Fachinelli e/o Fortini?
di Ennio Abate
Prima parte
Elvio Fachinelli, il desiderio dissidente (Quaderni Piacentini n. 33 - febbraio 1968)
Dietro front. Torno al 1968. In quell’anno lessi pure «Il desiderio dissidente» sul n.33 – febbraio 1968 dei «quaderni piacentini». Un saggio calato – oggi direi: quasi affogato – in un presente che allora ribolliva. Fachinelli parlava di «movimenti di dissidenza giovanile del nostro e degli altri paesi ad alto sviluppo industriale». Li diceva fragili nei «contenuti programmatici» e nei «comportamenti», ma tenaci: non si facevano riassorbire dal Sistema, dal Potere. Diceva. Ma chi era per me, che partecipavo all’occupazione della Statale di Milano (qui), Elvio Fachinelli e che effetti ebbe su di me quella lettura? Un nome che sentivo per la prima volta, uno psicanalista. Visto appena – una sola volta, mi pare nel 1988 – vent’anni dopo tra il pubblico della Casa della Cultura di Via Borgogna. E, quando lessi quel suo saggio, sulla psicanalisi avevo al massimo curiosità, sospetti o idee libresche e incerte. Forse, se non fosse stato pubblicato sui «quaderni piacentini», neppure l’avrei notato. Perché l’ideologismo della politica al primo posto, impostosi per tutti gli anni Settanta, mi aveva raggiunto e preso in ostaggio.
La prima reazione fu di simpatia. Nelle parole di Fachinelli ritrovavo, espresso su un piano intellettuale autorevole e argomentato, quel desiderio di libertà e di cambiamento, che sentivo attorno a me. Ma il ghiaccio sociale sembrava rotto anche per me. Uscivo dall’isolamento dell’immigrato, che in una Milano a lui sconosciuta era riuscito a stabilire fino ad allora poche e limitate relazioni, mi ritrovavo di botto tra compagni e compagne e ascoltavo con piacere discorsi di denuncia, svecchiamento e rivolta. Eppure impacci e dubbi restavano; e si svelarono anche in quella mia lettura.
Fachinelli scriveva che la dissidenza giovanile non faceva «uso di bibbie»; che le «intelaiature ideologiche» non reggevano più diventando presto «obsolete»; esaltava il cartello di protesta con la scritta: «lotta alla repressione». Ma a me pareva che esagerasse, fosse ottimista, disinvolto, moderno, metropolitano. Troppo. Questa impressione mi veniva anche – l’ho capito col tempo – dalla mia esperienza di periferico. Dopo il fallimento delle prime relazioni che m’ero costruito sbarcando a Milano, ero finito nell’hinterland, a Cologno Monzese. Lì abitavo nel ’68 e abito ancora definitivamente. E la differenza tra centro di Milano e periferia non riuscii mai più ad accantonarla o a relativizzarla. Anzi anche su di essa ho imparato a misurare il valore di me stesso e della gente che incontro. Il disagio misto a invidia che me ne veniva mi faceva notare più immediatamente lo scarto tra il linguaggio di Fachinelli – (ma la cosa valeva anche per quello dei leader del movimento studentesco o dei docenti della Statale; e, poi, di altri dirigenti politici o intellettuali che ho incontrato e frequentato) – e il mio o di quelli che frequentavo quotidianamente. Mi feci l’idea che quel saggio non era diretto proprio a me e a quelli come me, più incerti o confusi nel valutare i fatti eccezionali che stavano accadendo, ma a persone che mi apparivano più libere, più intellettuali di me e più addentro alle questioni che io affrontavo per la prima volta. Che appartenevano – per condizioni di vita, cultura, linguaggio, modo di stare in pubblico – a un altro giro rispetto a quello che trovavo in periferia. E io non ne facevo parte, anche se, avendo ripreso l’università, un po’ cominciavo a frequentarle e a conoscerle.
Era solo un mio complesso di inferiorità? Col cavolo. L’impaccio mio aveva ragioni più profonde e vere. Allora le sapevo indicare a stento. Poi – leggendo Brecht, Marx, Lenin, Fortini, i quotidiani e le riviste della “nuova sinistra” e scegliendo di entrare in Avanguardia Operaia – imparai a pensarlo come effetto (uno dei tanti) delle differenze e dei conflitti di classe sociale. E questi effetti si manifestavano allora nella mia imbranataggine. Facilmente equivocavo, non mettevo bene a fuoco i discorsi degli intellettuali. O, nel caso del saggio di Fachinelli, nel non capire certi passaggi del suo scritto.
Quando, ad esempio, Fachinelli se la prendeva con «alcuni critici di sinistra», io pensavo che non si riferisse a tutta la sinistra, alla quale mi pareva di dovermi avvicinare per sfuggire al peso dell’educazione cattolica ricevuta al Sud, ma solo a una parte di essa: quella “revisionista”, che già allora, se pensavo a certi studenti del PCI, che durante l’occupazione mi avevano dato la brutta sensazione di essere tra i più moderati e a rimorchio del movimento studentesco o sempre pronti a ostacolare rivendicazioni che a me parevano giuste e condivisibili, mi era poco simpatica. E se drizzavo prontamente le orecchie quando Fachinelli accennava alla funzione repressiva dell’autorità paterna – da mio padre, in effetti, un bel po’ di “repressione” credevo di averla subìta; lo stesso dai preti e dai professori del liceo – a sentirlo parlare della teoria del complesso di Edipo – questione non solo complicata ma controversa – avendo orecchiato (perché così prontamente?) le critiche che la presentavano come non scientifica – tornavo a non raccapezzarmi. E lo stesso succedeva su molti altri punti del saggio, quando Fachinelli diceva che, nella psicanalisi, dai tempi di Freud le cose erano diventate ancora più complicate; che la figura paterna s’era andata indebolendo; che erano emersi «elementi di impotenza, di dipendenza incondizionata e totale che l’analisi freudiana aveva appena intravisto»; che alla «relazione triangolare» (padre, madre, bambino)» sempre più spesso si era andata sostituendo «la relazione bipolare madre-bambino». Su tutto ciò non sapevo che pesci pigliare. E mi disorientava ancor più che Fachinelli, in appoggio alla sua tesi della «effettiva debolezza del padre nella società», citava – ed erano autori, di cui cominciavo appena, in quegli anni di ripresa degli studi, a sentire più spesso i nomi, ma di cui nulla avevo letto – un testo di Horkheimer e Adorno dalle «Lezioni di sociologia».
Ancor più tentennavo sul brano in cui proclamava che il gruppo aveva messo «in moto la dialettica del desiderio»; e quindi «ogni meta e proposta [era] superata nel momento stesso in cui [era] raggiunta […] dunque ciò che conta[va] non [era] la meta, non [era] la proposta in sé, più o meno “reale”». Mi pareva di ritrovare qui il mio sventato e un po’ folle romanticismo giovanile, che mi aveva spinto a interrompere gli studi e a catapultarmi da solo, senza appoggi e senza mete – da Salerno a Milano. Dopo quella mia dolorosa esperienza, trovavo questa tesi di Fachinelli troppo poetica, troppo estetica. Non riuscivo proprio a convincermi che, per la sopravvivenza del gruppo, non contava «l’oggetto del desiderio». Specie per un gruppo politico. E più tardi, rileggendo il saggio a distanza di anni, mi sono chiesto: quindi, un qualsiasi oggetto del desiderio va bene? Anche se fosse malvagio? E poi quel pretendere di permanere in «un perenne NON BASTA»? O quel mantenere – ma come? – «la tensione utopica così organizzata [che] è la sola possibilità efficace di negazione di questo presente»? O quell’invito a puntare a una «ostinata “obiezione d’incoscienza” del desiderio, che si estende dal “sogno”, all’”astrattezza”, fino all’agire “folle” e “fuori delle regole»?[1]
Ecco, tutto questo mi pareva allora e mi è parso anche dopo un “lusso” (il lusso della follia?), che io e credo i tanti, che vedevo nelle mie condizioni di vita o in condizioni anche più pesanti, non potevo, non potevamo permetterci. (A meno che…).
Nel 1968 ero pronto a concedere a molti – e anche a Fachinelli – una competenza e una comprensione del nuovo in arrivo più chiara della mia. Non volevo rinunciare, però, a trovare gli indizi, i segni, le prove per accertarmi che questo nuovo non si riducesse ai momenti intellettualmente eccitanti che trascorrevo ad ascoltare i discorsi che si facevano nella Statale occupata. E testardamente constatavo che di questo nuovo né nei miei studi liceali di provincia né nei ricordi della mia giovinezza salernitana né nelle esperienze di immigrato e poi di lavoratore studente trovavo traccia sufficiente. E perciò provavo attrazione e perplessità verso quella «vitale ambiguità dell’appello sessantottesco contro la repressione e l’autoritarismo» che Fachinelli tanto esaltava.
Per lui quel movimento di giovani andava già oltre, metteva completamente in causa «i modi tradizionali di concepire e fare politica», sembrava «sgusciare verso qualcosa di nuovo, si muoveva «verso bersagli più lontani delle vecchie figure di autorità (gli uomini che si dicono di ferro, che parlano più forte, che minacciano la morte nucleare)», pur se «per forza ancora informe».
Ma per me? Davvero i giovani (e io con loro?) si trovavano di fronte a «una immagine o fantasma di società» che prometteva una «più completa liberazione dal bisogno», minacciava «una perdita dell’identità personale», e cioè «la perdita di sé come progetto e desiderio»? La cosa non mi era così chiara. E che dire della tesi dell’indebolimento della figura paterna, per cui i giovani si ritrovavano (e io con loro, che pur ero già sposato e avevo due bimbi?) nella «situazione angosciante che è stata quella del rapporto con la madre»? Altri dubbi. Forse la tesi valeva per i giovanissimi, – mi dicevo – ma non per me. Altrettanto mi era poco evidente che più spesso che in passato – rispetto a padri e nonni – i giovani (e io lavoratore studente con loro?) si dibattessero di fronte alla figura – da identificare con la Società, col Sistema? – di una «madre buona e “gratificante” [che era] nello stesso tempo la strega malefica e divoratrice», per cui «il nutrimento e l’amore che essa ci dà sono continuamente minacciati, nella fantasia infantile, dalla sua capacità distruttiva, Il cibo che ci offre è quindi pagato con la dipendenza totale».
A distanza di tanti decenni non vorrei rappresentarmi con compiacimento come un attardato e imbranato provinciale che entra a contatto con l’Alta Cultura del Novecento per banalizzare un sapere psicanalitico, che poi, in ritardo, pur ho studiato, approfondito e contestualizzato. E proprio sui libri dello stesso Fachinelli, di Jervis o di Ranchetti. Voglio soltanto spiegare a me stesso che non so fino a che punto capii o potevo capire quel saggio. E sostenere che la mia incomprensione aveva qualche buona ragione e qualcosa non quadrava nella stessa analisi di Fachinelli, malgrado l’importanza che essa ebbe nelle vicende mie e di quella generazione sessantottina.
Fachinelli non era un isolato: i suoi ragionamenti audaci trovavano conferme in altre riflessioni di rilievo: di Reich, di Marcuse. Corrispondenze parziali tra la sua analisi e quello che avevo vissuto o stavo vivendo c’erano. Il suo scritto mi fece cogliere meglio sensazioni, sentimenti e comportamenti dei singoli, che io pure notavo durante le manifestazioni di piazza, le assemblee, i controcorsi. E la sua influenza su di me fu forte, se mi forzai persino – (facendo azzardati cortocircuiti) – a cercare risonanze sociali e politiche di quella sua sensibilità da psicanalista nella tradizione degli anarchici o nella storia del movimento operaio – (pensai ai consigli di fabbrica, al primo Gramsci de L’Ordine Nuovo) – che stavo studiando. Ma qualcosa mi frenava. Malgrado mi colpisse l’acutezza della sua intelligenza nel delineare le pieghe ambigue del movimento studentesco, sicuramente composto a maggioranza di giovani, e in certa misura anche della mia partecipazione ad esso. Perché, quando Fachinelli accennava all’«uso quasi ossessivo, da parte della dissidenza, di parole come “inserimento” e “integrazione” [o al] consumo vorace, e simultaneo, di testi apparentemente antitetici (Levi Strauss e Marcuse, per esempio)», era come se fotografasse le ambiguità della mia stessa affannosa acculturazione.[2] E però il suo discorso psicanalitico era in attrito con quelli che andavo assorbendo durante le lezioni alla Statale di Gambi, Della Peruta, Berengo, Catalano, Caizzi: i docenti del corso di lettere a indirizzo storico che avevo scelto alla ripresa degli studi. E io ero deciso a non interrompere quegli studi e quelle letture mirate agli aspetti politici, sociologici, storici, economici della società.
La pulce nell’orecchio Fachinelli, però, me la mise (o feci in modo che me la mettesse). Non so se avrei dovuto e potuto occuparmi di più allora di questo autore e di psicanalisi. Col passare degli anni e dopo l’esaurimento del periodo della militanza politica in Avanguardia Operaia, ho capito che dare più ascolto allora a Fachinelli avrebbe messo in discussione o in crisi quel mio processo di acculturazione alla politica, che condussi da apprendista troppo zelante quasi per rimediare alla trascuratezza precedente di cui mi rimproveravo.
Fachinelli, infatti, interrogava e metteva sotto la sua lente d’ingrandimento psicanalitico proprio quella spinta alla militanza politica che mi portò nella nascente Avanguardia Operaia. Era come se il suo saggio mi ponesse domande imbarazzanti, che solo più tardi sono riuscito a formulare: ma tu stai cercando davvero il “nuovo” come lo cercano i giovani del ’68 di cui io ti parlo? Ti sei messo davvero con quelli che questo “nuovo” (o la “rivoluzione”) lo vogliono? Non è che, dopo esserti sottomesso all’ autorità della Chiesa cattolica nella tua infanzia e prima gioventù, ora vai a metterti sotto l’Autorità della “Chiesa rossa” o, se non del PCI, dei fratellastri che a esso si ribellano? Non è che questi sostenitori della necessità di costruire un nuovo Partito rivoluzionario, finiscono anch’essi per rifiutare «“teoricamente” da sinistra un movimento nuovo perché non vi [riscontrano] l’immediata urgenza del bisogno» o assimilano «la nuova forma rivoluzionaria a vecchi schemi»?
Mi pungeva abbastanza il suo sarcasmo quando sornione annotava: «Come se la spinta al desiderio fosse meno “materialistica”; o addirittura un’astuta invenzione dell’avversario». Ma, leggendo poi di lui anche «Gruppo chiuso o gruppo aperto?» («quaderni piacentini», n.36, novembre 1968), dove criticava tutta quella «tensione verso l’avanti» o tutta quella retorica di una «situazione pressoché paritaria», che riscontravo io pure in assemblee e controcorsi e poi nelle riunioni di Avanguardia Operaia, o i passi dove invitava a diffidare del leaderismo e a «valersi di capi in statu nascendi», non potevo non dargli un po’ ragione, anche se non capivo come si potesse arrivare a «decisioni e proposte sempre prese in comune elidendo o quasi del tutto la figura rappresentativa, sia essa patente o “latente”».
Tutte queste perplessità si rafforzarono dopo la lettura della replica di Fortini a Fachinelli. Ne parlerò nella seconda parte di questo capitolo.
* * * *
Seconda parte
Franco Fortini, il dissenso e l'autorità (Quaderni Piacentini n.34 - maggio 1968)
Dicevo nella conclusione della Prima parte: «Tutte queste perplessità si rafforzarono dopo la lettura della replica di Fortini a Fachinelli».
Sul numero successivo dei Quaderni Piacentini – il 34 del maggio ’68 – nel saggio «Il dissenso e l’autorità» di Franco Fortini trovai, infatti, un immediato contrappunto al discorso psicanalitico del saggio di Fachinelli.
Qui si suonava un’altra musica, dissonante rispetto a quella utopistica e suadente-ambivalente di Fachinelli. Ho pensato più tardi che, leggere Fortini dopo Fachinelli, fu come passare dal tiepido-bollente dell’occupazione della Statale di Milano a una doccia fredda in una stanza appartata e in ombra. Vediamo perché.
Innanzitutto, Fortini parlava di studenti e movimento studentesco in Italia e non di giovani. Nei discorsi di allora (e di oggi) le due categorie si mescolavano o sovrapponevano ma indicavano già un differente modo di accostare il fenomeno: in termini esistenziali per Fachinelli, in termini sociali e storici per Fortini. E, infatti, il saggio di Fortini partiva proprio dagli effetti che quel movimento studentesco stava avendo su una larga e composita “opinione” genericamente democratica di varia provenienza culturale e ideologica (cattolici, anarchici, socialisti, comunisti); e rianimava anche – aggiungo io – i nuovi «piccoli gruppi intellettuali politicizzati», come quelli di «Quaderni rossi» o «Quaderni piacentini», che negli anni precedenti erano sorti al di fuori dei partiti e in rotta più o meno chiara con loro. E, perché no, sullo stesso Fortini, che nel ’68 era oramai un cinquantenne. Infatti, le sue speranze nei confronti di quel movimento così nuovo, inatteso e sorprendente non erano meno intense di quelle di Fachinelli o di tanti altri.
Erano, però, di segno diverso. «L’anno degli studenti» (Rossanda) Fortini lo collegava a quelli di un passato, lontano e ormai oscurato, di lotte per il socialismo. E quando scriveva: «i giovani pronunciano le mete della rivoluzione socialista ignorandone i principi», pur riconoscendo con realismo che, nell’immediato, erano «più vicini agli utopisti che a Lenin»[3], si sentiva che scommetteva sulla ripresa di quelle idee e pratiche.
Anche se a una condizione: «se la richiesta etica [dei giovani, di quel movimento studentesco] si fosse misurata alla realtà dei rapporti di classe». Solo così, per lui, «gioia, integrità e autenticità» – i caratteri più osannati di quel movimento – «sarebbero facilmente apparse, come sono, beni non individuali che si realizzano solo nell’azione comune per una meta».
Ora a Fachinelli, che era interessato esclusivamente alla funzione repressiva dell’autorità paterna e a sottolinearne l’indebolimento se non l’evaporazione e assecondava il «desiderio dissidente» così diffuso nello stesso movimento studentesco, di misurare «la realtà dei rapporti di classe» nulla importava. Da qui il contrasto netto tra i due.
Fortini quell’autorità proprio non rinunciava a rappresentarla lui stesso. O almeno a indicarne l’assoluta necessità.
Quello dei giovani, specie nella versione psicanalitica di Fachinelli, per lui era «spontaneismo etico»,[4] che sarebbe finito per chiudersi nel «conflitto con le autorità accademiche» o che si sarebbe smarrito in una «indefinita protesta».[5]
E non è che, così ragionando, Fortini negasse valore alla lotta in corso contro l’autoritarismo. Era una lotta «positiva e [andava] estesa e intensificata nei fatti», scriveva. Non a vanvera, però, ma dove l’autoritarismo si manifestava effettivamente e produceva i suoi danni su individui e vita sociale. Quindi, andava evitata la trappola di un «uso ideologico» dello slogan «Contro l’autoritarismo» (Viale) o di un suo «uso parolaio e demagogico».
Criticava, di conseguenza, anche le pratiche del movimento studentesco. Anzi «l’idea stessa di occupazione» delle università, sebbene fosse stata una parola d’ordine che aveva coagulato le energie prima soffocate degli studenti in tante città dal Nord al Sud d’Italia. Per lui occupare le università in molti casi era stato sintomo di «povertà e nevrosi da assedio». Un atteggiamento solo difensivo, quindi limitato e carico di implicazioni negative.[6]
«Oltre l’autoritarismo c’è l’autorità», ricordava. Che, a differenza di quanto affermava Fachinelli, restava un problema aperto, con cui fare i conti. E qui portava l’esempio del marinaio di guardia al ponte – un possibile militante che lui aveva in mente per gli anni venturi, modellato su un po’ idealizzato antenato proletario? – , che nell’Ottobre del 1917 aveva respinto «senza tanti argomenti tutto un secolo di ideologia democratico-borghese nelle persone del Consiglio municipale di Pietrogrado in corteo patriottico verso il Palazzo d’inverno […] perché (ma è tutto) a due chilometri di distanza sta lavorando il cervello di Lenin che direttamente o indirettamente lo ispira (e se ne ispira)».
Il cervello di Lenin! Ecco, per Fortini, un esempio di vera autorità, non di autoritarismo.
Contro il fascino dell’informe bisognava, dunque, riconoscere «la guida di quel che è più e che precede»: «Hai l’autorità di un pensiero, di una verità, di un esempio». E non è detto che venga per forza dall’esterno, dagli altri o dai grandi pensatori, politici o scrittori. Perché aggiungeva: «finché non viene contestata in nome di una più alta, c’è l’autorità della propria esperienza», che resta una valida bussola a cui ricorrere, specie in situazioni estreme o d’isolamento.
Si chiedeva anche come si potesse lottare contro l’autoritarismo «se non se ne sa il perché»; cioè «se non si sa in nome di quale autorità si combattono le forme e le armi di cui si veste l’autorità che rifiutiamo. In nome, insomma, di quale prospettiva».
Ci voleva, dunque, «una ipotesi teorica» (da non confondere con un «sistema o dottrina politica»). Né si doveva «opporre, all’autorità, l’eguaglianza» come se l’autorità fosse la base, il fondamento della diseguaglianza. L’ eguaglianza era un’esigenza, certo. E andava posta come problema, chiarendo però di quale eguaglianza si stesse parlando.
Criticava, perciò anche le semplificazioni “egualitaristiche” di certi «controcorsi sulla repressione sessuale e sull’imperialismo e sul Vietnam […] svelti, senza biobibliografie né parole difficili». Erano la semplice «sostituzione di un’autorità con un’altra», ma compiuta «nel modo più autoritario ossia più ricco di pregiudizi semplificatori». Si buttino pure via – diceva – le «vacue bibliografie», ma «a patto di sapere perché e in nome di quale pensiero – ossia in nome di quale “bibliografia”» (o autorità) ci sbarazziamo delle prime.
Nella prospettiva comunista per Fortini non bastava «solo l’eguaglianza delle condizioni; ossia del punto di partenza», che anche una società capitalistica – si pensi ai tanti discorsi che ancora girano a vuoto sulle “pari opportunità” – potrebbe in teoria concedere. Egli chiedeva «l’eguaglianza delle conclusioni [che] vuol dire la massima omogeneità dei destini e dei comportamenti come conseguenza della loro massima integrazione».[7]
Per questo saggio e per tante altre prese di posizioni Fortini è stato di continuo accusato di alzare l’ormai proverbiale “ditino ammonitore”. I toni dei suoi interventi a molti (anche del suo giro letterario) sono parsi sempre troppo religiosi e biblici. O (nel giro dei “politici”) troppo letterari e classicheggianti.
In questo saggio, ad esempio, egli riconduceva quelle nuove “emozioni di massa” al tradizionale romanticismo, sospettandole di «estetismo».
Si sbagliava? Eppure oggi tra l’ironico e il serio mi vien da pensare che già in quel ’68 e in Fachinelli sentiva puzza di zolfo, se non già – azzardo! – la preparazione di quel “ritorno di Nietzsche” o della «Nietzsche Renaissance» (qui), che poi a partire dagli anni Ottanta del Novecento ha fatto strage dei pochi marxisti in cattedra nelle università italiane e li ha sostituìti con professori rigorosamente heideggeriani.
È certo, però, che non a torto le tracce dello zampino di Nietzsche in quell’ondata di “desideri dissidenti” ce lo vide. E da marxista adorniano-lukacciano, leggendo una contraddizione, dove Fachinelli con troppo sornione ottimismo vedeva soltanto «vitale ambiguità», reagì contro di lui a muso.
Quella per Fortini era una “questione di frontiera”. E, intransigente, pose un aut-aut: «Allora bisogna essere molto espliciti: bisogna dichiarare che ognuno è padrone di essere neonietzschiano ma non di parlare, nello stesso tempo, di condizionamento di classe o di proletariato». E a Fachinelli contrappose senza addolcimenti diplomatici la lezione marxista: «il discorso marxista non è […] una alternativa a quelle ipotesi di comportamento [desiderante, tragico]. Non ha niente a che fare con la “felicità”, non può proporre altro che una interpretazione parziale del mondo e saper di proporla».
Fortini difendeva la «parzialità proletaria» (quella della classe operaia o dei lavoratori e degli sfruttati contrapposta a quella dei borghesi o capitalisti e dominatori). Che non andava identificata con la «volenterosa Negazione della Negazione», tanto esaltata dai «tenebrosi Geni della Distruzione e dell’Odio».[8] Ci voleva, invece, una «visione politica di minoranza», capace di farsi strumento per «l’estensione della coscienza politica a una massa». Al posto di contemplare fuori dal tempo e dalla storia l’informe o di persistere in una astratta «tensione utopica», bisognava fare politica ed estendere agli altri, a molti altri la coscienza raggiunta da quella minoranza. Al posto degli atteggiamenti antipolitici o impolitici, che comunque persistevano anche in quel ’68 di forte risveglio e impegno politico, Fortini con un accenno fortemente didattico, gramsciano e più avanti maoista, chiedeva un di più di politica, «un grado elevato di coscienza politica».
Il nuovo non c’era già, là a portata di mano. Non bastava raccoglierlo. Bisognava costruirlo. E, per costruirlo, ci volevano tutte le possibilità moderne di informazione e comunicazione». Non una «semplice estensione» degli strumenti già esistenti che sono stati «creati per i bisogni del dominio capitalistico». C’era bisogno di una «invenzione di strumenti nuovi o [un] nuovo uso dei già esistenti». Solo il «rifiuto di ogni delega» – su questo punto era in accordo con Fachinelli – e «l’estensione alla massa di nuovi mezzi di informazione e comunicazione capaci di rendere praticabile quella democrazia diretta di cui ridono solennemente i professori» potevano correggere lo «spontaneismo etico».
Di quei giovani o di quegli studenti in moto nel ’68 quanti sapevano di quel passato di lotte per il socialismo o intendevano misurare la propria rivolta su quelle di ignoti antenati o cogliere la differenza – non certo solo scolastica – tra utopisti e Lenin? O – si potrebbe dire oggi – quella tra Fachinelli, che vedeva il movimento «sgusciare verso qualcosa di nuovo», «qualcosa che è per forza ancora informe», e Fortini, che a esso (ai giovani, agli studenti, ma più direttamente allo stesso Fachinelli, suo immediato interlocutore, essendo entrambi collaboratori dei Quaderni piacentini) rivolgeva la sua critica tagliente?[9]
* * * *
Terza parte
1.
Nel clima agitato del ’68 era facile tagliare con l’accetta, non avendo il bisturi. A me, nei due scritti di Fachinelli e Fortini, fu difficile distinguere distanze, contrapposizioni o concordanze tra le loro posizioni. O capire a quali dimensioni sociali e politiche diverse – cosmopolite o internazionaliste? – si richiamavano.
Nei decenni successivi, smorzatosi prima il movimento e dispersosi poi, con la tragedia dell’uccisione di Aldo Moro nel 1978, anche la nuova sinistra, sono spesso tornato a riflettere su quelle loro parole.
A rileggerli, i due saggi mi sono parsi frontalmente opposti già nei titoli: quello che per Fachinelli era centrale (il desiderio), per Fortini era soltanto un «benefico fall-out» [ricaduta], un evangelico «sovrappiù».10
Forse vale ancora la pena di riassumere i punti di contrasto.
Per Fachinelli era riemersa anche in Italia una giovanile e inappagabile tensione, che avrebbe dovuto allenarsi al continuo rifiuto di ogni rappresentanza partitica – (i giovani avrebbero dovuto prendere le decisioni sempre in comune e accettare solo leader provvisori) – e opporre al nemico «un perenne NON BASTA», erodendone il potere repressivo delle Istituzioni con una «ostinata “obiezione d’incoscienza” del desiderio, che si estende dal “sogno”, all’”astrattezza”, fino all’agire “folle” e “fuori delle regole».11
Per Fortini un tale atteggiamento era romanticismo (negativo), niccianesimo, da respingere e non mescolare con Marx o Lenin, per non precipitare nella «volenterosa Negazione della Negazione» (Hegel) o subordinarsi ai «tenebrosi Geni della Distruzione e dell’Odio».
Fachinelli parlava di un recupero dell’infanzia12 contro il rischio di addomesticamento del movimento e vedeva i giovani «sgusciare verso qualcosa di nuovo, qualcosa che è per forza ancora informe».
Fortini, invece, chiedeva al movimento degli studenti di riallacciarsi al passato della storia socialista rivoluzionaria, che gli pareva potesse, a certe condizioni,13 rivivere. E, però, doveva riconoscere che nell’immediato erano «più vicini agli utopisti che a Lenin»;14 e, di conseguenza, più alla sensibilità di Fachinelli che ai suoi ragionamenti da marxista.15
Insomma, Fachinelli voleva avanzare senza caricarsi mai più sulle spalle il vecchio Anchise (di sinistra, marxista) e muoversi in compagnia di Nietzsche e Freud. Fortini si aspettava che fossero gli studenti – gli intellettuali di massa – a caricarsi sulle spalle l’Anchise cristiano-comunista, che egli ed altri s’era portati appresso durante la loro esperienza di militanti comunisti e socialisti del secondo dopoguerra.
La contrapposizione fra Fachinelli e Fortini non era occasionale. O limitata all’interpretazione del movimento giovanile/studentesco del ’68. Anche le loro letture della cultura del passato, in parte comune a entrambi, perché si riferivano entrambi a Brecht, Benjamin o Adorno, erano diverse e in parte contrapposte. E, infatti, nel settembre 1976, la prima iniziativa della neonata casa editrice L’erba voglio diretta da Fachinelli fu la pubblicazione, con il titolo provocatorio di Minima imMoralia, degli aforismi mancanti nell’edizione italiana curata da Renato Solmi per Einaudi nel 1954 ei Minima Moralia (Cfr.https://www.poliscritture.it/2021/08/20/minima-immoralia/).
Ho pensato spesso di poter far risalire lo scontro tra i due a quello tra la corrente calda e la corrente fredda della storia del movimento operaio intravisto ai suoi tempi da Ernst Bloch.16
Erano proprio due visioni contrapposte. Entrambe “militanti”. E una medesima speranza veniva forse declinata in quei modi diversi e contrapposti. Con delle inevitabili forzature in senso più indeterminato e libertario da parte di Fachinelli e in senso molto (o troppo?) determinato e leninista da parte di Fortini. Ma poi, intervenuta la sconfitta per entrambe le loro posizioni mi hanno sempre particolarmente colpito sia l’episodio del «diverbio» tra Fachinelli e Fortini, che nel 1986 il secondo rievoca in una nota di «Psicoanalisi e lotte sociali»,17 e sia il suo successivo rammarico per le sue «inadempienze verso persone a cui s’è voluto bene e con le quali non si è stati abbastanza umani, abbastanza affettuosi, abbastanza pieni di amore» (Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, Bollati Boringhieri, 2003, pag. 700) o l’elogio di Fachinelli al momento della morte.18
2.
Quando partecipai al movimento studentesco del ’68, la mia infarinatura liceale di niccianesimo o romanticismo giovanile s’era esaurita a contatto con la realtà sociale di Milano e della periferia e la mia partecipazione all’occupazione della Statale non la ridestò né me la rese di nuovo attraente.
Avevo allora pochi rapporti con quel tipo di giovani o studenti che dirigevano assemblee e manifestazioni e viaggiavano o avevano amici e relazioni in altri paesi. E se il movimento era composito e fatto di vari pezzi, io non ero in quel pezzo più libertario che entusiasmò forse Fachinelli. Alla vigilia dell’occupazione della Statale avevo intessuto legami soprattutto con quelli che facevano parte del pezzo che parlava di lotta di classe, di classe operaia e lavorava nelle fabbriche o guardava alle fabbriche. Forse Fachinelli quel mondo giovanile medio-alto borghese lo conosceva da vicino e ne coglieva meglio di Fortini la dimensione mondiale americanizzante.
Era la mia stessa condizione di studente lavoratore proletarizzato che faceva da schermo respingente verso quel desiderio dissidente teorizzato con tanto entusiasmo da Fachinelli. Fu per questo che il suo discorso mi arrivò attutito. Poi, con la scelta di militanza in Avanguardia Operaia, gli scritti sia di Fachinelli che di Fortini come di altri autori dei Quaderni Piacentini o di altre riviste del tempo andarono in secondo piano. Rimasero per me letture personali, altra cosa dal discorso che m’impegnava coi compagni di Avanguardia Operaia, da tenere per me, sapendo quanto fossero sospettosi verso letteratura, psicanalisi e ogni interesse culturale non strettamente politico.
Nei quasi 10 anni successivi al 1968, gli scritti di Fachinelli li lessi con più distacco rispetto a quelli di Fortini, che leggevo su “il manifesto” e mi parevano confermassero o non si allontanassero troppo dalla mia esperienza di allora – di militante di Avanguardia Operaia, lavoratore studente, immigrato, vita in periferia e pochi soldi.
Entrambi mi tornarono a parlare, dai loro libri, anni dopo ma in periodi diversi. Fortini dopo la fine della mia esperienza politica in Avanguardia Operaia, verso la fine degli anni ’70 e in particolare dal 1977, dopo la lettura di Questioni di frontiera. Fachinelli, che non ho mai conosciuto di persona – l’intravvidi solo una volta, attorno al 1988,alla Casa della Cultura di Milano tra il pubblico durante una conferenza di Sergio Bologna sui Verdi tedeschi – e di cui avevo poi sentito parlare spesso da Giancarlo Majorino, tornò nella mia riflessione molto più tardi, alla fine degli anni ’80, quando la mia crisi, da politica, tornò a essere esistenziale e familiare. Fu allora che lessi Il bambino dalle uova d’oro e La mente estatica. A Milano nel 1998 seguii il convegno sulla sua figura e la sua opera(qui) e mi parve che l’aspetto politico-sociale, che più poteva averlo avvicinato e messo anche in urto con Fortini, venisse cancellato:«il Fachinelli dissidente, un Sansone della contestazione, è morto con tutti i “filistei” e i “padri” dell’Ideologia (marxista o psicanalitica) operanti in quegli anni; e resta un Fachinelli “New Age” o “fach/iro”, orientaleggiante, estaticamente contemplativo magari del futurismo Internet o delle Origini maternali».
3.
Ma Fachinelli – mi chiesi più tardi – era poi un ingenuo esaltatore di quella marea desiderante? Dal suo saggio del 1968 avrò avuto quell’impressione. Ma quando, sempre alla fine degli anni ’80 arrivai a leggere Cosa chiede Edipo alla Sfinge sul numero 40 (aprile 1970) dei Quaderni piacentini mi accorsi dell’errore di avergli attribuito un certo roussovismo.
Nelle mie successive riflessioni ho accantonato ogni velleità di trovare una risposta alla questione del rapporto fra marxismo e psicanalisi o sulla scientificità o meno della psicanalisi. E ho abbandonato anche il dilemma se si dovesse scegliere tra i due orientamenti o tra le posizioni di Fachinelli e quelle di Fortini.
Oggi poi che rileggo i loro scritti, sapendo che le ipotesi affacciatesi nelle loro menti in quell’anno di speranze sono oramai sconfitte e svanite, quali domande potrei ancora farmi su entrambi?
Non mi pare che valga più la pena scervellarsi per stabilire chi tra i due avesse più ragione o fosse più proiettato nel futuro. E userei per entrambi la formula «Aveva torto e non avevo ragione» che usò Fortini nei confronti del suo fraterno antagonista Pasolini.
So che valgono poco le mie impressioni su l’uno o l’altro. O ricordare – a chi poi? e con quale scopo oggi? – che Fortini mi è potuto apparire “più concreto” di Fachinelli. Subito dopo mi dovrei correggere, pensando che lo fu anche Fachinelli, se aveva posto il problema di allargare il “pubblico della psicanalisi” agli esclusi, ai proletari; e se aveva partecipato attivamente all’esperienza dell’Erba voglio e dell’asilo autogestito di Corso Ticinese a Milano.
Meglio, perciò, continuare a leggerli. E difendere, e salvare sia la lezione di Fortini, alla quale mi sono sentito più vicino per le ragioni che detto, e sia quella di Fachinelli. E a non mollare l’antipatia per molti dei rispettivi apologeti o discepoli più accreditati che oggi ne gestiscono l’immagine pubblica (qui).
Nella riflessione di entrambi entrava, assieme al “carattere” e alle “ideologie” in conflitto, il reale e non la sua attuale versione amputata e caricaturale. Troveremmo perciò, in entrambi, una capacità oggi persa di nominare molto più da vicino le sofferenze individuali e collettive.
E allora? Concludo riproponendo quanto scrivevo in quel lontano 1998: «Il limite astorico dell’inconscio o del desiderio dissidente è problema enorme e irrisolto per qualsiasi progetto, sia esso di spostamento o di rinnovamento o di rivoluzione. Allora [nel ’68] la contraddizione era più visibile; e Fachinelli e Fortini polemizzavano fecondamente. Oggi, ridotte politica e gestione psicanalitica dell’inconscio a professioni ipocritamente rispettose del proprio specialismo, la contraddizione non si sa se c’è o non c’è più. E, così restando, indisturbate, non ci sarà possibilità reale né di politica innovativa né di desiderio costruttivo».