in guardia Washington da qualunque iniziativa militare.
D’altro canto, seppure i dispiegamenti fossero stati autentici, è ovvio che l’epoca della diplomazia delle cannoniere è finita da un pezzo, e il Venezuela del 2025 non è il Giappone del 1853. Così come la squadra navale dell’USS Iwo Jima non è l’equivalente delle navi nere del Commodoro Matthew Perry [5].

Oltretutto, è abbastanza evidente che 4.000 marines (in realtà 2.000 circa, essendo il resto gli equipaggi delle navi) non sono certo una forza in grado di preoccupare un paese come il Venezuela, con 28 milioni di abitanti e con un esercito che – tra effettivi e riservisti – conta circa un milione di uomini. Così come è sin troppo evidente che gli Stati Uniti non hanno alcunissima intenzione di attaccare militarmente Caracas, non fosse altro che per la semplice ragione di non volere alcun conflitto in cui debbano agire in prima persona, riportando a casa i propri militari chiusi nei sacchi neri.
Se, quindi, il governo bolivariano ha deciso di mobilitare la Milizia Nazionale Bolivariana, è come prima cosa una mossa politica, che intende – appunto – mobilitare la coscienza rivoluzionaria del popolo venezuelano, e secondariamente una misura precauzionale, qualora la mossa statunitense fosse invece propedeutica a qualche nuovo tentativo golpista dell’opposizione.

Insomma, il finto dispiegamento navale statunitense in realtà è un bluff, amplificato da quei veri e propri strumenti di psyops che sono ormai le grandi agenzie di stampa internazionali, e non c’è alcun imminente sbarco di marines sulle coste venezuelane.
Il che però non toglie che qualche spiraglio per un po’ di esibizione muscolare statunitense effettivamente ci sia, giusto per cercare di rimettere i puntini sulle i, e ricordare ai vari governi sudamericani chi comanda davvero (secondo Washington).
Ma di questo parlo nella puntata “Ancora le 7 sorelle” del mio podcast Blitz News [6], che vi invito ad ascoltare.


Note
1 – Cfr. “Petrolio, gli USA riaprono al Venezuela: via libera a Chevron. Ma è un aiuto a Maduro?”, Fabio Lugano, Scenari Economici
2 – Cfr. “LaTabla Desmiente a Reuters: Destructores estadounidenses NO se dirigen a Venezuela”, La Tabla
3 – Cfr. “Iwo Jima ARG Back in Norfolk to Avoid Hurricane Erin”, Heather Mongilio, USNI News
4 – Update: Nuove immagini confermano che l’USS Iwo Jima, nave ammiraglia del Gruppo Anfibio Pronto Iwo Jima, ha nuovamente lasciato la base navale di Norfolk, presumibilmente diretta verso le acque prospicienti il Venezuela.
5 – Cfr. “‘O compri o ti bombardo’: il commodoro Perry prima di Trump”, Giovanni Punzo, Remocontro
6 – Blitz News è un podcast che riflette (quasi) quotidianamente sui fatti più rilevanti dell’attualità, in soli cinque minuti. È possibile seguire il podcast mettendo un like alla Facebook, oppure iscrivendosi al canale You Tube di Giubbe Rosse News
Pin It

Add comment

Submit