«Non più parole ma piogge di piombo»1. Il labirinto degli anni Settanta in libreria
di Alessandro Barile (Università “La Sapienza” di Roma)
Vi è ancora un bisogno di verità che ruota attorno al lungo Sessantotto italiano. Ne è prova la persistenza editoriale del tema, che vede storia e testimonianza - sovente uno strano ibrido tra le due - catalizzare l’attenzione di un discreto pubblico di studiosi e appassionati. A conferma dell’esistenza di un significativo interesse pubblico appaiono soprattutto le numerose ristampe e riedizioni di opere di difficile reperibilità: ad esempio i ricordi di Prospero Gallinari (Un contadino nella metropoli, Pgreco 2023, I ed. 2006) o l’operaismo di Romolo Gobbi (Com’eri bella, classe operaia, Derive Approdi 2023, I ed. 1989), che si vanno ad aggiungere ai lavori “laterziani” di Valentine Lomellini (La diplomazia del terrore, 2023; Il “lodo Moro”, 2022), al lavoro di Monica Galfrè (Il figlio terrorista, Einaudi 2022), nonché alla vasta ricostruzione di Miguel Gotor (Generazione Settanta, Einaudi 2022). Vogliamo qui concentrare l’attenzione sui ricordi di Guido Viale (Niente da dimenticare, Interno 4 edizioni 2022), e soprattutto sul discusso lavoro di Roberto Colozza (L’af- faire 7 aprile, Einaudi 2023), letto alla luce di un altro libro importante e scomparso e meritoriamente rieditato da Chiarelettere, La generazione degli anni perduti, di Aldo Grandi (2023, I ed. 2003).
I confini “politico-cronologici” degli anni Settanta si dilatano o si contraggono a seconda delle interpretazioni (e delle convenienze). Se Miguel Gotor li allunga non senza valide motivazioni («1966-1982»), Guido Viale li “decentra” con giustificazioni meno comprensibili ed esplicite («dal 1962 al 1976», p. 15). Possiamo giocare con le genealogie: se ne può individuare una di lungo respiro (il 1956 come crisi e scomposizione del marxismo italiano)2; oppure il 1962 (gli scontri di piazza Statuto a Torino, la nascita della rivista «Quaderni rossi»)3.
Si potrebbe, invece, postdatare il Sessantotto all’Autunno caldo del 1969, la trasformazione di una certa nuova sinistra nell’estrema sinistra dei gruppi (Lotta continua e Potere operaio, la radiazione del manifesto, la nascita del Collettivo politico metropolitano, Sinistra proletaria e, da queste due esperienze, le Brigate rosse).
È un fatto, però, che il lungo Sessantotto italiano culmina in tre eventi, che si pongono all’apogeo e - allo stesso tempo - ne innescano il groviglio di penetranti contraddizioni: la «terribile bellezza» del 12 marzo 1977 (secondo le note parole di Franco Piperno) - “acme insurrezionale” posto tra la cacciata di Lama dalla Sapienza (17 febbraio) e la morte di Giorgiana Masi (12 maggio); la «geometrica potenza» (sempre Piperno) del 16 marzo-9 maggio 1978 (rapimento e uccisione del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro, nonché dei cinque uomini della sua scorta); infine, i processi scaturiti dall’ordine di arresto emanato dal sostituto procuratore di Padova, Pietro Calogero, il 7 aprile 1979, reazione repressiva dello Stato alla crisi politica di tutto il decennio. Quest’ultimo evento è al centro dello studio di Roberto Colozza. Un passaggio cruciale della democrazia italiana su cui tanto si è scritto ma che per la prima volta vede una sistemazione storiografica compiuta.
Il “teorema Calogero” altro non è che il tentativo della procura di Padova di stabilire un collegamento organico tra i vertici dell’Autonomia operaia organizzata (e quindi del movimento “legale” e di massa) e quelli delle Brigate rosse (e quindi, per estensione, della lotta armata). Il vertice e la figura di raccordo cosciente (e organizzativo) tra le due componenti di uno stesso progetto eversivo veniva individuato in Toni Negri. Sin da subito, e ancor di più col senno del poi, la correlazione appariva non solo forzata, ma addirittura fantasiosa, col solo fine di smantellare il gruppo dirigente dell’autonomia operaia sulla scorta di un impianto accusatorio altamente improbabile e infatti smentito tra appello e cassazione. Co- lozza, però, introduce il discorso sottolineando il carattere «pioneristico» e «documentato», (ancorché «schematico») dell’ipotesi inquisitoria di Calogero (p. XIII). L’autore, dunque, sfida esplicitamente il lettore ad andare oltre un certo “luogo comune” nel tempo assestatosi nelle testimonianze di alcuni “addetti ai lavori”. È un dato di fatto che il teorema edificato da Calogero non abbia retto alla prova dei fatti, sia storici che giudiziari. Su di una incontrovertibile verità storica (l’alterità manifesta, sul declinare degli anni Settanta, dei progetti politici di Negri e delle Br) si è però innestata una vulgata, che potremmo definire “deresponsabilizzante”, promossa da alcuni protagonisti di quegli anni, e in primo luogo dallo stesso Negri: l’estraneità dei movimenti dalla lotta armata. Vorremmo concentrare l’attenzione su questo punto.
Il teorema giudiziario costruito da Calogero è infondato perché, in buona sostanza, parte da una incapacità di capire il movimento di classe scaturito dal Sessantotto, un’incapacità che non è solo sua ma di tutto il sistema politico che lui, in questa occasione, rappresenta:
«Il terrorismo presenta [...] una tale ricchezza e profondità di articolazioni, di esperienza, di specializzazione teorica e pratica da evocare potentemente la complicità, il sostegno e la copertura di autorevoli e influenti personaggi gravitanti nel mondo della cultura, dell’economia, della finanza, della politica interna e internazionale e fors’anche in settori non secondari dell’apparato statale»4.
Non è pensabile, per Calogero, un così lungo e articolato periodo di lotte di classe, di partecipazione popolare e di disponibilità alla violenza politica, un periodo culminato con il drammatico binomio 1977-78, senza che questo non sia stato in qualche modo eterodiretto. Eterodiretto dall’alto, attraverso canali di appoggio politico e finanziamento economico, nazionali e internazionali5; ed eterodiretto “dal basso”, attraverso l’azione diabolica di un gruppo dirigente «borghese e intellettuale»6 (dunque estraneo alle “vere” lotte di classe, ai “veri” interessi del proletariato) in grado di garantirne unità di propositi e organizzativa, un’unità che, mefistofelicamente, appariva pubblicamente disunita e polemica ma che, in realtà, era omogenea tanto ideologicamente quanto operativamente. Quel che Calogero voleva demolire era appunto l’idea di una autonomia progettuale della lotta politica delle classi popolari italiane, capaci di “tumultuare” ma mai di insorgere veramente.
Detto questo, bisogna anche riconoscere che il lavoro di costruzione del teorema (di vero e proprio teorema, infatti, si tratta) si fonda interamente su una documentazione politica effettiva, che Calogero «pionieristicamente», usando la definizione di Colozza, vaglia in profondità e a cui dà valore probatorio. Calogero “prende sul serio” le parole dei soggetti collettivi protagonisti del decennio, li fa parlare attraverso i documenti da loro stessi pubblicati, e attorno a questa ricostruzione storica giunge alla conclusione (giudiziaria) che la lotta armata è il progetto strategico dell’Autonomia operaia, di cui le Br costituiscono il braccio operativo. Lo scavo e lo studio di questa mole impressionante di dati fa luce su molti aspetti controversi degli anni Settanta. E sarà proprio questa documentazione a costituire il filo conduttore di una ricostruzione complessiva del periodo che Colozza accenna ma che non dispiega pienamente (d’altronde non è il focus del libro), appoggiandosi soprattutto sul già menzionato lavoro di Aldo Grandi, utilissimo strumento “euristico” per cogliere le vicissitudini di Potere operaio tra la sua nascita (autunno 1969) e la sua fine (convegno di Rosolina, maggio-giugno 1973).
Il nodo irrisolto è quello appunto della lotta armata. Il 1969 operaio vede un protagonismo della nuova sinistra (l’Assemblea operai-studenti di Torino) che culmina con la “rivolta di corso Traiano” del 3 luglio. Molto rapidamente l’organismo unitario di coordinamento delle lotte dentro e fuori la fabbrica si trova a fare i conti con l’esondazione di questa “insubordinazione operaia” nella metropoli. La nascita dei gruppi, preparata dalle lotte studentesche del Sessantotto, prende forma concreta attorno ad un problema politico e organizzativo al tempo stesso: la funzione dirigente degli organismi rivoluzionari cresciuti nelle e dalle lotte di fabbrica dell’Autunno caldo. Dall’Assemblea operai-studenti prenderanno forma Lotta continua e Potere operaio: la prima convinta del processo di ricomposizione del proletariato urbano attorno alle vertenze di fabbrica; il secondo ormai persuaso di un limite raggiunto dalla conflittualità sindacale, e non oltrepassabile rimanendo confinati alla sola vertenzialità operaia. Di qui la necessità del partito come strumento di generalizzazione della lotta operaia: il «partito dell’insurrezione». Questo partito «dell’insurrezione» è un soggetto che si propone esplicitamente di organizzare la lotta armata nel paese7. Sul punto converge tutto il gruppo dirigente di Potere operaio: alcuni più convinti ed espliciti (Franco Pi- perno, Oreste Scalzone, in generale i toscani e i romani), altri alla ricerca di una alchimia tra centralizzazione organizzativa e spontaneità di fabbrica (tra modello leninista e consiliarista, dirà Negri)8. Tutti, però, persuasi del salto di qualità di una lotta politica rivolta, a questo punto, direttamente contro lo Stato.
Il processo di formalizzazione di questo “salto di qualità” è rapido: al convegno di Roma del settembre 1971 viene istituita, all’interno di Potere operaio, l’area denominata Lavoro illegale, che “pubblicamente” prenderà il nome di Fronte armato rivoluzionario operaio (Faro), organizzazione combattente che, nella sua evoluzione organizzativa, collegherà il lavoro clandestino di Potere operaio con i Gap di Giangiacomo Feltrinelli, fino ad un con-fondersi di organizzazione e militanti. Sono vicende note, anche se, a volte, provocano imbarazzo. Vi è un procedere empirico, che nel momento stesso in cui opera per una lotta parzialmente clandestina (e sicuramente violenta), sperimenta anche una fugace alleanza organica con l’area del manifesto (nel 1971-72), nel tentativo di ridurre la frammentazione politica favorendo un processo di convergenza di una parte dei gruppi a sinistra del Pci9. “Neogramsciani” e “operaisti” saranno destinati a dividersi presto, ma il dato da cogliere è il tentativo di ricomposizione politica della sinistra rivoluzionaria degli anni immediatamente successivi all’Autunno caldo, che procede badando poco alle forme teoriche - che saranno esagerate (e mistificate) dagli interessati racconti postumi10 - e molto alla sostanza politica di un percorso che, peraltro, non esclude (ancora) il Pci come soggetto operaio con cui fare i conti, non solo nei termini della “nemicità”:
«Dopo le elezioni [del maggio 1972] si constatò che molti di noi erano andati a votare, in genere per il Pci perché l’odio contro Berlinguer, pur forte, era meno forte dell’odio di piccola setta contro il gruppo del Manifesto. Piperno, non so se da solo o d’accordo con Negri, decise di pubblicare sul numero successivo [di Potere operaio] un editoriale che lodava la classe operaia per aver votato, nonostante tutto, Pci»11.
Il numero, del 21 maggio 1972, riconoscerà nel voto operaio al Pci un passaggio in avanti da salutare con la speranza che il Pci riesca a tradurre in lotta di classe il forte mandato elettorale12.
Al centro delle discussioni interne all’organizzazione guidata da Negri e Piperno è, semmai, il carattere, la funzione e la natura della militarizzazione del movimento. Se questa “deve” darsi, appaiono insufficienti tanto la versione guevarista-antifascista dei Gap di Feltrinelli, sia quella compiutamente politico-militare dei brigatisti. L’una “tardo-resistenziale”, inadeguata ad esprimere le esigenze dell’operaio-massa nella congiuntura neocapitalista; l’altra avanguardistica nel suo dismettere il piano d’intervento pubblico. Occorre un soggetto politico in grado di collegare dunque l’azione di massa, alla luce del sole, con l’azione d’avanguardia, armata e clandestina. Il modello ideale che affascina soprattutto Piperno è l’Ira irlandese, che infatti ricorre nei ragionamenti proposti dal dirigente calabrese:
«La lotta armata è di lunga durata: ci interessa la situazione irlandese per il rapporto tra organizzazione armata e organizzazione politica, per il superamento dell’ipotesi insurrezionalista di conquiste militari: la lotta armata si intreccia con scioperi, con le lotte della casa... Nei GAP, RAF, BR quello che non è che un aspetto della lotta di classe è assunto a unico elemento informatore»13.
Eppure, anche il “doppio livello” sperimentato tanto nell’Irlanda del nord quanto nei Paesi baschi (con l’Eta) non convince pienamente i dirigenti di Potere operaio. Si individua un duplice rischio: da un lato, il politico che “usa” il militare - governando l’insubordinazione operaia piuttosto che esprimerla compiutamente (il rischio paventato è quello di una sorta di “riformismo armato”); dall’altro, il militare che fagocita la direzione politica sostituendosi ad essa (o identificandosi completamente con essa, staccandosi così dall’azione di massa). L’involontario risultato di questo precarissimo equilibrio sarà la tragedia di Primavalle (aprile 1973), scaturita da una cellula di giovani militanti vicina a Lavoro illegale. L’organizzazione, pur tentando una disperata difesa accusando polizia e magistratura di una «montatura»14 (ma indagando tra i suoi, in privato)15, non reggerà alle tensioni provocate da un livello militare disorganizzato e, proprio per questo, ingestibile: il convegno di Rosolina, sul delta del Po veneto, del maggio-giugno 1973, decreterà di fatto la frammentazione del gruppo: da un lato Toni Negri (e con lui Franco Tommei, Emilio Vesce, Mario Dalmaviva eccetera), che a Milano, attraverso il Gruppo Gramsci e la rivista «Rosso», darà vita a quella che verrà poi definita l’area dell’autonomia operaia; dall’altro i Collettivi politici veneti, instradati verso un percorso di più chiaro combattentismo armato, sebbene anch’essi gravitanti attorno all’area dell’autonomia. Ma soprattutto, la “frazione piperniana” (ma senza Piperno) a Roma proseguirà nel tentativo di costruzione di un magmatico apparato illegale composto da gruppi clandestini che, pochi anni dopo, confluiranno nelle Br.
Il 1973 è però anche l’anno della più grande mobilitazione alla Fiat culminata con l’occupazione della fabbrica di Mirafiori tra marzo e aprile e la vittoria sindacale degli operai, che strapperanno i più alti accordi contrattuali possibili, determinando un rapporto di forze con l’azienda mai più giunto a tali livelli. Il movimento dei “fazzoletti rossi” confermerà, agli occhi di tutta l’estrema sinistra di allora, la natura insurrezionale di un pezzo importante di classe operaia italiana, che, travalicando strutture sindacali e gruppi politici, esprimerà autonomamente un livello di lotte di fabbrica avanzato e una notevole capacità di direzione politica. Appare l’espressione più compiuta di quell’autonomia operaia che i gruppi intuiscono essere uno dei dati di fondo della congiuntura apertasi con l’Autunno caldo, non solo in Italia ma con più forza qui che altrove, almeno in Europa. Vi è l’evidenza di un “punto alto” della lotta capace di aggregare, attorno a sé, una progettualità politica generale, sia in termini di consenso diffuso che di conflittualità di classe. È quanto ci vedono le Brigate rosse, che proprio in questi mesi si insedieranno alla Fiat attraverso una serie di azioni a sostegno della vertenza (sequestro del dirigente sindacale missino Bruno Labate in febbraio; sequestro del capo del personale Fiat Ettore Amerio, in dicembre: ambedue rilasciati dopo poco tempo). È quanto ci vede Toni Negri e Potere operaio:
«Non c’è chi non veda come il programma comunista del salario politico e la parola d’ordine della lotta armata trovino in queste settimane alle Fiat un loro embrionale punto d’applicazione. La lotta operaia alla Fiat pone il problema dell’organizzazione a tutte le avanguardie del movimento. “Dalla lotta alla Fiat all’organizzazione di partito degli operai comunisti in Italia” [...]: questo è il passaggio che si deve cercare di praticare. Questo è il nodo con cui deve confrontarsi l’intera rete di avanguardie che compongono quel “partito informale” che è vissuto in questi anni»16.
Il “partito informale di Mirafiori” è la soluzione che alimenta i sogni insurrezionali di Potere operaio, la proposta in grado di garantire una militarizzazione a livello di massa, e non solo delle piccole cerchie di avanguardie armate. È su questa base - una suggestione legittimata da un livello di conflittualità interna alla fabbrica a dir poco esasperato - che viene avviato il confronto strategico con le Brigate rosse. Un serrato dialogo pubblico, che avviene sulle colonne di «Potere operaio del lunedì» in più occasioni17. Un confronto che farà dire, all’anonimo estensore dell’articolo pubblicato sulla rivista di Potere operaio (da Calogero identificato in Negri), che «tutte le azioni delle B.R. sono azioni di giustizia proletaria, di contrattacco, di rappresaglia e, insieme, rappresentazioni del potere proletario»18, e che porterà - questo è l’evento centrale a livello storico-politico, che infatti Calogero userà per comprovare l’accordo strategico19 - alla redazione congiunta della rivista «Controinformazione», a partire dall’ottobre 1973. La rivista, ideata da Toni Negri, Emilio Vesce, Fausto Tommei, Antonio e Luigi Bellavita, sarà di fatto cogestita dalle stesse Br, come si evince dallo stesso libro-intervista curato da Soccorso rosso20.
Questi alcuni dei fatti, peraltro ampiamente ricostruiti dallo stesso Aldo Grandi, e che testimoniano del tentativo di un pezzo di estrema sinistra italiana di sperimentare un coordinamento unitario al di là delle singole progettualità divergenti, e molto al di là - potremmo aggiungere - dei profili teorici dei diversi gruppi21. La violenza politica era, nei fatti, progettuale, e non “oppositiva”, come invece si evince dalle pagine del libro di Guido Viale. Per Viale l’origine della lotta armata è da ricavarsi dalla mancata volontà dello Stato di spezzare sul nascere le trame eversive dei suoi apparati “deviati”, culminate in piazza Fontana e nella successiva strategia della tensione. Fin troppo esplicitamente, Viale si domanda:
«La lotta armata sarebbe mai sorta dalle frange della nuova sinistra degli anni Settanta [...] se non ci fosse stata la sequenza delle stragi e delle manovre che per quasi dieci anni avevano alimentato la strategia della tensione? No. Non sarebbe sorta. All’origine del terrorismo di sinistra non c’era stato un ragionamento, ma un sentimento: l’indignazione per la strage di Piazza Fontana e quel che ne era seguito» (p. 73).
Si può concordare con Viale - meritoriamente distante da qualsivoglia dietrologia sul fenomeno - che l’azione “opaca” dello Stato in funzione terroristico-repressiva dei movimenti nel periodo 1968-74 abbia fornito un eccezionale carburante all’auto-percepita legittimazione di una violenza politica di sinistra in funzione di contrasto alle pulsioni golpiste di alcuni suoi apparati corrotti. Ma un ragionamento sulla violenza politica è precedente allo stesso Sessantotto, e va ben al di là della semplice reazione alle bombe in piazza o sui treni: vi è un’elaborazione che attraversa tutta l’estrema sinistra, che dura nel tempo, che si accresce man mano che si allontanano gli echi golpisti, e che soprattutto fa da sfondo a un tentativo insurrezionale ben più articolato della mera “resistenza antifascista” trasognata da Feltrinelli. Tutto questo è presente in Calogero, che però strumentalizza l’analisi storica deducendo arbitrariamente, da questo vasto (e traumatico) affresco politico-generazionale, l’incontrovertibile azione di un soggetto definito e apicale in grado di manovrare i fili di una scena invero altamente frammentata.
«A posteriori» - rileva Colozza - Calogero lamenta di essere stato «equivocato», di non aver mai stabilito un’unità organizzativa di Potere operaio e Brigate rosse, ma di aver operato congiuntamente in una superiore «entità unitaria» (p. 26). Al di là della confusa excusatio postuma, rimangono le parole della requisitoria, gli arresti, i lunghi anni in carcere di militanti e dirigenti dell’estrema sinistra imputati di reati associativi a cui raramente ha fatto seguito una precisa responsabilità soggettiva dei reati ascritti.
Ma se l’ampia ricostruzione rimane sullo sfondo ed è, in qualche modo, data per buona dall’autore, centrale è il dipanarsi dei processi tra Padova e Roma, in uno sviluppo in cui la tecnicalità dell’azione inquirente e giudicante offusca la dimensione “storico-politica” degli eventi. Questa può ricavarsi, paradossalmente, dall’azione del Pci, a cui Colozza dà giusto risalto. Il “compromesso storico” segna la fine di un rapporto incerto tra estrema sinistra e partito comunista, decretando - sono parole dell’autore - «l’irreversibile scelta di campo. Il Pci passava dalla parte delle istituzioni repubblicane» (p. 33). Il dibattito sulla fedeltà repubblicana e democratica del Pci è smisurato, e datarlo alla metà degli anni Settanta è opinabile. Il Partito comunista italiano aveva già dato ampia prova di “militare” nel campo della democrazia, pur nella sua strategia di superamento graduale del capitalismo. Di certo, se prima questa fedeltà si accompagnava ad arditi tentativi di tenere dentro alle ragioni del partito anche le variegate spinte centrifughe, a partire dal “compromesso storico” questa stessa fedeltà cambia di segno e viene declinata ingaggiando una dura battaglia in seno alla propria costituency sociale. Questo passaggio determinerà non solo un’accelerazione nella marcia di avvicinamento all’area di governo, che troverà il suo inveramento proprio nel biennio 1976-78. Una delle conseguenze dirette sarà proprio la frattura radicale tra Pci ed estrema sinistra. Nel 1976 nasceva così la sezione “Problemi dello Stato”, guidata da Ugo Pecchioli, sorta di ufficio di collegamento tra partito e magistratura col fine di contenere le spinte sovversive in seno al movimento operaio22. «Esploso il “7 aprile” - continua Colozza - una malcelata adesione alle logiche dell’accusa pervase il Pci padovano» (p. 34). E ancora, «il Calogero-pensiero corroborava un partito che celebrava ora il proprio trionfo nella “guerra a sinistra” contro il comunismo eterodosso» (p. 33). Insomma, se la dimensione squisitamente politica degli anni Settanta rimane sullo sfondo, questa riemerge nell’azione di un Pci che parlava dichiaratamente di «guerra civile» in corso, salvo poi, a distanza di sicurezza, smentire tale carattere addossandolo totalmente alle fantasie dell’estremismo (cfr. p. 131). Lo spauracchio della “guerra civile”, altro concetto polisemico e sovente strumentale (come lo stesso concetto di “terrorismo”)23, era servito per giustificare i livelli repressivi, la legge sui collaboratori di giustizia, persino le torture della metà degli anni Ottanta24, per poi addossarla alle presunte farneticazioni di chi, proprio in nome di un “riconoscimento storico” delle parti in conflitto, ne chiedeva una soluzione anche giudiziaria attraverso un’amnistia per i detenuti politici.
Rimane il fatto che Calogero legge gli anni Settanta in una dimensione allucinata, ma non priva di aderenze con una realtà molto più magmatica di quanto poi si è tentato di ricostruire retrospettivamente, ricostruzioni sovente scevre di quei chiaroscuri25 che invece costituivano la parte centrale dell’intero ciclo di lotte (il rapporto movimento-Pci; il ruolo della violenza politica, anche armata; l’internità delle avanguardie politiche nelle fabbriche del nord Italia; il valore reale delle elaborazioni teoriche), chiaroscuri che, al contrario, sono stati usati come clava da parte di chi aveva tutto l’interesse a demolire il ricordo stesso di quegli anni e di quel movimento. La vasta ricostruzione di Colozza, “usando” Calogero, fa il punto su di un passaggio cruciale della storia politica italiana del dopoguerra. Il suo tentativo di rimanere in algido equilibrio tra le ragioni dello Stato e quelle dei movimenti (ma potremmo anche dire del “diritto” e della vita degli inquisiti) avviene attraverso una sorta di “tecnicizzazione” degli eventi che, nel momento stesso in cui restituisce piena luce sui processi e gli itinerari degli inquisiti, appanna la comprensione politica della vicenda. Più utile allora leggerlo in connessione alla contestuale riedizione del libro di Grandi, e alle testimonianze alternative di Prospero Gallinari e Guido Viale, a cui non si chiede il rispetto di una metodologia storica (per quanto Viale rivendichi la dimensione veritativa della testimonianza), ma nondimeno contribuiscono a definire i contorni di una storia irriducibile alle “verità giudiziarie”.