Rivoluzione sociale e rivoluzione politica nel giovane Lukács. Alcune note su Storia e coscienza di classe
di Salvatore Tinè
Da Lukács in questione. Storia e coscienza di classe cento anni dopo, a cura di Roberto Morani, Orthotes, Napoli, 2024
1. Necessità economica e attualità politica della rivoluzione sociale
Scopo del presente saggio è mostrare l’importanza fondamentale della mediazione del pensiero di Rosa Luxemburg non soltanto nell’approdo e nel primo approfondimento critico da parte di Georg Lukács di alcune categorie filosofiche politiche del marxismo, da quella, già centrale nella sua fase pre-marxista di “totalità” a quella di “rivoluzione sociale”, ma anche nella successiva e più matura interpretazione “leninista” del marxismo come teoria dell’attualità della rivoluzione proletaria. Più in particolare si tenterà di mostrare come attraverso una lettura originale del pensiero rivoluzionario di Rosa Luxemburg, Lukács si sforzi sia di reinterpretare in termini radicalmente nuovi il marxismo della tradizione, sia di superare i limiti stessi della sua concezione precedente, dai forti tratti storicistici e idealistico-neokantiani, della storia come processo dialettico e come totalità.
Il tema dell’imminenza e della necessità della rivoluzione sociale proletaria costituisce il nucleo della riflessione del giovane Lukács sull’essenza pratico-critica e rivoluzionaria del metodo dialettico marxista. È infatti attorno ad esso che ruota la critica radicale del marxismo “ortodosso” della II Internazionale, ovvero della base teorica e politico-ideologica del movimento operaio europeo, della sua prassi riformista e gradualista, condotta dal pensatore ungherese sia nei saggi filosofici raccolti in Storia e coscienza di classe sia nei più importanti interventi teorico-politici che scandiscono la sua attiva militanza comunista tra il 1918 e i primissimi anni ‘20. L’interpretazione socialdemocratica della dottrina di Marx ed Engels, elaborata dai maggiori dirigenti e teorici della II Internazionale, veniva accusata dal giovane Lukács di avere trasformato e deformato il marxismo in una concezione generale e pretesa scientifica del divenire storico-sociale insieme economicistica e deterministica, finendo per smarrirne totalmente l’essenza, ovvero la sua natura originaria di teoria della rivoluzione fondata sul metodo dialettico.
Il crollo della II Internazionale alla vigilia della prima guerra mondiale, segnato dallo schieramento dei partiti socialisti europei a fianco delle borghesie imperialiste dei loro paesi rispettivi era, in tal senso, da considerarsi, per Lukács, una conseguenza necessaria di questa interpretazione e deformazione del marxismo, giudicata responsabile di aver reso quest’ultimo del tutto subalterno alle ideologie borghesi e riformiste, e proprio nella fase della crisi irreversibile e del declino storico della società capitalistica, giunta al suo più estremo grado di sviluppo in senso monopolistico e imperialistico, preludio ormai della sua fine imminente. In tale così aspra denuncia del carattere opportunistico e perfino “borghese” del marxismo cosiddetto “ortodosso” si riflette la sostanziale estraneità ad esso della formazione intellettuale e filosofico-teorica di Lukács. Ciò non impedisce tuttavia a quest’ultimo di prendere le mosse da alcuni temi del pensiero di Rosa Luxemburg, certo espressione delle correnti di sinistra più critiche e radicali della II Internazionale ma proprio perciò anche fortemente legata alle sue tradizioni teoriche e politiche.
È in particolare il tema luxemburghiano della “necessità della rivoluzione”, al centro della critica al riformismo e al revisionismo di Bernstein condotta dalla rivoluzionaria polacca nel celebre scritto Riforma sociale o rivoluzione? del 1899, a influenzare fortemente la concezione della rivoluzione e del suo rapporto con il metodo dialettico marxista propria del giovane Lukács. In polemica contro l’accusa bernsteiniana di “blanquismo” mossa ai sostenitori della “dittatura del proletariato”, Rosa Luxemburg aveva inteso la necessità della rivoluzione sociale non solo come fatale, obiettiva, conseguenza della tendenza al crollo del sistema economico capitalistico ma anche come immanenza dello scopo finale della conquista proletaria del potere politico alla concreta processualità storica e alla lotta di classe quotidiana del proletariato che la scandisce. Sia pure sulla base di una teoria sostanzialmente “crollista” del meccanismo economico capitalistico, Rosa Luxemburg aveva tentato di riconnettere in una concezione processuale e dialettica della rivoluzione le dinamiche oggettive della crisi con quelle soggettive della lotta di classe economico-sociale e politica.
Ma sorge allora il grave problema: perché e come arriveremo noi in generale alla meta finale dei nostri sforzi? Dal punto di vista del socialismo scientifico la necessità storica della rivoluzione socialista si manifesta anzitutto nell’anarchia crescente del sistema capitalistico, che lo spinge in un vicolo cieco. Se invece si ammette con Bernstein che lo sviluppo capitalistico non va verso la propria rovina, il socialismo cessa di essere obiettivamente necessario1.
Smarrendo la nozione della necessità della rivoluzione, come conseguenza della tendenza del capitalismo alla sua rovina, ovvero della forma antagonistica, quindi inconciliabilmente contraddittoria, del processo di socializzazione dell’economia e della società, era l’intera costruzione del socialismo scientifico a venir meno, restando «unicamente come fondamento del socialismo la coscienza di classe del proletariato». Ma «anch’essa – notava Rosa Luxemburg in polemica con ogni tentativo di rifondazione etica del marxismo – è nel caso specifico, non un semplice riflesso spirituale dei contrasti sempre più acuti del capitalismo e della sua imminente caduta – la quale sarebbe ormai evitata dai mezzi di adattamento – ma un mero ideale, la cui forza di persuasione riposa unicamente sulla sua supposta perfezione»2. È proprio da questa riconnessione della coscienza di classe politica alla sua concreta immanenza nell’essere sociale e quindi in definitiva alla sua necessità economica che prende le mosse la riflessione di Lukács. Tuttavia, a differenza della Luxemburg, egli non considera la coscienza di classe soltanto come un mero “riflesso spirituale” della crisi ormai rovinosa del capitalismo ma piuttosto come l’istanza soggettiva storicamente decisiva in grado di rovesciare la crisi in rivoluzione. In tal senso, è proprio il suo carattere “ideale”’ a subire una più forte accentuazione nella riflessione del pensatore ungherese volta in generale all’affermazione della “praticità” della coscienza, ovvero della sua capacità potenziale di riconnettere in un nesso sempre più stretto e indissolubile la processualità della lotta di classe immediata alla prospettiva imminente della rivoluzione politica e quindi alla meta finale del socialismo. Il punto di vista della coscienza viene così imponendosi nella sua riflessione come il solo in grado di risalire dialetticamente non solo alla totalità sociale in quanto tale, di là dall’apparente necessità immodificabile delle “pure” leggi economiche dell’accumulazione capitalistica, ma anche a quella del processo rivoluzionario nel suo complesso, comprendendo e inglobando in essa non solo il suo concreto svolgimento attraverso l’iniziativa e la lotta delle masse ma anche il suo inevitabile compimento nella conquista del potere da parte del proletariato e nel passaggio a un diverso ordinamento della produzione sociale. Del resto, la stessa concezione luxemburghiana della crisi generale del capitalismo imperialista viene reinterpretata e fatta propria da Lukács, al di là del suo apparente catastrofismo ancora economicista, ancora legato alla tradizione della II Internazionale, sulla base della sua generale impostazione metodologica tendente a ricondurre immediatamente i processi economici e insieme a essi la loro stessa astratta “razionalità” al loro fondamento reale e concreto, ovvero non solo in generale alla totalità storica e sociale in cui effettivamente essi si svolgono, ma, anche in particolare, ai rapporti di dominio diretto economico-politico tra le classi, alla lotta tra esse destinata a una sempre maggiore e più aspra acutizzazione, nell’epoca del tramonto della società borghese.
Come l’identificazione delle “leggi naturali” con la realtà sociale fu un’autodifesa ideologica del capitalismo nella sua fase ascendente, così l’interpretazione di Marx da parte della scuola austriaca, l’identificazione che essa opera tra le astrazioni di Marx e la totalità della società, è un’autodifesa della “razionalità” (Rationalität) del capitalismo nella fase del suo tramonto. E come la considerazione della totalità del giovane Marx ha illuminato vividamente la facies hippocratica del capitalismo ancora nel suo fiore, così l’ultimo suo momento di floridezza riceve nella considerazione di Rosa Luxemburg, mediante l’inserimento dei suoi problemi di fondo nella totalità del processo storico, il carattere di un’orrida danza di morte, di un cammino edipico verso un destino ineluttabile3.
È in questo contesto storico-mondiale determinato, illuminato dalla teoria luxemburghiana, che, secondo Lukács, «l’imperialismo, la guerra e la rivoluzione mondiale debbono essere intesi come necessità dello sviluppo»4. Ma l’insorgere della coscienza di classe, essa stessa generata da questa necessità, si impone, tuttavia, a sua volta, come la condizione di possibilità di un orientamento consapevole, di una direzione insieme soggettiva e politica dello sviluppo storico e sociale della crisi in grado di imprimere a esso una soluzione nuova, in senso rivoluzionario, anche anticipandone e intenzionandone lo scopo finale, pure a esso sempre immanente. Lukács non cessa di celebrare questa “eccedenza”, questa capacità di creazione del nuovo, della coscienza di classe, pur non stancandosi di ribadirne nello stesso tempo la concreta presenza, sempre “latente”, nella situazione della classe, il suo radicamento ontologico nell’essere sociale del proletariato. Un essere sociale di cui la spontanea soggettività dell’azione di massa proletaria è la fondamentale e più autentica espressione della sua stessa coscienza politica.
Il proletariato è dunque al tempo stesso il prodotto della crisi permanente del capitalismo e colui che porta a compimento quel le tendenze che spingono il capitalismo verso la crisi. Esso agisce in quanto conosce la propria situazione. E conosce la propria situazione nella società, in quanto lotta contro il capitalismo. Ma la coscienza di classe del proletariato, la verità del processo “come soggetto” non è affatto qualcosa che resti stabilmente identico o che si muove secondo “leggi” meccaniche. È la coscienza del processo dialettico stesso: è anch’essa un concetto dialettico. Infatti la praticità, il carattere attivo della coscienza di classe, la sua vera essenza. può diventare visibile nella sua forma autentica solo nel momento in cui il processo storico richiede imperiosamente che essa intervenga in forza, nel momento in cui una crisi acuta dell’economia la spinge sino all’azione. Altrimenti essa rimane, corrispondentemente alla crisi che permane potenziale del capitalismo, puramente teorica e latente, contrapponendosi, sul piano delle istanze – come «mera» coscienza, come “somma ideale” secondo l’espressione di Rosa Luxemburg –, alle questioni particolari e alle lotte di ogni giorno5.
Per un verso, dunque la coscienza di classe è sempre ontologica mente immanente, sia pure in modo solo latente nella situazione sociale; ma per un altro, essa acquista una realtà effettiva, attingendo la sua vera essenza, come capacità teorica e pratica di innalzarsi alla conoscenza di se stessa e dunque della totalità della storia, solo nell’imporsi della crisi, solo nell’imminenza della rivoluzione. Sul piano più generalmente filosofico, la dialettica tra soggettività e oggettività, tra libertà e necessità trova qui il suo momento di sintesi e conciliazione proprio nella spontaneità dell’azione di massa come espressione simultaneamente dell’oggettività economica e sociale, sebbene non meramente empirico-sociologica, della situazione della classe da un lato e della soggettività politica del proletariato dall’altro.
Non a caso, nel Lukács ancora “luxemburghiano” di questa fase del suo pensiero, l’affermazione del primato ideale della coscienza di classe come punto di vista della totalità e insieme «etica del proletariato in lotta»6, in grado di unire teoria e prassi, conoscenza e azione, si accompagna sempre alla rivendicazione del suo intimo nesso dialettico con il carattere insieme soggettivo e oggettivo, ovvero nello stesso tempo di processo e di massa della rivoluzione sociale e proletaria. Solo in tale carattere, infatti, viene concretandosi per Lukács, l’attualità non più solo storico-epocale ma immediata della rivoluzione, la sua imminenza, il suo porsi all’ordine del giorno.
Il luxemburghismo di Lukács si riassume così nella sua idea della maturità oggettiva della rivoluzione, intesa non come atto singolo e neanche come sintesi della totalità del processo ma come momento dialettico del suo sviluppo, scandito dalla costituzione processuale di una soggettività sociale e politica di massa del proletariato in lotta. In tal senso, la stessa coscienza di classe è un momento, per quanto decisivo e cruciale, del processo di formazione e costituzione della soggettività spontanea della classe. È in questa diretta riconduzione del carattere di teoria e di scienza del marxismo alla materialità sociale di questo processo di lotta che Lukács fa essenzialmente consistere la riscoperta luxemburghiana del metodo dialettico di Marx e in particolare di quelli che egli considera i suoi due «presupposti fondamentali», «l’istanza della totalità sia come oggetto posto sia come soggetto che pone»7. Ma in tal modo è la stessa concezione tradizionale dello statuto scientifico del marxismo e quindi del nesso tra scientificità della teoria e suo carattere pratico-rivoluzionario a essere, secondo Lukács, investita dalla teoria luxemburghiana della rivoluzione.
L’opera principale di Rosa Luxemburg L’accumulazione del capitale riprende il problema da questo punto di vista, dopo decenni di volgarizzazione del marxismo. Questo appiattimento del marxismo, il suo ripiegamento sulla scientificità borghese trovò la sua prima, chiara e aperta espressione ne I presupposti del socialismo di Bernstein. Non è affatto un caso che il medesimo capitolo di questo libro che inizia con un attacco contro il metodo dialettico in nome della “scienza’” esatta si concluda accusando Marx stesso di blanquismo. Non a caso, infatti, nel momento in cui viene lasciato cadere il punto di vista della totalità, che è punto di partenza e scopo, presupposto e istanza del metodo dialettico; nel momento in cui la rivoluzione non viene intesa come momento del processo, ma come atto isolato e separato dallo sviluppo nella sua totalità, il carattere rivoluzionario di Marx deve necessariamente presentarsi come una ricaduta nel periodo primitivo del movimento operaio, nel blanquismo. E con il principio della rivoluzione, come conseguenza del dominio categoriale della totalità, crolla l’intero sistema del marxismo8.
Da questa teoria, ancora luxemburghiana, della rivoluzione come parte del processo, momento dialettico del suo spontaneo sviluppo organico, discende non a caso una concezione del partito come “obiettivazione” della “volontà più propria” delle masse, “organizzazione” solo “tecnica” del proletariato in lotta. Ma, perfino contraddittoriamente con i presupposti di essa, Lukács non manca di sottolineare, forzando gli stessi limiti della concezione spontaneistica, rigidamente organicistica del processo rivoluzionario propria di Rosa Luxemburg, il ruolo fondamentale del partito nel processo di maturazione propriamente politica della coscienza di classe delle masse, lungo il quale soltanto la loro soggettività viene via via assumendo, per il pensatore ungherese, una «forma visibile e organizzata». In tal senso, la costituzione del partito, l’assunzione cioè da parte delle masse spontaneamente in rivolta, della coscienza di classe in quanto tale, di una figura storico-politica non più solo latente e potenziale ma concretamente attiva e visibile, si configura essa stessa come un aspetto, una condizione altrettanto essenziale e decisiva della maturità della rivoluzione. È evidente in Lukács una torsione già decisionistica della concezione della spontaneità, che sia pure implicitamente tende al suo superamento. Del resto, non sfuggiva neanche a Rosa Luxemburg il carattere tutt’altro che meccanicisticamente determinato e lineare del processo di maturazione delle condizioni propriamente politiche della rivoluzione sociale. In Riforma sociale o rivoluzione? la rivoluzionaria polacca non aveva mancato di definire tale carattere evocando la celebre previsione marxiana contenuta ne Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, degli enormi ostacoli e difficoltà che il movimento proletario avrebbe incontrato e superato nel suo confronto con il capitale e la potenza del suo dominio, in un lungo e complesso cammino storico scandito da continue avanzate e dolorose ritirate, effimere vittorie e cocenti sconfitte, al culmine del quale soltanto avrebbe potuto effettivamente maturare e compiersi la conquista definitiva del potere politico da parte del proletariato.
La rivoluzione socialista presuppone una lunga e accanita battaglia, nel corso della quale molto probabilmente il proletariato verrà ricacciato indietro più d’una volta, cosicché la prima volta, dal punto di vista del risultato finale della lotta, esso sarà giunto al potere “troppo presto”. In secondo luogo, questa “prematura” conquista del potere statale è inevitabile anche perché questi “prematuri” attacchi del proletariato sono per se stessi un fattore assai importante, che crea le condizioni politiche della vittoria finale, giacché il proletariato, solo nel corso di quella crisi politica che accompagnerà la sua conquista del potere, solo nel fuoco di lunghe e dure battaglie, potrà raggiungere il grado necessario di maturità politica, che lo renderà capace di provocare il grande e definitivo rivolgimento9.
Cogliendo il nucleo teorico più profondo e drammatico di una celebre e grande pagina marxiana del 18 Brumaio, Rosa Luxemburg finiva per evocare nello stesso tempo la riflessione del giovane Marx sul rapporto contraddittorio ma indissolubile tra l’essenza sociale della rivoluzione proletaria e il suo carattere di “atto politico”10. Proprio dalla complessa contraddittorietà storica di tale rapporto, la riflessione della Luxemburg faceva discendere quell’apparente “intempestività” della rivoluzione politica, ovvero il suo giungere sempre “troppo presto”, sempre denunciata dagli opportunisti come Bernstein, ovvero da chi tendeva a interpretare in senso restrittivamente blanquista la teoria politica di Marx, insieme fraintendendone e rifiutandone il nucleo essenzialmente pratico-rivoluzionario. Non a caso, il tema del rapporto tra rivoluzione sociale e rivoluzione politica ritorna più volte in Storia e coscienza di classe, e in modo particolare nei suoi saggi più tardi e maturi, in cui più profondamente Lukács viene risalendo autocriticamente agli stessi limiti teorici del luxemburghismo e dell’estremismo politico che avevano segnato la sua prima formazione marxista e comunista. In essi, Lukács tende a cogliere in primo luogo nell’unità contraddittoria di questo rapporto lo stesso carattere di totalità del processo rivoluzionario. Ma già nel primo saggio su Rosa Luxemburg, confluito nel libro del 1923, di nuovo evocando la pagina marxiana del 18 Brumaio, egli non mancava di vedere riflesso perfino nel destino personale di Rosa Luxemburg, assassinata dai socialdemocratici opportunisti, nel corso della fallita insurrezione spartachista del gennaio 1919, il nesso tragico e dialettico che unisce sempre sconfitta e vittoria lungo il cammino della rivoluzione proletaria, proprio in conseguenza del suo carattere politico e non solo economico-sociale: «è un segno dell’unità di teoria e praxis nell’opera di Rosa Luxemburg il fatto che quest’unità di vittoria e disfatta, di destino singolo e di processo totale abbia formato il filo conduttore della sua teoria»11. In questa implicita affermazione del carattere di destino che la totalità assume dal punto di vista dell’esistenza dell’individuo singolo sembra risuonare ancora qualcosa della concezione tragicamente problematica della nozione di totalità propria del primo Lukács pre-marxista. Ma qui tale carattere assume un diverso significato legato alla complessa dialettica tra l’attualità immediata della rivoluzione connessa al sorgere della coscienza di classe in una determinata congiuntura e il suo più profondo e complesso legame con la più vasta totalità processuale della storia. Dunque, nello stesso compimento di un “destino singolo” quale quello che aveva segnato tragicamente la vicenda personale di una grande teorica e dirigente rivoluzionaria come Rosa Luxemburg, Lukács coglieva nello stesso tempo sia un momento necessario e organico della totalità del processo, del suo concreto realizzarsi attraverso l’azione e la prassi, sia una conseguenza della “intempestività” della rivoluzione, ovvero del carattere intrinsecamente prematuro della prassi rivoluzionaria, in quanto tale sempre, almeno relativamente, autonoma dall’effettiva maturità delle condizioni oggettive della vittoria finale e proprio perciò sempre esposta al rischio della sua disfatta, fino al momento culminante e definitivo del processo rivoluzionario.
2. La rivoluzione sociale come processo e come totalità
È questa duplice e contraddittoria natura della prassi rivoluzionaria a rendere nella riflessione lukacsiana, lungo il suo tormentato sviluppo, sempre più complessa e problematica l’idea che sorregge l’intera costruzione di Storia e coscienza di classe, quella del proletariato come soggetto-oggetto identico della storia e quindi della rivoluzione, in grado di rovesciare, attraverso la prassi, la riduzione della sua capacità di lavoro a merce, il porsi quindi interamente dalla parte dell’oggetto del suo essere, proprio in virtù del suo innalzarsi alla coscienza e alla conoscenza di sé come autocoscienza della stessa merce12. Proprio infatti la successione di disfatte in cui viene consumandosi la sconfitta della rivoluzione in Occidente spinge Lukács a un sempre più intenso approfondimento del carattere totalitario e onnipervasivo dei processi di socializzazione e di reificazione capitalistica, della loro capacità di investire e permeare di sé la totalità, il complesso eterogeneo e diversificato di tutte le forme di vita fenomeniche dell’essere sociale, sussumendole sotto la razionalità, astratta e formale, puramente quantitativa, del valore di scambio e della struttura di merce. Tali processi costituiscono un portato inevitabile di quella unificazione economica della società mediata dall’universalizzazione della forma di merce che per la prima volta nella storia ha costituito per Lukács una formazione sociale, quella borghese moderna, in una totalità organica, rendendo possibile così il sorgere nel proletariato di una coscienza di classe propriamente detta, ovvero effettivamente universale e non soltanto meramente particolaristica o di ceto. Ma è proprio lo spessore ontologico, la realtà tutt’altro che puramente apparente o meramente sovrastrutturale delle forme fenomeniche feticizzate e reificate della vita e della prassi sociali, insieme a quella che Lukács definisce la “ricchezza contenutistica” della totalità sociale, ovvero la molteplicità di tutti i momenti che ne scandiscono l’intero svolgimento facendo di essa hegelianamente un risultato e mai un mero presupposto, a impedire o a ostacolare di fatto, perfino nelle fasi di più acuta crisi economica e politica della società capitalistica, la traduzione immediata della possibilità solo oggettiva, solo latente della coscienza di classe in una realtà effettiva, soggettiva, operante in modo consapevole e organizzato anche sul piano storico e politico13. La fase imperialista dello sviluppo capitalistico è, certo, segnata da una crisi che fa epoca del suo dominio economico ma anche dalla sua estensione tendenziale a ogni ambito della produzione e della riproduzione sociale. Ma proprio ciò rende impossibile a una coscienza puramente immediata di risalire alla totalità del processo di socializzazione, al nesso che lega tra loro economia e società, produzione e politica. «La coscienza immediata della merce, secondo la sua semplice forma fenomenica – dice infatti Lukács – è pur sempre solo «l’astratto isolamento e il rapporto astratto, che va al di là della coscienza, con quei momenti che lo rendono sociale»14. Si spezza così il nesso immediato tra soggetto e oggetto, ovvero tra crisi e rivoluzione che sorreggeva l’intero marxismo rivoluzionario del primo Lukács luxemburghiano. «Se si tenta di attribuire alla coscienza di classe una forma immediata – dice egli ancora – si cade inevitabilmente nella mitologia»15. Lukács si spinge fino ad affermare che «nella società capitalistica l’essere sociale è – immediatamente – lo stesso per la borghesia e per il proletariato»16. Il carattere totale della riduzione a mero oggetto, a merce, dell’operaio, della sua esistenza fisica e spirituale, attraverso la separazione della sua capacità di lavoro dalla sua personalità complessiva, in cui Lukács coglie dialetticamente la base oggettiva e sociale della possibilità della coscienza di classe proletaria non toglie che l’effettiva attualizzazione di quest’ultima sia tutt’altro che immediata. Certo, non sfugge al pensatore ungherese l’importanza fondamentale della lotta economica e sociale degli operai nel processo politico della loro costituzione in classe: già con lo scontro tra capitalisti e operai sulla durata della giornata lavorativa, nel cuore del processo di produzione immediato, la lotta di classe viene assumendo, soprattutto dal lato operaio, un carattere e una forma politica, pur nell’apparente rispetto della logica puramente economica e quantitativa dello scambio di merci. Ciò non toglie tuttavia che il proletariato possa innalzarsi alla coscienza di classe propriamente politica soltanto attraverso un lungo e difficile processo di formazione della propria soggettività consapevole.
Perciò dal carattere di totalità della formazione sociale borghese, come tale immanente in ogni suo singolo momento, non discende immediatamente il carattere di sviluppo organico del processo rivoluzionario destinato a superarla o a distruggerla.
Nella sopravvalutazione del carattere organico della rivoluzione come processo, Lukács individua uno dei maggiori errori teorici della Luxemburg, sottesi alla sua critica della rivoluzione russa. Ma è chiaro che Lukács viene così allontanandosi dalla sua prima concettualizzazione della rivoluzione come piena immanenza del fine nel movimento, ovvero della sua essenza nella concretezza della lotta classe quotidiana economico-sociale e politica del proletariato non meno che nel processo di spontanea maturazione delle sue condizioni economiche oggettive. Si tratta di un ulteriore sviluppo e radicalizzazione del tema della apparente “intempestività” della rivoluzione già presente, come abbiamo visto, nella stessa riflessione di Rosa Luxemburg. Alla luce di esso, Lukács reinterpreta la stessa teoria leniniana dell’anello debole: quest’ultimo rappresenta quel momento della totalità a partire dal quale soltanto, nella situazione concreta in cui di volta in volta essa è chiamata ad agire e intervenire, la prassi rivoluzionaria può risalire, teoricamente e praticamente, alla totalità della “catena”, al di là della sua oggettiva “ricchezza contenutistica”, anticipandone e insieme accelerandone lo svolgimento necessariamente lento e processuale. «Il momento decisivo dell’azione – scrive Lukács – può anche essere orientato verso un elemento apparentemente irrilevante»17. Il duro e spietato realismo politico che ispira la concezione leniniana della rivoluzione viene fatto essenzialmente consistere nell’individuazione di questo momento. In esso, perciò, si condensa per Lukács addirittura l’intera “filosofia della prassi” del giovane Marx.
L’esortazione che egli (Lenin) ripete di continuo ad afferrare con tutte le proprie forze l’“anello più vicino” della catena dello sviluppo dal quale dipende in un dato momento, il destino della totalità, il suo togliere di mezzo tutte le istanze utopistiche, quindi il suo “relativismo”, la sua Realpolitik rappresentano appunto l’attualizzazione e la traduzione pratica delle tesi su Feuerbach del giovane Marx18.
Appare evidente come nella celebrazione del “relativismo” che contrassegnerebbe la Realpolitik leniniana e la sua spregiudicatezza tattica si riflette una concezione ancora storicistica di marca neo-kantiana del divenire storico tesa a esaltarne la concreta irripetibilità, quindi la sua irriducibilità a quelle leggi di sviluppo economico oggettivo nella cui dinamica meccanicistica il marxismo tradizionale aveva, secondo Lukács, identificato l’intera evoluzione storico-sociale. In realtà, la stessa teoria leniniana dell’anello debole, lungi dallo schiacciare il processo rivoluzionario nella mera contingenza della “situazione concreta” si inquadrava dentro una concezione dell’oggettività delle leggi dello sviluppo economico della produzione capitalistica, ne individuava, proprio in risposta alla sfida teorica e politica del revisionismo di Bernstein e dello stesso Kautsky, le concrete dinamiche di svolgimento nella continuità del processo organico della crisi dell’imperialismo a scala mondiale e nella prospettiva scientificamente fondata della rivoluzione internazionale.
Di fronte alla più immediata e immediatamente sconvolgente realtà della sconfitta della rivoluzione in Occidente, Lukács, pur non smarrendo la dimensione mondiale e storico-epocale dell’analisi di Lenin e la sua base scientifica, finisce per reinterpretarla in una prospettiva temporale più strettamente legata ai ritmi e alle dinamiche della prassi politica concreta e ai suoi compiti all’ordine del giorno, in una situazione in larga parte imprevista o imprevedibile dal punto di vista della teoria che aveva fino a un certo momento orientato la strategia del movimento comunista. Si tratta di una prospettiva sostanzialmente incapace di ridefinire la totalità del processo rivoluzionario e quella stessa del periodo di transizione su una adeguata base scientifica e analitica. Di qui la rivendicazione della realtà ontologica della sua “essenza” su un piano solo filosofico-politico generale. La rivendicazione marxiana e luxemburghiana del carattere di atto politico della rivoluzione rischia di smarrirne insieme alla sua base nella oggettività dell’evoluzione economica dell’imperialismo, la sua natura essenzialmente sociale e di ridurre così la stessa pure rivendicata unità e totalità della rivoluzione alla mera astrazione ideal-tipica della sua essenza.
Nonostante l’attualità e l’imminenza della rivoluzione, la realtà fenomenica e processuale del suo svolgimento concreto, la sua fenomenologia storica era, infatti, ancora ben lungi dal coincidere, per Lukács, immediatamente con l’essenza della sua totalità. La divaricazione tra essenza e fenomeno che pure la crisi rivoluzionaria avrebbe dovrebbe superare riavvicinandoli, non cessa di condizionarne le dinamiche e gli stessi esiti. Ritorna, così, nel libro del ’23, sia pure in un quadro categoriale totalmente diverso, il tema del contrasto tra “essenza” della totalità e “vita comune”, ovvero tra l’empirica caoticità e contingenza dell’esistenza e la verità della sua essenza o forma a priori che aveva costituito ne L’anima e le forme e ancora nella Teoria del romanzo, del primo Lukács pre-marxista, il nucleo del suo esistenzialismo tragico19. Il contrasto tra essenza e vita comune, già rispettivamente identificate nella Teoria del romanzo con la totalità solo intensiva della prima e con quella solo estensiva della seconda, assume nel Lukács di Storia e coscienza di classe la forma della violenza politica rivoluzionaria, in tutta la sua “nudità” e “crudezza”. «Il marxismo – scrive – è la teoria della rivoluzione proprio perché afferma l’essenza del processo (in contrasto con i suoi sintomi, le sue forme fenomeniche), mostrando la sua tendenza decisiva, orientata verso il futuro (in contrasto con le manifestazioni quotidiane)»20.
Ma è proprio la violenza di questo contrasto e la sua connessa tendenza verso il futuro, perfino a scapito della sua immanenza nel presente della vita comune e nella stessa processuale quotidianità della lotta di classe, a connotare in senso sociale e non più soltanto politico la rivoluzione proletaria in quanto tale, conferendo a essa, agli occhi della coscienza borghese, l’apparente carattere di una “catastrofe”, di una potenza tanto esterna quanto minacciosa che investe e sconvolge la vita. Il carattere sociale della rivoluzione scaturisce quindi non solo dalla sua immanenza nelle contraddizioni oggettive e strutturali dell’ordinamento economico-sociale borghese ma anche e ancor più decisamente dal suo violento contrapporsi alle manifestazioni fenomeniche immediate della vita e della coscienza sociali caratteristiche di esso. La nudità e crudezza della violenza rivoluzionaria è una conseguenza dal suo scontrarsi con la persistente weberiana “gabbia d’ acciaio” della reificazione e burocratizzazione capitalistiche, certamente scosse e messe a dura prova dalla tendenza al crollo del capitalismo nella fase monopolistica e imperialista del suo sviluppo, ma ancora in grado di impedire e forse perfino di scongiurare un esito immediatamente rivoluzionario della pur catastrofica crisi generale in cui esso versa nell’epoca attuale.
Una rivoluzione politica sancisce infatti soltanto uno stato economico-sociale che si è già imposto, almeno, in parte, nella realtà economica. La rivoluzione sostituisce con la violenza il nuovo diritto “giusto” e “legittimo” al posto del vecchio ordinamento giuridico sentito come “illegittimo”. L’ambiente sociale della vita non subisce alcuna ristrutturazione radicale… La rivoluzione sociale è invece diretta alla modificazione di questo ambiente. E una modificazione di questo genere si spinge così profondamente contro gli istinti dell’uomo comune che egli vede in essa una minaccia catastrofica verso la vita in genere, essa rappresenta per lui una cieca potenza naturale come un’inondazione o un terremoto21.
Si direbbe che non sia tanto l’oggettività della crisi economica e sociale a spezzare l’equilibrio tra produzione immediata e riproduzione sociale complessiva, tra struttura e sovrastruttura su cui si regge nei suoi periodi di sviluppo normale l’ordinamento capitalistico, quanto la decisione rivoluzionaria posta di fronte alla persistente rigidità reificata di quell’equilibrio pur sottoposto oggettivamente ai violenti scossoni della crisi22.
3. Rivoluzione sociale e rivoluzione politica nel periodo di transizione
Il paradigma luxemburghiano della crisi viene sostanzialmente superato, almeno nella versione “crollista” che lo stesso Lukács ne aveva dato. Di qui l’individuazione del limite principale del pensiero politico di Rosa Luxemburg nella sua affermazione ancora secondo-internazionalista23, del carattere di “sovrastruttura” della coscienza di classe e delle sue forme politiche e statutali di organizzazione, nella sua sostanziale incomprensione, quindi, della stessa «forma soviettista come forma di direzione della lotta nel periodo di transizione, come forma di lotta per conquistare e imporre i presupposti del socialismo»24. In tal senso, la condanna da parte della Luxemburg della contrapposizione bolscevica tra i soviet e l’Assemblea Costituente scaturiva per Lukács da una mancata concettualizzazione del rovesciamento del nesso tra struttura e sovrastruttura che caratterizza secondo il pensatore ungherese non solo il periodo di transizione della rivoluzione proletaria ma anche l’essenziale differenza tra quest’ultima e le rivoluzione borghesi del passato compiutesi sempre sulla base di una piena maturazione delle loro oggettive condizioni economico-sociali.
Più, in generale, è la stessa concezione luxemburghiana del sorgere della coscienza di classe e della sua stessa natura a essere adesso rifiutata nella sostanza da Lukács. Il sorgere di essa, infatti, non può più essere identificato nel solo «rendere cosciente [nello stato della coscienza proletaria] ciò che è inconsapevole, di rendere attuale ciò che è latente», tale processo potendo realizzarsi soltanto attraverso quella che Lukács definisce «una terribile crisi ideologica interna del proletariato stesso»25. Lukács precisa subito dopo che non si tratta di confutare ciò che la stessa Luxemburg aveva già confutato, ovvero «quella paura opportunistica dell’immaturità del proletariato a prendere e a conservare il potere». Ciò che sfuggiva alla rivoluzionaria polacca era piuttosto l’effettiva «reazione alla crisi» del proletariato, il suo restare «quanto a violenza e intensità molto al di sotto della crisi stessa»26.
In modo apparentemente paradossale, in un’ottica che oggi definiremmo “biopolitica”, Lukács fa dunque derivare proprio dal carattere sociale della rivoluzione proletaria, dal suo investire la totalità dell’ambiente sociale e quindi della vita stessa, la centralità del ruolo e della funzione dirigente del partito e dello stato nel corso del suo concreto svolgimento. Un ruolo destinato non a caso a diventare sempre più importante anche dopo la conquista del potere nel corso del lungo e difficile processo di transizione a una formazione sociale non più fondata sulla spontaneità delle leggi cieche dell’economia ma sulla regolazione sociale e dunque politicamente consapevole del processo complessivo di produzione e di riproduzione sociale. La necessità della direzione consapevole del processo di transizione al socialismo scaturisce adesso proprio dal suo carattere violento, almeno parzialmente “disorganico”, di dura lotta politica orientata non solo a guidare l’organizzazione dell’economia ma anche alla creazione volontaria e cosciente dei suoi presupposti. La capacità della coscienza di classe proletaria di anticipare il processo orientandolo al fine del socialismo e del comunismo, il suo carattere leninianamente “esterno” e non solo immediatamente immanente all’essere sociale della classe, trova così la sua attuazione concreta nella dittatura proletaria, intesa come principale condizione politica del socialismo, inizio della stessa creazione delle sue basi tecniche ed economiche.
Le basi del modo di produzione capitalistico e, insieme a esse, la “necessità naturale” che si impone coercitivamente, non sono tolte di mezzo per il fatto che il proletariato ha preso il potere, e neppure per il fatto che si impone istituzionalmente una socializzazione dei mezzi di produzione, per quanto essa possa essere ampia. Il suo allontanamento, la sua sostituzione mediante l’organizzazione cosciente dell’economia socialista non deve tuttavia essere intesa soltanto come un lungo processo, ma piuttosto come una lotta dura, consapevolmente condotta. Ci si deve conquistare questo terreno passo passo, con la lotta. Di fronte a questa “necessità”, ogni sopravvalutazione della violenza delle forze in contrasto, si ritorce spietatamente in forma di crisi, di sviluppi economici che riportano necessariamente ancora più indietro del punto di partenza. Ma sarebbe ugualmente erroneo, partendo dall’idea che vi sono limiti, spesso molto ristretti al potere del proletariato, alla possibilità di una regolamentazione cosciente dell’ordinamento economico, concludere che l’economia del socialismo si imponga per così dire da sé, quindi mediante le “leggi cieche” delle sue forze motrici, come nel caso del capitalismo27.
Il compito storico che Lukács assegna alla coscienza di classe è dunque quello di orientare il lungo ma anche terribilmente difficile e tortuoso processo della rivoluzione sia prima che dopo la conquista del potere, elevandosi oltre la cieca necessità delle leggi economiche e delle forme di vita e di coscienza reificate della società capitalistica e compiendo così il primo passo verso la realizzazione del “regno della libertà”. Un compito che trova per Lukács proprio nella rivendicazione del primato della politica, nelle forme del partito e dello stato della dittatura proletaria che cominciavano a delinearsi già nell’esperienza del “comunismo di guerra” nella Russia sovietica, la sua configurazione storica più concreta e insieme più realisticamente e tatticamente adeguata ai giganteschi problemi e ai compiti della lotta proletaria del periodo di transizione. Quello che egli definisce il “senso sociale” della rivoluzione, il rovesciamento del dominio del capitale come lavoro oggettivato da parte della soggettività pratica del lavoro vivo, si rivela già concretamente non solo e non tanto nella necessaria lentezza e gradualità della trasformazione economica in senso socialista della società, ma proprio nell’instaurazione della dittatura proletaria. Se quest’ultima, infatti, non sopprime in un colpo solo l’autonomia dell’economia, l’ostacolo della sua necessità immanente destinata a scandire il lungo e tormentoso processo della trasformazione socialista ancora per una lunga fase storica, tuttavia determina già un mutamento qualitativo e decisivo nella struttura della soggettività, nella forma della coscienza di classe. Appare chiaro il tentativo di evitare il pericolo di una ipostatizzazione della coscienza di classe proletaria, riavvicinandola alla reale coscienza empirica e storicamente determinata della classe. Esso lo spinge, incessantemente, a ricondurre la coscienza di classe nel vivo del processo storico concreto di instaurazione della dittatura proletaria, ovvero, si direbbe, di riportarne l’“essenza”, di contro alla tendenza alla sua assolutizzazione ideal-tipica e trascendentale di stampo weberiano, nella immanenza della sua concreta “vita’’ storica insieme sociale e politica.
Non manca un’esaltazione del potenziale perfino “prometeico” della coscienza di classe proprio per la sua capacità di orientare la direzione del processo, di piegarlo così alla possibilità e alla prospettiva del socialismo, sul terreno di un duro confronto non solo con la necessità relativa delle leggi economiche, certo non abrogabili per decreto ma anche più in generale con la perdurante potenza ideologica e materiale della reificazione capitalistica, con la sua autonoma e feticizzata oggettività28. Certo, non si tratta, per Lukács, di assumere tale oggettività come una «cosalità oggettiva» e perciò insolubile, fraintendendo in tal modo la stessa nozione dell’“economia” propria del materialismo storico, fondata sulla sua riconnessione con la storicità concreta delle forme e dei rapporti di produzione sociali e quindi sul nesso indissolubile di questi ultimi con le stesse forme di vita: «ciò che si suole chiamare economia – scrive Lukács – non è altro che il sistema delle forme di oggettualità di questa vita reale». In tal senso, una «effettiva rivoluzione sociale può consistere – egli scrive – soltanto in una ristrutturazione della vita concreta e reale dell’uomo»29. Tuttavia, ciò non toglie che proprio per il rigido incrostarsi delle forme di produzione e di quelle di vita che strutturano la stessa oggettività delle strutture economiche, il processo della loro ristrutturazione sociale venga assumendo un carattere accentuatamente violento e politico.
Perciò, la direzione politica del processo viene configurandosi come una rottura della sua continuità, come un “salto” nel “nuovo”, ovvero come una concreta esperienza rivoluzionaria suscettibile di essere vissuta e insieme consapevolmente diretta nell’atto stesso del suo concreto realizzarsi sul terreno della prassi orientata al futuro.
Non vi è da meravigliarsi se tutti coloro che sono prigionieri delle forme capitalistiche di pensiero si ritraggono di fronte a questo salto, aggrappandosi con tutta la loro energia alla necessità come legge naturale, come “legge di ripetizione” dei fenomeni, e respingendo come impossibile la nascita di qualcosa di radicalmente nuovo, di cui non possiamo avere ancora alcuna “esperienza”.
Il tema luxemburghiano della essenziale “intempestività” della rivoluzione come atto politico viene di nuovo ripreso e sviluppato nel senso di una più accentuata affermazione del suo carattere di evento discontinuo sia pure nella continuità di fondo del suo processo anteriore di svolgimento, solo in parte prevedibile e predeterminabile. Riprendendo la difesa dell’esperienza del comunismo di guerra condotta da Trotskij in polemica con Kautsky e in particolare la sua affermazione secondo cui «il principale pregiudizio bolscevico è proprio questo: credere che si possa imparare a cavalcare solo salendo in groppa a un cavallo», Lukács non esitava a identificare nell’argomentazione polemica di Trotskij contro la tesi kautskyana del carattere immaturo e avventurista della rivoluzione bolscevica e nella sua rivendicazione della concreta esperienza della rivoluzione come unico terreno della sua conoscenza una ripetizione «degli argomenti essenziali della polemica di Hegel contro la teoria della conoscenza di Kant», ovvero contro la sua pretesa di fissare i limiti della conoscenza possibile prima ancora di farne esperienza sul terreno fenomenico30. Un ardito accostamento in cui appare chiaro il difficile tentativo di Lukács di conciliare la sua accentuazione, a tratti unilaterale, del carattere di salto e di novità radicale della rivoluzione politica con la sua continuità con la totalità del processo in cui essa, pur sempre, secondo la concezione rigorosamente razionalistica e logico-dialettica del processo storico propria di Hegel, si inscrive.
Il tentativo di superare ogni ipostatizzazione idealistica della coscienza di classe attraverso l’affermazione del suo carattere immediatamente pratico e rivoluzionario finisce così, talvolta, per condurlo a una eccessiva sottolineatura del carattere contingente, “evenemenziale” della rivoluzione politica e in generale della prassi rivoluzionaria in quanto tale. La tendenza a una sostanziale assolutizzazione della coscienza di classe come fattore storico decisivo del periodo di transizione si rovescia nell’esaltazione della contingenza e imprevedibilità dell’evento rivoluzionario in quanto tale, sul terreno del quale soltanto la coscienza di classe sembra assumere una concreta configurazione storica, al di là e perfino contro il suo oggettivo fondamento ontologico nella struttura economica della società31. Dello stesso periodo di transizione sociale e politica al socialismo e al comunismo successivo alla conquista del potere, Lukács tende a esaltare maggiormente il suo carattere di “lotta’’ fin quasi al limite della sua contrapposizione alla sua persistente natura organica di “processo”, evidenziando non solo la crisi del suo primo luxemburghismo giovanile ma la stessa interna, perfino tragica, problematicità del suo più maturo approdo al leninismo.
4. Conclusione
In tal modo sfuggiva di nuovo a Lukács l’immanenza della rivoluzione in quella che egli stesso definiva la “ricchezza contenutistica” della sua totalità processuale. La realtà di quest’ultima finisce per agganciarsi di fatto o prevalentemente alla sola “intenzione” della coscienza di classe, ovvero alla sua capacità di indicare nell’ancora tutt’altro che prossimo fine del “regno della libertà” del comunismo la prospettiva ultima e non priva di una fortissima accentuazione etica, di nuovo di marca neo-kantiana, della rivoluzione insieme sociale e politica del proletariato.
Non sembra, tuttavia, sfuggire a Lukács, come questo sviluppo ineguale e solo in parte oggettivamente e scientificamente prevedibile della rivoluzione, già evidente nel corso della terribile esperienza del comunismo di guerra, fosse destinato a scinderne tragicamente la processualità dialettica tra il suo lato oggettivo e il suo lato soggettivo, ovvero tra l’oggettività dei suoi contenuti economici e sociali da un lato e la soggettività delle sue forme ideologiche e politiche di coscienza, dall’altro, in una tragica riproposizione, nella concreta processualità della rivoluzione proletaria, delle antinomie del pensiero e della coscienza borghesi, riflesso ideologico del rigido dualismo tra economia e politica, caratteristico della modernità capitalistica32. Il duplice carattere economico-sociale e politico, di “processo” e di “salto” della rivoluzione, destinato a trovare nella vittoria del bolscevismo in Russia e nella simultanea disfatta del movimento proletario rivoluzionario in Occidente la sua immediata esemplificazione storica, rischiava di mandare in frantumi proprio quell’identità, quell’unità originaria tra soggetto e oggetto, tra libertà e necessità che Lukács aveva identificato insieme simultaneamente nella prassi sociale rivoluzionaria del proletariato e nella sua coscienza etico-politica di classe.