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La democrazia dei signori

Recensione di Alessia Franco

Luciano Canfora: La democrazia dei signori, Laterza, Roma/Bari 2022, 88 pp., Isbn 9788858147405.

1200px Evening on Karl Johan StreetL’agile volume di Canfora tenta di offrire una analisi della deriva politica (e culturale) italiana, precisando quanto sia complessa la congiuntura che la determina: trasformazioni strutturali ed economiche, nonché di autopercezione da parte dei differenti e compositi strati sociali; equilibrismi istituzionali tra la dimensione delle singole sovranità nazionali e di quanto, più in alto, l’Europa “ci chiede”; la presunta esigenza di snellire le normali procedure costituzionali tendendo, attraverso eccezioni sempre più frequenti e consoli­date - complice la prolungata situazione di emergenza determinata dalla pandemia di Covid-19 - di accentramento di potere legislativo nelle mani dell’esecutivo; l’intreccio amaro di propositi e necessità, come far funzionare l’apparato dello Stato e tutti i settori pubblici mentre, nel contempo, ci viene imposto di tagliare la spesa pubblica e smantel­lare quanto resta dello Stato sociale, considerato insieme alla Costituzione un asfittico residuo di altre epoche. La chiave di lettura che Canfora tiene presente e sovente ricorda a chi legge, è la complessa relazione tra la dimensione nazionale e quella internazionale del problema politico; la causa occasionale dell’analisi è offerta dal governo Draghi, e dall’anomalia, gravida di implicanze e conseguenze, che esso ha costituito rispetto al no­stro quadro costituzionale.

Tra le categorie politiche che Canfora mette in discussione teoricamente e poi dimostra insufficientemente realizzate nella pratica contemporanea, c’è quella del “suffragio uni­versale”.

Già Gramsci nella seconda metà del 1933, deluso dagli esiti “democratica­mente” insufficienti prodotti dal suffragio universale, coniava il termine “elezionismo”, denunciando anche come in un regime borghese quale il nostro «la razionalità storicistica del consenso numerico è sistematicamente falsificata dall’influsso della ricchezza» (il vir­golettato viene dalla nota 30 del Quaderno 13). Canfora si richiama alla critica gramsciana come anche a Benedetto Croce, ma i protagonisti indiscussi del suo libro sono senz’altro i nostri ultimi - anzi penultimi, considerato che la stampa è del gennaio 2022 e la stesura del dicembre 2021 - avvicendamenti governativi.

La designazione di specialisti “aggiustatori” di situazioni complicate - Monti nel 2011 e Draghi nel 2021 - viene da Canfora commentata aspramente, da un lato proponendola come epifenomeno di una più profonda crisi politica e di democraticità delle nostre isti­tuzioni, dall’altro suggerendone la “necessità” materiale tenuta conto la cattiva reputa­zione dell’Italia (e della Grecia) in fatto di eccesso nella spessa pubblica nel consesso eu­ropeo e la stessa severità del “fattore UE”.

Se il caso greco era stato risolto dall’Europa, come ricorda Canfora, con le cattive ma­niere, in Italia il ruolo chiave è stato attribuito a Mattarella (e Mattarella bis) nel promuo­vere governi tecnici, che si giustificassero con - e allo stesso tempo continuassero ad ali­mentare - il contemporaneo suicidio delle forze politiche.

Canfora denuncia il riproporsi di governi tecnici come un segno gravissimo - afferma che il governo Mattarella-Draghi rappresenta «un tornante nella storia politica italiana» - dello Stato di salute della nostra democrazia. Il ripiego sempre più normale su mezzi per propria natura costituzionale straordinari - la designazione dall’alto di un Presidente del Consiglio slegato da qualunque forza dell’arco parlamentare, il ricorso a decreti legge e DPCM invece che al codificato iter legislativo bicamerale - è prova manifesta di un pro­gressivo svuotamento di potere e di senso non solo delle procedure e istituzioni costituzionali, ma soprattutto della funzione del parlamento e del vincolo tra gli eletti e l’elettorato. Sotto questo aspetto, la mania di «convoca[re] “qualcuno” che metta le cose a posto» (virgolettato di Canfora) rientra nella stessa sintomatologia che include il cre­scente astensionismo e la perdita di personalità e identità ideologica dei partiti. E tra i governi tecnici, il caso Draghi in particolare è definito da Canfora «un caso limite». Il grave paradosso è che figure generalmente considerate emblematiche dell’uccisione della democrazia, come Erdogan - definito da Draghi “dittatore” in seguito allo sgarbo della sedia - o Putin, il grottesco Bolsonaro e perfino i dirigenti sovietici, per ottenere la propria posizione al vertice, sono risultati in qualche modo vincitori di elezioni o selezionati all’in­terno di partiti in certa misura rappresentativi; mentre il nostro Draghi, nel cuore di una nazione occidentale tra gli Stati membri fondatori dell’UE, è stato letteralmente calato dall’alto, senza mai essere stato esponente di alcuna forza politica rappresentata nell’arco parlamentare. Si tratta di una anomalia tutta italiana che, insinua Canfora, «esorbita dalla cornice e dal senso del nostro ordinamento costituzionale» e, addirittura, puzza di ancien régime. Che possa essere normalizzata lavorando a un crescente acconsentimento - poli­tico e culturale - collettivo a una riforma in direzione presidenziale, è piuttosto manifesto. L’anomalia Draghi, suggerisce Canfora, per quanto slegata tanto dal nostro quadro isti­tuzionale quanto dalle nostre forze politiche, non è tuttavia campata in aria: la designa­zione dell’ex Presidente della BCE è stata una scelta felicissima - diciamo in senso stret­tamente funzionale - per trasmettere tranquillità ad un “vertice europeo” a cui il debito pubblico italiano e la sopravvivenza di un costoso Stato sociale risultavano decisamente ansiogeni. E non si è trattato solo di lasciar dormire alla UE, tutta costruita sull’ossessione dell’eliminazione del debito pubblico, sonni tranquilli: la designazione di Draghi a capo dell’esecutivo, suggerisce Canfora, è stata probabilmente una conditio sine qua non al fine di usufruire infine, e attraverso procedure snellite e semplificate, dei 209 miliardi del Recovery fund in cui l’Italia sperava. Si è trattata insomma di una rinuncia corposa della politica in favore dell’economia. Cosa resta dei partiti in un simile quadro?

Al riguardo, la lettura di Canfora è lucida quanto drammatica: il governo Draghi, tra in­crinature costituzionali, designazioni monarchiche ed evaporazione dei partiti, rappre­senta una sorta di regresso allo Statuto Albertino. L’accentramento di poteri nell’esecu­tivo e la subalternizzazione della politica ad altre cose più urgenti, non solo permettono, ma sembrano richiedere che i partiti rinuncino ai propri profili ideologici. L’omologa­zione di tutte le forze politiche su due soli comandamenti imprescindibili, la supinità di­plomatico-militare a Stati Uniti e Nato e la subordinazione di quel che resta dello “Stato sociale” alla politica monetaria, è solo apparentemente contraddetta dallo sbandiera- mento di occasionali bandierine identitarie in fase elettorale (per taluni il DDL Zan e lo ius soli, per altri il made in Italy e le battaglie anti-migranti), utili a differenziare superfi­cialmente forze politiche sempre più concordi sulle direttrici principali dell’azione poli­tica. E in tale raggelante concordia di forze teoricamente contrapposte, non si può non ravvisare con Canfora una demoralizzante negazione pratica dell’art. 49 della nostra Co­stituzione, che rinviene il ruolo democratico e democratizzante dei partiti proprio nel «fecondo contrasto tra loro».

Per Canfora, non si tratta di un semplice, per quanto triste, declino della forma partito, ma di una consapevole riorganizzazione della vita politica del Paese in «una forma origi­nale di partito unico internamente articolato», certo distinto dal monopartitismo legale fascista, per il non mettere fuori legge tutti i partiti meno uno, ma nel ridurli tutti al ruolo di comparse completamente incapaci di incidere con le proprie eventuali peculiarità ideo­logiche. Privati delle proprie connotazioni ideologiche e cioè anche delle condizioni per lo scontro «con metodo democratico» - auspicava la nostra Costituzione - con gli avver­sari, i partiti perdono la propria ragion d’essere, deperiscono: non si arriva alla necessità di sospenderli o abolirli, perché se ne è già vanificata ogni capacità di incidere sull’azione politica dell’esecutivo.

Se una critica ormai tradizionale, e del resto condivisibile, vede la democrazia italiana da tempo ridotta alla forma della mera “democrazia elettorale”, in cui una convocazione poco più che formale alle urne di tanto in tanto per la scelta di partiti tra loro sempre più simili è l’unica forma di partecipazione politica attiva da parte del popolo-elettorato, la lettura di Canfora è ancora più cupa: lo stesso momento elettorale viene reso farsesco dall’equivalenza dei maggiori partiti - mentre, facciamo notare, i più piccoli e potenzial­mente devianti da questa norma sono di fatto esclusi attraverso un sistema elettorale for­temente maggioritario e soglie di sbarramento astronomiche - e inefficace dal crescente astensionismo. Ad autoescludersi dall’esercizio del diritto di voto, nota Canfora, sono tendenzialmente i gruppi socialmente deboli, la cui situazione si aggrava dall’essere così, per giunta, politicamente non rappresentati: un proletariato e un sottoproletariato sempre più distanti dalla politica e abbandonati dalla “ex sinistra” o da ciò che ne resta. Si è venuto così a riprodurre in Italia artificialmente una sorta di «suffragio ristretto» su base censitaria: a votare, insinua Canfora, restano i gruppi socio-culturalmente privilegiati, gli “abitanti delle ZTL”. In apertura del volume, Canfora si era richiamato alla categoria “popolo”, precisando che può essere sensato demonizzarla in analisi critiche dei feno­meni più deteriori legati al “populismo”, ma che allo stesso tempo tale demonizzazione serve a svelare la “doppiezza” dei presunti democratici, che si rivelano autentici elitisti di fatto - se non aristocratici di matrice antipopolare. Tale snobismo antipopolare, istituzio­nalizzato in un parlamento eletto a suffragio ristretto e in un Presidente del Consiglio calato arbitrariamente dall’alto secondo le congiunture della politica monetaria interna­zionale, per Canfora può assumere le vesti di una vera e propria «democrazia dei signori», ovvero di una minoranza agguerrita e gelosa dei propri privilegi e disposta a conservarli pure al costo della deriva antidemocratica che sta trascinando gli spazi politici e le istitu­zioni italiane. Canfora riprende da Domenico Losurdo il concetto di Herrenvolk De- mokratie, seppure intendendolo nel senso più ristretto di una aristo-plutocrazia, di un sistema politico controllato dalle élite culturali ed economiche ai danni del popolo, mar- ginalizzato e privato di rappresentanza. E se per Losurdo l’“elitismo” politico è inerente di fatto anche ai più “progressisti” sistemi politici liberali, a causa della mancata univer- salizzazione della categoria di umanità storicamente imputabile al liberismo, che proprio sull’esclusione delle categorie più svantaggiate - su base censitaria, sessuale, razziale - dal concreto esercizio degli stessi diritti che formalmente condividevano con “i signori” ha fatto la fortuna di questi ultimi, la lettura di Canfora pur nel richiamare la categoria lo- surdiana, appare più circoscritta e meno radicale, nel denunciare i difetti del nostro si­stema politico per come esso si sta deformando e deteriorando in direzione antipopolare - e non, possiamo dire, essenzialmente. D’altra parte, Canfora richiama la “ex sinistra” alla propria responsabilità nell’autocondannarsi all’irrilevanza, se continua - come conti­nua - a fare la sua parte nella democrazia dei signori, nell’offrirsi di rappresentare «quella parte della società che se la passa bene» e nel raccomandare alla parte restante non solo di non invidiare troppo ai signori, ma di rassegnarsi a perdere anche quei residui diritti, come uno straccio di welfare e di sanità pubblica, che vengono spacciati per un lusso obsoleto e insostenibile.

Se il bilancio conclusivo di Canfora è invecchiato male nel prevedere che le «nostrane forze politiche di tipo parafascistico» fossero troppo danneggiate per poter aspirare a diventare forza governativa, restano validi i suoi rimproveri alla ex-sinistra, come la sua denuncia delle letture troppo schematiche e manichee che non possono calzare la com­plessità della presente composizione sociale e demografica e dell’attuale congiuntura po­litica nazionale e internazionale. Forse non si dovrebbe esaltare troppo il richiamo ai par­titi di posizioni contrapposte a riprendersi la propria identità ideologica, quale che sia, in nome della salute del sistema politico democratico, come una terapia democratica in quanto tale, mentre fa bene Canfora a rivolgersi in particolare alla “ex sinistra”, nell’invi- tarla a riappropriarsi della propria ideologia non solo per amore del dibattito, ma anche e soprattutto per dimostrarsi concretamente capace di recuperare la propria credibilità presso il proletariato e il sottoproletariato: perché “popolo” non è una parolaccia, ma recuperare la volontà di rappresentare la classe lavoratrice e i gruppi socialmente margi- nalizzati senza la fobia di ricorrere a categorie come “classe”, senz’altro fa parte dell’au­spicabile recupero da parte dei partiti di “sinistra” della propria identità politica.

Alessia Franco

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