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arianna

List oltre Marx: il nuovo libro di Gianfranco La Grassa

di Emiliano Brancaccio e Rosario Patalano

marx 997222cDei cumuli di macerie ci si libera anche lasciandosi alle spalle i feticci di un passato recente non proprio glorioso: un’abusata “correttezza politica”, così come una spesso pelosa, ridondante “non violenza”. Un commento al nuovo libro di Gianfranco La Grassa (Finanza e poteri, manifestolibri) fa dunque esattamente al caso nostro. Con uno stile volutamente scorretto, bellicoso, talvolta gratuitamente viscerale, La Grassa è riuscito in questi mesi ad attirare una certa attenzione sul sito www.ripensaremarx.it, che raccoglie le sue ultime tesi e le sviluppa in un lavoro collettivo – a cura di Gianni Petrosillo - espressamente finalizzato alla uscita definitiva dal marxismo e alla resa dei conti finale con gli ultimi eredi politici di quella gloriosa tradizione. Diciamo subito con franchezza che sul piano teorico generale questa ambiziosa operazione a nostro avviso non riesce, per i motivi che vedremo. Ciò nonostante, come avremo modo di osservare, il contributo di La Grassa offre spunti importanti per la riflessione e per il posizionamento politico, ed è soprattutto per questo motivo che esso merita di esser letto e attentamente valutato.

Per la contesa finale con Marx e col marxismo La Grassa si avvale di un alleato inatteso: egli infatti recupera il pensiero dell’economista tedesco di metà Ottocento Friedrich List e lo sviluppa in chiave inedita. List viene solitamente ricordato per il contributo teorico in tema di “industria nascente” e per avere invocato il protezionismo in difesa degli interessi nazionali della Germania, contro l’ideologia del libero scambio che veniva all’epoca propugnata da un’Inghilterra egemone. Secondo La Grassa, il merito principale di List verte sull’avere elaborato una teoria relativa ad una specifica fase dello sviluppo capitalistico. In quanto relativa, la sua teoria fu in grado di rappresentare efficacemente una contraddizione di quella particolare fase storica, e cioè l’asimmetria nella distribuzione del potere tra i paesi che erano già nel pieno della loro rivoluzione industriale e quelli che invece l’avevano da meno tempo avviata. Per l’autore la specifica analisi di fase di List può rivelarsi estremamente utile anche oggi. List ci aiuta infatti a comprendere che la globalizzazione capitalistica dei giorni nostri, ruotante attorno al nucleo egemone statunitense, ha le sue fratture, e che spesso queste fratture seguono il percorso dei confini nazionali. La nazione diventa quindi una chiave di lettura molto più efficace dell’internazionalismo proletario di masse affamate e sfruttate, o dell’ideologia pacifista neoliberale che descrive il mondo come una rassicurante superficie levigata e priva di increspature. Gli attriti internazionali dunque si impongono, e non solo riguardano la contrapposizione tra nazioni ricche e nazioni disperate ma coinvolgono pure i rapporti tra le grandi potenze che si confrontano con la nazione dominante per insidiare il suo primato. List dunque insegna: si può rispondere al dominio monocentrico della nazione egemone solo animando una nuova fase policentrica di conflitti interstatuali. Chiaramente, l’esito potenziale di un simile sbocco è tutto da vedere. Ma è esattamente questo carattere di indeterminatezza e di apertura che, ad avviso di La Grassa, rende il possibile, futuro trapasso da un’epoca di monocentrismo ad una di policentrismo di estrema rilevanza politica.

Questo a nostro avviso è il punto di maggiore interesse del contributo lagrassiano. L’autore ha infatti il merito di condurre alle estreme conseguenze l’analisi dei rapporti internazionali e della loro evoluzione, e se anche magari può non convincere pienamente il lettore, in ogni caso lo costringe ad assumere una posizione secca e non più ambigua sulla questione. Per intenderci: se si accettano sia la tesi che gli auspici di La Grassa, diventa logicamente necessario mettere al bando la doppiezza che ha caratterizzato la politica estera di questi anni, soprattutto a sinistra. Dall’adesione ai bombardamenti NATO su Belgrado alla trovata della “spirale guerra-terrorismo”, sono numerosi gli esempi in cui gli eredi dei movimenti operaio e comunista hanno mostrato una palese inadeguatezza rispetto ai tempi, una incapacità strutturale di spingere nella direzione del policentrismo al fine di sfruttare le congiunture che potrebbero derivarne. La Grassa esprime questi concetti in modo talvolta discutibile, sul piano sia analitico che politico. Egli per esempio sembra lasciarsi tentare da un ormai obsoleto anti-sovietismo quando sottovaluta i netti vantaggi del policentrismo filo-socialista del Novecento rispetto alle anguste strettoie anti-moderne della fase conflittuale che sembra oggi profilarsi all’orizzonte, tra nuove teocrazie e reazioni identitarie. Si deve ammettere tuttavia che il suo ragionamento è tempestivo e costringe a prender partito, da una parte o dall’altra, in coda al monocentrismo americano oppure sulla punta della lancia di un possibile futuro policentrismo.

La capacità di evocare un limpido bivio politico è un merito indubbio, soprattutto in un’epoca nella quale troppi intellettuali, incardinati nei meccanismi di riproduzione delle élites, si affannano alla ricerca di un pensiero che sia al tempo stesso accattivante per il pubblico ma sufficientemente ambiguo per sopravvivere alle temperie politiche. C’è tuttavia nella biforcazione di La Grassa un che di teoricamente fragile, che potrebbe avere ricadute deleterie sul piano dell’azione. Il problema principale scaturisce dal fatto che La Grassa si impegna con foga in un attacco al carattere destinale, teleologico, messianico dell’analisi marxista tradizionale. Si tratta a guardar bene di un capo d’accusa tipicamente althusseriano. L’unica vera novità rispetto al filosofo francese è che La Grassa individua il vizio teleologico fin negli scritti maturi di Marx e si fa con ciò beffe degli attuali rispolveratori del Moro, impegnati nella chiesastica ricerca di una supposta autenticità perduta. Ora, questo attacco al messianesimo e ai suoi ultimi scampoli odierni è ossigenante e benvenuto, come del resto quasi sempre accade quando capita di recuperare le eccezionali critiche di Althusser al marxismo ortodosso. L’unico grave errore di La Grassa verte sul fatto che, nell’impeto polemico, egli sembra voler fare ricadere nel calderone del teleologismo tutte le cosiddette “leggi di tendenza”, inclusa quella alla centralizzazione dei capitali. Il che è strano, dal momento che tutti i dati indicano che quella tendenza rappresenta una delle poche costanti generali di sistema in un mare di soluzioni di continuità.

A quanto pare insomma La Grassa va ben oltre il giusto attacco al messianesimo ortodosso. Egli in realtà punta equivocamente a relativizzare la tendenza alla centralizzazione al fine di contestare alla radice l’obiettivo marxista di costruire una teoria generale del capitalismo. Eppure in tal modo egli finisce per indebolire e non certo per rafforzare le sue tesi. Infatti, rimarcare l’assoluta rilevanza delle forze tendenti alla centralizzazione capitalistica non obbligherebbe certo ad assecondare le vecchie suggestioni socialdemocratiche kautskiane su una finanza sempre più concentrata e parassita, né tantomeno le attuali ingenuità post-trotskiste dedite alla banalizzazione del quadro politico, comodamente diviso tra grande capitale mondiale e masse globali diseredate. Al contrario, esaminare a fondo il moto interno dei capitali, la loro continua tendenza non solo a distruggersi ma anche ad accorparsi e a incastrarsi gli uni negli altri, aiuta a porre in luce proprio la genesi delle – possibili e mai certe - controtendenze, delle forze reattive che cercheranno di opporsi a quel moto. Del resto, la stessa tesi lagrassiana dei trapassi storici dal monocentrismo al policentrismo a nostro avviso non può tenersi in piedi tramite la mera evocazione del “conflitto strategico”, quasi che fosse una tendenza antropologica in sé. Quella tesi regge soltanto attraverso l’analisi del processo di centralizzazione quale detonatore del conflitto inter-capitalistico e della crisi politica che può conseguirne. La meccanica impersonale della centralizzazione, intimamente legata alle condizioni di riproducibilità del capitale e degli apparati che lo sorreggono, ingloba cioè al suo interno sia la razionalità strumentale che quella strategica. In quest’ottica, potremmo allora dire che di fronte alla spinta centralizzatrice dei capitali la nazione non è altro che una reazione, per l’appunto strategica, finalizzata a contrastare una spinta centralizzatrice che di per sé è monocentrica. Negare generalità alla centralizzazione dei capitali rischia dunque di produrre una serie di ottundimenti teorico-politici di fondo. Si può davvero sfruttare l’emergenza, la congiuntura, il “fulmine”, come ama definirlo La Grassa, solo se si conosce la corrente profonda del fiume. E’ questo, in fin dei conti, l’insegnamento tuttora insuperato del Marx anti-teleologico riletto da Althusser. La Grassa farebbe bene, al riguardo, a fare un passo non indietro ma in avanti, e quindi nuovamente in direzione di Marx.

Resta infine il macigno dell’abbandono lagrassiano della categoria della “classe”, intesa essenzialmente nella sua dimensione soggettiva. L’autore preferisce ad essa la distinzione tra i cosiddetti “dominanti decisori” e i cosiddetti “dominati non-decisori”, e tende a individuare i momenti di rottura sistemica nel conflitto interno ai primi, coi secondi a svolgere il ben più modesto ruolo delle truppe. Ora, del tutto indipendentemente dalle intenzioni dell’autore, va detto senza tanti giri di parole che una simile classificazione può trovare più di una sponda favorevole tra le categorie politico-sociologiche dei fascismi. Il problema principale tuttavia non è questo. La questione di fondo è che La Grassa abbandona la soggettività di classe di tipo marxista, notoriamente problematica, per proporre una classificazione forse ancor più ambigua. Solo per citare un esempio: abbiamo elementi che ci permettano di considerare il “caso Lenin” più facilmente interpretabile in base alle categorie lagrassiane rispetto a quella del partito rivoluzionario d’avanguardia di classe? La risposta è a nostro avviso chiaramente negativa. Su questo punto decisivo il gioco pericoloso di La Grassa non sembra dunque valere la candela.

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