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Il coefficiente di stupidità della Sinistra
di Tomasz Konicz
La stupidità è la miglior alleata dell'opportunismo di sinistra, la crisi attuale lo dimostra ancora una volta
Capitalismo o morte? In un'intervista pubblicata nel dicembre del 2019, il famoso marxista americano David Harvey ha reso assai chiaro, con una franchezza deprimente, in che cosa possa rapidamente degenerare la teoria di Marx, quando, dopo decenni, si continua ad ignorare in maniera sovrana la crisi sistemica, e di conseguenza non si dà forma ad un adeguato concetto di crisi [*1]. Rivoluzione? Una «fantasia comunista», oramai non viviamo più nel 19° secolo. Il capitale è «too big to fail», è diventato troppo necessario, e pertanto non possiamo permetterci il suo crollo. D'altra parte, le cose devono essere «mantenute in movimento», dal momento che in caso contrario «moriremmo quasi tutti di fame». E c'è bisogno anche che investiamo il nostro tempo per «rianimarlo», questo capitale, dice Harvey. Forse si potrebbe lavorare lentamente ad una riconfigurazione graduale del capitale, ma un «rovesciamento rivoluzionario» è qualcosa che «non può e non deve accadere»; e bisogna anche si lavori attivamente per fare in modo che non avvenga. Allo stesso tempo, alla fine il professore marxista ha osservato anche che il capitale è diventato «troppo grande, troppo mostruoso» per poter sopravvivere. Insomma, si tratterebbe di un «percorso suicida».
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Circa “Ancora su destra e sinistra” di Andrea Zhok
di Alessandro Visalli
“Un uomo giace da tempo in una specie di pozza di fango, la luce è scarsa e rossa, e filtra tra una densa foresta. Sta lentamente soffocando per effetto di un enorme boa che lo avvolge nelle sue spire, senza fretta e progressivamente. Improvvisamente l'attenzione che questo prestava, inutilmente a dir la verità, al boa viene distratta da un evento.... con la coda dell'occhio intravede una massa di muscoli, tendini ed artigli colorata di giallo e nero che si sta precipitando su di lui. È una tigre. Chi è il nemico? Penso si possa dire una cosa di sicuro: abbiamo un gran problema”.
Proveremo poi a identificare boa e tigre, e magari anche l’uomo e la foresta, ma prima proviamo a parlare dell’oggetto: Andrea Zhok da tempo riflette in modo radicale e coraggioso sulla società nella quale viviamo ed i vicoli ciechi del suo senso comune e della sua ideologia. Lo ha sempre fatto da un punto di vista specifico, che non nasconde come non lo nascondo io. Lo abbiamo (se pure immeritatamente dal mio lato) fatto insieme. Continueremo a farlo.
In effetti tutti stiamo compiendo una dolorosa riflessione, che ognuno articola secondo la propria sensibilità ed esperienze. Facendola insieme gli diamo senso.
In “Ancora su destra e sinistra”[1], che reca come sottotitolo “riflessioni di un post-comunista”, Andrea produce un’ammirevole sintesi e ricostruzione di quella che è stata l’esperienza ed il pensiero di molti in questi anni. Descrive la traiettoria di un percorso di assunzione di consapevolezza e responsabilità capace di allargare lo sguardo e generare nuove prospettive.
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Ancora su Destra e Sinistra (riflessioni di un post-comunista)
di Andrea Zhok
Le righe che seguono riassumono un percorso recente nella consapevolezza politica, un percorso quasi ‘dialettico’, nel senso hegeliano del termine, un percorso vissuto dallo scrivente e, credo, in modo non troppo diverso da altri soggetti appartenenti alla tradizione post-comunista.
Provo qui a riassumerne i tratti di fondo.
1. Autocoscienza e crisi
Il punto di partenza di questo percorso è stata una lunga, frustrata e reiteratamente delusa militanza nella sinistra politica, in cui per anni, decenni, si è cercato indefessamente di vedere il bicchiere mezzo pieno, di interpretare posizioni sempre più astratte e indifendibili come se fossero errori passeggeri, distorsioni da cui si sarebbe potuto rientrare se solo si fosse insistito abbastanza.
Gli slittamenti gestaltici sono quei passaggi studiati dalla psicologia della percezione in cui d’un tratto, guardando una figura, vi si scopre una figura alternativa che conferisce nuovo senso all’immagine.
Nei confronti della storia della sinistra ad un certo punto per alcuni è avvenuto uno slittamento gestaltico. Dopo l’ennesimo tentativo di imporre i lineamenti della ‘vera’ sinistra a ciò che si configurava sempre di più come un’idra policefala, contraddittoria e irriconoscibile, qualcuno ha scoperto che quei tratti si prestavano ad una lettura completamente diversa. Una volta avvenuto questo slittamento gestaltico, tutto appariva in una luce differente e più chiara.
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L’ultrasinistra e il «partito storico» della rivoluzione
di Michele Garau
Le compagini e le tesi facenti capo al laboratorio magmatico della cosiddetta «critica radicale», affrontate a più riprese su «Qui e ora», sono riconducibili alla filiazione, filtrata e spuria, di quelle correnti del movimento operaio internazionale, sviluppatesi all’inizio del 900, che rispondono al nome di «ultrasinistra». Quando si parla dell’«ultrasinistra» si richiama, all’origine, una tassonomia vigente in seno alle posizioni del socialismo internazionale del primo 900: la destra era identificata con le tendenze scioviniste della socialdemocrazia tedesca, rappresentata da Ebert; il centro dall’orientamento riformista e gradualista di Kautsky; infine la sinistra corrispondeva al bolscevismo ed alla direzione di Lenin. Dentro questo quadro l’«ultrasinistra» si aggiunge ad indicare quelle frazioni, presenti soprattutto in Germania e in Olanda, che esprimevano un’opposizione di sinistra al leninismo nel suo insieme, come fenomeno teorico e pratico, in seno al movimento rivoluzionario e da principio nella «Terza Internazionale»[1].
Non è semplice ricostruire il profilo di tale corrente, in senso teorico ed ideologico, nella varietà delle sue espressioni e nel suo intreccio con l’esperienza storica dei tentativi rivoluzionari avvenuti, in Germania, durante la sequenza 1918-21, nonché con il suo successivo bilancio. Gli esponenti del «comunismo dei consigli» a partire da Hermann Gorter ed Anton Pannekoek, seppure intraprendano ben prima il proprio percorso, in particolare nel solco dei principi fondamentali della «scuola olandese»[2], elaborano in forma matura le loro tesi distintive proprio misurandosi con questi tentativi e con il loro lascito: si può dire che una formalizzazione compiuta del «Linkskommunsimus» come tendenza politica organizzata risalga alla famosa Lettera aperta la compagno Lenin di Gorter e alla fondazione del «KAPD» (Kommunistische Arbeiterpartei Deutschlands), nell’aprile del 1920.
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Non esistono rivoluzioni innocenti. Il comunismo critico di Rossana Rossanda
di Alessandro Barile
La morte di Rossanda – straordinaria figura testimoniale del comunismo italiano – invita, anzi costringe a pensare ancora alla storia del nostro paese, all’impresa comunista nazionale e agli accidenti della rivoluzione. Contro le scemenze desideranti di insurrezioni «felici», Rossanda ci percuote con la sua verità, l’unica plausibile: la rivoluzione è un atto di sofferenza. Non si entra innocenti e se ne esce devastati. Umanamente, politicamente. Perché dovrebbe essere altrimenti? È un atto di vendetta per le generazioni passate e di sacrificio per quelle future. «Siate indulgenti», invoca Brecht, perché di ogni crimine ci saremo macchiati, e non verremo assolti. Quei crimini, di cui parla a cuor leggero una malandata etica della convinzione comunista, sono crimini verso noi stessi, non verso gli altri, famigerati “nemici di classe” su cui scaricare i necessari orrori della storia e della nostra coscienza. Siamo noi che veniamo compromessi, noi che ci macchieremo dei tradimenti e delle conversioni. Eppure si dovrà fare, è stato fatto: l’inazione giudicante non preserva dall’innocenza, è anzi una colpa ben maggiore.
La lunga, lunghissima riflessione di Rossanda si muove entro questi limiti. I limiti di una persona che si è scontrata direttamente con questi problemi, e che ha capito. A cui ha dato risposte molteplici, profonde, disorientanti. Su cui si può essere d’accordo e in disaccordo, come normale, ma riconoscendo le domande giuste, le uniche possibili, che si chiedono direttamente del travaglio umano che porta con sé ogni rivoluzione. Non esistono rivoluzioni innocenti. Un monito.
Rossanda ha scritto tanto, dagli anni Cinquanta ad oggi. Meriterebbe di essere letto tutto, soprattutto ciò che scrisse durante la sua militanza nel Pci, soprattutto durante il suo ruolo dirigente alla Federazione di Milano, prima, e alla Sezione culturale del partito, dopo.
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“La lezione della sincerità”
Contro la frammentazione comunista
di Luca Ricaldone
L'anno prossimo cadrà il trentennale della scomparsa del più grande filosofo italiano del novecento, Ludovico Geymonat. Egli, poco prima di morire, osservava come fossimo di fronte ad un grave arretramento della cultura e come il marxismo venisse esposto solo in modo dogmatico.
Ancora non esistevano i social. Oggi la realtà virtuale è divenuta il dominio incontrastato dell'idealismo, il luogo dove la maggior parte di noi confonde i propri sogni, le proprie aspirazioni con il mondo reale. Il luogo dove si è ciò che si dice di essere; in cui vige il principio: affermo, dunque sono.
Come consigliava Ludovico Geymonat, se vogliamo ricostruire un partito comunista nel nostro paese dobbiamo saper guardare in faccia la realtà e farla emergere, senza aver paura di esporla per quanto dura e difficile possa essere o essere stata. Per questo, ci diceva, è necessaria una “lezione di sincerità”, una lezione di coraggio morale, scientifico, politico che, unito all'azione, deve essere la base per la ricostruzione del partito comunista, che non può nascere su equivoci di sorta.
Ed è proprio da questa considerazione che sarebbe necessario partire quando si affronta il problema dell'unità fra i comunisti.
Il fenomeno della “frantumazione” ha trovato nel nostro paese delle condizioni particolarmente favorevoli, anche se esso si manifesta internazionalmente in ogni paese, avendo la sua origine nell'influenza dell'ideologia borghese tra le file degli stessi comunisti.
E probabilmente è proprio anche a causa di questa influenza nefasta che scontiamo la mancanza di un'analisi critica della storia dei comunisti che non riguardi solo quella del Pci (che pure è stata sviscerata a fondo nel corso dei decenni) ma anche di quello che lo ha seguito, a cominciare da Rifondazione, nonché di tutto quello che c'era alla “sinistra” del Pci e che oggi compone la “sinistra” comunista.
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Il tallone di ferro sul popolo dell’abisso
di Filippo Violi
Jack London, pseudonimo di John Griffith London, è morto suicida a quarant’anni (1916), ritrovato cadavere in un cottage nella residenza di Beatty Ranch, nella contea di Sonoma in California, probabilmente a causa di un’overdose di antidolorifici. Un atto estremo da tempo premeditato si direbbe, ma solo dopo essersi imbattuti nella lettura del suo antieroe per eccellenza “Martin Eden” (1909), romanzo autobiografico. 
Il giovane marinaio proletario individualista che sogna di diventare scrittore e ci riesce, conquista l’amore di una giovane dell’alta borghesia, grazie al suo enorme bagaglio culturale autodidatta. Raggiunto il successo per protesta si autodistrugge contro una fama in cui non si riconosce, in polemica con il professionismo letterario dell’epoca. E con quella pena di cui London si fece carico, ossia l’orribile obbligo di scrivere per vivere che lo accompagnò sempre e lo tormentò fino in fondo.
Il romanzo di London si svolge come melodramma e fiaba mentre intorno c’è la creazione della società moderna, si fanno discorsi sulla democrazia e l’individuo, ma al contempo c’è la nascita dell’industria culturale, al fine di dare identità alla nazione e alla società, c’è la nascita della cultura di massa. Jack London è forse il primo grande autore globale, letto dalla California alla Russia, che si misura con questa industria e che alla fine ne rimarrà schiacciato.
Ma perché parlare di London oggi? Ad un secolo e oltre dalla sua morte? Forse perché non si è scritto e non si è detto già abbastanza? O forse, meglio, perché la sua figura così spietata nell’agire, nello scrivere, nell’indagare (per lui stessa cosa), priva di compromessi, satura di eccessi, sfrontata, dissacrante, palesemente anticapitalista, socialista, luddista, rivoluzionaria, visionaria, anticipatrice, risulta scomoda ancora oggi?
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L’unità dei comunisti può poggiare su un’unica base: quella del marxismo-leninismo
di Eros Barone
«Prima di unirsi, e per unirsi, è
necessario innanzi tutto definirsi risolutamente e
nettamente» (Lenin).
Abbiamo assistito alla fine di una fase iniziata, almeno in Italia, con il collaborazionismo delle sinistre sedicenti “radicali” (Prc e Pdci) rispetto alla borghesia e la loro progressiva delegittimazione rispetto al proletariato: epoca che si è conclusa con la loro scomparsa dal parlamento. La bancarotta politica, ideologica e morale delle formazioni opportuniste, non meno che la costituzione del Pd, partito della borghesia imperialista, avrebbero dovuto indurre ad una seria riflessione coloro che avevano sopravvalutato il grado di permeabilità di tali formazioni rispetto a posizioni autenticamente comuniste, ossia marxiste-leniniste, e che non si rendono ancora conto che una fase della storia del movimento di classe, legata alla nozione otto-novecentesca di ‘sinistra’, si è definitivamente chiusa.
Ciò è reso ancor più evidente dalla presenza, dentro la ‘sinistra’, di una cultura anticomunista e pro-imperialista sempre più diffusa, che ostacola fortemente lo sviluppo di un metodo e di una teoria capaci di superare il movimentismo e la pura protesta: quel movimentismo e quella protesta che sono, per dirla con Mao Ze Dong, come i palloni che, quando piove, si afflosciano. Quella che il Partito Comunista ha intrapreso è dunque una ‘lunga marcia’ verso i lavoratori, verso le fabbriche, verso gli uffici, verso le periferie, verso le scuole e le università: i tanti luoghi nei quali nessuno sa più quali siano le grandi ragioni di un partito comunista fondato sul socialismo scientifico.
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Contro “l’unita’ dei comunisti”
di Norberto Natali
Uno stimolante contributo di Norberto Natali che ci auguriamo possa aprire un dibattito a sinistra e fra i comunisti
“Tutti i partiti rivoluzionari e di opposizione sono sconfitti. Scoraggiamento, demoralizzazione, scissioni, sfacelo, tradimento, pornografia invece di politica. Si accentua la tendenza all’idealismo filosofico; si rafforza il misticismo come copertura dello spirito controrivoluzionario”.
(Lenin “L’estremismo, malattia infantile del comunismo” - 1920)
Ero un giovanissimo operaio “borgataro”, senza titoli di studio eppure mi risultava semplice leggere Lenin. Perciò lo facevo con avidità: con poche e semplici parole riusciva a farmi comprendere numerose e complicate questioni. Aveva un linguaggio asciutto, incalzante, trascinante nella sua lucidità logica, tanto da dare l’impressione che sapevi sempre cosa fare.
Le aspre ed inedite difficoltà (minimizzo) dei nostri tempi, in Italia, riportano prepotentemente alla mia memoria quelle vecchie letture. Mi viene da pensare che Lenin -parlando di noi, ora- direbbe più o meno: “la questione essenziale è chiara e inconfondibile. Chi ha a cuore la causa del partito comunista -ossia la causa del proletariato, del rilancio vittorioso della lotta di classe, della salvaguardia della pace e della natura, del socialismo- deve necessariamente (prima di tutto) trovare il modo di attingere le proprie forze tra vaste masse proletarie (in particolare giovani) le quali, al momento, non hanno alcun interesse per la lotta politica e ancor meno simpatia per i comunisti”.
Per lo meno ciò è quello che penso e sarò grato a chi mi aiuterà a capire -eventualmente- se sbaglio.
Nel frattempo, questa mi sembra la premessa migliore per affrontare tre problemi concreti.
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Il Covid, la “sinistra radicale” e Gagliardini
di Militant
24 giugno 2020, è la ventisettesima giornata di un campionato appena ricominciato dopo il lockdown e in uno stadio Meazza completamente vuoto per via delle norme anti Covid si affrontano Inter e Sassuolo. Al diciottesimo del secondo tempo, mentre la squadra di casa è in vantaggio di una lunghezza, Lautaro Martinez entra in area dalla sinistra e passa il pallone indietro a Lukaku, l’attaccante belga tira di prima intenzione e sulla miracolosa respinta del portiere emiliano il pallone capita tra i piedi di Roberto Gagliardini. Il centrocampista nerazzurro si trova solo, a porta vuota, a poco più di un metro dalla rete e, incredibilmente, sbaglia, e manda il pallone contro la traversa e divorandosi un gol già fatto. Ecco, se dovessimo immaginarci una rappresentazione plastica della cosiddetta sinistra radicale italiana oggi, l’errore di Gagliardini ne sarebbe un esempio quasi perfetto.
La crisi epidemica, ancor di più di quella economica e sociale in cui siamo immersi, ha fatto emergere in maniera eclatante tutte le contraddizioni di un sistema dominato dal profitto. E lo ha fatto in una maniera assolutamente intellegibile anche da parte del cosiddetto “uomo della strada”, sicuramente molto di più di quanto non fosse accaduto 12 anni prima con la crisi dei mutui subprime. Questa volta non bisogna certo sapere cosa sia il capitale fittizio o essere addentro ai processi di finanziarizzazione dell’economia per rendersi conto di come, in un’epoca caratterizzata da un’abbondanza di merci e da una capacità produttiva senza precedenti nella storia dell’umanità, in tutti paesi, compresi quelli “avanzati”, si stanno manifestando in maniera paradossale tutta una serie di carenze e di penurie che sono costate la vita a migliaia di persone.
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In morte di Rossana Rossanda
di Michele Castaldo
Una comunista nebulosa 
In occasione della scomparsa di Rossana Rossanda si è scatenato, da un lato, la solita, infame canea anticomunista della destra e del bieco centrismo, dall’altro, nella sinistra si ripete il solito balletto dei distinguo, della nostalgia e dei personalismi. Ora, il fanatismo nei confronti del personaggio, sia di rancoroso astio che di religiosa adesione, non forniscono elementi razionali di riflessione e non aiutano perciò a capire la storia della vita sociale in particolare di un secolo straordinario qual è stato il ‘900, con l’espansione della rivoluzione industriale e con essa il passaggio da una economia prevalentemente agricola a una pienamente industriale, quindi al suffragio universale e alla democrazia parlamentare ecc. ecc., per un verso, e con l’irruenza di classi oppresse e sfruttate come i contadini poveri e gli operai, per l’altro verso.
In queste note tralasciamo gli aspetti della personalità della Rossanda e cerchiamo di riassumere all’osso la questione:
cosa ha rappresentato il personaggio Rossanda, insieme ad altri militanti comunisti che sono rimasti in qualche modo fedeli a quella impostazione originaria? La contraddizione di fondo, cioè che il comunismo innanzitutto non è un modello prefabbricato una volta per tutte di rapporti sociali da applicare nelle varie circostanze, ma un processo, un movimento storico anticapitalistico, dunque non era, non è tuttora e non può essere un movimento positivista politico che si può sviluppare intorno a una classe per abbattere la classe al potere. Perché? Ma perché il potere capitalistico viene sì sussunto da una classe, che solo per comodità lessicale chiamiamo borghesia, ma si sviluppa nel più complesso dei rapporti degli uomini con i mezzi di produzione, obbedendo a meccanismi e leggi del tutto impersonali.
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La teoria del partito nel dibattito Magri-Rossanda: tra spontaneità, coscienza e organizzazione
di Mattia Gambilonghi
La peculiare vicenda del gruppo del Manifesto – di cui Rossanda Rossanda, scomparsa pochi giorni fa, è stata una dei principali esponenti e ispiratori – si è caratterizzata, tra i vari aspetti, per il tentativo di tematizzare in maniera nuova ed originale il ruolo del partito della classe operaia all’interno del processo di trasformazione e in relazione ai meccanismi di formazione e definizione della coscienza politica da parte della classe stessa. A essere in ballo è dunque il nodo – fondamentale sin dai tempi del Che fare? leniniano – del rapporto tra spontaneità, coscienza e organizzazione.
Un rapporto la cui riformulazione vedrà emergere in seno al Manifesto, nonostante la comune ispirazione anti-giacobina, due differenti proposte strategiche: quella di Lucio Magri e quella di Rossana Rossanda. Il testo (un estratto del libro Controllo operaio e transizione al socialismo. Le sinistra italiane e la democrazia industriale tra anni Settanta e Ottanta, Aracne, 2017) si propone di ricostruire alcuni elementi di questo dibattito intellettuale.
***
A partire quindi da una ricognizione solo apparentemente ottimistica del capitalismo italiano ed occidentale viene sviluppandosi in seno al futuro gruppo del Manifesto una proposta strategica che, rispetto a quella avanzata in quel momento dalla maggioranza del gruppo dirigente del Pci, si contraddistingue per una curvatura in senso maggiormente “operaista”, frutto dell’influenza esercitata sui membri del gruppo dalle tematiche e dalla tesi proprie di alcuni ambienti del socialismo di sinistra (si pensi a Panzieri e ai Quaderni rossi).
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L’autunno che verrà e i polli di Renzo
di Michele Castaldo
La questione sindacale ha costituito da sempre un rompicapo per le formazioni politiche di sinistra e di estrema sinistra fin dal sorgere del capitalismo e della conseguente nascita del proletariato, o classe operaia, secondo le migliori tradizioni marxiste. Si tratta di una questione spinosa che a distanza di circa 200 anni (datiamo per comodità esplicativa i primi tentativi di costituzione in Inghilterra di società di mutuo soccorso e comitati operai) non ha trovato ancora una sistemazione teorica definitiva.
L’Italia ha avuto il “privilegio” di una esperienza per una insubordinazione di alcuni settori sia del Pubblico Impiego che in aziende a partecipazione statale, durante gli anni ’70 del secolo scorso, quando si sono sviluppate una serie di organizzazioni definite di base, in alternativa ai sindacati confederali esistenti e maggiormente rappresentativi, cioè Cgil, Cisl e Uil, con un ruolo molto marginale della Cisnal che era la cinghia di trasmissione del Movimento Sociale Italiano e che non compariva nelle mobilitazioni unitarie che le tre Confederazioni indicevano, per una sua certa nostalgia nei confronti del Fascismo.
Il presupposto teorico del “basismo”, senza farla troppo lunga, era, ed è, una critica allo spirito collaborazionista della tre confederazioni con l’economia nazionale e con la Confindustria. Si trattava, secondo la gran parte delle organizzazioni “basiste”, di sindacati che avevano abbandonato la causa dei lavoratori e la loro autonomia per subordinarsi totalmente alle esigenze dei padroni. Da questo assunto teorico-politico si sanciva, perciò, la necessità di costituire nuovi organismi di base e strada facendo della formalizzazione di nuovi sindacati veri e propri.
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L’inferno e il paradiso di Giorgio Cremaschi
di Leonardo Mazzei
Emergenza sì, emergenza no. Su MicroMega Giorgio Cremaschi ha detto la sua. Qui diremo invece la nostra.
Cremaschi prova a dare un colpo al cerchio (no alla proroga governativa dello stato d’emergenza) ed uno alla botte, scagliandosi contro i cosiddetti “negazionisti”. Per l’ex sindacalista della Cgil il vero problema sono però questi ultimi, semplicemente da “mandare all’inferno”. Viceversa, con i decisori dello stato d’emergenza si deve certo discutere, ma in maniera amabile e rispettosa, come si conviene a chi è destinato al paradiso.
Le argomentazioni di Cremaschi non mi convincono neanche un po’. Le comprendo e le rispetto, ma fanno acqua da tutte le parti, portando altro fieno in cascina a quel blocco dominante che sicuramente egli crede di combattere.
Per farla breve proverò a sintetizzare in cinque titoli i tragici errori del leader di “Potere al popolo”. Questi titoli sono: negazionismo, libertà e liberismo, emergenza ed emergenzialismo, democrazia e tecnocrazia, lavoro e popolo.
Negazionismo
Questa parola, che il Nostro utilizza a iosa, andrebbe semplicemente abolita. Essa sta infatti a significare l’esistenza di una verità assoluta che non ammette una discussione razionale. Una “verità” che, in maniera assolutamente analoga alle religioni, ha i suoi dogmi, i suoi riti, i sui sacerdoti.
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PD e “movimenti”. Per provare ad uscire da un equivoco
di Militant
Nei giorni scorsi abbiamo preso pubblicamente una posizione piuttosto netta sui comportamenti giudiziari dell’enfante prodige della politica cittadina e questo ci ha fatto “guadagnare” qualche attenzione da partedella Digos romana, arricchendo così l’intera vicenda, già piuttosto triste di suo, di tutte quelle sfumature che separano il grottesco dal ridicolo. Ora che la polemica si è un po’ raffreddata, soprattutto sui social, vorremmo però tornare sulla questione per provare a affrontare quello per noi è il vero nodo politico che sottende tutta questa vicenda, ossia il collateralismo al Partito Democratico di alcuni pezzi di quello che una volta avremmo chiamato movimento. Sgomberiamo immediatamente il campo da possibili equivoci, non abbiamo alcuna velleità di tirare fuori scomuniche o giudizi di natura moralistica. Qui non stiamo parlando di “tradimenti”, carrierismi o cose del genere, che pure nelle storie anche piccole della sinistra di movimento non sono mai mancate, quanto piuttosto di scelte politiche che nel corso del tempo immaginiamo siano state attentamente ponderate e che, però, proprio per questo, crediamo vadano criticate con estrema nettezza.
Immaginiamo che in questi anni di continuo arretramento sociale e politico in alcune aree della sinistra antagonista sia progressivamente maturata l’idea che l’unico modo per garantire una qualche efficacia alla propria azione non potesse essere altro che il lavorio ai fianchi del PD e del centrosinistra. Una sorta di lobbing del sociale che facesse perno sulle “affinità elettive” con qualche dirigente particolarmente illuminato, o sensibile su specifici temi, e che ha spinto più di qualcuno a fare direttamente il “salto della quaglia” ed entrare per provare a “cambiare da dentro”, per “spostare l’asse a sinistra”, per “imporre i nostri temi”… Ancora una volta: nessun giudizio morale.
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