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Secondo alcune e alcuni..

di Elisabetta Teghil

Secondo alcuni/e la storia è finita. Questa è la migliore società possibile e l’ideologia e la lotta di classe avrebbero provocato solo disastri.

Pertanto l’unico orientamento nella vita, se mai ce ne fosse uno, sarebbe la democrazia rappresentativa e, per i laici, il pensiero scientifico di cui si tessono acriticamente le lodi.

Le radici della illibertà non sarebbero innestate nel sociale, nello sfruttamento, nella reificazione, come ci dice la lettura marxista della società, ma nel tentativo più o meno riuscito di uscire da questa società, magari di costruirne un’altra.

Quest’area racconta la crisi come crisi del marxismo e i più dogmatici sono come sempre gli spretati/e. Il loro cavallo di battaglia è la fine dell’ideologia, contribuendo così all’ideologia neoliberista. E, da neofiti di quest’ultima, sono i primi/e nel condannare il pensiero e l’esistenza dell’Altro.

Pretendono di annullare la possibilità di soggetti che non intendono piegarsi rassegnati al dominio della merce. Sono i teorici del disincanto.

Più realisti del re nascondono la falsa coscienza dietro l’accettazione dell’ideologia dominante che si traduce nel rifiuto opportunistico di ogni responsabilità dietro l’alibi che non si può fare niente e che quello che si è fatto ha prodotto solo macerie. Sono i cantori dell’esistente e delle sue ragioni: se pure storia c’è stata ormai anch’essa non c’è più.

Una dimensione che tracima nel puro e semplice rifiuto della lotta di classe che si traduce nella non volontà di distinguere fra il giusto e l’iniquo e, pertanto, nel rifiuto di collocarsi.

L’indifferenza diventa cinismo quando raccontano le lotte e quelle passate diventano gli “anni più bui della nostra vita” e partoriscono la chiusura familista, quella eurocentrica e l’affermazione ottimistica che in fondo qui e magari solo qui possiamo realizzarci.

Pertanto questa vita è una dimensione che prende il luogo della ricerca della lotta e della libertà. La pretesa di essere non più coinvolti/e, di essere “obiettivi/e”, di non essere più partigiani/e si realizza nell’installarsi al di qua della lotta di classe e della “vetusta e sorpassata” ideologia. Una volta scoperta la nullità delle verità e delle certezze rimane soltanto l’individuo dentro l’omologazione e la ricerca individuale, tra cui non c’è contraddizione sono due poli della stessa dialettica, della realizzazione che coincide spesso con le carriere professionali e trova il suo apogeo in quelle accademiche e nel farsi percepire come intellettuale.

Sicché si spazzano via quelli che una volta erano chiamati teorici reazionari e di destra sostituendoli con una lettura che è identica alla loro, ma con un lessico che si autodefinisce di sinistra e si presenta come “moderno”. Chi si sottrae a tutto questo deve essere tenuto/a a bada e va rinchiuso/a nel recinto della politica intesa come sporca e “vetero”.

Chi non si rassegna, non tollera questo stato di cose e denuncia le oppressioni, viene ghettizzato/a e viene escluso/a dalla vita politica quando non dalla vita tout court.

E, come sempre, gli spretati/e si fanno, di questo, portabandiera.

In questo modo, si racconta la fine di ogni possibilità di liberazione o di invenzione, il refrain vincente è quello “a che serve, a che vale?”, al massimo ci si offre come consiglieri della corona per migliorare l’esistente con la sotterranea speranza, non dissimulata più di tanto, di essere cooptati/e.

La loro vita si trasforma nella partecipazione ad una lotteria nella speranza di pescare il numero giusto. Miopia, perché nella stagione dell’iper-borghesia, lì si entra per nascita e matrimonio. Ma sono anche presuntuosi, si atteggiano, fanno la coda di pavone, non sanno che un funzionario dei Servizi conta più di tutti loro messi insieme.

Partendo dal presupposto che è insormontabile l’orizzonte di questa società, sono di fronte a due possibilità, dire di sì o proporre qualche piccola correzione.

Questo passa attraverso l’abbandono di ogni impegno nella progettualità di rivoluzionare questa società e di uscirne. L’abbandono senza rimorsi degli oppressi al loro destino e della speranza di un’altra società, è la rinuncia a tener conto non solo dell’ingiustizia, ma paradossale per chi si presenta come colto, a tener conto di contraddizioni e differenze. Tutto questo è visto come residuo dell’antico e, pertanto, si traduce in una cosciente o incosciente partecipazione alla repressione.

Da qui l’abbandono del territorio in cui si dislocava la lotta di classe che era quello del soggetto e del progetto. Secondo questi/e non ci sarebbe né più soggetto, né progetto possibile, neppure per l’ideologia e la lotta di classe c’è più spazio.

Ne deriva il vuoto e lo spaesamento e il non luogo in cui si è precipitati e la cooptazione nelle foto di famiglia di personaggi e di temi impresentabili.

Ma da qui anche per noi la necessità di segnare le distanze dall’accettazione rassegnata,anche malgrado loro che ci vogliono negare ogni virtuoso ottimismo.

Continuiamo ad impegnarci per infrangere la rappresentazione vincente di questa società e continuiamo a ricercare i punti di possibile rottura a partire dalla violenza, dall’ingiustizia in cui annegano le oppresse e gli oppressi.

Siamo legate all’esigenza di narrare e di progettare altro. Questo è il senso di muoverci senza smarrirci nella metropoli del capitale. Questo è il senso del nostro impegno che è anche il nostro tempo.

Questa dimensione ci consente di collegarci con pratiche politiche ancora presenti a cui con un’operazione, questa sì violenta, viene tolta ogni valenza politica.

La lotta al neoliberismo passa attraverso pratiche politiche critiche e creative, attraverso la denuncia del dominio e le forme date del potere e ancora, resistenza e solidarietà, produzione di soggettività e di progettualità.

In definitiva , al di là delle nebbie e delle schermature, i problemi nodali sono quelli della libertà e dell’oppressione dei/delle più, problemi che non vogliamo eludere. I riformisti/e, i socialdemocratici/che, comunque vogliamo chiamarli/e, coagulano la cultura del distanziare e del rinnegare.

Senza illusioni diciamo no e affidiamo la nostra vita insieme ad altre/i alla nostra capacità di inventare. Nulla è scontato, né dato una volta per tutte. E’ il forte desiderio di spingerci altrove, in altre direzioni, scelta che si configura, paradossalmente, come obbligatoria nella stagione neoliberista nella quale la legittimazione dei rapporti di dominio si disvela nella quotidianità, nei loro caratteri di violenza e di terrorismo.

Non c’è nessuna crisi, è lo stadio a cui è arrivato il capitalismo nel suo processo di autovalorizzazione, perciò non siamo rassegnate e produciamo la critica dell’esistente e delle regole in cui ci vogliono imbrigliare, comprese quelle del gioco politico.

Dal negare le identità già sempre presupposte e presentate come inevitabili noi riaffermiamo le nostre differenze, le nostre pratiche di vita, il nostro immaginario:narrare e pensare.

Qui e ora intravediamo un’altra politica possibile, un’altra società, siamo calate nel presente e lo vediamo con gli occhi del futuro.

Gli anni del nostro impegno sono stati anche quelli di tante sconfitte, ma di un desiderio felice, lungo il cammino abbiamo trovato anche le anticipazioni del nuovo.

E’ questo legame che non vogliamo recidere, vogliamo andare avanti nella strada del rifiuto del dominio, nella valorizzazione delle soggettività, nel desiderio e nelle pratiche per costruire un’altra società, contro la colonizzazione borghese patriarcale e autoritaria del quotidiano, contro il nuovo oscurantismo e la vecchia e mai abbandonata pretesa di dominio dell’essere umano sull’essere umano, riaffermiamo il nostro senso di libertà, di solidarietà e lotta.

Camminiamo in avanti e lo sguardo alle sconfitte del passato ci appartiene senza condanna, è il fiume carsico da cui prendiamo linfa.

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