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Virus “cinese” e boomerang di ritorno
di Michele Castaldo
«A lungo gli storici hanno ignorato l’importanza delle malattie infettive come attori della storia».
Laura Spinney
Nel luglio del 1989, subito dopo i fatti di piazza Tien an Men, ebbi l’opportunità di andare in Cina insieme a Paolo Turco, un compagno della mia stessa organizzazione internazionalista, per un viaggio offerto dal governo cinese a varie agenzie di viaggio per dimostrare che in quel paese regnava la tranquillità e che le famose rivolte degli “studenti” erano state sconfitte «con quattro scappellotti» come disse il sindaco di Pechino presente al pranzo ufficiale, offerto in nostro onore, nel più grande albergo di Pechino. Quel viaggio mi si scolpì nella memoria, perché
avevo desiderato per oltre 20 anni di andare nel paese di Mao, del libretto rosso, delle Comuni e del «fuoco sul quartier generale», e dopo solo due giorni avremmo voluto rientrare immediatamente in Italia. In due settimane visitammo, in un pazzesco tour de force (si scendeva da un aereo e si saliva su un treno, poi su un pullman) Hong Kong, Shanghai, Guangzhau, Wuan, Lanzou, Xian, per ultimo Pechino, da cui partimmo per rientrare finalmente in Italia.
Che impressione riportammo? Di un immenso cantiere, di una società entusiasta al punto da apparire nevrotica, di un popolo che non credeva ai propri occhi per i livelli di sviluppo e di benessere che andava costruendo, e – soprattutto – un’aria umida e appiccicaticcia, irrespirabile nel vero senso della parola. D’accordo che eravamo in luglio, ma la peggiore afa estiva delle nostre città era aria d’alta quota rispetto a quella che si respirava nelle metropoli cinesi in quei giorni.
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Basta con le autonomie differenziate e federalismi fiscali
Lo Stato si riappropri del sistema sanitario nazionale
di Pasquale Cicalese
L’arrivo in Italia del nuovo coronavirus ha reso palesi le gravi carenze del sistema sanitario nazionale. Vittima di un’austerità neoliberista imposta da decenni all’Italia che ha comportato quindi tagli draconiani di strutture e personale e un assurdo spezzettamento regionale che risponde a logiche federaliste sorte probabilmente come risposta alle spinte secessioniste di fine anni 90’ inizio 2000, la sanità italiana è entrata già in grossa difficoltà nell’affrontare una sfida come quella del nuovo coronavirus.
Proponiamo quindi ai nostri lettori questo saggio breve di Pasquale Cicalese del 2002 (apprezzatene la straordinaria attualità), pubblicato su "Contraddizione" dove viene preavisto come il combinato di politiche neoliberiste e federalismo avrebbero portato alla sfascio la sanità italiana.
Il testo di Cicalese ha il merito di anticipare tutto quello che sarebbe accaduto, soprattutto in regioni che la propaganda ha descritto come modello solo perché smantellavano il pubblico per regalare al privato come Lombardia e Veneto. Ora basta, lo stato deve garantire sanità, istruzione e lavoro. Solo lo stato può farlo e quindi la battaglia è meno autonomia differenziata e stupri semantici neo-liberisti simili e più stato. Ne va della nostra sopravvivenza come stiamo imparando sulla nostra pelle in questi giorni.
* * * *
A fronte delle modifiche costituzionali intervenute dopo il referendum sul federalismo dell’ottobre scorso e delle innovazioni legislative che danno maggiori e più esclusivi poteri alle regioni a statuto ordinario, contenute nel nuovo Titolo V della Costituzione, si può e si deve arrivare, dopo varie analisi dei dati riguardanti la materia del federalismo fiscale e della probabile e futura devolution, a una bocciatura drastica della riforma costituzionale e di tutto ciò che essa comporterà per il salario sociale di classe, in particolare riguardo ai ceti proletari delle grandi città e del mezzogiorno.
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Da Wittgenstein a Marx via Rossi-Landi
di Roberto Fineschi*
Introduzione
Quando sono stato invitato a scrivere un contributo sul rapporto Marx-Wittgenstein sono stato un po’ esitante. In primo luogo non sono certo un esperto di Wittgenstein, anzi, sono un modesto lettore delle sue opere più importanti e non ho molto di significativo da dire in proposito. In secondo luogo, come esperto di Marx, solo tangenzialmente mi sono occupato di temi legati alla filosofia del linguaggio o alla semiotica. Ho però cominciato a leggere un po’ di letteratura ed ho trovato diversi spunti interessanti, soprattutto nel semiologo marxista italiano Ferruccio Rossi-Landi (ROSSI-LANDI 1968, 1977, 1983) e in altri interpreti (ABREU 2008; GAKIS 2015; KITCHING & PLEASANTS 2002; READ 2000; RUBINSTEIN 1981). Alla luce di questi studi ho forse inteso meglio come trattare il tema e deciso di contribuire.
La prima parte di questo saggio è dedicata alla lettura di Wittgenstein proposta da Rossi-Landi, la seconda all’analisi di come Rossi-Landi cerchi di risolvere attraverso Marx quelle che reputa aporie di Wittgenstein, la terza, infine, a una valutazione critica della questione e al senso di un possibile rapporto Marx-Wittgenstein.
1. Il Wittgenstein di Rossi-Landi
La lettura di Wittgenstein da parte di Rossi-Landi è chiaramente influenzata dalla sua intenzione di sviluppare una teoria marxista della linguistica. Il suo scopo non è una ricostruzione critica del suo pensiero, ma fornire un solido fondamento al suo progetto nella stessa tradizione della filosofia del linguaggio (la stessa cosa che cerca di fare nel suo dialogo con Saussure).
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Intervista a Thomas Fazi
di Bollettino Culturale
Thomas Fazi è un giornalista, saggista e traduttore italiano, tra i più importanti divulgatori della MMT nel nostro paese. In questi anni ha pubblicato due importanti libri: “La battaglia contro l’Europa” e “Sovranità o barbarie”.
In rete è possibile trovare numerosi suoi articoli pubblicati per Senso Comune e Sbilanciamoci o raccolti nella famosa piattaforma Sinistra in rete. Possiede un proprio sito web.
1. Lei è uno dei massimi esperti della MMT in Italia. Vorrei sapere che legami ha questa teoria economica con il marxismo e la ritiene la chiave per rilanciare l’economia italiana?
Innanzitutto ci tengo a precisare che io, più che un esperto, mi ritengo un mero divulgatore della MMT che ha avuto la fortuna di conoscere e di lavorare a stretto contatto con uno dei fondatori della teoria in questione, Bill Mitchell – lui sì un vero esperto –, e dunque di abbeverarsi direttamente alla fonte del sapere, per così dire! Fatta questa doverosa premessa possiamo continuare. Ora, a prima vista i legami tra la MMT e la teoria marxista potrebbe apparire piuttosto deboli. Quest’ultima si occupa soprattutto dei rapporti interni al mondo della produzione, mentre la MMT si occupa soprattutto dei rapporti tra la sfera della produzione e quella delle politiche economiche e in particolare delle politiche di bilancio. In questo senso, la MMT ha un rapporto molto più stretto con la teoria keynesiana e soprattutto post-keynesiana, di cui rappresenta per certi versi un’evoluzione. Se analizziamo la questione più a fondo, però, emergono diversi punti di contatto con la teoria marxista. La MMT, infatti, mostra come i rapporti di forza interni al mondo della produzione – quelli, cioè, che intercorrono tra capitale e lavoro – siano una diretta conseguenza delle politiche economiche, nella misura in cui sono queste ultime a determinare, tra le altre cose, il tasso di occupazione e dunque il potere contrattuale delle classi lavoratrici. L’analisi della MMT è dunque implicitamente un’analisi di classe (ma per certi versi lo stesso si potrebbe dire, per gli stessi motivi, anche della teoria (post-)keynesiana, a prescindere dagli usi e abusi che ne sono stati fatti nel corso della storia).
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Sogni e realtà della Cina del 2020
a cura di Giovanni I. Giannoli*
Nell’introdurre il nostro incontro, voglio innanzi tutto ringraziare Silvia Calamandrei, Marina Miranda Romeo Orlandi e Simone Pieranni, che hanno accettato di condividere la loro esperienza e i loro studi, per questo seminario di informazione e di riflessione sulla Cina contemporanea. A nome della «Fondazione Basso» e del suo presidente, ringrazio tutti i convenuti, che con la loro presenza sostengono il nostro interesse per il tema.
Questo incontro avviene in un periodo del tutto particolare: sono certo che ne parleranno diffusamente coloro che mi seguiranno tra poco. La Cina affronta in queste settimane una prova che non ha probabilmente analoghi nella nostra memoria. Più che all’aspetto strettamente sanitario, mi riferisco soprattutto ai riflessi e alle implicazioni che l’attuale epidemia può ben presto avere, sul piano sociale, economico, politico, psicologico e comportamentale, a causa dell’estensione e – soprattutto – della rapidità con la quale queste implicazioni sembrano capaci di diffondersi a livello globale: ben al di là, per altro, dei confini cinesi. Comunque, questa drammatica prova potrebbe investire alcuni nodi cruciali dello sviluppo e dell’attuale congiuntura cinese. Tutti quanti, immagino, condividiamo l’augurio di un rapido e duraturo successo, al grande Paese, nel circoscrivere e superare la crisi attuale.
Non è certo da oggi che la «Fondazione Basso» pone al centro della sua riflessione i nodi più complessi e problematici delle società contemporanee: la natura e l’evoluzione dei rapporti di produzione, le forme dell’esercizio del potere, il terreno dei diritti e quello della democrazia. Proprio in queste settimane, abbiamo avviato un nuovo programma di studi, che riguarda le controverse e precarie relazioni tra capitalismo e democrazia: tra le attuali forme (e tendenze) dei rapporti di produzione e i molteplici sintomi di una crisi profonda della democrazia.
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La metafisica, la civiltà della tecnica, il nichilismo e le radici della violenza
di Francesco Sirleto
Rileggere Téchne di Emanuele Severino, a più di quarant’anni dalla sua pubblicazione
“Il nichilismo, pensato nella sua essenza, è piuttosto il movimento fondamentale della storia dell’Occidente. Esso rivela un corso così profondamente sotterraneo, che il suo sviluppo non potrà determinare che catastrofi mondiali. Il nichilismo è il movimento storico universale dei popoli della terra, nella sfera di potenza del Mondo Moderno … Il dominio in cui sono possibili così l’essenza come l’esistenza del nichilismo è la metafisica stessa, purché noi vediamo in essa non una dottrina, o addirittura una particolare disciplina filosofica, ma quell’ordinamento dell’ente nel suo insieme in virtù del quale esso viene suddiviso in mondo sensibile e ultrasensibile, facendo dipendere quello da questo” (M. Heidegger, da La sentenza di Nietzsche: Dio è morto, in Sentieri interrotti).
La lunga citazione tratta da un’opera ben nota di M. Heidegger (Sentieri interrotti, pubblicata nel 1950, come raccolta di vari saggi e conferenze risalenti per lo più agli anni Trenta), assume un particolare significato se ci soffermiamo sull’oggetto di queste brevi considerazioni scaturite dalla “rilettura”, dopo moltissimi anni, di un’opera fondamentale (Téchne, le radici della violenza) di Emanuele Severino, scomparso il 17 gennaio scorso alla venerabile età di più di 90 anni. In questo libro, la cui prima edizione è del 1979, è contenuto l’essenziale di tutto il pensiero elaborato, nella sua lunghissima carriera di filosofo praticante, dall’illustre professore emerito dell’Università veneziana Ca’ Foscari, nella quale fu tra i fondatori della Facoltà di Lettere e di Filosofia. Nella citazione posta in epigrafe appaiono, infatti, alcuni dei concetti che hanno costituto il principale oggetto di riflessione da parte del pensatore bresciano: nichilismo, Occidente, metafisica, ordinamento dell’ente.
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50 anni dopo, anche il liberismo ha finito il suo tempo
di Claudio Conti
Con un intervento in calce di Guido Salerno Aletta
La sensazione insiste da tempo. Lo stallo generale in cui siamo immersi – incrinato parzialmente ora dalla “paura globale” per un virus di limitata pericolosità – dura da anni. Uno scivolamento lento verso una condizione peggiore ma non ancora intollerabile, o forse tollerato solo perché lento e graduale. Una evidente incapacità-impossibilità per le classi dirigenti globali di trovare una “soluzione” alla crisi, per via del suo carattere mondiale e dei limitati strumenti – nazionali, o al più continentali – in mano ai decisori pubblici.
Però ogni stallo è una marcescenza. I problemi si accumulano, per quanto silenziati o rinviati. E le possibili soluzioni diventano sempre meno applicabili, perché si moltiplicano le connessioni tra un problema e l’altro.
Per esempio, chi vede l’immigrazione come un problema gravissimo non vede, in genere, l’emigrazione dei suoi connazionali – specie giovani, istruiti, preparati – verso luoghi in teoria più promettenti. E soprattutto non vede le ragioni strutturali che spingono così tante persone ad affrontare l’ignoto in un altro paese o continente, in diversi contesti culturali e linguistici.
Chi vede le ragioni strutturali (economiche o ambientali) spesso non coglie la complessità delle reazioni in popolazioni sottoposte contemporaneamente a uno stress economico-sociale (perdita di salario, status, sicurezza economica, speranza nel futuro) e a uno “epidermico-culturale” (“lo straniero in casa”).
Dovunque ci si giri non si incontra nulla di stabile, se non l’incrudimento delle reazioni repressive da parte di centri si potere che dappertutto sentono salire il malessere sociale.
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Sulla crisi strutturale della sinistra
di Alessandro Pascale
Il 2 febbraio il compagno Gordan Stosevic mi ha contattato per pormi alcune domande sull’attualità politica italiana ed internazionale, concentrando l’attenzione sulle problematiche riguardanti il movimento comunista. L’intervista sarebbe dovuta uscire sul suo sito Ilgridodelpopolo.com; Stosevic si è visto però impossibilitato a pubblicare il pezzo in questione dato che il suo sito è stato nel frattempo oggetto di un attacco informatico.
Abbiamo convenuto assieme di darne quindi pubblicazione su questo portale [ap].
– Per iniziare l’intervista, la sinistra vive più una crisi ideologica o politica oggi?
– Innanzitutto intendiamoci sul significato del termine “sinistra”, espressione che nel senso comune è ormai associata ad una visione liberista e liberale che nei migliori casi ha leggere sfumature di socialdemocrazia ma che è strutturalmente incapace di mettere in discussione il sistema vigente. Questa “sinistra” così intesa ha ancora un suo seguito di massa ma è palesemente in crisi, anche se continua ad essere considerata un argine contro il “ritorno del fascismo”, presunto o reale che sia. Distinguerei tra persone e gruppi organizzati che si sentono interiormente dalla parte del progresso sociale ma che mancano degli strumenti ideologici per comprendere l’inadeguatezza della propria proposta politica, da persone e gruppi che invece utilizzano strumentalmente l’identità di sinistra per introdurre idee e temi storicamente appartenenti alla destra. Questi ultimi, ossia la destra che si camuffa da sinistra, sta tutto sommato bene, dato che il suo obiettivo principale è quello di impedire il risorgere di una coscienza di classe anticapitalista. Mi sembra di poter dire che la crisi dei primi, ossia della “vera” sinistra, sia figlia di una dialettica figlia di una serie di rigetti ideologici e politici che si sono stratificati nel tempo. Se dovessi identificare il “peccato originale”, direi che la crisi ideologica della sinistra parte dalla destalinizzazione del 1956. Da lì è iniziata l’opera di smantellamento progressivo della teoria di riferimento. In URSS e in Occidente nel giro di poco più di 30 anni si è passati dall’egemonia del marxismo-leninismo al ripudio completo delle teorie di Marx ed Engels, a favore del ritorno in grande stile di un “liberalismo” sempre più restio al compromesso sociale e improntato in senso elitario. La “fuga” dal marxismo è un atto sciagurato che ha fatto regredire culturalmente e politicamente l’intero movimento progressista occidentale.
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Perchè non possiamo non dirci sovrani
di Carlo Galli*
Trascrizione rivista dall’autore della prolusione alla conferenza Euro, Mercati, Democrazia 2019 – Decommissioning EU, svoltasi a Pescara nei giorni 26 e 27 ottobre 2019
Buon pomeriggio a tutti. Devo parecchi ringraziamenti ad Alberto Bagnai, al presidente Ponti e a tutti coloro che hanno pensato che la mia presenza sarebbe stata utile, oltre che naturalmente a voi che siete qui ad ascoltare.
Io sono qui perché ho pubblicato un libro il cui titolo è Sovranità; libro relativamente facile, divulgativo, che nasce dal fatto che – come studioso, molto più che come politico – non mi sono per nulla sentito a mio agio con l’invenzione lessicale del termine «sovranismo» e con l’uso della parola «sovranista» come un insulto. E quindi ho messo in piedi una riflessione, il cui contenuto in parte adesso vi consegno. Dico «in parte» perché nel libro vi sono molti passaggi storici e filosofici che non è il caso di portare qui; però, alcune questioni è il caso di portarle per un obiettivo – l’obiettivo fondamentale che in questa fase della mia esistenza io mi pongo –: in questo Paese c’è una gravissima questione di egemonia culturale; detto in un altro modo, c’è una gravissima questione di conformismo.
La politica, se vorrà e saprà, potrà fare la sua battaglia, ma sicuramente la intellettualità italiana dovrebbe fare la propria e secondo me non la sta facendo – per una serie di motivi che non voglio neppure enumerare –. La cosa più importante oggi è fare passare l’idea che è possibile un diverso punto di vista sulle cose dell’Italia, dell’Europa e del mondo.
Ideologia
Un «diverso punto di vista», ad esempio, rispetto al fatto che già questa frase mi verrebbe contestata, perché potrebbe essere accusata di nascondere l’intento di far nascere e rinascere, inventare, una ideologia nell’epoca in cui le ideologie sono finite. Ora, questa non è l’epoca in cui tutte le ideologie sono finite.
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Aristotele e Marx
di Leo Essen
I
Agli occhi degli economisti del XVIII secolo gli individui indipendenti della moderna società borghese appaiono come un ideale la cui esistenza appartiene al passato. Non come un risultato storico, dice Marx (Introduzione del 57), ma come il punto di partenza della storia. Il lavoratore indipendente conforme a natura non è infatti, secondo la concezione della natura umana degli economisti, originato storicamente, ma posto dalla natura stessa. Quanto più risaliamo indietro nella storia, dice Marx, tanto più l’individuo – e quindi anche l’individuo che produce – ci appare non autonomo. La produzione ad opera dell’individuo isolato è un non senso. Allo stesso modo è mitologico pensare che l’origine dell’idea di Economico sia spuntata in testa bella e fatta e sia stata poi applicata.
A questo punto, dice Marx, poiché ogni periodo storico è una singolarità diversa da tutte le altre, sarebbe impossibile parlare, in riferimento a periodi diversi, di Economico, di Lavoro, eccetera, perché nel tempo l’attimo scorre e non si fissa in niente.
In ogni caso, continua Marx, tutte le epoche hanno certi caratteri in comune, certe determinazioni comuni. La produzione in generale – ad esempio – è un’astrazione che ha un senso, in quanto mette effettivamente in rilievo l’elemento comune, lo fissa e ci risparmia una ripetizione. Allo stesso modo il lavoro in generale.
In quanto generalità, dice Marx, il lavoro è una categoria antichissima. D’altra parte, dice, questa astrazione del lavoro in generale non è soltanto il risultato mentale di una concreta totalità di lavori. L’indifferenza verso un lavoro determinato corrisponde a una forma di società in cui il genere determinato del lavoro è fortuito e quindi indifferente.
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Wuhan e dintorni
Intervista al Prof. Francesco Maglioccola
Intervistiamo oggi il Professor Francesco Maglioccola, architetto e ricercatore presso l’Università Parthenope di Napoli, noto per il suo lavoro di catalogazione dei libri conservati nella biblioteca di Hankou, fondata dai francescani a metà dell’Ottocento e che ha vissuto a Wuhan gli ultimi cinque anni viaggiando in Cina nel corso degli ultimi venti
O.G. Professore, alla luce delle vicende delle ultime settimane, come esperto di Cina, mi piacerebbe intervistarla per restituire ai lettori una più completa visione su cosa sia la città di Wuhan e in generale la cultura cinese, essendo la città peraltro, come lei ci insegna molto legata all’Italia per tutta una serie di vicissitudini storiche.
F.M. Sì, grazie mille per l’invito. Cominciamo con il dire che sono legami molto stretti quelli tra Wuhan e l’Italia; Wuhan ha ospitato il consolato italiano all’inizio del secolo scorso fino alla fine della seconda guerra mondiale, quando i consolati stranieri in Cina non erano molti, ma noi l’avevamo. Le concessioni invece non vennero mai aperte per motivi economici che non potevamo allora sostenere e aprimmo così a Tianjin. Fummo “sostituiti” a Wuhan dagli inglesi e dai francesi. Questi ultimi sono ancora estremamente attivi nella zona e nella città di Wuhan, la loro influenza interna è abbastanza forte, data la loro pregressa presenza.
O.G. Professore, in questi giorni non si fa altro che parlare del coronavirus, tecnicamente il Covid-19, inutile dirlo. Perché tanto panico? E soprattutto sono molte, forse troppe le voci riguardo l’origine della diffusione di questo. Dai mercati del pesce dove possa essersi sviluppato e poi guizzato all’esterno senza controllo, all’utilizzo dei pipistrelli in cucina, alla fuga dal laboratorio di ricerca, fino all’arma batteriologica. Cosa ne pensa?
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Gioie e dolori dell’autodissociazione
di Valeria Turra
Gli eventi politici delle ultime settimane vorrebbero chiudere per Giuseppe Conte, non ci fossero evidenti sfasature, un cerchio, da molti mesi iniziato a disegnare, per accentrare su di sé il potere a scapito dei partiti eletti dal popolo sovrano; un cerchio di cui l’elettore ha avuto prima contezza in occasione della conferenza stampa tenuta dall’allora primo ministro del governo gialloverde la sera del 3 giugno 2019, ovvero all’indomani dell’exploit leghista alle Europee. Partito con toni accomodanti verso entrambi i suoi vice, il premier palesa nel finale lo scopo vero della convocazione dei giornalisti: entrambi, Di Maio e Salvini, dovranno lasciargli carta bianca nelle trattative europee, altrimenti Conte rimetterà l’incarico nelle mani del presidente della Repubblica. Già in quei giorni non fu difficile prevedere che, dietro il dichiarato tentativo di scongiurare una (discutibilissima) procedura di infrazione per debito eccessivo, ci fosse il rischio di dovere accettare contropartite rischiose per l’economia italiana, e intuire che dietro l’ultimatum di Conte premesse l’urgenza di un’assunzione di “pieni poteri” per trattare in sede europea questioni delicatissime per il popolo italiano senza l’interferenza dei partiti votati (nella fattispecie, come solo gradualmente si farà palese, il (presunto) “pacchetto Mes”), mettendo in assoluto non cale il fatto che gli elettori considerassero il presidente del Consiglio (autoproclamatosi solo un anno prima «avvocato del popolo») come semplice garante di un programma critico verso l’Ue e non un leader che autonomamente potesse gestire i rapporti europei con tanto di “postura di resa” all’asse franco-tedesco.
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Circa il giusto modo di invecchiare
Dedicato a Nicoletta Dosio 3
di Eros Barone
Tutte le civiltà conosciute si caratterizzano per la contrapposizione tra una classe di sfruttatori e delle classi di sfruttati. La parola vecchiaia esprime due specie di realtà profondamente diverse a seconda che si consideri quella o queste. Ciò che falsa le prospettive, è che le riflessioni, le opere, le testimonianze concernenti l’età avanzata, hanno sempre riflettuto la condizione degli eupatridi: sono soltanto loro a parlare. 1
Affinché la vecchiaia non sia una comica parodia della nostra esistenza precedente, non v’è che una soluzione, e cioè continuare a perseguire dei fini che diano un senso alla nostra vita: dedizione ad altre persone, a una collettività, a una qualche causa, al lavoro sociale, o politico, o intellettuale, o creativo. 2
Simone de Beauvoir, La vieillesse.
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Un archetipo della gerontologia: il De senectute di Cicerone
La vecchiaia non è un argomento allegro, perché evoca il carattere ineluttabile della morte, di cui essa è considerata l’anticamera. Tuttavia, conviene parlarne e rifletterci sopra, perché in tal modo, oltre a neutralizzare l’angoscia che provoca, di primo acchito, il discorrere di entrambe – della vecchiaia e della morte -, è possibile far emergere,, di fronte all’‘unheimlich’ 4 che è il loro carattere fondamentale, da un lato i limiti della riflessione filosofica occidentale e, dall’altro, un approccio alternativo e una diversa prospettiva.
Da questo punto di vista, il trattato di Cicerone, Cato maior, de senectute, è esemplare: in primo luogo, perché, riassumendo l’essenziale delle idee dell’antichità classica sul tema, influenzerà durevolmente il pensiero occidentale posteriore e, in secondo luogo, perché, come suole accadere tanto ad autori antichi quanto ad autori contemporanei (lo vedremo prendendo in esame la riflessione di Norberto Bobbio su tale tema), è evidente lo sforzo, che ne pervade ogni pagina, di esorcizzare lo spettro incombente della morte.
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Distopie del contagio
Epidemie e paura nella letteratura e nel cinema
di Guy Van Stratten
L’allarme scatenato dalla diffusione del coronavirus rischia di trasformare la realtà in un vero e proprio universo distopico, come è stato tratteggiato in numerosi romanzi e film di fantascienza che mostrano una società del futuro devastata da virus sconosciuti. Se è indubbiamente lecito avere paura del coronavirus, è anche lecito temere tutto il sistema di controllo e isolamento messo in atto per cercare di contrastarlo. Sui telegiornali, sui social, sui blog e sui siti delle più svariate testate giornalistiche sentiamo parole come “zona rossa” (la “zona rossa”, impenetrabile per i manifestanti, c’era anche durante il G8 di Genova), “quarantena”, “isolamento”, parole che si ricollegano, nel nostro immaginario, a tutto un sistema di controllo pervasivo e dittatoriale. Ad esempio, a quelli appena citati, può essere benissimo associato il termine “coprifuoco”: quest’ultima, come le altre, è una parola che viene usata per regolamentare e controllare il comportamento sociale degli individui. Siamo perciò nel campo semantico del controllo e della sorveglianza. Si corre il rischio che l’utilizzo di questi mezzi divenga eccessivo e incontrollato, dominato dal caos e dalla paura. Svolgiamo adesso alcune riflessioni su quanto sta accadendo intorno a noi. Il nostro immaginario corre subito alle raffigurazioni della società che abbiamo visto in molti film distopici: interi quartieri e città blindati, controllati dall’esercito in tenuta antisommossa e con maschere di ossigeno, mitra spianati contro chiunque non rispetti il divieto di passaggio, coprifuoco notturno come in tempo di guerra e chi più ne ha più ne metta (e si noti che questi scenari catastrofici sono generati proprio dal prevalere del caos e della paura).
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Assange deve morire!
di Fulvio Grimaldi
Cos’è in gioco con il giornalista di Wikileaks? Tutto! Informazione, o ti vendi, o sei fuori
Se pensate che il giornalismo italiano abbia toccato il fondo, avete modo di aggravarvi e constatare che, oltre il fondo, c’è un sottofondo, come nelle valigie o nelle macchine dei narcos, dove ormai sguazza l’intera compagnia che deve convogliarci sui carri bestiame verso dove ci vogliono rinchiudere Bilderberg e i suoi sguatteri. Di stazioni il treno ce ne ha fatto percorrere già parecchie. Saltiamo quella fatiscente di “Regeni”, dove pare che in sala d’aspetto giacciano ancora vecchi rotoli del Mar Morto che raccontano di un giovane italiano dai suoi eliminato in Egitto perchè da agenti egiziani scoperto al servizio della multinazionale di spionaggio Oxford Analytica, diretta dall’inventore degli Squadroni della Morte, John Negroponte e, quindi, fiduciario bruciato.
Ci hanno lasciato affacciare sulla fermata “Zaki”, dove ci distribuivano giornali dai titoli cubitali su Patrick Zaki, altro giovane, stavolta egiziano, in Egitto torturato, scudisciato con cavi elettrici, elettroshockato. Lo diceva l’associazione sorosiana di cui Zaki faceva parte e, dunque, lo dicevano tutti i giornali italiani, ma nessuno di quelli egiziani, o di altri paesi.
Già perché lì, come ci ha spiegato il controllore “Amnesty”, c’è la dittatura, con 60mila prigionieri “politici” (nessuno dell’ISIS che imperversa da un capo all’altro) e ne spariscono 10 al giorno e li torturano tutti, mentre da noi no. Nessun cittadino viene mai fermato, tantomeno picchiato e torturato. Solo se osa usare la formula iettatrice No Tav, o No Bellanova, oppure, evidente teppista o sovversivo, insulta il pubblico ufficiale chiedendo perché lo stiano pestando. Ma guai se qualche paese osa interferire con le nostre forze dell’Ordine, o con la nostra magistratura. Un po’ di rispetto per un paese sovrano, che cazzo!
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Grande Recessione e teoria macroeconomica: una crisi inutile?
di Giancarlo Bertocco e Andrea Kalajzic
La crisi finanziaria del 2007-08 e la successiva Grande Recessione hanno indotto molti economisti a riconoscere che il modello teorico elaborato a partire dagli anni Settanta del secolo scorso aveva un limite fondamentale che consisteva nel trascurare il sistema finanziario e il fenomeno delle crisi. In altri termini, il modello sosteneva che non si sarebbero potute verificare crisi analoghe alla Grande Depressione degli anni Trenta e alla Stagflazione degli anni Settanta del secolo scorso.
Questa è la regione per la quale gli economisti non sono stati in grado di prevedere l’arrivo della crisi poiché, come ha sottolineato Turner: “Non puoi vedere arrivare una crisi se hai teorie e modelli che ipotizzano che le crisi non sono possibili” (A. Turner, Between Debt and the Devil, Princeton University Press, 2016). Le crisi che si verificarono nel secolo scorso spinsero gli economisti a sostituire la teoria dominante con una teoria alternativa. La Grande Depressione determinò l’abbandono della teoria neoclassica e l’affermazione della teoria keynesiana. La Stagflazione, invece, spinse gli economisti a sostituire la teoria keynesiana con una nuova versione della teoria neoclassica che sottolineava l’assoluta efficienza delle forze del mercato. A differenza di quanto successo nel secolo scorso, la crisi contemporanea non sta spingendo gli economisti a sostituire il modello dominante, noto tra gli addetti ai lavori come il New Keynesian Dynamic Stochastic General (DSGE) Model, con una teoria alternativa.
Secondo alcune recenti indagini, circa il 75% degli economisti sostiene che il fatto che il modello dominante trascurasse il sistema finanziario non costituisce una ragione sufficiente per sostituirlo con un modello alternativo.
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Prabhat Patnaik, “Capitale monopolistico, allora ed ora”
di Alessandro Visalli
Sulla Monthly Review del luglio 2016, l’economista indiano Prabhat Patnaik pubblica una interessante recensione[1] del classicissimo saggio di Paul Baran e Paul Sweezy, “Il capitale monopolistico”[2], del 1966. Un libro, come ricorda, che ebbe una enorme influenza sulla sua generazione (anche se lui stava studiando economia a Nuova Delhi) che cercava di comprendere il funzionamento del “sistema” da contestare. L’aspetto strettamente economico, sul quale si concentra l’autore, era che il testo, come i precedenti dei due autori[3], superava a sottovalutazione nella tradizione marxista del problema posto dalla domanda aggregata, e quindi della circolazione. In un certo senso incorporava, come aveva fatto già Kaleki[4], le intuizioni di Keynes al riguardo in una struttura marxista di analisi. Il superamento della Legge di Say, che implica necessariamente l’emergere della domanda come un problema (anziché come una variabile dipendente dell’offerta), era stato posto dallo stesso Marx, ma successivamente disinnescato dalla sua convinzione che le crisi debbano scaturire dall’interno del “laboratorio interno” del capitalismo, ovvero dai rapporti di produzione. A porre la questione della sovrapproduzione generale e permanente, e quindi dell’importanza e centralità della sfera della “riproduzione”, ovvero della “circolazione”, erano stati già la Luxemburg[5] e Bucharin[6], ma relegati ai margini della corrente principale del marxismo che Losurdo chiamerà “occidentale”[7]. Inoltre, c’era una carenza di analisi sull’equilibrio ed i passaggi tra questi in condizioni di carenza di domanda aggregata (cosa che porterebbe verso una concettualizzazione del “moltiplicatore” alla Keynes o alla Kaleki).
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L’imperialismo americano tra realtà e "narrazione"
di Sebastiano Isaia
L’ultima monografia di Limes dedicata agli Stati Uniti (America contro tutti) è a mio avviso molto interessante soprattutto perché cerca di fare piazza pulita dei tanti luoghi comuni che negli ultimi anni si sono addensati intorno alla cosiddetta America di Trump, in particolare, e più in generale intorno al presente e al prossimo futuro degli Stati Uniti, considerati da molti analisti geopolitici e da molti politici di tutto il mondo come una Potenza mondiale ormai condannata a un declino sistemico pressoché inarrestabile e inevitabile. Come si dice in questi casi, le cose sono più complesse di come appaiono alla luce delle “narrazioni” messe in campo non solo dai nemici degli Stati Uniti, ma dagli stessi politici americani, sempre pronti a cavalcare “lo spirito del tempo” soprattutto in chiave elettoralistica. E in quel Paese “lo spirito del tempo” ormai dal 2008 parla il linguaggio “isolazionista”.
La “narrazione” spesso, anzi quasi sempre, è più forte della realtà, e sicuramente la prima è agli occhi della mitica “opinione pubblica” molto più suggestiva della seconda; ed esattamente sulla scorta di questo “disdicevole” dato di fatto che i politici, soprattutto quelli basati in Occidente, fin troppo frequentemente prendono decisioni del tutto sbagliate, soprattutto sul terreno della politica estera: è un po’ questa la “filosofia” che ispira America contro tutti – Limes, 12/2019.
Scrive Dario Fabbri: «Per capire il momento della superpotenza occorre trascurare la retorica nazionalista di Trump. Gli Stati Uniti sono passati dalla fase imperialista a quella compiutamente imperiale. Sfidando il resto del mondo. E i rischi, domestici ed esterni, che tale aggressività comporta».
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Il giorno della memoria dei vincitori, 365 giorni dell'oblio dei vinti
Mi faccio il “Giorno della Rimembranza”
di Fulvio Grimaldi
Un “Giorno della Rimembranza” per i vinti?
Il 27 gennaio ultimo scorso, data dell’arrivo dell’Armata Rossa ai cancelli di Auschwitz, si è celebrato, come ogni anno, con grandissima partecipazione di congiunti, sopravvissuti, media e autorità, il “Giorno della Memoria”. Il 10 febbraio, poi, ci si è accapigliati sul “Giorno del Ricordo”, quello delle Foibe, nelle quali un sacco di strabici, dal Quirinale in giù, vogliono vedere sepolte solo vittime di Tito fiumane o triestine. Infine, Il 14 febbraio i fidanzati, gli sposi ancora in buona, gli amanti ancora entusiasti, si sono fatti gli auguri e i pensierini di San Valentino. Per il “Giorno della Rimembranza” che qui, seduta stante, proclamo e inauguro, siccome sono solo e resteremo pochini, voglio rifarmi a San Valentino, interpretata come giornata di chi si vuole bene.
A sfida delle zanne dei morsicatori del pensiero non unico, anzi, controverso, dichiaro che, insieme all’Italia, della quale mi auguro la difesa dell’identità millenaria e il ricupero della sovranità popolare e nazionale, voglio molto bene alla Germania, per la quale formulo gli stessi auguri. E’ in massima parte a questo paese, vindice, insieme ad altre nazioni, della grande civiltà europea (tagliando via guerre e colonialismi), terra di pensatori senza uguali, esploratori dell’animo umano, terra di grandi foreste integre e di grandi fiumi andati a fare le vene d’Europa, che dedico il “Giorno della Rimembranza”. Se non altro perché è il giorno dei vinti e, di conseguenza, non se lo fila nessuno. E’ a dispetto di questo cielo di soli artificiali, che vanno sostituendo quello naturale e la sua giusta luce, che certe storie, certi crimini, certe sofferenze, vanno ricuperate, riscritte, scolpite nella Storia accanto a quelle accettate e consacrate. Non sempre a ragione. Con almeno uguale dignità. E i negazionisti, quelli che negano il diritto a studiare, rivedere e riscrivere la Storia, peste li colga.
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I cuori nerissimi di Walter Veltroni
di Christian Raimo
Per ricordare un giovane ucciso negli anni Settanta l'ex segretario del Pd equipara fascisti e antifascisti e riscrive una storia simile a quella che piace alle estreme destre
Ieri sul Corriere della sera Walter Veltroni, ex segretario della Fgci, ex militante del Pci, ex sindaco di Roma, ex segretario del Pd, ex ministro della cultura, ha scritto un lungo articolo su Sergio Ramelli, un giovanissimo militante neofascista massacrato barbaramente nel 1975 in un agguato, e morto dopo più di un mese di agonia.
La storia di Ramelli è nota a chiunque conosca un po’ delle vicende politiche degli ultimi quarant’anni italiani. Ramelli dal suo funerale è diventato, anche suo malgrado, un’icona del neofascismo: la sua storia è quella di un camerata martire, al quale ogni anno a Milano migliaia di militanti di CasaPound, Forza Nuova, Fratelli D’Italia, Lealtà e Azione, eccetera, vanno a rendere omaggio, con il saluto romano e il «Presente!» urlato tre volte.
Perché Ramelli sia diventato l’icona delle destre non è difficile da spiegare anche se occorre onestà intellettuale e amore per la complessità, ossia un approccio storico, per non sminuire il riconoscimento e lo sdegno per la brutalità dell’agguato senza astrarre e destoricizzare l’accaduto. Veltroni fa il contrario: apre il suo pezzo con un preambolo intellettualmente disonesto e tossico.
«Di storie come quella che sto per raccontare ce ne sono state molte, troppe, quando eravamo ragazzi. Vale la pena usare la memoria, non solo per un giorno, oggi che vediamo l’odio riemergere sui muri delle case di deportate morte da tempo e impazzare incontrollato su schermi tecnologici e moderni».
In un solo paragrafo, mettendo insieme in un unico minestrone indigesto il riemergere terribile dell’antisemitismo e del negazionismo, le storie diversissime di violenza degli anni Settanta e un giudizio paternalista contro le tecnologie moderne, squalifica da subito il suo approccio.
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Intervista al prof. Patnaik: capitalismo e sottosviluppo
di Alessandro Visalli
Ancora su “Bollettino Culturale” Francesco Barbommel intervista il prof Prabhat Patnaik (vedi anche qui, ndr), un noto economista marxista indiano che ha insegnato al Centro degli studi economici e della pianificazione della Università Jawaharial Nehru di Nuova Delhi dal 1970 al 2010, per ben quaranta anni. Ha anche fatto un’esperienza di amministrazione nel Consiglio di Pianificazione del Kerala e si è laureato e dottorato anche in filosofia ad Oxford. Nel 1969 fu attivo anche all’Università di Cambridge (Clare College) prima di rientrare in india nel 1970. Convinto critico delle politiche neoliberali, dopo la crisi del 2008 ha fatto parte di una commissione dell’Onu per raccomandare misure di riforma del sistema finanziario (con Joseph Stiglitz, Francois Houtart e Pedro Paez). Tra i suoi libri, “A theory of imperialism”[1] e “Lenin and imperialism” [2] o “The value of money”[3], o diversi interventi su decine di riviste[4], o sul suo blog[5].
L’avvio dell’intervista si concentra sulla pianificazione nell’epoca di Nehru. Questi, con l’aiuto di Bettelheim, prese come riferimento il modello sovietico sforzandosi di costruire un forte settore pubblico da elevare come baluardo contro l’influenza delle multinazionali (come ovvio, in uscita dalla dominazione coloniale inglese) e di rendere il paese quanto più possibile autosufficiente. La spinta fu particolarmente diretta all’istruzione tecnica ed alla creazione di industrie di base. Ma fallì nella completa redistribuzione delle terre, e quindi nel rapporto con il grande capitale agrario che rimase dominante, insieme a quello medio “kulako”. Ciò ha finito per limitare il mercato interno e quindi per non creare condizioni per l’autosufficienza industriale.
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I veleni dei nuovi poteri e del capitalismo della sorveglianza nell’epoca del digitale
di Maria Concetta Sala
Nell’ultimo decennio scrittrici, scrittori, analisti del digitale hanno messo in guardia sui veleni diffusi dal nostro disinvolto e compiacente uso degli strumenti che tutte/i – adulti, adolescenti, bambine/i – abbiamo in mano e nelle nostre case, ma una possente distrazione continua a non permetterci di osservarne la portata distruttiva riguardo alla libertà individuale e di cogliere le ricadute sociali di un sistema rapace e vorace che depreda la nostra esperienza umana. Basterebbe pensare alla serie distopica britannica Black Mirror che mostra gli effetti collaterali della nostra assuefazione alle nuove tecnologie; oppure alla scrittrice argentina Samanta Schweblin e al suo romanzo Kentuki (pupazzetti “innocui” di peluche dotati di webcam in grado di innescare simulacri di relazione); o ancora al volume La Grande G. Come Google domina il mondo dello studioso dei media Siva Vaidhyanathan, all’edizione francese La société de l’exposition del libro del teorico critico Bernard Harcourt, a The Culture of surveillance del sociologo David Lyon…
Che cosa è accaduto? che cosa ci sta accadendo? Perché noi “utenti” comuni – quasi metà dei sette miliardi di umani che abitano la Terra – non siamo ancora in grado di valutare gli esiti nefasti determinati dalla pirateria informatica dei colossi della Rete (Google, Facebook, Microsoft, Amazon, Twitter…) e dalla logica dell’accumulazione sottostante ai cosiddetti Big Data – l’enorme quantità di dati forniti da noi e immagazzinati, gestiti e analizzati dall’intelligenza artificiale, che non è un’entità astratta, per essere infine monetizzati e venduti? perché non siamo in grado di cogliere la commistione letale tra nuove forme di capitalismo estrattivo e svolta repressiva in atto mascherata in termini di certezza e di sicurezza? come saperne di più e venir fuori dalla nostra ignoranza? quali strategie adottare per non essere ciecamente e impunemente espropriate/i?
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“Coronavirus, l’ultimo contagiato si chiama Made in Italy”
di Nicola Borzi
Riprendo un articolo dal sito di Valori.it.
Come un minuscolo microrganismo possa fare ammalare non solo degli esseri umani, ma anche l’intero sistema socioeconomicopolitico su cui si regge oggi il mondo.
Un sistema che, ricapitolando, funziona così:
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- Monocolture. Un luogo del pianeta si dedica solo a fare telefonini, un altro produce carne, un altro i SUV, un altro vende le proprie attrattive turistiche. Oppure, una sola ditta si accaparra le emozioni e le comunicazioni dell’intera specie umana, un’altra tutto ciò che gli esseri comprano e vendono.
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- Lo scambio tra le concentrazioni – il flusso globale – percorre incessantemente il mondo, su un fiume di energia fossile trasformato in inquinanti, in parallelo a un fiume di denaro speculativo.
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- Tutto sembra più economico. Quando non addirittura gratis. Il salmone dell’Alaska lo possiamo trovare nel supermercato sotto casa, a prezzi che sembrano bassissimi.
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Contrordine: austerità e tagli delle tasse non funzionano! Ce lo dice l’Europa
di Civil Servant
Fino alla Grande Recessione, il pensiero unico sulle politiche fiscali prescriveva tagli di tasse e spese per rilanciare la crescita, ovvero un ridimensionamento del ruolo dello stato nell’economia. La corrispondente ricetta per sostenere l’occupazione e gli investimenti era l’abbattimento delle tasse sulle imprese, che avrebbero impiegato le risorse liberate dal fisco per espandere la loro attività. Gli USA, con il loro tradizionale pragmatismo, furono tra i primi a violare questi tabù per contrastare la recessione, spendendo in deficit quasi 800 miliardi di dollari (pari al 5,5% del Pil) solo nel 2009. Nel frattempo la Commissione Europea resisteva ad ogni tentazione e continuava a concedere solo qualche decimale di “flessibilità” sui bilanci pubblici e ad imporre programmi di consolidamento fiscale lacrime e sangue nei paesi più indebitati. Grazie a questa lungimirante politica economica, la recessione è durata solo un paio di anni negli USA, mentre non è stata ancora completamente superata in parecchi paesi della UE, tra cui l’Italia.
Nei primi giorni del 2013 anche il Fondo Monetario Internazionale recitava un imbarazzante mea culpa sulle politiche di austerity applicate sulla pelle dei greci, attribuendo tutti gli errori ad una sottovalutazione dei moltiplicatori fiscali nel corso di una recessione. Fu come dare la colpa della morte per inedia di alcuni pazienti in cura per sovrappeso (purtroppo non solo metaforica) ad una bilancia rotta, ma fu comunque un passo in avanti rispetto ai dogmi difesi degli anni precedenti con tanto di scomuniche e roghi per gli eretici. Ora, quasi a babbo morto, anche la Commissione Europea sembra cospargersi il capo di cenere, riconoscendo che, in caso di recessione, è meglio aumentare la spesa pubblica, finanziandola con nuove tasse, piuttosto che tagliare servizi e investimenti. Tutto il contrario del mantra recitato da quasi tutte le forze politiche italiane, anche da quelle che si dichiarano progressiste.
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La cultura tra economia e politica
G.Bottos, L.Mesini e F.Rustichelli intervistano Carlo Galli
Carlo Galli insegna Storia delle dottrine politiche all’Università di Bologna ed è Presidente della Fondazione Gramsci Emilia-Romagna. Con questa intervista affrontiamo la questione del legame tra cultura, politica ed economia approfondendone alcuni aspetti: il rapporto tra cultura e mercato, le ricadute del neoliberismo sui modi di intendere la cultura, il ruolo degli intellettuali e la necessità di una cultura critica, i modi in cui si produce oggi l’analisi politica e le responsabilità delle classi dirigenti italiane nel declinare il triangolo cultura-politica-economia
Con questa intervista vorremmo approfondire la questione dei nessi tra cultura, politica ed economia. Iniziamo col constatare come il nesso tra cultura e politica appaia oggi in crisi, mentre da più parti si pone l’accento sul legame tra cultura e mondo economico. Un rapporto che si declina sia in termini di ‘utilità’ della cultura – e quindi di giustificazione dell’investimento in cultura – sia di una concezione della cultura intesa come attività economica in senso stretto. Essa deve rivendicare una propria autonomia? Al tempo stesso sembra necessario che essa entri in relazione con queste sfere. Quali sono le forme specifiche in cui questo può avvenire?
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