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La riduzione del prodotto che va al lavoro

Antonella Stirati

Varie analisi elaborate da grandi istituzioni internazionali (OCSE, ILO, FMI) e un’ampia letteratura economica hanno messo in luce il verificarsi in diversi paesi di un fenomeno importante: la caduta della quota dei redditi da lavoro sul Pil nell’arco di circa un trentennio. Molti si sono soffermati di recente su questa caduta, non ultima la “Lettera degli economisti” sottoscritta da oltre 250 studiosi e pubblicata nel giugno scorso. L’economista Giulio Zanella ha tuttavia contestato l’effettivo verificarsi di questo fenomeno. In un recente articolo egli è infatti giunto alle seguenti conclusioni: 1) che le quote distributive non sono variate molto nella maggior parte dei grandi paesi industrializzati; 2) che dove la quota dei redditi da lavoro è diminuita, in particolare in Italia, ciò è avvenuto non a beneficio della quota dei profitti e degli altri redditi non da lavoro ma a beneficio esclusivo di quella che viene chiamata “quota del governo”. [1]


Un motivo per cui vale la pena soffermarsi sull’articolo in questione è che l’autore del medesimo non apre la consueta controversia circa l’interpretazione dei fatti, ma solleva un problema preliminare che in un certo senso riguarda i fatti stessi, o più precisamente i dati di partenza delle analisi.

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nel merito

I nipotini di Hoover

di Silvano Andriani

La recente riunione dei G20 a Francoforte, che ha avallato la scelta europea dell’austerità, ha suscitato il diffuso timore che la stretta dei bilanci pubblici in tutti i paesi avanzati possa mandare di nuovo in recessione l’economia mondiale. Timori condivisi da Obama, che, tuttavia, deve fare fronte in casa propria all’offensiva dei nipotini di Hoover, che evidentemente sono disseminati in tutto il mondo, e che ritengono che le crisi si curano con l’austerità.

Si sprecano, naturalmente, le assicurazioni che l’austerità deve essere coniugata con la crescita, ma nessuno ci dice come. Solo il Governatore della Bce, Trichet, che non si capisce chi abbia nominato speaker della politica economica comunitaria, ci assicura genericamente che “… politiche che ispirano fiducia favoriscono e non ostacolano la ripresa economica”. Altri hanno sostenuto più chiaramente che l’annuncio di politiche fiscali “responsabili” indurrebbe i privati ad aumentare consumi ed investimenti e con ciò a sostenere la ripresa. Si tratta di una stanca riesumazione della “teoria della aspettative razionali” che furoreggiò nei decenni liberisti.

Ora, a parte il fatto che quella teoria nei suoi quasi 40 anni di vita non è stata mai seriamente verificata, a parte il fatto che, se davvero le politiche economiche dei trascorsi decenni – promesse di riduzione della pressione fiscale, politiche monetarie e creditizie lassiste - hanno generato delle aspettative, queste, alla prova dei fatti, si sono rivelate decisamente irrazionali, immaginare che, mentre si bloccano o si tagliano retribuzioni e pensioni, si aumentano le imposte, cresce la paura dei licenziamenti, la gente abbia voglia di aumentare i consumi e gli imprenditori gli investimenti ci vuole una bella fantasia.

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Sciopero del capitale, austerità e bassi salari

Guglielmo Forges Davanzati

capitalism is crisisStando alle ultime stime OCSE, esistono, nei Paesi industrializzati, quasi cinquanta milioni di disoccupati, un livello mai raggiunto dagli anni immediatamente successivi al secondo dopoguerra. Sarebbe davvero arduo sostenere che ciò sia imputabile a eccessive ‘rigidità’ del mercato del lavoro, essendo ben noto – e certificato dagli ultimi rapporti OCSE – che un ventennio di politiche di ‘flessibilità del lavoro’ non ha generato altro se non una consistente riduzione della quota dei salari sul PIL in tutti i Paesi industrializzati e comunque non ha accresciuto l’occupazione. Dopo la brevissima stagione, lo scorso anno, nella quale alcuni Governi (USA in primis) hanno messo in atto politiche di rilancio della domanda aggregata mediante aumenti della spesa pubblica, prevale oggi una linea di ‘austerità’, stando alla quale si ritiene che – ferma restando la ‘flessibilità’ del lavoro – la disoccupazione sia imputabile al modesto tasso di crescita delle economie dei Paesi industrializzati, e che, per far fronte al problema, siano necessarie politiche di riduzione della spesa pubblica[1].

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Sostenere la domanda, controllare il debito

Duccio Cavalieri*

Ancora una volta l’economia finanziaria, che non produce vera ricchezza, sta avendo la meglio sull’economia reale. Il salvataggio dell’economia finanziaria, attuato in condizioni di emergenza dopo l’ultima crisi mondiale, è avvenuto immettendo sul mercato non regolamentato una massa enorme di nuovi titoli ‘tossici’ e di titoli del debito sovrano scarsamente affidabili. Si è cioè pensato di tamponare una crisi nata da eccessivo indebitamento non solo riducendo la spesa pubblica per fini sociali, ma anche scaricando sui bilanci della pubblica amministrazione e sulle generazioni future debiti privati inesigibili.

Gli stati si sono indebitati per salvare dalla crisi un sistema finanziario finalizzato alla speculazione e che oggi, dopo essere stato mantenuto in vita dai poteri pubblici con il denaro dei contribuenti, cerca di riprendere a fare soldi speculando al ribasso proprio sui titoli pubblici. La situazione sta tornando a essere quella di due anni fa, ma con la differenza che oggi sono direttamente coinvolti nella crisi anche gli stati (l’esperienza della Grecia insegna).

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Tempo di “falchi” a Palazzo Koch

Emiliano Brancaccio

«Macelleria sociale è una espressione rozza ma efficace: io credo che gli evasori fiscali siano i primi responsabili della macelleria sociale». Di queste parole non vi è traccia nel testo ufficiale delle considerazioni del governatore della Banca d’Italia presentate ieri all’assemblea annuale dell’istituto. Draghi infatti le ha pronunciate a braccio, smarcandosi per un attimo dall’abituale, morigerato linguaggio di Palazzo Koch. C’è da scommettere che i commentatori dedicheranno grande attenzione a questo colpo di teatro del governatore. A ben guardare tuttavia la dichiarazione si rivela politicamente vaga, dal momento che Draghi evita di citare gli interventi che anziché ridurre gli evasori ne hanno favorito in questi anni la proliferazione. Basti pensare che egli conferisce al governo Berlusconi il merito di aver adottato «misure di contrasto all’evasione fiscale» e non accenna invece agli effetti d’incentivo all’evasione che sono scaturiti da numerosi provvedimenti dell’esecutivo, tra i quali spicca il condono di fatto sui capitali rimpatriati.

Il principale punto critico delle considerazioni del governatore non risiede però nella paludata valutazione dell’operato del governo italiano. Il vero problema verte sulla scelta di assolvere completamente la Germania riguardo alle cause della gravissima crisi della zona euro. A questo riguardo il governatore riconosce che l’attuale instabilità della Unione monetaria europea è alimentata dai marcati squilibri nei rapporti di credito e debito tra i suoi paesi membri.

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La secessione reale: perchè molti enti locali italiani hanno la capitale a Londra e non a Roma

Nique la Police

Mentre la comunicazione politica si occupa di spettri, figure esangui che rilasciano dichiarazioni frammetarie e fugaci ai telegiornali e alla stampa, è utile concentrarsi sullo scenario aperto dalla profonda crisi economica e finanziaria che sta attraversando il continente europeo.

Da questo scenario isoliamo un particolare: in Italia una secessione è già maturata. Ma non tra la Lega e Roma, come temuto dalla grigia vestale del tricolore che si chiama Napolitano, ma tra molti enti locali italiani (sia a nord che a sud del paese) e il potere centrale. Questi enti locali una loro capitale, intesa come riferimento ineludibile di interessi, l'hanno già eletta. Si chiama Londra, e più precisamente la City, e il fatto che anche questa capitale attraversi una seria crisi economico-finanziaria non fa altro che aggiungere ulteriori tinte fosche ad uno scenario già di per sè plumbeo. Vediamo, per gradi, di intenderci sul tema che stiamo trattando.

 

Interessi italiani diversi nello stesso caos europeo

Cominciamo da come funziona la comunicazione politica: mentre tg e stampa sono pieni di particolari sull'ultima conferenza bon chic bon gendre di Fini, di faticose traduzioni dell'ultimo rantolo di Bossi o di frasi da buon senso del commesso coop di Bersani, nei giorni scorsi si svolgevano a Bruxelles due drammatiche riunioni. Una dell'Eurogruppo, i rappresentanti economico-finanziari della zona euro, e una dell'Ecofin che riguarda i ministri dell'economia e delle finanza dell'intera Unione Europea.

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Specializzazione produttiva, competitività, salari. L’Italia e gli altri

Roberto Romano

Tra i paesi industrializzati l’Italia è quello che ha cercato più di altri di competere nei mercati internazionali mediante una accentuata politica salariale deflattiva. I dati relativi alla bilancia commerciale e alle quote nel commercio internazionale dimostrano che questa politica non ha avuto successo. E così, a dispetto della moderazione salariale, l’Italia riesce sempre meno a difendere il “core” del suo modello di specializzazione produttiva, fondato prevalentemente su attività e servizi che non necessitano di cospicui impegni sul terreno della conoscenza. Viceversa, in quei paesi nei quali gli investimenti in nuove tecnologie sono elevati, non solo si registrano livelli più alti dei salari reali, ma anche i risultati in termini di competitività internazionale sono ben superiori ai nostri.

Tutti i dati sembrano confermare queste affermazioni: gli investimenti e l’introduzione di innovazioni sono correlati a un aumento della competitività, ad un aumento della occupazione e, soprattutto, ad una occupazione di maggiore qualità. Inoltre, le imprese innovative, mediamente, realizzano profitti più alti di quelle legate a tecnologie tradizionali; grazie agli sforzi nel campo della ricerca e sviluppo, i profitti sono “garantiti” nel tempo e si registrano comportamenti migliori anche nei periodi di crisi. In qualche misura si può dunque configurare una “nuova dimensione dell’oligopolio” legata all’innovazione e agli investimenti, che diventano una barriera all’entrata per gli imprenditori, delineando per le stesse imprese innovatrici un certo livello di potere nel mercato[1].

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La prossima stangata segreta di Berlusconi/Tremonti

Bankor*

Con le rondini, la primavera inoltrata porterà anche una stangata finanziaria da lacrime e sangue. Il progetto covava nelle segrete stanze del governo già da febbraio scorso, in grandi linee discusso e approvato in incontri segreti tra Berlusconi e Tremonti. Si è preferito aspettare l'esito delle elezioni regionali, a risultati acquisiti dalla maggioranza di centro-destra che, come era nelle proprie speranze e nei sondaggi "di famiglia", si è vista consegnare gran parte delle Regioni prima in mano al centro-sinistra

Le smentite sono d'obbligo, ma nascondono la gravità della crisi finanziaria del paese e la "disperazione" del Duo di Arcore, Berlusconi-Tremonti.

Stando, però, alle indiscrezioni trapelate da ambienti finanziari molto legati al superministro dell'Economia Tremonti, per contrastare la crisi internazionale di fiducia sul nostro bilancio pubblico (che potrebbe farci finire nel tritacarne della speculazione mondiale, come per Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda), la manovra finanziaria si baserebbe su tre linee: riscadenzamento dei Bond del Tesoro (i vari titoli di stato), allungandone le scadenze del doppio rispetto alle attuali; tassazione sugli immobili sfitti e di proprietà di banche e società finanziarie (esclusa una reintroduzione dell'ICI); aumento del prelievo fiscale sulle rendite finanziarie speculative, compreso il regime di doppia tassazione per le banche, più alto per quelle "d'affari".

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Mezzogiorno in gabbia

Giorgio Colacchio*

Ultimamente si registra un rinnovato interesse sulla cosiddetta “Questione Meridionale”, basti pensare all’intervento d’apertura del Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi al recente convegno su “Il mezzogiorno e la politica economica dell’Italia”, (Roma, 26 novembre 2009) ed alla sempre recente pubblicazione in volume, ancora  da parte della Banca d’Italia, degli atti del  convegno su “Mezzogiorno e politiche regionali” del febbraio 2009.

Non molto tempo fa, inoltre, la Lega ha nuovamente avanzato la proposta di introdurre delle “gabbie salariali”, cioè retribuzioni salariali nominali differenziate che tengano conto del diverso più basso indice dei prezzi (“costo della vita”) al Sud, un tema questo che del resto ricorre ciclicamente nel dibattito economico e politico del Paese. In ciò che segue mi propongo brevemente di analizzare il fondamento teorico generale  – e  le conseguenze  in termini di policy –  di quest’ultimo tema che, come apparirà chiaro in seguito, “impregna” buona parte del dibattito sull’economia meridionale (è ad esempio uno dei fili conduttori, ovviamente con ben altro spessore teorico, degli interventi al succitato convegno di febbraio) e rappresenta quindi un ottimo punto di partenza per sviluppare delle considerazioni più generali, seppur provvisorie, sulle prospettive dell’economia del Mezzogiorno.

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Il fumo e l'arrosto della farsa fiscale

Scritto da Leonardo Mazzei   

Prima sì, poi no; poi ancora sì e di nuovo no. Ora siamo al nì, ma di sicuro non è finita.
Se si trattasse soltanto di rincorrere gli annunci ed i controannunci sulla riduzione della pressione fiscale potremmo limitarci ad un po’ di ironia, a commento di una farsa un po’ stantia ma recitata con tanto impegno anche in queste prime settimane dell’anno. Ma dietro al fumo c’è anche l’arrosto, e se la diminuzione del carico fiscale è semplicemente impossibile, il vero obiettivo è una ulteriore redistribuzione della ricchezza verso l’alto. La cosa significativa – in un paese dove tutti amano riempirsi la bocca con la Costituzione – è che questo aspetto sia dato per scontato non solo da Berlusconi, ma anche dai suoi “oppositori” ufficiali.

«Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività» (art. 53 della Costituzione). Come mai questo principio costituzionale è dato ormai per dissolto? Come mai questa dissoluzione integrale è perseguita sia da chi la Costituzione la vuole stravolgere, sia da chi almeno a parole dice di difenderla?

La chiacchiera politica di queste settimane si svolge infatti secondo uno schema ben preciso, in cui la discussione è su riduzione sì, riduzione no; mai sul tipo di redistribuzione da attuare, come se tutti fossero già d’accordo sulla drastica riduzione del numero di aliquote, cioè sull’affossamento del principio della progressività.

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e l

Il buco nell'acqua

Rosita Donnini - Valerio Selan

Se si analizza l’affidamento ai privati della gestione delle reti idriche si trovano dei pro e dei contro. I secondi, però, appaiono più numerosi e anche le esperienze dei casi in cui la privatizzazione è già stata realizzata sono tutt’altro che confortanti

Quando apparvero i primi computer, i commentatori faciloni ne bollarono le performances, che apparivano allora inferiori alle un po' ingenue attese, come quelle di un "idiota ad altissima velocità". L'attuale modo di legiferare mediante decreti con fiducia incorporata, e con contenuti il più possibile eterogenei (cosicché se disapprovo una cosa cattiva ne escludo anche una buona) ci ricordano questa definizione, riferendola ai lavori parlamentari relativi alla gestione delle risorse idriche. Su questo provvedimento gli esponenti della Lega Nord hanno dichiarato che, pur avendo votato una totale fiducia a questo governo, ritengono di dover modificare quello stesso decreto che aveva meritato la loro entusiastica approvazione.

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contropiano

Critica al “Programma di Cernobbio”

di Joaquin Arriola [1] e Luciano Vasapollo [2]

La crisi sistemica del capitalismo deve essere una opportunità tutta politica per forzare l’orizzonte verso i percorsi di transizione al socialismo. Due economisti marxisti spiegano perché il neokeynesismo non può essere l’alternativa alla crisi del capitale confermata dal forum “ufficiale” dell’establishment capitalista a Cernobbio

Nei primi giorni di settembre 2009, a fronte della Cernobbio che conta per la società del capitale, si è realizzato il Controforum dove anche quest’anno associazioni, sindacalisti ed economisti discutono della Campagna Sbilanciamoci contro le politiche di Tremonti e per esaminare le possibilità alternative alla crisi, o meglio per dare indicazione di come uscire a sinistra dalla crisi.

In molti scritti abbiamo sostenuto anche in tempi non sospetti che bisogna parlare di “normalità” della crisi perché già Marx parlò chiaramente della modalità ciclica del sistema capitalista, che ha quindi come sue fasi le crisi economiche, così come l’espansione e i picchi di crescita; ed è proprio attraverso la crisi che il sistema ripristina il suo stato di equilibrio distruggendo forze produttive, lavoro e capitale in sovrabbondanza rispetto ai processi di valorizzazione voluti;

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Produttività e Pil: quando l'ovvio cela l'inganno

Valerio Selan

Nei calcoli delle due grandezze si danno per scontati alcuni aspetti che non lo sono affatto: che si possano misurare separatamente tutti i fattori che contribuiscono alla prima, per esempio; e quanto alla seconda, se si calcolasse correttamente il deperimento del capitale sociale i risultati sarebbero assai diversi. Si tratta di inganni statistici funzionali a determinate scelte politiche

parco amendola 280x210I dibattiti economici e socio-politici si svolgono non di rado nella nebbia di quelli che potremmo definire "i grandi inganni". Non vi è nulla di più pericoloso dell'ovvio, quando esso non è tale.
 
Uno dei temi attualmente più discussi è quello dell'allineamento del salario alla produttività del lavoro, come nel recente articolo di Recanatesi. Non si tratta di un dibattito sul sesso degli Angeli. Il problema è rudemente pratico. Se si assume che il salario non possa superare la produttività del lavoro (e che questa sia misurabile), le richieste sindacali non cozzeranno contro le associazioni imprenditoriali, ma contro la gelida lastra di un teorema. I tempi del salario come variabile indipendente sono tramontati da un pezzo.

 Gli autori che si sono occupati di questo tema (al quale, se non ricordo male, l'Istat dedicò anni or sono un ponderoso scritto metodologico) hanno sottolineato l'importanza delle "condizioni di contorno", come la dotazione di capitale tecnico, l'organizzazione, la formazione professionale, la gradevolezza dell'ambiente di lavoro, ma hanno accettato come ovvio l'assioma della misurabilità della produttività dei singoli fattori di produzione, fra cui sostanzialmente il lavoro.

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E se l'Italia ricominciasse da sé?

 Rosita Donnini e Valerio Selan

Un apparato produttivo troppo dipendente dalle esportazioni è esposto non solo all'avversa congiuntura mondiale, ma anche ai ricatti protezionistici dei paesi acquirenti. Il rilancio potrebbe puntare su una politica di riequilibrio della domanda interna, affidando alla politica fiscale e alle liberalizzazioni il compito di sostegno, ma ciò richiederebbe un drastico mutamento del sistema tributario e altre razionalizzazioni

economiaitalUna serie di circostanze e di eventi ci spingono a qualche approfondimento sul modello di sviluppo post-crisi dell'economia italiana, già accennato in alcuni nostri scritti. Li ricordiamo brevemente.

A) L' approvazione del condono tombale sui reati societari, che dovrebbe garantire, anche con il riciclo di capitali di dubbia provenienza, un gettito provvidenziale per riempire le caselle vuote di una finanziaria fantasma. Ennesimo miraggio del genio di Aladino: la finanziaria-pagherò. La prossima ci verrà presentata con un balletto sulle punte.

B) Le cupe prospettive
occupazionali, accompagnate però da segnali di ripresa sui mercati esteri e di ritrovata fiducia di una parte delle imprese italiane.

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Il “profit sharing” all’italiana: aiuti alle imprese, tagli ai salari

Guglielmo Forges Davanzati

aziendeIl Ministro Brunetta ha recentemente definito il progetto di partecipazione dei lavoratori agli utili d’impresa (o profit sharing) – proposto dal Ministro Tremonti - una “utopia possibile”. La definizione appare alquanto esagerata dal momento che esperienze di questo tipo sono già state realizzate, alcune sono già in atto, ed è difficile vedervi qualcosa di utopico. La proposta del Governo consiste nella detassazione del 10% a beneficio di quelle imprese che incentivino la partecipazione dei lavoratori agli obiettivi dell’impresa. Il salario verrebbe scisso in due componenti: una parte fissa e una variabile, quest’ultima in funzione dei profitti aziendali, così che il salario può aumentare – ferma restando la sua quota fissa – solo se i profitti aumentano. La ratio che ne è a fondamento consiste in questo: poiché si ritiene che, in regime di compartecipazione, il lavoratore sia maggiormente interessato alla performance dell’impresa, vi è da attendersi che sia più produttivo. Sul piano giuridico, la fonte di riferimento è la nuova versione dell’articolo 2349 del Codice civile, che dispone che si possa convertire parte degli utili in azioni, da assegnare ai dipendenti sulla base della loro adesione ai programmi aziendali di compartecipazione.