Il coraggio di fare storia oggi. Dialogo a distanza con Adriano Prosperi
di Paolo Favilli
Cosa significa fare storia nell’epoca del presentismo del capitalismo totale. Conferenza al festival Echi di storia 2024
Il degrado dell’uso pubblico della storia
Voglio cominciare questo intervento riflettendo sulle implicazioni, fattuali e di metodo, derivanti da un’affermazione che Adriano Prosperi colloca quasi alla fine di quel libro del 2021 che è un po’ il filo rosso intorno al quale si articola tanta parte di questa nostra discussione.
Dice, dunque Prosperi:
La malattia della memoria degli anni recenti (…) ha fatto calare la nebbia dell’ignoranza e della falsificazione su valori, riti e date civili. Nel senso comune è la storia stessa che è apparsa come un vecchiume da abbandonare perché dannoso. È l’economia la scienza del futuro (il grassetto è mio). Invece la storia è un ammasso di vecchiumi. (…) [Il portato principale] della cultura [del] «presentismo»[1].
In queste poche righe dove viene delineato il «momento attuale» nel cui ambito si trova ad operare chi esercita il «mestiere di storico», emerge con chiarezza la contraddizione radicale tra la logica profonda, l’essenza stessa di quel «mestiere» e la cultura del «presentismo», cioè la negazione assoluta dell’analisi del «presente come storia». Sullo sfondo gli esiti del mutamento di «paradigma», una nuova «grande trasformazione» all’incontrario rispetto a quella studiata da Karl Polanyi. Una «grande trasformazione» che ha la sua radice non nel «pensiero, ma nelle «cose», nel rapporto complesso tra il «regresso nelle cose» e il «regresso del pensiero».
L’indicazione di Prosperi sulla rappresentazione del tutto ideologica dell’«economia» come «scienza del futuro» (e del presente dunque) ci permette di affrontare uno dei punti centrali di questo rapporto.
È proprio nell’analisi del «lungo presente» che si possono cogliere i nodi intrecciati di approcci epistemologici e metodologici innovativi e, nello stesso tempo, la loro sostanziale non incidenza nei dominanti cascami di quello che si è chiamato «uso pubblico della storia».
«Uso pubblico della storia» è una espressione che risale a Jürgen Habermas ed è stata da lui utilizzata, nel 1986, durante un dibattito fra i maggiori storici tedeschi del periodo sul tema delle responsabilità germaniche nell’Olocausto: «Non si tratta di confronti teorico-scientifici. Non bisogna confondere questa arena, in cui siamo tutti in causa, con la discussione degli studiosi che, nel corso del loro lavoro, devono assumere il punto di vista della terza persona»[2].
Il dibattito in corso, invece, – sottolinea Habermas – si svolge «in prima persona» in un contesto che coinvolge direttamente memoria, identità individuali e collettive, giudizi politici sul presente e sul futuro.
In Italia l’impostazione di Habermas ha avuto una recezione soprattutto critica. Nicola Gallerano, lo studioso che negli anni Novanta vi si è confrontato con particolare attenzione, ha considerato «non convincente la netta contrapposizione» tra uso pubblico e storiografia professionale[3]. Gianpasquale Santomassimo ha valutato quella di Habermas come una delle «posizioni estreme» che occorre «rifiutare»[4]. Giovanni De Luna ha ricusato quelli che per lui erano i «muri disciplinari»[5] di Habermas e Le Goff. E così via nei numerosi interventi che hanno caratterizzato quella discussione in Italia.
Contemporaneamente, però, gli stessi studiosi, quando passavano dalle impostazioni di carattere generale alla verifica del vero e proprio campo di battaglia che avevano di fronte, si trovarono a dare, dello stato dell’uso pubblico della storia, un giudizio assai preoccupato e assai severo. Gallerano mette in evidenza il fatto che «la storia viene usata soprattutto come strumento della battaglia politica quotidiana»[6]. De Luna descrive efficacemente l’affermarsi dello «storico della gente»[7] e del suo progetto immediatamente politico.
In effetti quello che si stava verificando era un vero e proprio cortocircuito tra l’impostazione del tutto condivisibile di chi sollecitava lo storico professionale a prendere sul serio l’uso pubblico della storia, e il concreto manifestarsi del livello di comunicazione dominante di tale uso pubblico.
E allora, nonostante che sul piano della discussione epistemologica e metodologica l’impostazione habermasiana venisse sottoposta a critiche anche piuttosto radicali, ecco che la forma tragicomica assunta dalla storiografia per la «gente», costringe molti studiosi a considerare con maggiore realismo il sistema di «distinzioni» proposto dal filosofo tedesco.
«Ormai, a questo punto, – ha scritto allora un importante storico contemporaneista – [occorre] introdurre salutari elementi di distinzione, di separazione. (…) Innalzare una barriera netta e invalicabile fra l’ambito della ricerca e le chiacchiere televisive dei professori, le arroganze dei giornalisti che hanno letto qualche libro, le petulanze degli ideologi che pretendono di insegnarci come dobbiamo pensare il passato e comportarci nel presente. Fra la storia scientificamente condotta e i vari manipolatori dell’opinione pubblica non devono più verificarsi possibilità di confusione»[8].
Trent’anni dopo le considerazioni di cui si è appena detto, il termine «tragicomici» che ho usato a proposito di aspetti che già allora erano largamente diffusi, definisce quasi totalmente il fenomeno in oggetto.
Il modo odierno con cui viene declinato l’uso pubblico della storia è stato «naturalizzato», insieme a un’intera fase storica.
Per comprendere meglio il significato di tale «naturalizzazione» è necessario ripartire dallo stato delle «cose» presente, e non dalla sua rappresentazione.
Il «mestiere di storico» alla «fine della storia»
Lo stato delle «cose presente» è il frutto di una fase di accumulazione iniziata nel corso degli anni Ottanta del XX secolo e del tutto diversa rispetto alla storia dell’accumulazione svoltasi nell’Ottocento ed in gran parte del Novecento. Per la prima volta il processo vitale della riproduzione capitalistica si svolge in assenza di antitesi. È la scomparsa dell’antitesi che permette al capitale, divenuto ormai «totale», di cancellare un futuro che sia strutturalmente diverso dal presente tramite un’autorappresentazione tendenzialmente «totalitaria». Questo crudissimo dato di fatto di «realismo capitalista» sembra aver ormai occupato «tutto l’orizzonte del pensabile»[9]. Situazione tradotta in termini para-teorici dall’economista francese Alain Minc: «Il capitalismo non può crollare, è lo stato naturale della società»[10].
Tutto ciò può rimanere senza effetti sui modi fare storia del nostro lungo presente?
L’ espressione «fine della storia», titolo di un notissimo libro di Francis Fukuyama, ci permette di cogliere con sufficiente chiarezza il sistema di relazioni tra il mutamento delle cose e la sua narrazione.
Per Fukuyama la storia è finita in quanto sono giunti a esaurimento tutti i tentativi fatti dall’uomo per raggiungere il miglior ordinamento economico-sociale. Si tratta del risultato di un percorso che «non era una cieca concatenazione di avvenimenti ma un insieme dotato di senso», quindi il risultato unico possibile, «c’era una sola strada», quella indicata dalla razionalità economica.
È un modo di leggere la storia contemporanea perfettamente compatibile con l’interpretazione filosofica della storia che anche uno storico come Furet mette a fondamento del suo grande recit. Furet non è Fukuyama per competenza storica, per finezza analitica, per capacità di controllo sul materiale utilizzato, ma entrambi hanno per riferimento lo stesso orizzonte.
«Dopo il 10 agosto 1792 – scrive Furet – la Rivoluzione viene trascinata dalla guerra e dalla pressione popolare fuori della strada tracciata dall’intelligenza e dalla ricchezza del XVIII secolo. Torna in superficie una passione egualitaria…»[11]. La strada tracciata dalla intelligenza e dalla ricchezza del XVIII secolo è una strada tracciata anche per il XIX e per il XX secolo. Non è una strada è la strada. È la strada della modernità. Capitalismo, borghesia non sono nient’altro che «l’altro nome della società moderna»[12]. Se tale è la strada della razionalità immanente della storia, per lo meno nella storia della modernità, è del tutto ovvio che ciò che se ne discosta, ciò che si pone in termini critici nei confronti della razionalità del moderno, non possa che portare a dérapages.
E infatti la storia che chiamiamo contemporanea, quella scandita dal terminus a quo della duplice rivoluzione, diventa una storia di continui slittamenti, fino all’ultimo, la rivoluzione e i settanta anni di storia sovietica che hanno caratterizzato il Novecento. Lo slittamento di più ampia portata, prevedibilmente quello che, sulla base della storia filosofica delineata, segnerà la fine della storia con slittamenti. L’ultimo ma strettamente collegato al primo. Pochissimo tempo prima di morire Furet avrà ancora modo di esprimersi nettamente a proposito: «Mentre in Francia il giacobinismo è durato solamente due anni, dal l792 al l794, nella Rivoluzione russa, il bolscevismo può essere analizzato, nella stessa prospettiva, come un giacobinismo catastrofico, un giacobinismo spinto alle estreme conseguenze»[13].
Furet può comprendere le ragioni della «passione egalitaria» delle classi subalterne, passione scaturente dalla «forza delle umiliazioni accumulate»[14], ma le manifestazioni di tale passione confliggono necessariamente con l’ordine economico e sociale naturale della modernità.
Furet si limita a costruire un récit historique più ampio, dalla Grande rivoluzione alla fine novecentesca della Rivoluzione e dell’idea stessa di Rivoluzione, intorno alla concezione di un liberalismo pressoché eterno, non storicizzato. La prospettiva di lungo periodo, il «nostro riferimento fondamentale», come lo chiamano Furet e Richet, viene utilizzato come prova di un liberalismo necessariamente immanente al processo storico. Ogni tanto tale condizione naturale viene scossa da sismi provocati dalla fuoriuscita di un magma formato da passioni elementari e idee errate. Si manifesta, dunque, come «una (…) parentesi, una controcorrente».
La narrazione si presenta, pertanto, come un récit in cui i processi storici reali, le grandi Rivoluzioni, si svolgono come disseccati per l’estirpazione del loro humus sociale, deprivati da quell’analisi dei rapporti sociali che possa smentirlo, sovvertirlo, o semplicemente renderlo problematico. Un rècit in cui le grandi idee, liberalismo, democrazia, socialismo vengono progressivamente ridotte a schemi interpretativi generali (anzi generalissimi), in assenza di analisi specifiche di contesti specifici.
Come chiamare queste letture teleologiche del processo storico? Filosofie della storia? Chi vi sta parlando non si riconosce nella grandiosa costruzione sistematica della lettura hegeliana. Pur tuttavia le configurazioni che la ragione assume nel corso di svolgimento dello Spirito oggettivo nella storia, per la dimensione dialettica dell’impianto teorico generale, aprono anche a forme di concretezza analitica.
Nella «filosofia della storia» ad usum Delphini che è la risultante delle narrazioni di Fukuyama, di Furet e poi dei loro numerosissimi epigoni, quella che manca è proprio l’indagine storica condotta con gli strumenti del «mestiere». Nel récit gli strumenti esplicatici hanno carattere del tutto ontologico. Nella sostanza tutti convergono nell’ontologizzazione della ragione mercantile come primum movens di un «capitale totale» del quale è impossibile fare storia.
Il primum movens reale della dinamica interna al sistema di relazioni economico-sociali del «capitale totale» non consiste, certo, in quel tipo di letture della storia. Il fatto che si tratti di narrazioni teoricamente inconsistenti e inservibili dal punto di vista del «mestiere di storico», non deve significare, però, che si possa sottovalutarne l’influenza nella dominante politico-culturale degli ultimi decenni. Dominante di cui sono, insieme, importante indicatore e componente strutturale.
Il contesto del «capitale totale», ovviamente, non lascia fuori nessuna lettura della storia, a ogni livello, compresa la storiografia professionale. In tale contesto si può avanzare l’ipotesi di una cornice hayekiana per una storiografia coerente con le implicazioni epistemologiche della «fine della storia»?
Una storiografia hayekiana?
Friedrich von Hayek è morto nel 1992 all’età di 93 anni. Alla fine della sua vita, dunque, ha potuto assistere al trionfo del suo «neoliberismo». Un neoliberalismo, quello di Hayek, che non va confuso con il liberismo radicale derivato dall’idea astratta del «mercato autoregolato», e da qualsivoglia teoria dello «Stato minimo».
«Se poniamo troppa enfasi sulla categoria del fondamentalismo di mercato non riusciamo a vedere che il vero focus delle proposte neoliberali non era tanto il mercato come tale, quanto piuttosto la riprogettazione degli Stati, delle leggi e di altre istituzioni allo scopo di proteggere il mercato»[15].
A tale proposito in un recente e monumentale studio sulla storia del «neoliberalismo», una storia iniziata assai prima che, nel Colloquio Walter Lippmann del 1938, il termine venisse assunto come elemento di identità per i seguaci della Scuola di Vienna (Mises) e della Scuola di Ginevra (Hayek), la parola encase viene utilizzata come concetto chiave. La parola rimanda a una struttura protettiva, una struttura in grado di mettere al riparo il mercato dalle distorsioni provenienti soprattutto da un altro tipo di richieste di protezione: quelle dei sostenitori della giustizia sociale, quelle provocate dalla «malattia chiamata “proletariato”»[16] come Wilhelm Röpke chiamava l’antitesi sociale e politica.
Per Fukuyana, come per Hayek e Röpke, il raggiungimento della «democrazia liberale» non è il telos primo della «razionalità» della storia e, a ben vedere, non ne è nemmeno elemento necessario.
«Quella di premere per il riconoscimento dei vari diritti economici di seconda e terza categoria, –scrive Fukuyama – quali il diritto al lavoro, alla casa e all’assistenza sanitaria, è stata una prassi comune a tutti i paesi socialisti. Ma un simile allargamento della lista presenta un grosso problema, e cioè l’incompatibilità del riconoscimento di questi diritti con quello dei diritti di proprietà e di libero scambio».
E per maggior chiarezza aggiunge: «I regimi autoritari (…) sono, in linea di principio, più capaci di seguire politiche economiche veramente liberali e non distorte da obbiettivi redistributivi che comprimono la crescita»[17].
Del resto in riferimento all’esperimento in corpore vili nel Cile di Pinochet e dei Chicago boys, Hayek aveva affermato di preferire «un dittatore liberale a un governo democratico senza liberalismo»[18], pur precisando che avrebbe dovuto trattarsi di una dittatura temporanea.
L’analogia tra l’ encasement che l’economista Hayek ha perseguito in tutta la sua vita per mettere in sicurezza l’autonoma razionalità della sfera economica, e l’ encasement che lo storico Furet ritiene essenziale per proteggere la razionalità «della strada tracciata dall’intelligenza e dalla ricchezza del XVIII secolo» dalla ricorrente minaccia delle «passioni egalitarie», non è metodologicamente forzata.
Nel contesto del «capitale totale», del resto, è insita la tendenza alla costruzione di un quadro politico-culturale dove «tutto si tiene», a partire dai «principi» della politica economica. Nel 1962 Hayek, sostenne che quei «principi» avrebbero dovuto essere «conformi all’intero sistema»[19]. I principi guida della sfera economica, infatti, dovevano contemporaneamente informare di sé tutto il complesso delle relazioni sociali.
Quello che chiamiamo «neoliberismo» è in realtà un insieme di teorie che in alcuni punti divergono anche radicalmente, ma, nello stesso tempo, hanno un nucleo centrale comune fondamentale che concerne direttamente tanto i modi di lettura della storia che i modi della traduzione di questo nucleo nella storia. La distruzione delle forze del lavoro organizzato, del loro potere contrattuale, delle loro tradizioni e della loro coesione sociale è fattore irrinunciabile per la vittoria definiva della ragione neoliberale. Insomma, la fine della storia contrassegnata da quel conflitto strutturale che ha accompagnato tutte le fasi dell’accumulazione del capitale nell’età contemporanea. Quel conflitto, nei «principi» di Hayek e nel récit di Furet, non è la risultante di contraddizioni reali svolgentesi secondo una logica dialettica, bensì la lotta di una razionalità sana per difendersi dalla «malattia» innescata dai germi patogeni delle «passioni egalitarie». Anche delle patologie, certo, si può fare storia, ma solo una storia in negativo.
Ciò perché i «principi» di Hayek e la narrazione di Furet procedono deduttivamente da un fondamento assiomatico: il modo di produzione che determina la sostanza della nostra modernità ha un carattere di necessità. E quindi nella nostra realtà storica non esiste alcuna possibilità di cambiarne le strutture portanti.
«Non ci sono alternative» è stata agli inizi degli anni Ottanta del Novecento la traduzione pratico-politica della Thatcher di quei «principi». Una ragione forte della necessità di reprimere, anche manu militari, il grande sciopero dei minatori inglesi condotto a partire dalle ragioni della possibilità.
Credo che il neoliberalismo astorico di oggi dovrebbe riflettere sul fatto che uno dei grandi padri del liberalismo ottocentesco, Alexis de Tocqueville, dotato di un acuto «senso della realtà», proprio riflettendo sui destini del socialismo e in un momento in cui questo appariva sconfitto e screditato, arriva a scoprire il «senso della possibilità». Tocqueville s’interroga, dopo le rivoluzioni del ’48, sui destini di quelle «théories (…) fort diverses entre elles, souvent contraires, quelque fois ennemies; mais toutes, visant plus bas que le gouvernement et s’efforçant d’atteindre la société même, qui lui sert d’assiette»”. Teorie che hanno preso nome di socialismo. E il socialismo vuole cambiare «les lois immuables qui constituent la société elle-même». Certo nell’immediato ciò sembra a Tocqueville «impraticable», ma a un’ulteriore riflessione proprio a partire da quello che si chiama diritto di proprietà, egli perviene a questa conclusione: «en matière de constitution sociale, le champ du possible est bien plus vaste que les hommes qui vivent dans chaque société ne se l’imaginent»[20]. Quello di Tocqueville sul presente è, a tutti gli effetti, uno sguardo storico.
Chi oggi vuole mantenere saldo il senso del proprio mestiere deve leggere il presente, cioè i problemi delle diverse temporalità che lo compongono, alla luce di categorie storiografiche, e non alla luce di giudizi politici contingenti.
A tale proposito Adriano Prosperi ha fatto riferimento a un importante documento promulgato in sede politica, che però si prefigge di delineare l’ambito di esercizio di una storiografia politicamente legittimata. Il testo in questione, la risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa, merita certo di essere studiato con attenzione per comprenderne le motivazioni politiche relative al momento in cui fu redatto. Dietro ogni riga si possono vedere le caratteristiche, le ragioni degli estensori, portatori di esigenze strettamente legate alla contingenza. Una contingenza alla quale, però, si intende dare il valore di un punto fermo ed acquisito da cui partire per la costruzione di una coscienza storica europea condivisa. Dove condivisa, con tutta evidenza, significa conforme.
Su quale analisi storica si basa questo ambiziosissimo programma? Scrive Prosperi: «Il passato è liquidato velocemente con un disegno sommario dei regimi, delle ideologie e dell’immane tragedia europea del secolo scorso che non reggerebbe alla prova di un esame di scuola media.»[21]. Per quel che vale il mio parere, condivido del tutto questo giudizio.
Il linguaggio della stesura del documento, poi, è quantomai lontano dal tono problematico tipico di testi frutto di indagine storica. Un linguaggio asseverativo che rimanda alla logica degli assoluti, alla logica della contrapposizione tra bene e male, alla logica della guerra. Tutto legittimo in un quadro di durissima e apertamente conclamata lotta politica, ma nel documento si fa esplicito invito a inserire il suddetto insieme «nei programmi didattici e nei libri di testo di tutte le scuole dell’Unione». La proposta, insomma, di una storiografia di Stato cui anche qualche storico professionale sembra ormai incline. Un quadro decisamente ostativo del «mestiere di storico».
Qualche tempo fa (dicembre 2020), in uno scambio di mail dove si discuteva sul senso dei lavori in cui eravamo impegnati, Prosperi mi scrisse: «Il nostro è un mestiere umbratile e senza gloria, richiede solo onestà intellettuale».
In questo momento «l’onestà intellettuale» consiste nell’esercitare appieno tutti gli strumenti del mestiere, che sono moltissimi e anche di grande raffinatezza. Oggi ciò ci porta facilmente a confliggere con alcuni venti forti che soffiano sul «contingente». Proprio gli strumenti del mestiere, però, ci consentono di non confondere il «contingente» con un «presente» necessariamente lungo. Dobbiamo continuare a usare quegli strumenti, approfondire la riflessione epistemologica e, su tale base, ampliare gli ambiti della ricerca empirica.
Niente di più, ma anche niente di meno.
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