Il caso del caso Moro Parte 5: Il superkiller
di Davide Carrozza
Nello splendido film noir del maestro Jean Pierre Melville del 1970 “I senza nome” (Le cercle rouge) gli indimenticabili Alain Delon e Gian Maria Volontè sono due criminali incalliti le cui strade si incrociano quasi per caso. Arrestato e fuggito alla sorveglianza lanciandosi da un treno in corsa, Genco (Volontè), per nascondersi si infila nel bagagliaio della macchina di Corey (Delon), quasi guidato da un sesto senso. Quest’ultimo, appena reduce da 5 anni di gattabuia ha ricevuto una soffiata da un secondino ed ha pronto un colpo sensazionale in una gioielleria, gli serve solo un partner spregiudicato come lui, con esperienza nel settore e senza nulla da perdere….quando si dice il destino. Troverà il compagno per il colpo del secolo proprio dentro al suo bagagliaio. Un episodio in particolare dimostrerà come Corey non potesse essere più fortunato perché l’uomo che il fato gli aveva messo nel baule si sarebbe rivelato qualcuno di cui fidarsi ciecamente. Quando due loschi figuri, probabilmente due federali, si infilano nella macchina di Corey per portarlo in aperta campagna e giustiziarlo, sono costretti a fare i conti con l’astuto Genco che fuoriuscito dal bagagliaio li tiene a tiro garantendo all’amico la sopravvivenza. Quando Genco spara a entrambi, all’uno con la pistola dell’altro, dimostra allo spettatore medio di essere un fine esperto. Chiaramente la cosa passerà per una faida interna ai servizi segreti e i due potranno pensare al loro sodalizio criminale ormai scontato. Rifugiatisi in un appartamento della periferia di Parigi i due cominciano a ragionare sul colpo alla gioielleria…hanno bisogno di un tiratore scelto e per qualche strano motivo Corey è convinto che Genco sia la persona adatta a ricoprire il ruolo. Il bandito con il volto di Volontè però riporta l’amico con i piedi per terra “Io? Ti sei sbagliato. Fra ammazzare due persone a due metri di distanza e fare colpo su un bersaglio a 30 metri c’è una bella differenza.” Per il colpo verrà precettato Jansen, ex tiratore scelto della polizia. Gli sceneggiatori del film quindi dimostrano di essere a conoscenza di una regola della balistica nonché della logica abbastanza elementare: per sparare e uccidere una persona da distanza molto ravvicinata non bisogna essere necessariamente dei tiratori scelti.
Mettiamo questo assioma da parte per un momento perché il cinema noir francese può esserci d’aiuto ancora. Nel film “Due sporche carogne, tecnica per una rapina” (Adieu l’ami) di Jean Herman del 1968. Alain Delon e Charles Bronson, rispettivamente Dino Barran e Franz Propp, proprio alla vigilia di Natale sono alle prese con l’apertura di una cassaforte di un’azienda che scopriranno essere vuota, qualcuno si era già portato via i 200 milioni. Scappando i due rinvengono il corpo di una guardia giurata a terra trafitto da 4 colpi di pistola, presumibilmente opera di chi aveva già rubato il bottino. Quando i due si separano e Franz viene arrestato, nel corso dell’interrogatorio scagiona il compagno e indirizza le indagini verso la pista giusta con queste parole: “Barran risulta essere un ottimo tiratore dal suo stato di servizio (è un ex ufficiale dell’esercito): non avrebbe avuto bisogno di ficcare 4 pallottole in corpo al guardiano, avrebbe potuto sistemarlo con una”. Il mondo noir francese ci rende edotti anche di questa piccola regoletta di fisica…quanto più un tiratore è bravo, meno pallottole gli sono necessarie per ammazzare.
E’ chiaro che i sostenitori delle varie piste atlantiche e delle teorie del superkiller nel “caso del caso Moro”, giunto ormai al suo quinto episodio su questo blog, abbiano avuto altri gusti cinematografici e bontà loro, non abbiano mai avuto a che fare direttamente né con killer né con superkiller. La storia del superkiller permette al complottista medio di avallare ulteriormente la tesi dell’etero-direzione perché la presenza in Via Fani di un esperto tiratore scelto dal volto sconosciuto rappresenterebbe ulteriore prova della presenza di forze occulte accanto alle BR, forze che dispongono, a differenza delle Brigate Rosse, di apparati militari in cui si garantisce un qualche addestramento con armi da fuoco. I sospetti ovviamente ricadono sui soliti Servizi Segreti, CIA, FBI e passando con incredibile disinvoltura da un lato all’altro della barricata cold war anche la DDR, il KGB e forse persino la Tana delle Tigri.
Come sempre accade in questi casi basta applicare anche solo una spolverata di metodo scientifico (q.b.) per distruggere con un solo colpo trent’anni di pubblicistica che proprio quasi come un superkiller ha assassinato le coscienze e il senso critico anche dei lettori più avveduti. Ultime vittime anche i poveri telespettatori del celebre Report già più volte citato in questi articoli. Quando nel saggio di Vladimiro Satta “Il caso Moro e i suoi falsi misteri” finalmente ci si affida a una scienza che abbia una qualche attendibilità: la matematica, la realtà del 16 Marzo ’78 prende una forma assai più credibile. Satta non fa altro che affidarsi alla primissima perizia balistica risalente al ’78 e compiuta dal perito Ugolini, proprio quella più accettata fra i teorici della cospirazione. Riporto sinteticamente il senso del ragionamento matematico di Satta volto a spiegare come sia appunto “matematicamente” impossibile che in Via Fani ci fosse un tiratore scelto:
Il 16 Marzo del 78 alle 9.02 in Via Fani a Roma furono esplosi 91 colpi, 45 dei quali andati a segno sui poveri agenti della scorta. Ne deriva che ben 46 invece finirono altrove, fra le portiere, la fiancata sinistra delle due auto, il cofano, ma anche addirittura la palazzina situata all’altro lato della strada. Già da questi dati, parafrasando i “senza nome” si capisce come ci si trovi di fronte a dei piccoli Genco più che ad abili Jansen in quanto a precisione di tiro, poco più del 50% dei colpi andati fuori bersaglio. Dei 45 invece ahimè andati a segno, 17, quelli che uccisero i poveri Leonardi e Ricci, furono sparati “a brevissima distanza” presumibilmente rompendo il vetro della macchina con il calcio dell’arma, la brevissima distanza di cui parla la perizia è talmente breve quindi da rendere impossibile fallire. Mi sembra logico e assolutamente in linea con le tesi dei nostri Genco e Franz che per valutare la capacità balistica dei sicari di Via Fani si debbano escludere questi 17 colpi a brevissima distanza (non che il resto dei colpi siano stati sparati da distanze siderali), scendiamo quindi a 74 di cui 28 colpi andati a segno su persone suddivisi in 8 contro l’appuntato Rivera, 3 contro Zizzi e ben 17 contro Iozzino, l’unico a essere sicuramente uscito dalla vettura per provare una reazione. Dei 28 colpi andati a segno sparati a distanza non “brevissima” ma comunque breve (Via Fani è strada molto stretta, siamo sempre nell’ordine di pochissimi metri) ne sono serviti 8 in un caso e ben 17 in un altro per freddare una sola persona, non certo numeri da superkiller dalla mira chirurgica. Laddove i colpi necessari invece sono stati “solo” 3, nel caso del povero Zizzi, bisogna anche rilevare che fu l’unico a non morire sul colpo ma un paio d’ore dopo durante il trasporto in ospedale. Ciò che sembra evidente da questi numeri è che i sicari di Via Fani spararono molto e spararono tutt’altro che bene, l’esatto contrario che farebbe un tiratore scelto, che invece avrebbe avuto bisogno di molti meno colpi e che da quelle distanze difficilmente avrebbe sbagliato mira praticamente una volta su due. Altra domanda che attanaglia da decenni i complottisti è: come avranno fatto i brigatisti con le loro doti da sparatori modesti a far rimanere illeso Moro, obiettivo del sequestro, in mezzo a quel pandemonio di proiettili, devono essere stati necessariamente dei “Barran” o dei “Jansen” per aver ottenuto questo risultato. Non sanno o fanno finta di non sapere però che la macchina in cui sedeva Moro, sul sedile posteriore, era la stessa in cui transitavano il marescello Leonardi e l’appuntato Ricci che come si è appena detto furono attinti da 17 colpi andati a segno da brevissima distanza (9+8) così breve da far risultare le traiettorie all’ingiù data la pendenza della strada. Se gli sparatori facevano fuoco a pochi centimetri dal finestrino quindi dove Leonardi e Ricci si trovavano sulla stessa linea di fuoco, essendo seduti l’uno accanto all’altro, quali doti da superkiller erano necessarie per far fuoco in una direzione e non nell’altra? Quando l’esperto d’armi Minervini, consulente di 5 Commissioni Parlamentari, viene intervistato da Report la domanda è quella che tutti si aspettano: “Secondo lei i brigatisti che operarono in Via Fani avevano poca, molta o sufficiente esperienza nell’uso delle armi” la sua risposta è forse quella meno gradita dagli autori della trasmissione: “A mio parere non avevano una grande esperienza, a testimonianza di questo abbiamo ad esempio la perdita di un caricatore, i colpi sul palazzo di fronte….l’inceppamento delle armi…”
A proposito di superkiller dotato di mira infallibile, un leitmotiv del complottismo atlantico sul caso Moro, che salta fuori di tanto in tanto e che di recente ha fatto capolino oltre che a Report addirittura in Commissione Antimafia (avete capito bene) è l’annosa questione della presenza di uno sparatore dal lato destro non ancora identificato (sfido io…non c’era). Il giudice Salvini ci racconta a Report di questa testimone della prima ora che fu ascoltata già nel ’78, bollandola come super attendibile in quanto architetto (“di piantine se ne intende..è il suo mestiere”) un architetto molto precoce visto che nel 1978 frequentava il liceo e il 16 Marzo stava appunto andando a scuola. L’architetto prodigio con lo spiccato senso dello spazio sostenne (e lo ribadì nel 2022) che uscita dalla sua abitazione in Via Fani e accortasi della sparatoria in atto, si nascose per proteggersi dietro un’auto parcheggiata sul lato destro e vide distintamente dai finestrini la canna di un fucile fiammeggiante che sparava in direzione destra-sinistra. Un dato che manca (e mancò anche nel ’78) a questa deposizione, assolutamente indispensabile per capire l’attendibilità dell’architetto liceale è la distanza della macchina dietro la quale si nascose dalla zona della sparatoria, anche perché sia che si nascose dietro la fiancata, sia che si nascose dietro il cofano comunque ciò che vedeva lo vedeva attraverso due finestrini, il finestrino del cofano e quello frontale nel primo caso e i due finestrini della fiancata nel secondo, non proprio una veduta agevolissima, attraverso la quale avrebbe visto un uomo altrettanto nascosto. Una lunga serie di barriere senza tener conto dello stato emotivo evidentemente non proprio tranquillo data la situazione. Il fantomatico uomo dalla canna fiammeggiante che spara da destra poi, sarà rielaborato dalla mente del giudice Salvini (che per fortuna non è mai stato PM in nessuno dei 5 processi Moro) come il killer di Zizzi che provò a uscire dalla macchina per cercare di reagire. Salvini e Report ignorano che le perizie compiute nel 2015, per altro con le moderne tecnologie, sanciscono per l’ennesima volta che gli spari provennero da sinistra. Report in particolare ignora questo fatto a tal punto da negarne l’esistenza, a un certo punto della pluricitata trasmissione si dice infatti che il consulente Minervini “sostiene che le perizie su armi e bossoli sparati a via Fani andrebbero rifatte usando le moderne tecnologie, sapremmo molte cose in più, ma per ora nessuno ha voluto farlo” E’ più grave che il buon Minervini non sappia delle perizie balistiche compiute dalla polizia scientifica nel 2016 o che Report eviti di riportarlo tradendo la stessa natura semantica del suo nome? Inoltre senza andare a scomodare i colossi del cinema francese noir non ci serve alcun Delòn o Volontè per capire che sparatori da destra e sparatori da sinistra si sarebbero forse sparati a vicenda, eventualità non proprio remota a giudicare dalla mira tutt’altro che infallibile dei brigatisti come detto prima (45 centri su 91).
Sempre il caro Minervini, in assoluta buona fede a mio giudizio, ci riporta un altro dato abbastanza oggettivo che riguarda la provenienza delle armi…interpellato su tutte le armi presenti in Via Fani una alla volta afferma…il mitra FNA43 venne fabbricato in Italia durante la Seconda Guerra Mondiale…l’MP12 è un post bellico…il TZ45 è un arma prodotta durante la seconda guerra mondiale legata al periodo della Repubblica Sociale…il MAB38 orientativamente dovrebbe essere un arma legata alla seconda guerra mondiale.
Tirando le somme quindi tutte le armi presenti in Via Fani risalgono al periodo bellico o al massimo post bellico, armi che si inceppano, perdono i caricatori e sono azionati da tiratori che sbagliano circa 1 colpo su 2 da brevi distanze. Un superkiller alla Jansen avrebbe accettato di usare un arma del genere per un compito così delicato? Avrebbe accettato di porsi sulla stessa linea di tiro di sparatori che sembrano quasi alle prime armi?
Ultima questione che di certo non sarà sfuggita ai lettori più attenti di questo blog è l’interesse a questa vicenda della Commissione Antimafia nel 2022. Ebbene non dovrebbe sorprendere visto che tale commissione si è occupata, un po’ come un qualsiasi contenitore media o un canale Youtube, di tutto ciò che avesse un afflato di nero crime: il delitto di Via Poma, il mostro di Firenze, la vicenda di Marco Pantani, la morte di Pier Paolo Pasolini, un fritto misto che poco sa d’antimafia (fatta eccezione per l’eccidio di Via dei Georgofili). Come il calamaro nel fritto di paranza non può mancare ovviamente anche l’eccidio di Via Fani e più precisamente l’indagine della Commissione si è concentrata «sulla eventuale presenza di terze forze, riferibili a organizzazioni criminali, nel compimento dell’eccidio di via Fani». Nonostante sia improbabile o quantomeno difficile abbozzare un identikit, la commissione si spinge fino a dare un nome e cognome al superkiller: Giustino De Vuono, sparatore affiliato alla ndrnagheta morto in carcere nel ’94. Quali indizi a suo carico? Aver partecipato a un sequestro con fazioni di estrema sinistra nel ’75. Tutto qui? Praticamente si. Fra l’altro la stessa antimafia smentendo l’antimafia in un altro punto della relazione finale sostiene che De Vuono sarebbe espatriato in Paraguay nel ’77 e «si sarebbe spostato in Brasile e sarebbe rientrato ad Asuncion in Paraguay nell’agosto del 1978» per poi incalzare con «non vi è tuttavia allo stato alcuna evidenza certa della presenza di Giustino De Vuono in via Fani» (pp. 57-58). Il famigerato superkiller di Via Fani all’epoca di Via Fani quindi si trovava in America Latina, inoltre, non c’è traccia della sua presenza sul luogo dell’eccidio in nessuna delle perizie. Attenzione però, forse ha preso parte a un sequestro 3 anni prima, non può che essere lui.
Comments
Il fatto che un' esecuzione perfetta della strage di via Fani con pochissime pallottole usate tutte andate perfettamente a segno dimostrerebbe che si trattò dell' opera di tiratori scelti. Ma il fatto che ci furono armi inceppate e un grande spreco di pallottole andate a vuoto non dimostra affatto che così non sia stato.
Mentre un tiratore schiappa non potrà mai fare molti centri e quasi nessun tiro a vuoto, invece un tiratore scelto può benissimo fare, se lo vuole ed é nel suo interesse,fare tutti i tiri a vuoto gli pare.
E i servizi segreti non sono dei dilettanti allo sbaraglio che non si rendono conto che se fanno una messa in scena questa deve essere ben fatta, con tutti i dettagli a posto, compresi gli indizi necessari ad attribuirla ad altri autori, che non devono di certo lasciare una qualche loro "firma" in calce all' opera.
Teniamo ance conto che é molto più probabile una "perfetta" (da un punto di vista criminale e a mio modesto parere perfettamente funzionale alla strategia eversiva di destra allora perpetrata in Italia dai poteri forti dell' Occidente) riuscita dell' "impresa" é molto più probabile se compiuta da un' accozzaglia di incapaci e uno o due abili sparatori col vantaggio della sorpresa nell' agguato (e col "contorno" depistante di "comparse") che come risultato fortuito della somma di tante incapacità senza alcuna perizia.