Lenin a Wall Street: imperialismo e centralizzazione nel XXI secolo (II)
di Andrea Pannone
A 100 anni dalla morte di Lenin (21 gennaio 1924) e nel pieno di una fase storica nuovamente caratterizzata dalla contrapposizione diretta tra superpotenze mondiali, una riflessione critica sul concetto di imperialismo formulato dal leader bolscevico nel 1917 assume una specifica rilevanza. Partendo da qui, questo scritto si focalizza sul nesso tra eccesso di capacità produttiva e centralizzazione internazionale dei capitali alla luce del processo di finanziarizzazione dell’economia mondiale che sta caratterizzando il XXI secolo. La nostra tesi, infatti, è che i connotati assunti da questi tre fenomeni negli ultimi quindici anni concorrano in modo decisivo a interpretare la natura delle recenti tensioni belliche tra alcune nazioni.
Il lavoro è organizzato come segue. Nel primo paragrafo si esamina la categoria centrale della teoria dell’imperialismo di Lenin ossia il concetto di esportazione di capitale in eccesso. Nel secondo paragrafo si cerca di evidenziare l’attuale rilevanza di questa categoria concettuale alla luce di quella che può essere considerata una sua proxy: gli investimenti diretti esteri. Nel terzo paragrafo si esamina il nesso tra eccesso di capacità e centralizzazione del capitale nella sua evoluzione storica, a partire dagli anni ’90 del secolo scorso. Il quarto paragrafo analizza la crescente influenza delle oligarchie economico-finanziarie sulle politiche degli Stati e sulle relazioni internazionali. Il quinto paragrafo conclude evidenziando il ruolo dei conflitti bellici nell’equilibrio instabile tra gruppi di potere che perseguono logiche di accumulazione diverse.
Pubblichiamo oggi la seconda parte dello scritto (A.P.)
* * * *
IV. Oligarchie economico-finanziarie e potere politico
Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, la crescita abnorme dei profitti pecuniari e la considerevole espansione del potere di alcuni soggetti economici, che le attività di buyback hanno prevalentemente concorso a generare, sarebbero state impensabili senza gli orientamenti di politica fiscale e monetaria adottate già da anni dai governi occidentali e dalle Banche centrali. Le scelte conseguenti sono state effettuate da un personale statale che ai più alti livelli è sempre più indistinguibile da quello direttamente implicato nella gestione dei grandi gruppi di interesse. Si tratta della tematica, di dominio pubblico ormai, ma ben esplorata anche dalla letteratura scientifica, delle revolving doors, ossia delle «porte girevoli» fra mondo della politica e dello Stato e mondo della finanza e dell’impresa (vedi Gallino 2011, Coveri et al 2023, Pannone 2023), espressione con cui si identifica il passaggio di funzionari pubblici e politici dal settore pubblico a quello privato, ma anche l’ingresso nelle pubbliche amministrazioni di esperti e manager provenienti da aziende private e viceversa.
Il processo descritto è pervasivo e implica non solo, come dice Alessandro Roncaglia nel suo ultimo libro (Roncaglia 2024), che nell’epoca del neoliberismo «il potere dello Stato» sia diventato solo uno dei molteplici aspetti in cui il potere si esercita nella società. In realtà, nella fase attuale del capitalismo, gli interessi di pochi soggetti economici, che controllano un gigantesco reticolo di interessi economici e finanziari, entrano direttamente nell’esecutivo o negli organismi dello Stato attraverso propri uomini, allo scopo di esercitare una forte azione lobbistica e manipolatoria nei confronti delle politiche dei governi e delle istituzioni internazionali. Quelle politiche devono infatti essere rese il più possibile coerenti con la logica dell’accumulazione pecuniaria, così da assicurare rendimenti finanziari stabili per i gruppi di potere che di quella logica sono espressione. Ciò richiede in primo luogo che le riserve liquide accumulate da imprese e famiglie siano indotte a fluire in modo continuativo verso l’acquisto di stock di ricchezza finanziaria piuttosto che verso gli investimenti produttivi. Il risultato può essere ottenuto attraverso l’imposizione di limitazioni sempre più forti al finanziamento in deficit della spesa pubblica, a dispetto dell’esistenza di condizioni stagnanti o recessive dell’economia. Come osserva Sergio Bruno (Bruno 2024), quanto più il deficit fosse finanziato con l’emissione di titoli di debito, tanto più si rastrellerebbe la liquidità tesoreggiata, mentre la spesa pubblica rimetterebbe in gioco quella stessa liquidità come domanda di merci e servizi, sottraendola dai mercati finanziari. D’altra p arte, se nei periodi di stagnazione/recessione il deficit fosse finanziato interamente con stampa di moneta ‒ come potrebbe in teoria avvenire nei paesi che dispongono della sovranità monetaria (Usa, Giappone, ecc.) ‒ la carenza di domanda privata sarebbe compensata dalla spesa pubblica, rendendo meno stringente la necessità del settore privato di immettere la liquidità tesoreggiata sui mercati speculativi piuttosto che nella produzione[1].
Le limitazioni al finanziamento della spesa in deficit, però, non impediscono l’accumulazione di debito da parte dei governi occidentali, che viene però riprogrammata a vantaggio dei settori ritenuti più strategici, ma comunque funzionali alla logica dell’accumulazione pecuniaria. Tale logica, quindi, può arrivare spesso a confliggere con la logica del capitalismo produttivo, anch’essa spesso presente negli organismi di governo nazionali e internazionali con propri uomini, ma in una posizione subordinata rispetto al potere sempre più esteso del capitale finanziario. Questo perché l'affermazione e l’espansione della prima porta ad azioni contraddittorie ‒ ad esempio la sottrazione di risorse dagli investimenti produttivi a vantaggio di operazioni finanziarie ‒ rispetto agli obiettivi delle seconde (e viceversa). Il business, come detto alla fine del paragrafo precedente, ha comunque la necessità di trovare un qualche punto di equilibrio con gli interessi del capitale produttivo per evitare che questo si indebolisca troppo. Per questo la convergenza tra interessi capitalistici e Stato può risultare spesso complessa e contraddittoria e soggetta a imprevedibili e pericolosi cambiamenti. Infatti, quando l’equilibrio raggiunto tra i due gruppi di interessi non può essere mantenuto, la contrapposizione si traduce in un’instabilità dell’assetto politico, che può estendersi a livello internazionale fino ad assumere le vesti di tensioni belliche più o meno indirette tra nazioni e governi. Nazioni e governi, infatti, possono essere espressione composita di equilibri diversi. Se la logica dell’accumulazione pecuniaria prevale nel governo degli Stati Uniti, attraverso gli interessi dei settori più appetibili sul piano strategico e finanziario (digitale e farmaceutico), in un compromesso continuo con i principali settori manufatturieri (difesa e industria petrolifera), un equilibrio di tipo opposto vige ancora nei paesi in cui lo Stato centralizza la maggior parte delle funzioni economiche e politiche, come ad esempio la Cina[2]. Infatti, sebbene l’economia cinese sia caratterizzata dalla presenza di alcuni gruppi industriali privati e da una notevole interconnessione con il settore finanziario – fortemente cresciuto in seguito alla liberalizzazione degli investimenti all’estero nella forma di operazioni di fusione e acquisizione transfrontaliere ‒ la logica dell’accumulazione produttiva, pianificata e gestita dal Partito comunista cinese (Pcc), costituisce ancora il cuore del modello di sviluppo del paese. In tempi recenti quel modello, basato fondamentalmente sul traino della domanda estera per i suoi beni e servizi è stato messo in notevole crisi prima dalla fase pandemica poi dalle politiche protezionistiche di Washington, tese non tanto a difendere i propri mercati dalla concorrenza delle imprese di altri paesi, in una logica di «self sufficiency» (vedi Keynes 1933), quanto a mantenere l’esclusività del diritto d’uso della tecnologia nei settori strategici nazionali, così da far aumentare il potere di controllo delle imprese più forti e rendere i loro asset sempre più appetibili per gli investimenti finanziari. Una prova è rappresentata dalla portata extraterritoriale delle restrizioni imposte dagli Stati Uniti, che impongono anche alle imprese che operano nei paesi «amici» (ad esempio quelli europei) cosa devono fare e cosa non devono fare, lasciando loro opzioni assai limitate se desiderano mantenere l’accesso al mercato americano.
Queste limitazioni, unitamente alle maggiori restrizioni imposte dal governo cinese ai prestiti per attività finanziarie all’estero, specie quelle a carattere speculativo[3], hanno rallentato pesantemente l’esportazione di capitale oltre confine[4], e hanno spinto Pechino a rafforzare la domanda interna attraverso una serie di stimoli statali, finalizzati ad aumentare i livelli di consumo e investimento e a ridurre gli eccessi di capacità produttiva in molteplici settori industriali[5]. Ad esempio, la strategia Xinchuang (nuova creazione) è stata promossa dal governo cinese agli inizi degli anni 2000 per trasformare il paese in un leader globale nell'innovazione e nella tecnologia. Recentemente, Pechino ha introdotto nuove linee guida per cui i microprocessori statunitensi di Intel e AMD verranno gradualmente eliminati dai Pc e dai server governativi, mentre è stata avviata, contemporaneamente, una campagna per sostituire la tecnologia straniera con soluzioni nazionali. Contrariamente a quello che alcuni osservatori hanno sostenuto, le ultime misure non hanno l’obiettivo di compiere una ritorsione verso il tentativo del Congresso americano di costringere Tik Tok a uscire dal mercato Usa quanto quello di sviluppare un mercato interno robusto e autonomo per i chip e altre tecnologie chiave, riducendo la dipendenza dalla tecnologia straniera e mitigando i rischi associati a potenziali limitazioni o sanzioni commerciali esterne.
V. Osservazioni conclusive: il nuovo volto della guerra
La fase attuale del Capitalismo obbliga a riqualificare in modo significativo la teoria di Lenin che spiegava le guerre imperialistiche del Novecento come «effetto dell’esportazione di capitale in eccesso da parte di economie nazionali dominate da grandi monopoli». Il modello di produzione che si afferma nel XXI secolo con la globalizzazione, fatto di nodi produttivi distribuiti in diverse parti del mondo che collaborano in modo sinergico per produrre i beni o i servizi finali, fa si che uno squilibrio che si determina a valle della catena del valore si trasmetta in sequenza a tutti gli altri nodi, diramando e amplificando lo squilibrio su tutte le economie del pianeta. In questo modo l’eccesso di capacità che si determina nelle economie del centro capitalistico diventa rapidamente un eccesso di capacità in quasi tutte le economie periferiche, rendendo più difficile la valorizzazione del capitale che viene esportato all’esterno. Negli Stati Uniti e in Occidente, la necessità di sopperire al problema, che assume caratteri sempre più cronici, ha portato ad un’estensione su scala globale della logica dell’accumulazione pecuniaria, finalizzata a compensare con rendimenti finanziari il minore flusso di profitti derivabile dalla produzione. Questo processo ha favorito la formazione e la crescita del potere di nuove oligarchie economiche, attraverso un vero e proprio «sabotaggio» (perlomeno parziale) del tradizionale meccanismo di estrazione del valore fondato sullo sfruttamento del lavoro. In modo diverso dagli Stati Uniti e altri paesi occidentali, la logica dell’accumulazione del capitale fisico prevale (sebbene non esclusivamente) tutt’ora in Cina (ma anche in Russia), sebbene l’oligarchia politica che centralizza il potere stia riorientando il modello produttivo e gli sforzi per assorbire l’eccesso cronico di capacità produttiva principalmente all’interno dei confini nazionali o verso aree che da tempo subiscono il ricatto delle sanzioni occidentali.
In conclusione, un numero limitato di soggetti economici dall’ampissimo potere di azione rappresenta oggi il fulcro dei processi di centralizzazione del capitale che caratterizzano le economie mondiali. La composizione dell’equilibrio tra oligarchie a prevalente trazione finanziaria e oligarchie a prevalente trazione produttiva plasma anche le politiche o i contrasti tra i governi e i loro presunti leader, che ne sono sempre più espressione subordinata e debolmente distinguibile. Quando l’equilibrio tra le due diverse oligarchie non può essere mantenuto, è possibile che l’instabilità conseguente assuma la forma di tensioni di natura bellica tra nazioni e governi, condotti comunque in aree geografiche circoscritte (almeno nell’intento) e in modalità indiretta. Molto raramente, infatti, questi conflitti arrivano ad assumere la forma di uno scontro frontale tra le forze militari delle grandi potenze in quanto, a causa della comune disponibilità di sistemi d’arma nucleare, non ci sarebbe nessun vincitore in caso di escalation e nessuno scenario ragionevolmente componibile. Per questa ragione, gli Stati Uniti non scatenano il loro governo contro la Russia o la Cina ma lo fanno per interposta nazione (Ucraina, Taiwan, Yemen, Niger, ecc.), con guerre a bassa intensità e di durata medio/lunga. Il contrassegno di questa tipologia di conflitto è costituito dal maggior utilizzo da parte di compagnie militari private che operano negli scenari più instabili[6], garantendo l’approvvigionamento dei sistemi d’arma più innovativi, l’addestramento della polizia, il supporto di intelligence, la protezione delle risorse strategiche e delle installazioni vitali, come anche la protezione dell’incolumità dei leader civili. In questo senso la tensione bellica realizza – in modo trasversale a Stati e nazioni – una straordinaria convergenza di interessi tra le diverse logiche di accumulazione: quella produttiva, che riceve un continuo impulso alla costruzione di nuovi sistemi di arma e di sicurezza, sempre più integrati con le tecnologie digitali più avanzate, con le ricerche più segrete dell’industria farmaceutica e dell’industria dell’energia[7]; quella pecuniaria, che trae dall’incertezza provocata dai venti di guerra una fortissima richiesta degli asset finanziari più strategici, sempre sotto il controllo delle imprese a maggiore capitalizzazione e degli azionisti più forti[8].
In ultima analisi, il fine della guerra non è più la conquista «imperiale» del territorio o lo sfruttamento diretto dei mercati dei nuovi «vinti», ma il loro controllo e l’imposizione dei nuovi equilibri di potere del capitale a una popolazione mondiali sempre più impoverita e frammentata in individui senza identità[9]. Il problema sembra quindi ben più complesso da come viene rappresentato nell’appello alla pace degli economisti pubblicato il 17 febbraio del 2023 sul Financial Times per iniziativa di Emiliano Brancaccio e Lord Robert Skidelsky. Secondo questi economisti (e secondo i molti che hanno firmato l’appello) la ripresa dei conflitti tra nazioni sarebbe principalmente da attribuire al protezionismo commerciale degli Stati Uniti, finalizzato a contrastare il grande squilibrio tra l’economia americana debitrice e quella cinese creditrice, non più facilmente gestibile dalla sola forza del dollaro. Come emerge dalla nostra analisi, però, la guerra, sebbene con declinazioni nuove rispetto al passato, è piuttosto tornata a essere un fattore di composizione cruciale nel sempre più fragile equilibrio dei poteri capitalistici. E’ solo questa consapevolezza, più che l’auspicio di un ritorno a un «capitalismo illuminato» che sa correggere gli squilibri delle partite correnti (vedi ancora l’appello del Financial Times), a rappresentare il primo debole ma indispensabile passo di un titanico e tortuoso percorso verso la pace, unico vero processo rivoluzionario nel contesto mondiale odierno.