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“Austerity vs Stimulus”

di Lucio Gobbi

Recensione a: Robert Skidelsky e Nicolò Fraccaroli, Austerity vs Stimulus. The Political Future of Economic Recovery, Palgrave Macmillan, Londra 2017, pp. 183, 25 euro (scheda libro)

VS 640x315Il testo di Fraccaroli-Skidleski, Austerity vs Stimulus, è una raccolta di articoli che ha l’intento di presentare al lettore lo scontro intellettuale che si è combattuto, e che si combatte tutt’ora, rispetto all’importanza della politica fiscale in tempi di crisi. Si potrebbe dire che il testo è una rivisitazione moderna del dibattito Keynes-Hayek rispetto alle dinamiche del ciclo economico e alle politiche necessarie a contrastare i periodi di recessione.

Gli autori ci presentano un “saggio di montaggio” gradevole e che non cade mai in tecnicismi difficilmente comprensibili ai non addetti ai lavori. Terreno di battaglia è la grande crisi finanziaria del 2007 e gli avvenimenti che si sono susseguiti negli anni seguenti in Europa e negli Stati Uniti.

Il libro si articola in cinque sezioni dalle quali emergono tre posizioni di fondo: una pro-austerity, una anti-austerity e una intermedia tra le due.

 

I pro austerity

La sezione dei pro austerity è anticipata da un articolo di Hayek nel quale si sostiene un eccesso di indebitamento pubblico inevitabilmente conduce a una crescita del tasso di interesse e a uno spiazzamento degli investimenti.  Con questo incipit gli autori ci presentano alcuni articoli di Alesina e Giavazzi, di Reinhart e Rogoff oltre che di Nial Ferguson e Basley sul dibattito inglese.

Per i sostenitori dell’austerity l’unica strada che un’economia con livello di indebitamento sopra la media può intraprendere è quella di attuare consolidamenti fiscali. Alesina e Giavazzi non hanno dubbio inoltre sul fatto che i consolidamenti debbano avvenire attraverso tagli di spesa pubblica. Infatti, secondo i “Bocconi Boys”, il processo di consolidamento migliorerà le aspettative degli agenti rispetto all’andamento futuro dell’economia. Tale miglioramento trainerà poi la crescita degli investimenti e dei consumi. Al contrario, ogni forma di intervento volto ad aumentare la spesa pubblica o a ridurre le imposte (aumentando il deficit) condurrà inevitabilmente a un aumento del debito pubblico e ad una recessione dato che gli agenti, internalizzando i futuri aumenti di imposte necessari a ridurre il debito, ridurrebbero produzione e occupazione.

Oltre all’articolo di Alesina, perno della sezione “ortodossa” è l’articolo di Reinhart and Rogoff nel quale si indaga la relazione tra debito pubblico e crescita. I punti salienti della loro analisi sono i seguenti:

  • Le economie nelle quali il rapporto tra il debito pubblico su prodotto interno lordo supera il 90% tendono ad avere una crescita mediana dell’1% più basso e una media ancora maggiore.
  • Per le economie emergenti la soglia è ancora più bassa perché tendenzialmente sono economie con elevato debito estero.
  • Non sembra esserci nelle economie avanzate una relazione tra inflazione e debito robusta, laddove gli autori la rilevano per i paesi in via di sviluppo (alto debito e alta inflazione si presentano insieme).

Nel momento caldo del dibattito sull’austerity le stime di Rehinart and Rogoff su debito e crescita si sono però dimostrate poco robuste a causa di errori tecnici rilevati nella loro nell’analisi, così come il fatto che l’austerità non sia stata “espansiva”. Se una parziale marcia indietro sull’immediato effetto di espansivo delle politiche di consolidamento fiscale è stata fatta dai principali sostenitori di questa tesi, l’idea che il processo di austerity abbia stabilizzato le aspettative e messo le basi per la ripresa economica, oltre alla convinzione che i tagli di spesa pubblica siano sempre preferibili ad aumenti di imposte, rimangono dei punti fissi su cui Alesina and friends non cedono.

 

Gli anti austerity

Per il fronte anti austerity si trovano interventi di Skidleski stesso, del premio Nobel Krugman e di altri economisti di matrice “Keynesiana” come De Grawe, Fazi, Chang. Così come Hayek è individuato come padre nobile dei pro austerity, Keynes fa capolino nelle prima parte del testo come mentore degli anti austerity. Gli autori propongono al lettore la lettera al Times nel quale l’economista di Cambridge enuncia le principali caratteristiche della recessione, ovvero di quel momento in cui gli agenti, dato il timore per il proprio futuro, tesaurizzano moneta. Tale comportamento comprimendo la domanda interna non fa che aggravare la crisi e spinge ancora più in alto in alto i livelli di disoccupazione. Tesi principale degli economisti anti austerity è che le politiche di consolidamento fiscale rafforzino la recessione in un momento in cui ci sarebbe invece bisogno di invertire il ciclo. L’impulso negativo di una stretta fiscale sulla domanda aggregata causa una caduta dei profitti e, di conseguenza, degli investimenti. La crisi pertanto non è per i Keyensiani il momento dove ci possa essere spazio per i consolidamenti fiscali, al contrario i periodi di crescita sono quelli in cui si debba mettere a posto i conti.  Da questo lato della barricata si rigettano le teorie sull’effetto del debito pubblico sulla crescita e se ne contestano le validità teoriche e empiriche. Le leggera ripresa dell’economia non è presa dai Keynesiani come una confutazione delle loro tesi quanto, piuttosto, una conferma delle dinamiche delineate da Keynes nella teoria generale del ’36. Nella quarta sezione del testo più popolare di Keynes si sostiene infatti che un rimbalzo e una ripresa dalla recessione il capitalismo la crea sempre, ciò che non si riesce a ripristinare senza un mix di politica fiscale e monetaria è la piena occupazione. Su questa linea l’articolo di Fazi secondo il quale le politiche in favore dell’espansione fiscale diventano necessarie dato che la politica monetaria espansiva attuata dalla BC non è da sola sufficiente a sostenere la ripresa in un periodo di crisi. Una parte della querelle si articola sulla specificità del caso inglese. Di particolare interesse è l’articolo di de Grawe nel quale si evidenzia come gli effetti delle manovre fiscali siano differenti in un area valutaria come l’Euro rispetto al caso inglese dove la presenza di una banca centrale autonoma come la Bank of England stabilizza le aspettative impedendo a tassi di interesse sul debito pubblico di impennarsi. 

 

La terza via

A metà strada tra le due fazioni si trova la posizione di Blanchard, ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale. Negli interventi riportati Blanchard pone il tema del consolidamento fiscale come necessario per quei paesi che durante la crisi hanno visto lievitare i propri bilanci pubblici. A differenza dei pro austerity Blanchard pone la riduzione del debito come obbiettivo di lungo periodo. Secondo l’economista francese ci sono quattro lezioni da trarre dalla crisi. La prima concerne il fatto che lo scenario internazionale è permeato da processi in cui le aspettative degli agenti determinano il successo o meno delle politiche fiscali. In tale contesto è molto difficile dare un’indicazione di policy precisa dato che, ogni azione di consolidamento, se male interpretata, può essere del tutto vana. La seconda è che i processi di riforma delle economie in crisi sono quasi sempre frutto di contrattazioni politiche. Questo porta a pacchetti di riforma parziali che difficilmente risultano credibili agli agenti, in questo modo spesso si manca l’obbiettivo della stabilizzazione delle aspettative rispetto agli effetti attesi di tali riforme.  Terza lezione, di capitale importanza, è quella della schizofrenia dei mercati per quanto riguarda la politica fiscale. Blanchard enfatizza il fatto che spesso i mercati brindano ad annunci di consolidamenti fiscali ma poi puniscono i paesi che li intraprendono quando si manifestano gli inevitabili effetti recessivi di tali politiche. L’ultima lezione concerne il fatto che i contesti cambiano e spesso si intraprende una policy di riforma sulla base di dati e informazioni validi per il passato ma non per il futuro. D’altra parte gli articoli di Blanchard sono scritti negli anni in cui il Fondo Monetario prendeva atto che le stime dei moltiplicatori fiscali pre crisi avevano ampiamente sottovalutato gli effetti recessivi che si stavano producendo nelle economie europee. La linea che delimita Blanchard è pertanto quella dei consolidamenti molto graduali, accompagnati da riforme strutturali e sostenuti da una politica monetaria accomodante in grado di tenere sotto controllo i mercati, i tassi di interesse.

 

Dibattiti generali

Nella prima e nell’ultima sezione si trovano contributi che cercano di guardare il tema austerity in prospettiva storico e politica.  Dalla prima si segnala un articolo di Streeck nel quale si ripercorre il processo che Crouch ha definito di Privatized Keynesianism, ovvero quella serie di riforme di liberalizzazione nel settore finanziario e di privatizzazioni di beni pubblici che hanno trasformato l’indebitamento da pubblico a privato. Streeck ci propone una retrospettiva sul ventennio pre crisi nel quale mostra come il meccanismo di regolazione basato sull’elevato indebitamento delle famiglie e delle imprese sia andato in crisi e sia stato il detonatore della crisi finanziaria del 2007. Da quel momento in avanti i governi sono ritornati in scena salvando i settori bancari e gonfiando i debiti pubblici. Conseguentemente i mercati, salvati dagli interventi pubblici e dalle politiche monetarie espansive, hanno incominciato a pressare i governi con richieste di consolidamenti fiscali terminate in abbattimento dei sistemi di welfare. Molti dei temi trattati da Streeck vengono ripresi nel breve contributo di Graeber dove si ricorda che il debito di qualcuno è sempre il credito di qualcun altro e che il processo di consolidamento fiscale, se da un lato cerca di diminuire i debiti pubblici dall’altro conta sull’indebitamento dei privati. Debiti privati la cui dinamica preoccupa Graeber al punto di annunciare una nuova imminente crisi simile a quella del 2007.

A dieci anni dallo scoppio della crisi si dovrebbe potere presentare un bilancio sull’efficacia o meno delle proposte di policy presentate nel libro. Non è però così facile. Per quanto riguarda gli Stati Uniti potremmo dire che l’approccio utilizzato si avvicina di più a quello dei Keynesiani. La risposta che si è data oltreoceano è stata infatti caratterizzata da enormi piano di salvataggio bancario nella fase acuta della crisi seguiti da ingenti investimenti pubblici in settori industriali in difficoltà come quello dell’automobile. I risultati di questa politica sono stati buoni in termini di rilancio della crescita e di contenimento della disoccupazione. Sulla replicabilità delle politiche proposte bisogna segnalare che Stati Uniti, detentori della moneta internazionale, non sono soggetti al “giudizio dei mercati” (speculazione e rischio rifinanziamento del loro debito pubblico) se non dal punto di vista teorico. In Europa invece la battaglia delle idee è stata vinta dal fronte dell’austerity. Gli effetti sociali devastanti e la crescita di disoccupazione e debiti pubblici sono stati l’unica cosa certa prodotta da queste politiche. Molto più difficile è valutare l’impatto sulle aspettative degli agenti dato che il controfattuale non si può avere. Ormai è quasi unanime la convinzione che l’austerity abbia avuto più ombre che luci e che sia stata attuata principalmente in paesi periferici (Italia e Francia ne hanno fatta molto poca). Il cambio di rotta però e tutt’altro che scontato anche se la linea Blanchard sembra quella che paesi come Francia e Italia abbiano implicitamente deciso di adottare. Il fronte dell’austerity non esce bene, i keynesiani sembrano avere vinto la contesa. La loro però è una vittoria di Pirro dato che le loro proposte di policy difficilmente potranno vedere data la geografia politica e le forze in campo nelle istituzioni europee.

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