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Elogio della distanza
Informazione, potere, neoliberalismo
Federica Buongiorno intervista Byung-Chul Han
Byung-Chul Han insegna Kulturwissenschaft presso la Universität der Künste di Berlino, in Germania, ed è uno scrittore e teorico della cultura di origine coreane (è nato, infatti, a Seoul nel 1959). Dopo gli studi iniziali di metallurgia in Corea del Sud, ha conseguito il dottorato in Filosofia (1994) all’Università di Friburgo in Brisgovia con una tesi su Martin Heidegger e ha insegnato dapprima a Basilea e, fino al 2012, a Karlsruhe – dove è stato collega di un altro influente pensatore contemporaneo, Peter Sloterdijk. Sin dall’inizio la produzione di Han si connota per l’incrocio di più discipline e categorie interpretative, provenienti in massima parte dall’etica, dalla filosofia sociale e fenomenologica, dalla teoria culturale e dei media, ma anche dal pensiero religioso e dall’estetica. I suoi primi lavori, dal taglio accademico ma già eclettico, sono dedicati al pensiero di Heidegger (Heideggers Herz. Zur Begriff der Stimmung bei Martin Heidegger, Fink, Paderborn 1999); di Hegel (Hegel und die Macht. Ein Versuch über die Freundlichkeit, Fink, Paderborn 2005); e al concetto scientifico-culturale della morte (Todesarten. Philosophische Untersuchungen zum Tod, Fink, Paderborn 1999 e Tod und Alterität, Fink, Paderborn 2002).
A partire dagli anni 2000, con La società della stanchezza (tr. it. di F. Buongiorno, nottetempo, Roma 2012), Han costruisce un percorso intellettuale di critica dell’odierna società capitalistica e neo-liberale, rielaborando criticamente categorie e motivi della filosofia foucaultiana e post-foucaultiana, con particolare riferimento al pensiero di Giorgio Agamben, utilizzati per rileggere originalmente la filosofia classica di Hegel, Marx e Heidegger.
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Separazioni, divorzi e scissioni mancate
La riforma del Senato è servita
di Giorgio Salerno
La riforma del Senato è fatta. “Il sacrificio della patria nostra è consumato” direbbe oggi l’eroe foscoliano Jacopo Ortis. La legge costituzionale è passata con 179 voti favorevoli, 17 no (SEL e Fittiani), 7 astenuti e mezzo Senato assente. Una maggioranza ampia che supera di 18 voti i 161 necessari corrispondenti alla metà più uno dei componenti della seconda Camera.
Sono stati determinanti i 13 voti del gruppo di Verdini, i 2 della coppia Bondi-Repetti, i 3 del gruppo GAL ed i 2 in dissenso di Forza Italia. La minoranza Dem, fino a ieri forte di 29/30 dissidenti, è stata silente, allineata e dissolta. Hanno resistito votando no o astenendosi solo Mineo, Tocci, Casson e la senatrice Amato assente. Assistendo al dibattito, meritoriamente trasmesso in diretta dalla RAI e guardando le facce, i sorrisi, le strette di mano – singolare quella tra Verdini e Napolitano – mentre si faceva scempio della Carta costituzionale, tornavano a mente le accorate parole di Ugo Foscolo. Tuttavia si spera, diversamente da Jacopo Ortis, che non tutto sia perduto e che il referendum ribalterà questo vergognoso risultato.
E’ stato detto ed illustrato efficacemente che il combinato disposto tra Italicum e Senato prefigura una drastica diminuzione della democrazia, uno schiacciante prevalere dell’esecutivo sul parlamento ed un potere assoluto del Presidente del Consiglio sempre più dominus, uomo solo al comando.
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"Common decency" o corporativismo
Osservazioni sull'opera di Jean-Claude Michéa
di Anselm Jappe
Secondo alcuni, il capitalismo, chiamato anche economia di mercato più democrazia, vive, malgrado le sue crisi, una fase storica di grande espansione. Secondo altri, questi trionfi non sono altro che una fuga in avanti la quale maschera la sua situazione ogni giorno sempre più precaria. Ad ogni modo, si può dire che viviamo in un'epoca che non somiglia a nessun'altra. Questo appare del tutto evidente - salvo a quelli che hanno fatto della critica al capitalismo il loro mestiere. Si sarebbe potuto sperare che la fine definitiva del "socialismo di Stato", nel 1989, avesse anche messo fine a quel genere di marxismo legato, in un modo o nell'altro, alla modernizzazione "di recupero" che aveva avuto luogo negli "Stati operai". Il campo sembrava ormai sgombro per l'elaborazione di una nuova critica sociale, all'altezza del capitalismo postmoderno e capace di riprendere le questioni di base. Ma il rapido impoverimento delle classi medie, un'evoluzione che pressoché nessuno aveva previsto, ha ridato un vigore inaspettato a delle recriminazioni che rimproverano al sistema capitalista soltanto le ingiustizie della distribuzione, e i danni collaterali che producono, senza mettere mai seriamente in discussione la sua stessa esistenza ed il tipo di vita che impone. E' appoggiandosi spesso ai concetti più obsoleti del marxismo tradizionale, che troskisti elettorali, negriani ed altri cittadinisti espongono la loro richiesta di una diversa gestione della società industriale capitalista. Qui, la critica sociale si riduce essenzialmente al dualismo fra sfruttatori e sfruttati, dominanti e dominati, conservatori e progressisti, destra e sinistra, cattivi e buoni. Quindi, niente di nuovo sotto il sole. I fronti sono sempre gli stessi. Ed è un Karl Marx ridotto a cacciatore di "profitti immorali" che esercita nuovamente un diritto di presenza nei grandi media. La crisi finanziaria della fine del 2008, ha fatto tuttavia guadagnare dei punti a questa spiegazione del mondo.
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Generazione Millennial
Un’arma ideologica contro i giovani lavoratori
di Carlo Tommolillo
Pochi giorni fa (il 9 ottobre), il Censis ha presentato a Milano una ricerca realizzata per il Padiglione Italia di Expo 2015 intitolata «Vita da Millennials: web, new media, startup e molto altro. Nuovi soggetti della ripresa italiana alla prova». Oggetto dell’indagine sono i giovani italiani di età compresa tra i 18 e i 35 anni, i cosiddetti Millennials appunto. A questa ricerca è stato dato grande risalto, e molti dei principali giornali e agenzie di stampa nazionali hanno diffuso i risultati, a loro dire, incoraggianti di questo studio. Ma cosa sono i Millennials?
Con i termini Generazione Y, Millenial Generation o Millennials si indica la generazione dei nati in occidente tra gli anni ottanta e i primi duemila; seguono ai Baby Boomers (nati tra i ’50 e i ’60) e alla Generation X (nati tra i ’60 e gli ’80). Giornalisti e sociologi di tutto il mondo occidentale negli ultimi anni – oltre ad assegnare nomi fastidiosissimi a qualsiasi fenomeno – hanno descritto abitudini e caratteristiche di questa generazione: nati nell’era digitale, utilizzatori abituali di tecnologia, iscritti ai social network e sempre connessi in rete.
La ricerca del Censis pretende di dimostrare una straordinaria capacità di adattamento e spirito di sacrificio da parte della gioventù italiana, doti che sarebbero dovute ad un nostro innato spirito imprenditoriale: “alle barriere di accesso al mercato del lavoro e ai rischi di incaglio nella precarietà” ci spiega il Censis “i Millennials italiani hanno opposto una forza vitale partendo da una potenza italiana consolidata: l’imprenditorialità”.
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Camminare sul campo minato*
Oltre le promesse tradite del Neoliberismo
di Raffaele Sciortino
All'interno della 4 giornate romane di Sfidare il Presente si sono tenuti una serie di dibattiti interessanti, che ci auguriamo possano fornire qualche bussola utile alla costruzione di percorsi di contrapposizione e lotte sociali dentro la crisi. A tal proposito, riportiamo qui di seguito la sbobinatura dell'intervento di Raffaele Sciortino, ospite insieme a George Caffentzis, Davide Caselli e un' attivista di UIKI Onlus, del tavolo di discussione “Camminare sul campo minato. Oltre le promesse tradite dal Neoliberismo”.
La lucidità e la puntualità dell'intervento di Sciortino pensiamo sia un importante contributo alla discussione per quelle le realtà di compagn* che cercano di dare una lettura politica macro della fase attuale. L'intervento parte dal dato di fatto che il neoliberismo è vivo e vegeto, premettendo però che con “neoliberismo” non si vuol intendere una serie di politiche ma una "fase del capitale". Nel neoliberismo il capitale si ristruttura, si trasforma e ingloba vecchie e nuove istanze di lotta, a partire dall'onda lunga del '68, in cui il capitale ha saputo sussumere-trasformando istanze di classe e collettive in istanze di “autonomia individuale”.
Una prima fase della crisi si è chiusa oggi. Essa ha tentato un “salvataggio” capitalistico che non ha avuto alcun effetto duraturo: immissioni di liquidità e misure di austerity prima, scarico della crisi sull'Europa, frammentandola, poi. Da questa incapacità di rilancio economico, nascono forme di protesta massificate (Occupy, Indignados, paesi arabi e USA) capaci di costruire un immaginario di cambiamento pensato però non in termini radicali ma come capitalismo a misura d'uomo.
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La grammatica del dominio e la parola sabotaggio
di Girolamo De Michele
«Testimone di una volontà di censura della parola»: così Erri De Luca ha definito se stesso. Non può esserci migliore descrizione di quello che accade non a Erri De Luca, ma attraverso Erri De Luca – se non nelle parole dell’avvocato A.M., che difende la ditta promotrice della causa contro lo scrittore: «chiediamo che la sentenza emani in messaggio, che redarguisca giuridicamente e processualmente». Dunque si chiede che la parola di uno scrittore sia sanzionata in modo esemplare, affinché altri imparino e si regolino di conseguenza: l’inutile ridondanza degli avverbi in -mente risuona come il ribattere del martello sulla testa del chiodo piantato nel legno.
Il capo d’imputazione per aver constatato, rispondendo a una domanda, che gli attrezzi sequestrati ad alcuni compagni «servono a sabotare la TAV» non è “apologia”, ma “istigazione”: la differenza che passa fra un “hanno fatto bene” e un “andate e fate”. Si noti che il reato di istigazione a delinquere «riguarda, o dovrebbe riguardare, solo i comportamenti concretamente idonei a provocare la commissione di altri reati, ferma però la libertà di manifestazione del pensiero garantita dalla Costituzione»: così Giovanni Palombarini [qui], ex Procuratore Generale Aggiunto presso la Corte di Cassazione, che di certo non manca di esperienza e cognizione di causa.
Chiunque si sia occupato, anche solo per sostenere un esame universitario, di diritto, sa che il diritto è intrecciato con la logica e la retorica, e che questo viluppo non si scioglie: non bastasse il buon senso, si potrebbe citare l’autorità di Norberto Bobbio. La logica (modale) ci insegna a distinguere fra la possibilità e la necessità: e ci ammonisce che chiunque istituisca una connessione fra il presente e il futuro, a meno che non stia enunciando una legge scientifica – ogni corpo immerso in un liquido riceve(rà) una spinta dal basso all’alto ecc. – va a collocarsi nel campo del possibile.
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Ignazio Marino: verrebbe da ridere se non ci fosse da piangere
di Leonardo Mazzei
«Facciamola breve. Marino ha dimostrato un'incapacità assoluta, ha scelto di rimanere al suo posto quando un anno fa l'inchiesta sul malaffare romano avrebbe imposto lo scioglimento del consiglio e l'indizione di nuove elezioni, ha mostrato una dignità pari a zero quando ha accettato di farsi accudire dalla badante (parole sue, riferite a Gabrielli) inviatagli da Renzi, e potremmo continuare...»
Una classe dirigente alla frutta, altro che complotti!
Essendo politicamente uno zero, potremmo anche evitare di occuparci del signor Marino Ignazio Roberto Maria, chirurgo, senatore piddino, sindaco di Roma, trasvolatore seriale dell'Atlantico e candidato al guinness dei primati come re degli scontrini.
Ci tocca invece occuparci della cosa per almeno due motivi. Il primo è che, non più tardi di ieri, ci è capitato di vedere una discreta folla di scapestrati inneggiare al sindaco dimissionario in Piazza del Campidoglio. Il secondo è che il caso Marino non è frutto del caso, ma neppure di un complotto, essendo piuttosto una pittoresca ma significativa manifestazione del degrado complessivo della classe dirigente del paese.
Se il primo punto è semplice da inquadrare, è il secondo quello su cui focalizzare l'attenzione.
Partiamo dunque dal più semplice. La folla inneggiante ieri a Marino ci ricorda un po' quella che il 12 novembre 2011 festeggiava per il cambio della guardia a Palazzo Chigi tra l'uscente Berlusconi e l'entrante Monti. «Dal pagliaccio con la bandana al killer dei "mercati"», titolammo allora. In quel caso si brindava ad una cacciata senza affatto riflettere su quel che sarebbe venuto dopo. Oggi si manifesta invece per il timore del futuro, senza però fermarsi per un attimo a ragionare sui fatti che hanno portato Marino alle dimissioni.
Due situazioni apparentemente opposte, ma invece tenute assieme dallo stesso atteggiamento fideistico. Allora chi manifestava pensava che i mali dell'Italia, ed addirittura la stessa crisi economica, dipendessero da un solo uomo: il Buffone d'Arcore. Ora, probabilmente, alla luce di quel che è venuto dopo, molti avranno forse cambiato idea. Non lo sappiamo.
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L'avventura del pensiero
Paolo Bartolini intervista Silvano Tagliagambe
Una bellissima nostra intervista a Silvano Tagliagambe. Offriamo ai lettori un autentico saggio di alto valore culturale, fra i più degni della rubrica 'Pensieri Lunghi'
Prof. Tagliagambe, nei suoi studi, a cavallo tra filosofia, scienza e psicoanalisi, ha guardato al mistero della psiche da una prospettiva estesa e transindividuale. Può descrivere, oltre alle implicazioni teoriche della questione, gli effetti pratici ed etici di un approccio siffatto alla vita della mente?
Il modello della "mente estesa" è stato proposto ed efficacemente descritto da Gregory Bateson in una conferenza dal titolo Forma, sostanza, differenza, tenuta il 9 gennaio 1970 per il diciannovesimo Annual Korzybski Memorial, nella quale egli dava la seguente risposta alla domanda: "Che cosa intendo per 'mia' mente?": «La mente individuale è immanente, ma non solo nel corpo; essa è immanente anche in canali e messaggi esterni al corpo; e vi è una più vasta mente di cui la mente individuale è solo un sottosistema. [.] La psicologia freudiana ha dilatato il concetto di mente verso l'interno, fino a includervi l'intero sistema di comunicazione all'interno del corpo (la componente neurovegetativa, quella dell'abitudine, e la vasta gamma dei processi inconsci). Ciò che sto dicendo dilata la mente verso l'esterno» [1]. In estrema sintesi questo modello afferma che i processi mentali sono esempi di elaborazione cognitiva incorporata e distribuita. Il che significa:
a) Che non solo il cervello, ma anche il corpo e l'ambiente cooperano al raggiungimento dei nostri fini cognitivi;
b) Che ciò è ottenuto in un modo così fluido e interconnesso da originare un unico flusso causale integrato, nel cui ambito (e per gli scopi scientifici dell'analisi del comportamento) le usuali distinzioni di interno ed esterno perdono ogni utilità ed efficacia.
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Il genocidio indonesiano del 1965
Jorge Cadima*
Mezzo secolo fa si consumava una delle più grandi stragi della Storia.
A partire dall'ottobre del 1965, i militari indonesiani, con il sostegno attivo e diretto dell'imperialismo nordamericano, massacrarono circa un milione di comunisti, di sindacalisti e membri dei forti movimenti di massa indonesiani. Il genocidio indonesiano è uno degli episodi più sanguinosi della grande guerra di classe mondiale con cui l'imperialismo ha cercato di contenere e sconfiggere l'ascesa del potente movimento di liberazione nazionale e sociale della seconda metà del XX secolo, sull'onda della sconfitta del nazi-fascismo e dell'immenso prestigio dell'Unione Sovietica e del movimento comunista internazionale. Il genocidio indonesiano è un chiaro esempio di come la barbarie imperialista dei nostri giorni non sia un fenomeno nuovo, ma una caratteristica intrinseca e permanente del dominio imperialista. Come affermato nel 1967 dall'ex presidente Usa Richard Nixon,"con il suo patrimonio di risorse naturali, il più ricco della regione, l'Indonesia è il tesoro più grande del Sud-est asiatico" [1]. Per impossessarsi di questo "tesoro", l'imperialismo affogò nel sangue il popolo indonesiano. Dieci anni dopo, i militari indonesiani "filo-occidentali" scatenarono un nuovo genocidio contro il popolo di Timor Est, ancora una volta in stretto coordinamento con l'imperialismo statunitense.
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Esiste un "altro" movimento operaio?
di Paul Mattick
Quella che segue, è la recensione critica di Paul Mattick, scritta nel 1975, al libro di Karl Heinz Roth, "L'altro movimento operaio: storia della repressione capitalistica in Germania dal 1880 a oggi" (pubblicato in Italia, da Feltinelli, nel 1976). Si tratta di un importante punto di vista su alcune questioni ricorrenti in quegli anni nell'ambito dell'operaismo italiano, quali l'aristocrazia operaia e la designazione stessa di classe operaia, il riformismo ed il burocratismo sindacale.
L'analisi svolta da Roth nel suo libro, così come più generalmente quella della corrente detta "operaista", intende porsi dal punto di vista dei lavoratori più sfruttati ed oppressi; quel punto di vista, la cui resistenza costringerebbe il capitale a rispondere, a sua volta con la violenza, la repressione ed il progresso tecnologico. Si propongono quindi (gli "operaisti") di mettere in rilievo la condotta, presente e passata, di un soggetto rivoluzionario misconosciuto e denigrato ("l'operaio-massa") e di restituire significato radicale sia alle sue lotte selvagge, spontanee, autonome, che alla sua ostilità nei confronti di quell'ideologia del lavoro, produttivista e pro-capitalista, che anima le correnti dominanti del marxismo ufficiale. Una prospettiva, questa, che sfocia conseguentemente in una critica, altrettanto radicale, delle organizzazioni operaie tradizionali, sia riformiste che rivoluzionarie, e della separazione di cui esse si nutrono: l'economia e la politica, la coscienza e l'azione, la teoria e la pratica.
Ora, la critica svolta da Mattick alle tesi di Roth non si colloca in alcun modo nel quadro della difesa delle organizzazioni operaie tradizionali, né esprime paura o preoccupazione a fronte della spontaneità delle masse, dei movimenti autonomi, degli scioperi selvaggi.
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La truffa del Jobs Act
Ovvero come lo Stato sta regalando soldi alle imprese che licenziano e riassumono per accedere agli sgravi fiscali della Legge di Stabilità
scritto da Clash City Workers
Tante imprese hanno licenziato lavoratori assunti a tempo indeterminato per riassumerli dopo sei mesi con il nuovo contratto a "tutele crescenti" ed avere 8.000€ in regalo dal Governo sotto forma di sgravi fiscali. I lavoratori si trovano così con un contratto più precario del precedente e il Governo può esultare per l'aumento dei contratti a tempo indeterminato. Di seguito vi spieghiamo come è successo, i tentativi di lotta dei lavoratori per bloccare la truffa e perché è necessaria una risposta collettiva a quest'attacco. Qui invece potete riascoltare la diretta con Radio BlackOut
A inizio 2015 il governo ha varato i primi decreti che riformano il mercato del lavoro, il cosiddetto Jobs Act, con lo scopo dichiarato di aumentare l'occupazione stabile mediante un nuovo contratto a tempo indeterminato, denominato a “tutele crescenti”. In sostanza, chi è stato assunto col nuovo contratto in vigore dal 7 marzo, non dispone più della protezione contro i licenziamenti illegittimi garantito dal discusso articolo 18 che non tutelava i lavoratori da tutti i licenziamenti, ma soltanto da quelli riconosciuti come illegittimi in sede giudiziale. Col nuovo contratto, invece, si potrà essere licenziati anche senza giusta causa o giustificato motivo, perché a crescere non sono le tutele, ma soltanto l'indennizzo cui si ha diritto: due mensilità dell'ultima retribuzione considerata per il Tfr per ogni anno di servizio, con un minimo di quattro e un massimo di 24 mensilità. Un lavoratore può dunque venire licenziato in qualunque momento, senza una motivazione valida. Una volta avrebbe potuto ricorrere contro il licenziamento e, constatata l'illegittimità del provvedimento, poteva avere diritto al reintegro nelle vecchie mansioni, oltre al ricevimento degli arretrati. Ora, invece, anche nel caso in cui il giudice accertasse l'illegittimità del licenziamento, il lavoratore avrebbe soltanto diritto all'indennizzo, ma non ritornerebbe mai al suo posto. Un bel regalo per i padroni che potranno così liberarsi di lavoratori indesiderati, ad esempio perché particolarmente combattivi nel far rispettare i diritti loro e dei loro compagni sul luogo di lavoro.
Per altro, per ricevere l'indennizzo, il lavoratore dovrebbe intentare una causa all'azienda con tempi e costi crescenti che non tutti potrebbero sostenere, tanto più in assenza del reddito da stipendio.
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Chi ha ucciso Karl Marx?
Se la crisi sconfessa le teorie liberiste, meglio dare la colpa a Marx e Keynes.
di Ascanio Bernardeschi
“Non riconosco più le ragioni per cui ho demonizzato il capitale. Il mostro che fagocita tutto? Il Leviatano che succhia l'anima e il sangue dei lavoratori? Sconfesso quest'analisi. Il capitale è fatto dagli uomini, dalla loro intelligenza, dalla loro fantasia, dalle loro fatiche; è il risultato del lavoro, è ciò che gli uomini hanno fatto, è quanto di buono ci circonda e ci aiuta ad abitare il pianeta, a dominare una natura spesso ostile. Perciò è bene che chi ne è il detentore lo possa stabilmente possedere e ne tragga il giusto frutto” (Karl Marx, luglio 2015)
Avrei dovuto aspettarmelo, dal momento che l’Autore [1] – si legge nella quarta di copertina – è un docente universitario che ha iniziato la sua carriera alla Bocconi, luogo in cui si plasmano i cervelli in grado di produrre i disastri culturali e di giustificare quelli materiali che sono davanti agli occhi di tutti. Però il titolo era troppo accattivante, Marx & Keynes. Un romanzo economico, e l’invito nella stessa quarta di copertina prometteva “rigore scientifico, originalità narrativa, humor e suspense” con tanto di “finale imprevedibile”. Maledetta la mia curiosità! Così nello stand dei libri della festa di Rifondazione, non ho resistito alla tentazione di portarmi a casa il libro, per la modica cifra di 12 euro.
Non sono di palato fino, ma già nel primo capitolo mi ha infastidito un’affermazione secondo cui Marx avrebbe preferito il giornalismo all’accademia. Chi scrive della sua vita, sia pure in forma romanzata, dovrebbe sapere che l’attività giornalistica per quotidiani borghesi fu per il Moro un ripiego per mettere insieme il pranzo con la cena, visto che, dopo la laurea, pensava di ottenere la libera docenza a Bonn, dove insegnava il suo amico Bruno Bauer. Ma Bauer venne allontanato dall’Università. Non si schiuse così la carriera accademica di Marx, che passò al giornalismo diventando redattore della militante “Gazzetta renana”, prontamente interdetta dalla censura prussiana nel 1845.
Mi direte che un romanzo è anche frutto della fantasia. Ma allora perché promettere rigore? Meno sorprendente è un’altra affermazione di dolore attribuita al Marx fantastico per avere avuto come eredi/mostri Stalin, Mao, Che Guevara e Castro. Una dose di anticomunismo da parte di un bocconiano sta nel conto…
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L’economia dell’inganno
Il caso Volkswagen e il crony capitalism
di Maurizio Franzini
Maurizio Franzini cerca di collegare le riflessioni contenute nel libro appena pubblicato dai premi Nobel Akerlof e Shiller sull’economia dell’inganno e della manipolazione al caso recente, e clamoroso, che ha coinvolto la Volkswagen. Franzini sottolinea l’importanza delle riflessioni di Akerlof e Shiller che portano a considerare l’inganno endemico al mercato ma osserva che il caso Volkswagen prova che le forme dell’inganno sono molte, di diversa gravità e non possono essere contrastate soltanto con la regolazione
Il 22 settembre è stato pubblicato negli Stati Uniti il nuovo, e atteso, libro di due Nobel per l’economia, George Akerlof e Robert Shiller, dal titolo (singolare) “Phishing for Phools: The Economics of Manipulation and Deception” che potrebbe, un po’ liberamente, essere tradotto così: “A caccia di sprovveduti: l’economia della manipolazione e dell’inganno” .
La tesi centrale del libro è questa: l’idea di mercato che gli economisti hanno contribuito a diffondere è, quanto meno, parziale perché manca di considerare che il mercato (attraverso il profitto) fornisce un incentivo forte e sistematico a cercare vantaggi anche attraverso l’inganno e la manipolazione; peraltro, questi vantaggi si realizzano facilmente perché i consumatori possono essere manipolati e ingannati a causa sia delle limitate informazioni di cui dispongono sia delle falle che si aprono nella loro razionalità, – e che non sono né poche né occasionali come dimostrano numerose esperienze concrete (brillantemente documentate nel libro) e molti esperimenti di laboratorio.
Scrivono Akerlof e Shiller: “”Raramente i mercati liberi e non regolati premiano …l’eroismo di coloro che si astengono dal trarre vantaggio dalle debolezze psicologiche o informative dei consumatori. La concorrenza fa sì che i managers che si autodisciplinano in questo modo tendono a essere rimpiazzati da altri con meno scrupoli morali.
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Il velo alzato sul mondo dei morlock
Benedetto Vecchi
«Il regime del salario», le analisi di un gruppo di ricercatori e attivisti raccolte in un volume. Dal jobs act al job sharing, la discesa negli inferi della condizione lavorativa. Dai quali uscire senza sperare in facili scorciatoie
L’inferno degli atelier della produzione non è necessariamente un luogo dove ci sono forni accesi, rumori assordanti, caldo insopportabile e dove gli umani sono ridotti a bestie. Il lavoro può essere infatti svolto in ambienti lindi dove viene diffusa musica rilassante e piacevole; oppure in case dove la sovrapposizione tra vita e lavoro è la regola e non l’eccezione. L’immagine più forte del lavoro non è data certo da «Tempi moderni» di Charlie Chaplin. L’omino con baffetti, cappello e bastone risucchiato negli ingranaggi delle macchine rappresenta con lievità l’orrore della catena di montaggio. Strappa un sorriso di fronte la disumanità dell’organizzazione scientifica del lavoro. Ma la rappresentazione del lavoro non è viene più neppure dalla folla rabbiosa di Metropolis di Fritz Lang. Sono due film dove è presente l’imprevisto dell’insubordinazione, della rivolta. Ma in tempi di precarietà diffusa, occorre leggere le pagine o far scorrere i fotogrammi del film tratto dal libro di Herbert George Wells La macchina del tempo per avere la misura di come è cambiato il lavoro.
Il romanzo dello scrittore inglese è utile non tanto perché ci sono gli eloi, umani ridotti a ebeti che possono consumare di tutto in attesa di essere divorati dai morlock umani-talpa che vivono nel sottosuolo per produrre chissà cosa. La macchina del tempo è un testo significativo perché rappresenta una società che ha occultato gli atelier della produzione, li ha sottratti allo sguardo pubblico. Sono come le community gated delle metropoli: zone dove lo stato di eccezione – limitazione dei diritti e della libertà personale — è la normalità. Per gli attivisti e ricercatori del gruppo «Lavoro insubordinato» sono espressione di un regime che non conosce faglie distruttive e dove la crisi è la chance che il capitale ha usato per affinare e rendere più sofisticate, e dunque più potenti, le forme di assoggettamento e di compressione del salario del lavoro vivo. Lo scrivono in un ebook dal titolo programmatico Il regime del salario che può essere scaricato dal sito internet www.connessioniprecarie.org.
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Confini, frontiere, capitale
Sandro Mezzadra
1. “Che cos’è un’economia e, ancor prima, dov’è un’economia?” Si può riprendere la domanda di Immanuel Wallerstein1 per impostare un ragionamento sul rapporto che il capitale intrattiene in epoca moderna e contemporanea con i confini e le frontiere. Ogni economia – ogni “reticolo di processi produttivi più o meno strettamente interdipendenti” – si sviluppa all’interno di determinati “confini spazio-temporali”, aggiunge Wallerstein: la storicità di un sistema economico, la sua origine, la sua crescita, le sue trasformazioni corrispondono cioè a una specifica (ancorché mutevole) collocazione all’interno dello spazio, circoscritta da un insieme di “limiti”. Sorge dunque immediatamente il problema di comprendere “come questi confini si colleghino e interagiscano con quelli definiti da altre dimensioni sociali, in particolare dalla dimensione politico-legale e da quella culturale”.2
Posta in questi termini generali la questione, occorre specificare il modo in cui essa si pone a fronte dei caratteri storicamente specifici del capitalismo moderno. Particolarmente rilevante, da questo punto di vista, è il rapporto tra la produzione di spazio che contraddistingue il capitalismo e le modalità con cui lo spazio è prodotto e organizzato sotto il profilo politico. Molti studi hanno ricostruito i processi che hanno condotto all’emergere in Europa del confine lineare come astrazione geometrica, capace di circoscrivere (di produrre) lo spazio omogeneo della moderna forma-Stato3.
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Appropriarsi della scienza – farla finita con il primitivismo
di lorcon
Questo articolo nasce come risposta all’articolo di Philippe Godard apparso su A – Rivista Anarchica n. 398. È nato come riflessione collettiva tra il sottoscritto e altri tre compagni. Un estratto è stato pubblicato nella rubrica della corrispondenza su A – Rivista Anarchica numero 401. Qua appare la versione integrale, come apparsa anche su Umanità Nova numero 30 anno 95. Si ringraziano G, G e C per gli spunti e le correzioni
Ben volentieri recepiamo l’invito al dibattito apparso su A Rivista numero 397 in merito all’articolo di Philippe Godard sulla ricerca scientifica. Da tempo pensiamo che sia necessario avviare una riflessione in campo anarchico in merito alla questione della scienza e della tecnica, sia nei risvolti applicativi della metodologia scientifica, le tecnologie, che nel merito della metodologia scientifica in sé e per sé.
È oramai fatto accertato che l’ultimo secolo e mezzo di storia umana abbiano visto una profonda accelerazione sia delle scoperte scientifiche “di base” che dell’invenzione di tecnologie basate sulle scoperte stesse. Questa accelerazione, riscontrabile in più campi, si è sviluppata insieme all’attuale sistema sociale, basato su determinati rapporti di produzione, ma al contempo mostra i limiti dell’ambiente stesso in cui si è sviluppata.
Al contrario del Godard noi non crediamo che la “scienza” sia legata in modo inestricabile con un sistema di dominio. Intanto bisogna capire di che cosa stiamo parlando: la scienza non è un oggetto, o meglio una collezione di oggetti-nozioni, ma bensì è un metodo. La metodologia scientifica è, a nostro modo di vedere, una metodologia intrinsecamente libertaria: l’onere della prova, la falsificabilità, la verificabilità, la riproducibilità, ovvero i capisaldi dei modelli di spiegazione scientifici, hanno sostanzialmente permesso di strappare dalle mani dei sacerdoti la spiegazione del mondo eliminando l’autoritaria dimostrazione per ipso-dixit e facendo stracci dei modelli finalisti e teologici cari alla tradizione cristiana e in generale alle tradizioni trascendentali.
Se pensiamo alla storia del pensiero umano come ad una storia di successioni di diversi modelli di spiegazione del mondo non possiamo notare quella gigantesca linea di frattura, frastagliata certo, che separa l’epoca medioevale in cui tutto veniva ricondotto all’azione divina dall’epoca moderna in cui i modelli di spiegazione del mondo devono essere continuamente rimessi in discussione e non peccano di una visione finalistica e antropocentrica.
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Le possibili ragioni dell'intervento della Russia in Medio Oriente
di Gaetano Colonna
L'intervento militare russo in Medio Oriente sembra avere completamente spiazzato gli osservatori occidentali: il monopolio occidentale delle operazioni di "polizia internazionale" a leadership anglo-sassone, a partire dal 1991, improvvisamente sembra essere stato infranto dalla decisione della Duma russa di colpire le forze anti-governative in Siria, siano esse affratellate o meno all'Isis.
Molti sono in effetti i risvolti paradossali di questo pesante intervento militare: la Russia che, a seguito della crisi ucraina, pareva relegata ai margini della comunità internazionale, sembra ora prendere a pretesto la lotta contro l'estremismo islamista per affermare con forza la legittimità del governo Assad. Si tratta quindi in definitiva, più che di un intervento dettato da ragioni ideologiche, di una netta ripresa della più classica delle Reapolitik: la difesa di un alleato storico della Russia, con la quale si pone anche in seria difficoltà uno dei più tradizionali avversari della Russia, la Turchia.
Elemento non meno importante, che Putin sta debitamente enfatizzando, è che la Russia si è così posta di fatto anche alla testa di una coalizione di forze (Siria, Iran e Iraq) che costituiscono un "fronte" arabo sfacciatamente antitetico a quello sunnita-wahabbita guidato dall'Arabia Saudita, proprio ora che quest'ultimo paese si trova impantanato, fra molte critiche anche al suo interno, in un intervento nello Yemen che sembra stia drenando senza costrutto importanti risorse militari dei paesi del Golfo.
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Francesco, Bentham e Jobs Act
di Joe Vannelli
A fine settembre, l’iter legislativo che valida il Jobs Act si è compiuto, nell’indifferenza più totale. Eppure con gli ultimi 4 decreti (immediatamente operativi) , si conclude il progetto di ristrutturazione completa del mercato del lavoro in Italia, si sancisce la precarietà come forma “normale” e “strutturale” del rapporto di lavoro, si ribadisce il primato del “padrone” (chiamiamo le cose con il loro vero nome) e si definiscono i contorni biopolitici del controllo diretto e indiretto sulla nostra vita. Mentre all’orizzonte, si prospetta la nuova fregatura del “divenire occupabile” e della diffusione del lavoro gratuto
Completata la macelleria sociale
Sono stati pubblicati il 24 settembre ultimo scorso (immediatamente entrati in vigore) gli ultimi quattro decreti legislativi che completano il Jobs Act: portano numerazione dal 148 al 151. Il governo ha approvato i testi solo il 4 settembre e li ha trasmessi a Mattarella il 12 settembre; la firma pare sia del 14 settembre, con un esame lampo.
La legge fissava un termine, e quel termine era scaduto il 26 agosto, come hanno fatto inutilmente notare i parlamentari dell’opposizione (5 stelle). Ma l’ineffabile ministro Poletti ha liquidato ogni protesta spiegando che il problema, semplicemente, non esiste. Sarebbe in effetti pura ingenuità sperare che con queste eccezioni (fondate forse, ma pur sempre cavillose) si possa bloccare la macchina autoritaria del governo, in assenza di significative reazioni sociali e a fronte (sul fianco sinistro) di una piena connivenza comportamentale, di sostanziale complicità.
Il partito democratico, nella sua complessiva struttura, ha completato dunque l’operazione di macelleria sociale, eseguendo gli ordini trasmessi dalla cabina europea di comando. Naturalmente le nuove norme sono presentate come un progresso, come una riforma capace di attuare finalmente la flexicurity; ma dal vecchio partito comunista i parlamentari democratici hanno ereditato solo le caratteristiche peggiori, ovvero una grande disinvoltura nel falsificare i dati e nel mentire in pubblico, occupando le posizioni di controllo, promuovendo la delazione.
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Perché c’è bisogno di un populismo di sinistra
Christian Raimo
Due mesi fa, quest’estate, ho assistito a Londra a una giornata della campagna elettorale di Jeremy Corbyn alla Union Chapel. Tra le molte cose (belle) che mi hanno sorpreso ne ho appuntate mentalmente un paio.
La prima è che l’intervento finale di Jeremy Corbyn durava da programma venti minuti, e venti minuti è durato. Tanto carismatico quanto sintetico, tanto chiaro quanto radicale.
Pantaloni larghi con le pinces, senza cravatta, aria da middle class novecentesca, ha parlato di rinazionalizzare le ferrovie, di abbassare le tasse universitarie, di rendere di nuovo pubblico ed efficiente il servizio sanitario nazionale, di sostenere un’alternativa economica chiara. Ha detto: “Non è possibile che la classe politica britannica abbia studiato tutta a Oxford o a Cambridge”, “dobbiamo avere una risposta umana e umanitaria alla questione delle migrazioni”, e ha concluso i suoi venti minuti con una frase di grande efficacia: “Immagino un mondo in cui tutte le persone si prendono cura delle altre, e questo mondo si chiama socialismo”.
Ma il suo intervento, convincente, perfetto, da leader che avrebbe effettivamente stravinto le primarie del Partito laburista, non è stato nemmeno il migliore della giornata.
Ad aprire infatti era stato un giovane attivista, opinionista del Guardian, che si chiama Owen Jones. I venti minuti di Owen Jones sono stati il miglior discorso di sinistra che ho sentito negli ultimi anni.
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La favola del postcapitalismo
di Lelio Demichelis
Il nesso tecnologia/capitalismo è tornato recentemente alla ribalta, interpretato in termini ottimistici, nel fortunato libro di Paul Mason, "Postcapitalism" (che a breve uscirà anche in Italia). L'errore è pensare che la tecnologia abbia il potere di liberarci dal capitalismo. È piuttosto il contrario: è la tecnologia che permette al capitalismo di sopravvivere ai suoi problemi
E’ arrivato un nuovo profeta che promette un postcapitalismo meraviglioso, umano, collaborativo, intellettuale, gratuito. Un postcapitalismo che sta nascendo dal capitalismo stesso e che, come il proletariato di Marx cancellerà questo capitalismo e ci porterà gioia, felicità, condivisione libera, la liberazione dalla fatica, eccetera eccetera. Perché si compia il passaggio al postcapitalismo basta confidare nella potenza rivoluzionaria e salvifica delle nuove tecnologie, confidare nel loro potere liberatorio e liberante nonché libertario, nella loro capacità di diffondere nuovi modi di lavorare e di consumare liberando il tempo dal lavoro e permettendo a noi mortali attività in rete finalmente libere e quindi non capitalistiche. Basta credere che il web sia la nuova fabbrica e che svolga la stessa funzione delle fabbriche del XIX° secolo e che il suo proletariato digitale, diverso da quello industriale perché più informato e più connesso, possa abbattere questo capitalismo.
Tutto bello e affascinante. Dimenticando però che se il vecchio proletariato – che era classe in sé ma anche per sé avendo una propria coscienza di classe capace di fare contrasto al capitalismo – è stato ormai in-corporato nel (è parte del corpo politico e culturale del) sistema capitalista, si è progressivamente sciolto nel capitalismo e ne condivide l’egemonia, questo proletariato digitale è nato invece già antropologicamente capitalista, non ha alcuna idea di una possibile alternativa, ha assunto in sé l’imperativo della propria integrazione nel sistema (il dover essere connessi) e pur essendo forse ancora classe in sé
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Turbolences en France: danger mortel pour l’euró!
Federico Dezzani
Le foto del dirigente di Air France che sfugge seminudo al linciaggio dei dipendenti ha girato il mondo: è l’icona del malessere che affligge l’Esagono. Il “motore franco-tedesco” è infatti grippato a causa del guasto al cilindro francese: è l’effetto del logorio prodotto dall’euro, moneta insostenibile per l’economia francese nel lungo periodo. Dall’industria alle finanze pubbliche, la Francia è in condizioni simili all’Italia, con l’aggravante che l’alto livello di sindacalizzazione e l’orgoglio nazionale, rendono inattuabile qualsiasi cura “Monti-Renzi” di svalutazione interna. Non è un caso che il terrorismo targato ISIS si concentri principalmente in Francia, bomba a orologeria che ticchetta inesorabile sotto l’euro
Air France, specchio di un Paese “en panne”
Lunedì mattina, 5 ottobre, riunione del comitato centrale di Air France. L’aria è tesa, fuori e dentro dal quartiere generale della compagnia aerea: i lavoratori sono in agitazione dopo la notizia trapelata il venerdì precedente che il vettore procederà con un ulteriore taglio di posti. Le indiscrezioni parlano di di cifre a tre zeri. Il direttore delle risorse umane (mestiere infame di questi tempi), Xavier Broseta, conferma: a essere soppressi saranno 2.900 posti, essenzialmente tra il personale di terra. La sala dove è riunita la dirigenza esplode: alcuni salgono sui tavoli, poi altri scavalcano e tra le urla premono sempre più i dirigenti verso le pareti di fondo. Cul de sac. Con le giacche lacere e scortati dagli addetti alla sicurezza, Boseta ed il vicepresidente dello scalo di Orly riescono a guadagnare l’uscita, ma all’esterno il clima è ancora più infuocato: premuti dalla calca in escandescenza, i due avanzano a fatica. Nelle riprese successive si vede Xavier Broseta, ormai a torso nudo, che incespica e ruzzola a terra, si rialza e riprende a correre verso le cancellate: la sicurezza lo issa a peso oltre recinzione e gli ultimi fotogrammi lo ritraggono allontanarsi semi-nudo e sotto choc.
È questo il video1 che ha fatto il giro del mondo e sarà ricordato come un momento saliente non solo della crisi di Air France ma anche della, sottaciuta ma acuta, crisi dell’economia francese. Se le compagnie di bandiera riflettono il prestigio e la ricchezza del Paese, allora le loro condizioni di salute sono indicatori importanti per il sistema socio-economico nel suo complesso.
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Laudato si’. Una Enciclica antisistemica
L’opinione di un marxista
di Michael Löwy
Considerando l’enorme influenza su scala mondiale della chiesa cattolica, è un contributo cruciale allo sviluppo di una coscienza ecologica critica. E’ stata accolta con entusiasmo dai veri difensori dell’ambiente, ha al contrario suscitato inquietudine e disprezzo da parte dei religiosi conservatori, rappresentanti del capitale e ideologi dell’«ecologia di mercato». Si tratta di un documento di grande ricchezza e complessità, che inaugura una nuova interpretazione della religione giudaico-cristiana – in rottura con «il sogno prometeico di dominio sul mondo» – e propone una riflessione profondamente radicale sulle cause della crisi ecologica. In diverse parti, come per esempio nell’inseparabile associazione del «grido della terra» con il «grido dei poveri», si percepisce che la teologia della liberazione – in particolare dell’eco-teologo Leonardo Boff – è stata una delle fonti d’ispirazione.
Nelle brevi note che seguono mi interessa enfatizzare una dimensione della Enciclica che spiega le resistenze presenti nelle establishment economico e mediatico: il suo carattere antisistemico.
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C'è la terza guerra mondiale. Non fatevi domande, obbedite...
Dante Barontini
Sabato sera, da Fabio Fazio, un attore intelligente e sincero – Pierfrancesco Favino – si è posto, e rivolto a tutti quelli “al di qua del tavolo, noi che siamo guardati”, la semplice domanda: “che cosa io ho venduto di me, per arrivare dove sono?”. È la domanda che si fa, a scopo professionale, prima di affrontare l'interpretazione di un personaggio molto lontano da lui – un politico corrotto, in questo caso – per trovare in se stesso la misura necessaria a calarsi in quei panni.
È una domanda che è inutile rivolgere ai giornalisti italiani, specie quelli dei grandi media e dai grandi stipendi (Gramellini, in tv, era non per caso imbarazzatissimo), anche se le risposte sarebbero certamente rivelatrici. Ben più di un'inchiesta che peraltro non fanno.
Scusate il lungo giro di parole, ma leggendo l'editoriale di Franco Venturini, sul Corriere della sera di oggi, quella domanda ci è riesplosa nella testa. Titolo promettente (Noi e la paura di una guerra mondiale), incipit farsesco, che rende pressoché inutile la lettura del lungo e incompleto elenco dei “pezzettini” di guerra che vanno componendosi in un mosaico complesso, articolato, a molte facce:
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Crisi neo-liberista e disgregazione del soggetto
Due volti del potere post-comunitario
Claudio Valerio Vettraino
La crisi che stiamo vivendo ormai da quasi un decennio e che rappresenta solo una forma determinata di una crisi generale che attraversa tutto il sistema capitalista-finanziario globale, non è solo indice di una ristrutturazione economica, per dirla in termini marxiani, ma ci parla di una mutazione profonda che investe la soggettività e la sua dialettica quotidiana con i processi storici in cui è immersa e che è chiamata a vivere o a sopportare a seconda dei casi e della posizione che questa stessa soggettività ricopre all’interno dei rapporti attraverso cui si produce e si riproduce la ricchezza complessiva della società.
Una ristrutturazione di una soggettività potremmo dire “orfana” di idee e valori, estromessa da qualsivoglia spinta utopista e di concreta appartenenza ad un tutto o ad una comunità che lotta – attraverso identità e riconoscimento reciproco (da e nella società) – per imporre gramscianamente una nuova egemonia e un’alternativa di sistema, che tenta a fatica di costruirsi come soggetto cosciente, figlia di quella soggettività umanistica che ha marcato la differenza – nei secoli – tra l’Occidente e l’Oriente, tra un approccio attivo, in questo precipuo senso critico-filosofico al mondo e alle cose e, viceversa, un approccio naturalistico nei confronti del tutto, in quanto eterno mutamento in cui il soggetto era “istintivamente” immerso.
Ovviamente la tendenza alla generalizzazione in questo mio contributo è necessaria, dato che non è possibile qui entrare in tali conflitti.
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Ascetici perché «creativi»
Benedetto Vecchi
L’innovazione è il vangelo del capitalismo. Non è così per Joseph Schumpeter, che la considera un fenomeno raro. Un sentiero di lettura a partire dal saggio «Il fenomeno fondamentale dello sviluppo economico» pubblicato dal Mulino
Un’operazione editoriale ardita questa del Mulino che ha avuto la regia accorta, ma discreta di Adelino Zanini, filosofo, ma anche storico del pensiero economico, avendo dedicato molta della sua attività di ricerca teorica a Joseph A. Schumpeter e Adam Smith, con felici incursioni nell’opera di John Maynard Keynes e nel campo della critica dell’economia politica di Karl Marx. L’operazione consiste nella pubblicazione di due capitoli scritti da Schumpeter per la sua Teoria dello sviluppo economico e poi soppressi dallo stesso economista austriaco perché «devianti» rispetto al corpus centrale dell’opera. Nella sua introduzione, Zanini ritiene, in maniera convincente, che invece sono testi rilevanti, perché danno la misura del laboratorio teorico di Schumpeter e della messa a fuoco della figura cardine del suo pensiero economico, cioè quella figura dell’imprenditore che ha, per Schumpeter, la capacità di rompere l’equilibrio inerente l’agire economico grazie alla sua capacità di proporre una nuova combinazione di elementi noti – nelle tecnologie, nel credito, nel processo produttivo e nella sfera della circolazione, nella domanda di beni – tale da produrre una discontinuità nello sviluppo economico.
Adelino Zanini argomenta, sempre nell’introduzione a Il fenomeno fondamentale dello sviluppo economico (Il Mulino, pp. 200, euro 18), la decisione della pubblicazione di questi due capitoli, archiviati e mai più ripresi da Schumpeter, non tanto per offrire allo studioso materiali che vanno a comporre, come tasselli persi, il puzzle di un pensiero economico centrale tra gli anni Venti e Cinquanta del Novecento, ma perché consentono, dato il loro carattere introduttivo e riassuntivo – si tratta in origine del 2 capitolo e del 6 capitolo della Teoria dello sviluppo economico – di evidenziare la sua presa di distanza dall’economia neoclassica allora dominante nelle università, visti i non sono pochi rinvii proprio alla critica dell’economia politica di Marx.
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