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La frontiera scientifica della società in rete
«Tecnologia e democrazia» di Luciano Gallino. Una importante raccolta di saggi sulla diffusione del sapere tecnico-scientifico
Franco Carlini
Il Fest, Fiera dell'editoria scientifica di Trieste, da pochi giorni si è chiuso, e con un buon successo. Dove «editoria» andava intesa come tutto quello che viene messo in pubblico - «pubblicato» appunto, in qualsivoglia formato e su qualsiasi supporto. Non solo libri e riviste, dunque, ma siti web, radio, filmati, Dvd. Ha confermato, una volta ancora, che di scienza ben narrata c'è fame in Italia, forse a colmare un ritardo storico, culturale e sociale. E infatti un po' ovunque per la penisola si sono moltiplicati convegni, festival della scienza (il più noto è quello autunnale di Genova), nonché master in Comunicazione della Scienza (il più rinomato è quello presso la Sissa di Trieste). Il genovese Vittorio Bo, che già fu alla direzione dell'Einaudi e che poi ha dato vita a Codice Cultura, è uno dei pochi che ha avuto il coraggio di rischiare prestigio (e capitali) nel campo storicamente abbandonato dell'editoria scientifica italiana per svecchiarla e sprovincializzarla, anche a costo di proposte assai specialistiche.
Tutto ciò certo aiuta a recuperare un divario rispetto ad altri paesi, specialmente Francia e Inghilterra, dove la scienza è da sempre considerata un costituente essenziale della cultura civica e delle politiche dei governi. Tanto rinnovato entusiasmo, che corrisponde anche a un discreto fatturato in eventi e convegni, è consolante. Ma ci basta? La domanda emerge, implicita, dalla lettura del recente libro di Luciano Gallino, lo studioso torinese da anni dedito alla sociologia del lavoro e dell'industria. Tecnologia e democrazia (Einaudi, pp. 296, euro 22) ripropone alcuni dei suoi molti saggi, dedicati alla ragione tecnologica, ai decisori, alle scienze dell'informazione. Tutti densi e importanti, ma qui sia lecito concentrarsi sul filo rosso che li cuce, che si concentra sul tema dell'ignoranza, quella dei singoli scienziati e quella sociale.
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Conversazione sul bioreddito e sulla risocializzazione della moneta
par Antonella Corsani, Christian Marazzi
Antonella Corsani : Cosa diresti se affermassi alla lettura del tuo saggio “Ammortamento del corpo-macchina” che la socializzazione dei mezzi di produzione è consubstancielle alla natura del capitale fisso come capitale umano nel senso in cui tu declini, o piuttosto deformi, questo concetto dopo averlo strappato al pensiero neo-liberale et ibridato con il concetto marxiano di lavoro vivo ?
Christian Marazzi : Sulla socializzazione dei mezzi di produzione hai colto nel segno : la separazione tra capitale e lavoro di tipo fordista era mediata da processi di produzione “macchinici”, che assicuravano (sebbene parzialmente) al bioreddito di essere una variabile dipendente dal capitale. Cioè : di impedire che la riproduzione si autonomizzasse dal capitale. Nel modello antropogenetico (o biopolitico che dir si voglia), i processi di produzione sono umani, per cui la socializzazione dei mezzi di produzione non è mediata dal capitale macchinico, ma dal corpo della forza-lavoro. Forse sono proprio le nuove patologie legate al lavoro che svelano (in negativo) la nuova forma della regolazione capitalistica di questa socializzazione. Come dire che il reddito sociale ha oggi una dimensione “invalidante” e escludente, serve a medicalizzare le patologie del mercato del lavoro, invece di liberare energie vitali. “Business Week” ha recentemente dedicato un dossier al settore sanitario americano che, negli ultimi 5 anni, è stato l’unico in assoluto a creare occupazione (1,800 milioni di nuovi posti di lavoro) ! A conferma sia della natura antropogenetica/biopolitica del capitale cognitivo, sia della declinazione patologizzante del welfare state emergente (in cui malattia e guerra - tanatopolitica ? - “regolano” i processi di socializzazione).
 Antonella Corsani : Tu affermi che il welfare ha assicurato la continuità del circuito del capitale (“D-M-D’”), questo reddito d’esistenza ha riprodotto la separazione tra capitale e lavoro e con essa la divisione sociale del lavoro. Come potrebbe essere assicurata questa differenza di ruolo del bioreddito che tu prefiguri ora come investimento nell’autonomia oltre il capitale ? Voglio dire, se il welfare è stato funzionale all’accumulazione capitalista assicurando la continuità del circuito del capitale, come potrebbe oggi il bioreddito non avere questo stesso ruolo, riproducendo nuove divisioni del lavoro dentro e fuori l’Europa ? Mi chiedo dunque quali siano le condizioni perché il bioreddito o reddito garantito nella sua forma monetaria non entri nel circuito del capitale.
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L’ammortamento del corpo-macchina
par Christian Marazzi
Una delle caratteristiche del nuovo capitalismo è la perdita di importanza del capitale fisso, della macchina nella sua forma fisica, quale fattore di produzione di ricchezza.
 Las materializzazione del capitale fisso e dei prodotti-servizio ha quale suo corrispettivo concreto la “messa al lavoro” delle facoltà umane quali la capacità linguistico-comunicativa e relazionale, le competenze e le conoscenze acquisite in ambito lavorativo e, soprattutto, quelle accumulate in ambito extra-lavorativo (saperi, sentimenti, versatilità, reattività, ecc.), insomma l’insieme delle facoltà umane che, interagendo con sistemi produttivi automatizzati e informatizzati, sono direttamente produttive di valore aggiunto.
 La dematerializzazione del capitale fisso e il trasferimento delle sue funzioni produttive e organizzative nel corpo vivo della forza-lavoro, è all’origine di uno dei paradossi del nuovo capitalismo, ossia la contraddizione tra l’aumento d’importanza del lavoro cognitivo, produttivo di conoscenza, quale leva della ricchezza e, contemporaneamente, la sua svalorizzazione in termini salariali e occupazionali.
Le difficoltà in cui ci si imbatte in tutte le analisi delle tendenze del mercato del lavoro confermano indirettamente che il modello emergente nei paesi economicamente sviluppati è di tipo antropogenetico, un modello cioè di “produzione dell’uomo attraverso l’uomo” in cui la possibilità della crescita endogena e cumulativa è data soprattutto dallo sviluppo del settore educativo (investimento nel capitale umano), del settore della sanità (evoluzione demografica, biotecnologie) e di quello della cultura (innovazione, comunicazione e creatività). Un modello in cui i fattori di crescita sono di fatto imputabili direttamente all’attività umana, alla sua capacità comunicativa, relazionale, innovativa e creativa. E’ la capacità di innovazione, di “produzione di forme di vita”, e quindi di creazione di valore aggiunto, che definisce la natura dell’attività umana, non il fatto che appartenga a questo o quel settore occupazionale.
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Appunti dal terremoto del divenire
Roberto Ciccarelli
«Conversazioni» di Gilles Deleuze e Claire Parnet (ombre corte). Un dialogo sulla crisi della modernità che prende le distanze dai cultori del frammento a favore di un'«altra rivoluzione»
Chiunque legga i Dialogues di Gilles Deleuze e Claire Parnet (Conversazioni, Ombre Corte, pp.174, euro 14) capirà quale grande ingiustizia sia stata quella di affibbiare a Deleuze la patente di «postmoderno». In realtà, quella di postmoderno sarebbe una categoria tutta da ridefinire, proprio dai fondamenti, in un momento in cui testi, proclami e manifestazioni coniugano l'elogio delle virtù divine con la difesa della modernità sgomitando per conquistare i titoli dei giornali. Non esiste nulla di più ironicamente postmoderno, infatti, che la mescolanza degli stili realizzata dagli «atei devoti», o dai teologi politici, che scompaginano il senso comune novecentesco con il colorato patchwork dei loro ibridi ideologici. 
  
 Il potere del pensiero
 
 Al di là di questi paradossi, il cosiddetto «postmoderno» ha registrato tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, la crisi della fiducia nell'universalità del pensiero. Di quella crisi ne ha fatto la chiave di volta per teorizzare, da un lato, l'impossibilità di ridurre la realtà ad una matrice unica, dall'altro l'apologia della complessità e dell'estetica del frammento e della citazione. Di solito, quando si parla di postmoderno, si preferisce la seconda strada, quella più «debole» e compiaciuta.
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