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Una geologia per il divenire dell'individuo sociale
Enrico Livraghi
Un denso saggio dedicato a Gilbert Simondon, l'epistemiologo francese che ha ispirato l'opera filosofica di Gilles Deleuze. E che ha sviluppato un innovativo concetto di «natura umana» e un «principio di individuazione» aperto a stimolanti approdi politici
In Italia il pensiero di Gilbert Simondon era poco più che sconosciuto prima che Gilles Deleuze lo indicasse come un referente cruciale, o meglio, come una delle fonti del concetto di singolarità e individualità da lui messo a punto (con Felix Guattari) negli anni Settanta. In ogni caso, Du mode d'existence des objets tèchniques, apparso nel 1958 e mai tradotto in italiano, era forse noto a pochi sparuti francofoni, mentre nessuno, almeno pubblicamente, sembrava sapesse nulla di L'individuation psychique et collective, pubblicato nel 1964 (e poi nel 1989). Come si sa, quest'ultima opera, che è poi la tesi principale di dottorato presentata da Simondon (mentre Du mode d'existence è invece la tesi secondaria), è stata invece editata anche in Italia nel 2001 da DeriveApprodi.
Sintesi di forma e materia
A qualche anno di distanza, tuttavia, gli studi su Simondon si può dire siano rimasti al palo, a parte i riferimenti di Paolo Virno nel suo Grammatica della moltitudine, la voce «Singolarità/singolarizzazione» scritta da Massimiliano Guareschi per Lessico postfordista (Feltrinelli) e poco altro. Si presenta quindi di notevole importanza la pubblicazione per l'editore Manni di Lecce di questo Gilbert Simondon: per un'assiomatica dei poteri (Euro 18), scritto dal giovane Giovanni Carrozzini (oggi ventiseienne). Si tratta del primo e finora unico tentativo di sondare in profondità l'opera del filosofo-epistemologo francese, tanto esigua sul piano quantitativo quanto complessa sul piano concettuale.
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Record italiani
Rossana Rossanda
Il fine e la fine della transizione italiana dalla prima alla seconda Repubblica consisteva dunque nel cancellare dalla scena istituzionale qualsiasi sinistra proveniente dal movimento operaio. In verità siamo approdati non a una «seconda» Repubblica, ma a un tipo di repubblica finora inesistente nell'Europa postbellica. Anche con il comunismo reale all'angolo di casa la Germania ne ha mantenuto più che un residuo nella socialdemocrazia perché se a Bad Godesberg la Spd aveva dismesso ogni idea di trasformazione anticapitalista, il conflitto sociale restava legittimato, il lavoro dipendente andava organizzato e rappresentato. Se Andrea Ipsilanti si propone, anche con difficoltà, di allearsi con la Linke, significa che il problema è del tutto aperto. Anche il Labour, finita la seduzione di Tony Blair, è in fibrillazione.
Soltanto in Italia no. Bisognava liquidare ogni rappresentanza politica del conflitto sociale, consegnandolo alle manifestazioni di piazza o a sussulti di protesta che, come tutti sanno, sono affare di polizia (un tempo dei «carabinieri a cavallo»). A questa operazione è servita una legge elettorale di cui tutti si vergognavano finché Veltroni ha capito che poteva servire all'uopo e ha deciso di «correre da solo» a costo di non vincere, tosto imitato da Silvio Berlusconi.
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Un risultato elettorale "maggioritario"
Domenico Moro
L'analisi dei flussi di voto può essere uno strumento importante per cominciare a capire, sulla base di una analisi oggettiva, il significato politico delle elezioni del 2008 e le cause di quanto accaduto, in primis della scomparsa della sinistra dal Parlamento. A questo scopo, utilizziamo i dati, già ripresi da alcuni quotidiani, contenuti nell'indagine condotta da Consortium, l'istituto di ricerche di Nicola Piepoli.Da tali dati si evincono alcune conferme di ragionamenti fatti a caldo, ma anche delle interessanti novità.
Iniziamo con la coalizione che ha vinto. Il Pdl è riuscito a prevalere sostanzialmente perché Forza Italia è riuscita a conservare i suoi voti, grazie alla struttura "forte" di partito azienda. Ben il 62% dei votanti del Pdl avevano votato per Forza Italia nel 2006. Inoltre, Fi è riuscita a rosicchiare preferenze all'Ulivo (450mila voti). Al contrario Alleanza nazionale ha subito una rilevante emorragia di voti all'interno dello stesso schieramento di destra, a favore, in misura preponderante, della Lega (345mila voti) e poi dell'Udc (147mila voti). La lega è, come si è detto, la vera vincitrice della competizione, quasi raddoppiando i suoi voti, che salgono da 1,7 milioni a più di 3 milioni.
Da chi pesca la Lega? Principalmente da Forza Italia e, come detto, da An, per un totale di 908 mila voti, il resto lo prende soprattutto ed in misura uguale da Udc e Ulivo.
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Ma tutto questo Fausto non lo sa
di Carlo Bertani
Old man look at my life,
I'm a lot like you were…
(Vecchio uomo, guarda alla mia vita:
io, sono un po’ come tu eri…)
Neil Young, Old Man, dall’album Harvest (1972)
Anch’io, caro Fausto, militavo nello PSIUP nel lontano 1972: allora, ero un giovane studentello, tu un piccolo bonzo sindacale. Già a quel tempo – ricordi? – ci fu la “batosta” elettorale che ci cacciò fuori dal Parlamento, ma la situazione era diversa. Pur con le dovute cautele, il PCI era ancora un partito di sinistra.
Francamente, osservandoti sulle poltrone di Vespa l’altra sera – io, che non sono andato a votare schifato proprio da voi – m’hai fatto gran pena. Dev’essere deprimente oltre misura, dopo una vita passata (a tuo dire) a credere in qualcosa, vederlo franare sotto le suole delle scarpe, avendo attorno un sedicente giornalista, leccapiedi ex-democristo, che recita il tuo de profundis.
Con garbo ammaliante al vetriolo, l’Insetto non ha esitato a tracimare nella pietas per chi giace nella polvere dell’arena: «Torni a trovarci quando vuole…troverà sempre la porta aperta…».
Tu, sai che così non è, non sarà più, ed è in gran parte colpa vostra. Mentre Vespa biascicava la sua litania da sacrestia, avevi lo sguardo perso. Perdonami, siamo torinesi, e nei tuoi occhi ho letto l’estratto sintetico di quel bon ton piemontese che entrambi abbiamo aborrito: «Un rosolio, ragioniere?», «C’am saluta madama Burel…[1]», «A sunu la marcia real? Alura ‘a pasa l’ Principe…[2]».
Mamma mia, che desolazione: sentirsi l’artefice della scomparsa mediatica di quel poco che rimaneva della sinistra italiana.
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E' già domani
Rossana Rossanda
Scrivere oggi domenica 13 aprile, a meno di 24 ore dai risultati delle elezioni, è scrivere non al buio ma in una fitta penombra. Non al buio perché le possibilità non sono molte, arriveranno in testa Veltroni o Berlusconi, e la sinistra sulla quale la maggioranza di noi punta misurerà la sua consistenza. Ma ci sarà una grande differenza se Berlusconi vince solidamente, Veltroni non ce la fa e la sinistra non raggiunge il fatidico 4 per cento che questa legge elettorale impone, oppure se Veltroni ce la fa e la Sinistra Arcobaleno si consolida su quella frontiera. E un'altra negativa differenza se Veltroni ce la facesse ma la sinistra restasse esclusa dalla scena istituzionale.
Nel primo caso vorrebbe dire che la destra più rozza dell'Europa occidentale s'è impadronita della mente degli italiani, facendo del nostro un paese egoista e miope, nel quale ognuno si è chiuso in quel che crede il suo interesse più immediato mentre d'una democrazia decente più nulla importa; nel secondo caso, se Veltroni la spunta con infinitamente meno mezzi del suo avversario, significa che l'Italia si attesta sugli spalti d'una democrazia moderata ma ancora praticabile e che una sinistra, minoritaria ma ragionata e consistente, può interpellare e incalzare. Se invece questa sinistra scomparisse dalla scena, vorrebbe dire che l'americanizzazione è andata così avanti, che qualsiasi spinta avanzata all'interno di una egemonia liberista sarebbe ridotta al silenzio e alla marginalità.
L'arretramento è già stato grave e la discesa dura da rimontare.
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Il marxismo italiano, senza capitale
di Michele Nobile
1. Nel quadro di una più ampia polemica con Habermas, Hirsch, O’Connor e Offe, lo scomparso Riccardo Parboni collocò il «marxismo italiano» nella più ampia classe del «marxismo sovrastrutturale», per il quale «la crisi del capitalismo non dipende dalla dinamica delle forze produttive e dei rapporti di produzione ma dal venir meno di quei meccanismi omeostatici di carattere politico e ideologico che avevano garantito la tenuta sotto controllo delle tendenze alla crisi nei decenni passati» 1.
Venti anni dopo, il libro di Cristina Corradi sui «marxismi italiani» e la discussione che ne è seguita hanno confermato quel giudizio, e con ben altra ricchezza d’argomenti: quello italiano è un «marxismo senza Capitale» (con poche e relativamente recenti eccezioni), un «marxismo» che ha fatto a meno di sviluppare criticamente la teoria marxiana del valore, indirizzandosi verso lo sraffismo, il keynesismo, o la dissoluzione dell’oggettività socio-economica dello sfruttamento nel comando politico dello Stato, variamente combinando i termini precedenti 2.
La ricostruzione della Corradi, pregevole e indispensabile, resta però nell’ambito della ricostruzione della «storia dei «marxismi» basata sul modello delle storie della filosofia, della «storia delle idee». Il punto è che questo approccio non solo esclude la produzione condotta da marxisti non-filosofi o che, comunque, non si presta ad un discorso d’ordine filosofico, ma sottovaluta la dialettica tra la riflessione teorica e l’ambiente politico nella quale la prima si inscrive e dal quale è influenzata per le vie più diverse e sottili, dall’orizzonte strategico e ideologico alla pratica quotidiana, dalla costruzione dell’identità ai rapporti e alle carriere personali.
È per questa ragione che restano inevase alcune domande cruciali. Cosa ha permesso a quella tradizione «senza Capitale» di riprodursi per così tanto tempo? Quali sono le caratteristiche differenziali del «marxismo italiano» rispetto a quello di altri paesi? Quali, precisamente, i rapporti tra teoria e politica?
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La scommessa giocata nell'atelier del Principe
Roberto Ciccarelli
L'esperienza della rivista «Centauro» ripercorsa in un volume. L'incontro tra teorici tra loro eterogenei, ma accomunati dalla convinzione che la crisi della modernità coincideva con l'eclissi delle categorie del politico.
Nei diciotto numeri coordinati dal filosofo napoletano Biagio de Giovanni, la rivista di filosofia e politica Il Centauro ha espresso una delle caratteristiche che hanno reso la riflessione italiana sulla «politica» ad un tempo ardua e singolare. Ardua perché ha saputo tenere il polso dell'analisi filosofica del presente, senza mai rinunciare alla densità del linguaggio e all'articolazione dei concetti rispetto agli scarti imposti dalla realtà viva della politica. Singolare perché, sul finire di un decennio di grandi trasformazioni, gli anni Settanta, alcuni tra i più significativi intellettuali che fino ad allora avevano fatto base nel Partito comunista iniziarono ad interrogare la «crisi della modernità». Una formula che faceva eco al nascente dibattito sulla fine dei grandi racconti moderni sulla politica, sulla storia e sulla filosofia lanciato nel 1979 da Jean-François Lyotard ne La condizione postmoderna allargandosi presto ad una dimensione imprevista dal suo stesso promotore, quella della fine della storia, dell'irrapresentabilità del conflitto sociale e della razionalità come prerogativa di un processo di modernizzazione della politica.
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Anestetizzati
di Goffredo Fofi
In Italia, si ha da tempo l’impressione di un intero paese, di un’intera cultura anestetizzati. Dalle anestesie, si sa, ci si può risvegliare molto male – con la possibilità di trovarsi di fronte, per esempio, realtà nuove e terribili, come il “figlio di Iorio” di una rivista di Totò che si ridestava nella Roma dell’occupazione tedesca. Ma capita anche che non ci si risvegli affatto, precipitando direttamente nel nulla della morte o nelle nebbie di un coma profondo, irreversibile. Il “ritorno alla vita” è sempre traumatico, anche quando è quello di Lazzaro: se ci sarà, non sarà semplice e a scontarlo maggiormente saranno proprio gli ignavi che si sono lasciati addormentare (fuor di metafora: che si sono lasciati ammazzare la coscienza, cioè la capacità di ragionare sulla propria condizione, nel quadro dello stato del mondo ).
Ad anestetizzarci sono stati – e lo hanno fatto, bisogna dirlo, con molta abilità – giornalisti politici preti insegnanti intrattenitori (ce ne sono che vengono detti animatori, quando il loro lavoro è di disanimare, distraendo da ciò che conta), e nel caso dei giovani lo hanno semplicemente fatto gli adulti, e i mercanti e pubblicitari che stanno alle loro spalle. I mercanti, soprattutto. Mercanti di tutto, perfino del trascendente e del sacro. Le colpe variano, ma sono colpe e vanno chiamate con il loro nome. Si presume di solito che gli alienati abbiano meno colpe degli alienanti, ma anche questo si può ormai metterlo in discussione: non vediamo all’intorno innocenti, nel presente stato delle cose tutti hanno – tutti abbiamo – le nostre responsabilità.
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Quell'oscuro essere in cerca della sua rivoluzione
Augusto Illuminati
Marx dopo Heidegger. La rivoluzione senza soggetto di Giovanni Leone (Mimesis, pp. 144, euro 15) prende le mosse da interrogativi che si sono largamente diffusi con la crisi del marxismo: è possibile una tensione anticapitalistica senza soggetto rivoluzionario? Si può sottrarre Marx alla filosofia dialettica della storia e a una metafisica «necessarista» e finalista? Lo stesso superamento del termine comunismo, al di là del facile opportunismo di chi cambia nome per ragioni di mercato, non indica l'esigenza di distinguersi da un riferimento alla comunità, sia astratta che concreta, che Marx stesso ripetutamente sconfessa? Le argomentazioni di Leone sono indubbiamente valide e ricorrono spesso nel marxismo critico a partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo: pensiamo alla polemica contro lo sviluppismo etnocentrico, il primato delle forze produttive sui rapporti di produzione, l'impianto dialettico sostanzialmente hegeliano, il retaggio feuerbachiano della «Specie Umana» o «Uomo Produttore» svuotati dall'alienazione e da restaurare in un nuovo comunitarismo.
Anche l'enfasi sulla prassi è stata tendenzialmente depurata dagli aspetti più smaccatamente produttivistici ed umanistici.
La riflessione heideggeriana sulla tecnica ha svolto un ruolo in tale rimodulazione, sia indirettamente attraverso la Scuola di Francoforte e Herbert Marcuse, sia direttamente con la tacita ma drastica mediazione di Louis Althusser. Il filosofo francese ha costruito un programma di reinterpretazione della storia come processo senza origine, soggetto e finalità, proponendo una lettura sintomale di Marx e individuando i punti di cesura fra il seguace di Hegel e Feuerbach e gli sviluppi più originali del suo pensiero.
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Vampirismo geoeconomico
di Sbancor
Sulla scrivania ho tre schermi. Due sono di Bloomberg, il sindaco di New York. Uno manda in continuazione notizie dal mondo, l’altro disegna grafici su qualsiasi mercato, titolo, obbligazione o maledetta carta straccia “subprime” tu abbia in animo di analizzare e nel caso acquistare. Ma adesso non è proprio il caso.
Tenersi liquidi: questa è la parola d’ordine. Comprare, oggi non compra quasi nessuno.
Tranne i Sovereign Wealth Funds, dove vengono riciclati i petrodollari russi e arabi oppure i surplus commerciali del Far East.
Sull’altro schermo ho Google Earth. Sulla scrivania due libri: Il canto della missione di John Le Carré, e Hitler di Giuseppe Genna.
E’ tutto ciò che mi ha accompagnato in questi mesi di depressione.
Qualcuno di voi potrebbe chiedersi cosa c’entrano i computer con i libri e perché stanno tutti sulla mia scrivania. Domanda stupida.
Stanno sulla mia scrivania perché fino a un po’ di tempo fa sono stato troppo depresso per spostarli. Ma questa è una risposta stupida quanto la domanda. In realtà libri e computer descrivono la realtà. Ciò che sta succedendo ora, adesso. E le conclusioni che ne traggo non mi tranquillizzano. Anzi.
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Pensiamoci
Rossana Rossanda
A una settimana dal voto, tutto è stato detto dai leader. Dai microfoni su piazza e in tv. Tutto di basso profilo, qualche bugia, qualche furberia ma il quadro è chiaro. È il momento di pensare da soli, elettori maschi e femmine e giovani che avranno la scheda per la prima volta. Non affidiamoci agli umori, quelli che piacciono ai sondaggi. Come è successo al tempo del «Silvio facci sognare», lo slogan più scemo del secolo. Siamo alfabetizzati, abbiamo non solo speranze e delusioni ma comprendonio e memoria.
Gli elementi per valutare a chi dare il voto ci sono tutti, nel presente e nel passato prossimo. Facciamo parlare i dati di fatto.
1. L'ultimo, arrivato fresco fresco dal Fondo Monetario Internazionale è che l'Italia è a crescita zero (0,3). E non è la crescita zero preconizzata dagli ecologisti, cioè una selezione degli investimenti che protegga e risani l'ambiente. È crescita zero nell'insieme caotico dell'attuale modello, crescita zero nell'occupazione, crescita zero del potere d'acquisto.
Sarebbe utile che si incazzassero i candidati premier di fronte alle loro trovate, tipo: con me, mille euro mensili a ogni precario. Ottimo. Chi li paga? L'azienda che lo ha assunto per dodici giorni al mese? Gli intermediari, Adecco o Manpower? La cooperativa fasulla che lo costringe a essere socio-lavoratore o niente? Lo stato? E da dove fa entrare i soldi? Visto che nessuno propone di accrescere le tasse.
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Quei discreti pirati del commercio globale
Come ti frego (per sempre) i Paesi poveri
di Sabina Morandi
C'era una volta il Wto. Ricordate? Ogni volta che si è riunito per imporre al mondo i diktat dell'ultra-liberismo c'è stata una sollevazione. E' successo a Seattle, a Cancun e a Hong Kong dove, alla fine del 2005, attivisti provenienti da tutto il mondo hanno bloccato la città per un'intera settimana. Cosa è successo da allora? Quasi niente, secondo i media ufficiali. Eppure, mentre in Occidente si fa il mea culpa su certi eccessi della globalizzazione liberista, la sua marcia è continuata indisturbata nel resto del mondo, lontano dall'occhio indiscreto delle telecamere e dei contestatori. Nessuno infatti si è preso la briga si riportare le conclusioni di un rapporto stilato nel marzo scorso da Oxfam, intitolato Signing Away the Future (letteralmente: firmando via il futuro), da dove si evince che Stati Uniti e Unione Europea, sempre più protezionisti in casa propria, continuano a perseguire una strategia ultraliberista fatta di accordi sempre più distruttivi per le economie meno sviluppate.
La firma di tali accordi comporta infatti una quantità enorme di concessioni irreversibili da parte dei paesi poveri, ai quali praticamente non viene offerto niente in cambio.
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Materiali d'uso per il passaggio a Nord
di Sergio Bologna
Il grande assente rimane il lavoro, o meglio quali siano i rapporti tra capitale e forza-lavoro in un universo produttivo che vede presenti knowledge workers e working poor. La questione settentrionale è il tema dell'ultimo annale della Fondazione Feltrinelli. Un'ampia e interessante rassegna di saggi su una composita realtà segnata dalla crisi della grande industria
La «questione settentrionale» è un falso problema? E' un modo per non voler affrontare la «questione Italia»? I saggi raccolti nell'ultimo degli Annali della Fondazione Feltrinelli (La questione settentrionale. Economia e società in trasformazione, a cura di Giuseppe Berta, pp. 465) sembrano insinuare questo dubbio e a ragione.
Chiariscono subito, attraverso l'autointervista di Luciano Cafagna, che la locuzione risale agli anni Cinquanta ed aveva un significato ben diverso da quello che ha acquistato agli inizi degli anni Novanta con l'emergere del fenomeno leghista. Era stata usata nel gruppo che stava attorno ad Adriano Olivetti e alla rivista «Ragionamenti» (Roberto Guiducci, Franco Momigliano, Alessandro Pizzorno, Franco Fortini) per indicare un modo di affrontare la realtà diverso dallo storicismo crociano e fortemente incardinato sulla cultura industriale, sull'approccio sociologico, insomma sui rapporti di produzione più che sulle questioni istituzionali.
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Prima e dopo la strage di stato
Marco Grispigni
L'anno degli studenti non fu un allegro festino. Lo stato non tardò a metter mano alla pistola. In Italia e in Europa. La tanto esecrata «società permissiva» colpì duro fin dall'inizio. E nel 1969 arrivò la bomba di Piazza Fontana
Sous le pavé, la plage !, recitava un poetico e famoso slogan francese. Chissà se anche sotto il selciato dell'Università di Roma - allora ne esisteva una sola, La Sapienza - i giovani della fotografia hanno trovato la loro spiaggia?
Una foto del '68: ci sono sassi, bastoni e assembramenti di giovani. Il clima non sembra particolarmente teso, ma di certo non ci troviamo in una strada della San Francisco della Summer of Love.
Il '68 fu anche violento: non soprattutto, come dicono i suoi detrattori, quelli per cui chiunque si ribelli, tanto più se decide di farlo nella strada, è un terrorista in erba. Ma non fu neanche un movimento pacifista, composto solo da giovani gentili, ma un po' inquieti, che chiedevano ai gruppi dirigenti di svecchiare la società, di farsi un po' più in la. Non fu un movimento pacifico che solo l'ideologia (e la ripresa del marxismo) rovinò e portò verso gli oscuri anni '70, come dicono alcuni ormai attempati personaggi, nostalgici della loro gioventù, quelli del breve '68, un movimento che durò lo spazio di un mattino. Il '68, la rivolta mondiale, iniziata anni prima in alcuni paesi, e poi continuata in altri, al di là dell'anno mirabile, fu anche violenta: fin dall'inizio. Ebbe la sua fascinazione per "il lato oscuro della forza", come la definisce Augusto Illuminati nel suo interessante (e divertente) libro sul '68 (Percorsi del '68. Il lato oscuro della forza, Derive Approdi, 2007). Fu un movimento di chi rispondeva "yes, we can", a chi gridava "ribellarsi è giusto".
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Invettiva pasquale sul tempo corrente e sul tempo perduto
di Sandro Mezzadra
1. Non v’è dubbio che abbia ragione Giacomo Marramao (“il Manifesto”, 17 marzo): “è impossibile afferrare il cuore del presente senza sottrarlo al rumore dell’attualità”. E tuttavia, mi si consenta il gioco di parole, il presente resta il cuore del problema. Il presente: ovverosia le tensioni che lo segnano, i rapporti di dominio che lo organizzano, il “rumore sordo della battaglia”, per citare Michel Foucault, che si combatte in una dimensione diversa da quella da cui proviene il “rumore dell’attualità”. Il presente: ovverosia i salari che non consentono di arrivare alla fine del mese, la precarietà e l’attacco alla 194, ma anche le pratiche con cui i soggetti dominati e sfruttati conquistano quotidianamente spazi di libertà e di uguaglianza.
Ecco: a me pare che di questo presente si senta parlare davvero pochissimo nel “dibattito” che sta svolgendosi a “sinistra”, e in particolare sulle pagine del “Manifesto”. Il “rumore dell’attualità” lo ha dominato in una prima fase, quando ad appassionare il ceto politico dei quattro partiti (partiti? È un “partito” la “Sinistra democratica”? Mah…) che hanno dato vita alla Sinistra arcobaleno è stato il tema della composizione delle liste. Nessun moralismo al riguardo, sia chiaro: la politica è fatta anche di queste cose, ci mancherebbe. Ma quando è fatta solo di queste cose, c’è da preoccuparsi.
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A Lenin non piaceva Frank Zappa
di Girolamo De Michele
Tommaso De Lorenzis, Valerio Guizzardi, Massimiliano Mita: Avete pagato caro non avete pagato tutto. La rivista «Rosso» (1973-1979), 109 pp.+DVD con la raccolta completa della rivista, DeriveApprodi, Roma, 2008, € 18.00.
«Pat Garret e Billy Kid erano due che facevano una loro battaglia contro i proprietari fondiari. Ma Pat Garret era un legalitario: non gli piaceva che Billy ammazzasse i nemici anche alla festa di nozze quando lui aveva deciso per la tregua con l’esercito, la polizia, i proprietari. Pat fa la scelta e diventa sceriffo. A malincuore. Di fatto diventa alleato dei proprietari, non senza cercare, ogni tanto, di lasciare perdere Kid e di mantenere una buona fama tra i suoi vecchi compagni.
Ma, in fin dei conti, Pat spara contro Kid. La storia finisce lì. Qualcuno immagina che il Kid sia stato solo ferito e come ogni eroe degli oppressi, rinasca dopo ogni ferita e alla fine trionfi su Garret. Il “compromesso storico”, la questione sindacale della battaglia delle vertenze, Enrico B. e Luciano L. sono fratelli gemelli di questo vecchio Garret. Era l’autunno 1973».
Cominciava così l’articolo Pat Garret e Billy Kid ovvero i consigli del sindacato e l’autonomia operaia sul numero 10, maggio 1974, di Rosso, all’indomani della chiusura della vertenza dell’Alfa Romeo. Un numero che, non per caso, ammoniva in prima pagina: «Una crisi è vera crisi se è crisi del padrone». Si noti: “padrone”, non “lavoratore che intraprende”. Non è un mero slittamento semantico: nomina sunt consequentia rerum.
Bastano questi pochi elementi a dare l’idea di cos’è stata la rivista Rosso: non, come ultimamente è capitato di nuovo di dover sentire (in spregio persino alle verità giudiziarie) “la struttura illegale di Autonomia Operaia”, ma un potente laboratorio dell’antagonismo sociale degli anni Settanta. Di questa rivista l’editore DeriveApprodi ci restituisce oggi tutta la forza, e tutte le contraddizioni, in un DVD che ne riproduce l’intera vita, dal marzo 1973 al maggio 1979, un mese dopo quel 7 aprile che inaugurò con un colpo di mano giudiziario un’epoca in cui, come ricordano Chicco Funaro e Paolo Pozzi, «l’eresia dev’essere eliminata» e nessun compagno «avrà più tempo o modo di occuparsi di una rivista». Accanto al DVD, un densissimo saggio di Tommaso De Lorenzis, Valerio Guizzardi, Massimiliano Mita: Avete pagato caro non avete pagato tutto. La rivista «Rosso», arricchito dai contributi di Funaro e Pozzi e da uno stralcio dell’intervista sull’operaismo di Toni Negri del 1979.
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Come si genera una crisi finanziaria?
di Marco Bollettino
La bolla immobiliare negli Stati Uniti e la crisi dei mutui subprime hanno fatto tornare alla ribalta il pensiero di un economista, Hyman Minsky, che aveva elaborato un'interessante teoria sull'instabilità innata delle economie capitaliste.
La tesi di Minsky è che l'economia capitalista, durante i periodi di prosperità tenda da sola a diventare instabile ed a generare quelle bolle speculative il cui scoppio porta alla inevitabile crisi finanziaria.
La spiegazione suona più o meno così: quando le cose vanno bene, per chi è impegnato nelle aree più remunerative dell'economia, diventa molto appetibile indebitarsi. In sostanza più ci si indebita e si investe nel settore favorevole più si fanno soldi. Poiché l'economia sembra solida e le finanze dei debitori sembrano essere in buona salute, anche le banche sono meno restie a concedere prestiti.
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Il paradosso innominabile della crisi democratica
Alberto Burgio
Cambiare il sistema politico a partire dalla mutazione della propria identità facendo propri molti elementi di quella che caratterizza l'antico avversario. Sempre in nome della concordia. E del mantenimento dello status quo
Sono elezioni davvero speciali, queste. La maggioranza dei partiti che vi partecipano non esistevano ancora alle ultime politiche, appena due anni fa. E per la prima volta dal '48, complice la zelante faziosità dell'informazione, agli elettori-spettatori è somministrato lo show di una partita a due, tra Pd e Pdl. Anzi, tra i loro «capi». Perciò, nonostante il profluvio dei sondaggi, non è per nulla facile prevedere cosa accadrà. Meglio cercare di capire che cosa sta succedendo. E qual è la posta in gioco in questo match.
Partiamo da una semplice considerazione, frutto dell'esperienza dell'ultimo quindicennio. Il bipolarismo (e persino il bipartitismo) tende a produrre posizioni politiche in larga misura coincidenti.
E per ciò stesso favorisce la (ri)nascita di un grande centro moderato. Le forti somiglianze tra i programmi di Pd e Pdl nel segno dell'interclassismo post-ideologico (né destra né sinistra) e della pace sociale (il «patto dei produttori», plasticamente sancito dall'abbraccio tra il sindacalista di «sinistra» e il falco confindustriale) sono solo uno dei tanti indizi di questo movimento centripeto. Responsabile anche della caccia ai candidati double face, adattabili ad entrambe le formazioni, e del fuoco incrociato sui partiti di centro tradizionali.
Fin qui è tutto evidente. Ma vediamo di scavare più in profondità, guardando con attenzione il valzer delle candidature democratiche «eccellenti». Forse lo si può leggere come il sintomo di una tendenza non episodica. Forse in questo caso la storia insegna qualcosa.
Una «feconda trasformazione »
Lo shopping elettorale di Veltroni ai piani alti di viale dell'Astronomia richiama alla mente un precedente illustre. In vista delle elezioni del 1882, temendo le conseguenze «sovversive» della nuova legge elettorale, il leader della Sinistra costituzionale Agostino Depretis si accorda con esponenti di spicco della Destra moderata, a cominciare da Marco Minghetti.
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Parliamo di donne
di Rossana Rossanda
Siamo davanti a elezioni che si autodefiniscono costituenti, e di donne non si parla. Sono metà del paese, anzi un poco di più e in politica contano meno che in qualsiasi altro campo. Ci sono donne capi di stato e di governo nei paesi d'occidente e nei paesi terzi. Che in questi siano perlopiù moglie o figlia, orfana o vedova di un illustre defunto è un arcaismo ma, rispetto a una tradizione che non ammetteva donne al comando, è una frattura. Negli Usa l'avvocata Hillary Rodham corre anch'essa con il nome del marito, perché è l'ex presidente Clinton.
In Italia non siamo neanche a questo, e arrivarci non sembra urgente né alle destre né alle sinistre. In Francia Nicolas Sarkozy ha composto il suo governo metà di uomini e metà di donne. Più abile delle nostre maschie mummie, con tre di esse ha preso due piccioni con una fava: la maghrebina e la senegalese sono, socialmente parlando, due belve, la femminista non ha più seguito. E' vero che Sarkozy interviene su tutto e tutti, maschi o femmine che siano, ma in quanto monarca è più avvertito dei nostri.
I quali non riescono a fare fifty-fifty non dico un governo, ma le liste, lasciando al sessismo ordinario dell'elettorato di scremare le presenze femminili. Per cui sarei a proporre - non per la prima volta e come recentemente l'Udi - che le Camere siano composte metà di uomini e metà di donne. Almeno finché esiste in Italia, e non si schioda da oltre mezzo secolo, una democrazia che discrimina il genere.
Insomma il maschio politico italiano è ancora un bel passo indietro rispetto alla semplice emancipazione. E le donne italiane come sono?
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La potenza inafferrabile del lavoro
Toni Negri
Il potere esercitato dalla finanza si accompagna alla cancellazione della distinzione tra tempo di lavoro e di vita. Un saggio di Andrea Fumagalli sul capitalismo cognitivo
Ecco un libro di critica di economia politica che si può leggere da principio alla fine (non è cosa da poco): è Bioeconomia e capitalismo cognitivo di Andrea Fumagalli (Carocci, pp. 240, euro 20,30). Parrebbe, questo libro, l'avvio iniziale (e tuttavia abbozzo maturo) di un trattato di economia politica: si va infatti dalla teoria dell'accumulazione (suddivisa in quattro parti: modi di finanziamento, attività ed evoluzione delle forme di accumulazione, forme dell'impresa, realizzazione monetaria) ad una nuova teoria della prestazione lavorativa (anch'essa articolata in tre parti: come dispositivo di sussunzione totale della vita, come figura cangiante della forza-lavoro nel capitalismo cognitivo, ed infine nello sfruttamento-alienazione delle nuove soggettività al lavoro), fino a una teoria complessiva del capitalismo cognitivo che insiste sugli elementi di contraddizione (il «comune» contro/oltre il pubblico ed il privato) e su un programma postsocialista («reddito di esistenza» e «welfare del comune»).
La natura dell'alienazione
Si diceva: sembra che questo libro sia un trattato, ma non è affatto così. Questo libro, infatti, deborda l'economia politica: «l'aspetto economico che viene trattato è quello del potere e della soggettività delle figure sociali che agiscono o subiscono tale potere».
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La crisi qui da noi: stentare all'italiana
Joseph Halevi
Su La Repubblica del 27 marzo Nouriel Roubini sviluppa delle previsioni circa ripercussioni della crisi statunitense sull'economia mondiale. La premessa si fonda sulla sua nota tesi circa le «dodici tappe verso la crisi». Gli Usa si stanno dirigendo verso una profonda deflazione da debito caratterizzata: a) da perdite nel valore delle cartolarizzazioni intorno ai 1.000 miliardi di dollari come minimo, b) da una caduta del 30% nei prezzi delle abitazioni - oggi siamo al 20% - e allargamento del crollo dei prezzi agli edifici commerciali, c) da un'estensione dei protesti ad altre forme di debito, come le carte da credito, d) dal fallimento di istituzioni finanziarie non bancarie. Le dimensioni del problema sarebbero quindi tali che l'inondazione di liquidità del sistema bancario da parte delle banche centrali non può arrestare la deflazione Usa, che Roubini considera prolungata nel tempo. Egli pertanto ipotizza una decelerazione delle crescita cinese e recessioni in Gran Bretagna, Spagna ed Irlanda a causa dello sgonfiamento delle loro bolle immobiliari e finanziarie. Francia e Germania dovrebbero «tenere», avendo una domanda interna più robusta e maggiore competitività internazionale. L'Italia è invece combinata peggio perché non possiede le caratteristiche francesi e tedesche.
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Tornare al welfare, ma non siamo negli anni '50
Enzo Modugno
C'è una questione teorica dietro l'esperienza della sinistra al governo che riguarda il passaggio dal welfare al neoliberismo. Il '68-'77 aveva capito che il declino della fabbrica fordista aveva ampliato il numero dei lavoratori non-garantiti rendendo il welfare un'istituzione impraticabile, e che perciò il valore della forza-lavoro si doveva difendere con lo scontro sociale.
La sinistra invece - quella di allora pensò solo alla difesa istituzionale dei garantiti superstiti scaricando gli altri - è andata ora al governo pensando non solo che si potesse tornare al welfare come se ci fosse ancora la fabbrica fordista, ma che lo si potesse fare ancora per via istituzionale, interpretando il neoliberismo come un attacco politico che poteva essere battuto sul suo stesso terreno, politicamente.
Secondo Bertinotti - si riveda ora la sua prefazione al libro di Serge Halimi, Il grande balzo all'indietro, pubblicata agli inizi dell'esperienza governativa - il neoliberismo è stato un'operazione eminentemente politica, dovuta al «potente apparato ideologico» dei pensatori neoliberisti sostenuto da un «poderoso sistema di controllo politico». E pertanto, così come era stato costruito, il neoliberismo poteva essere demolito con un'azione politica uguale e contraria che coinvolgesse i governi di sinistra per riportare al welfare il capitalismo.
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Davanti alla crisi, rovesciare i dogmi sulla spesa pubblica
Riccardo Bellofiore
L'articolo di Halevi (20/3), che inquadra l'evoluzione più recente della crisi finanziaria, induce a qualche chiosa su come Europa e Italia entrino nel quadro. Che il discorso di Halevi riguardi anche il vecchio continente è evidente. Gli Stati Uniti sono stati assunti come modello per quel che riguarda precarizzazione del lavoro, capitalismo dei fondi pensione, liberalizzazione dei mercati. Gli Usa sono stati l'acquirente di ultima istanza, non solo per Asia e Cina, ma anche per i neomercantilismi europei. L'euro è stato residuale rispetto alla dinamica del dollaro.
Non ci vuol molto a capire che l'Europa va vista nella sua articolazione interna. Con almeno cinque aree cruciali, su cui si articolano le varie periferie, e l'Est. Un polo manifatturiero di qualità, tedesco e in parte francese, con i suoi satelliti. Un polo scandinavo di produzioni di nicchia di alta tecnologia.
Il centro finanziario: Inghilterra, ma anche Lussemburgo e Olanda. Le produzioni tradizionali, i distretti e le piccole imprese dell'Italia. Infine Spagna e Grecia: la prima con una crescita trainata dalle costruzioni, entrambe con disavanzi con l'estero enormi.
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Prepararsi a un anno nero
di Nouriel Roubini
Gli Stati Uniti sono entrati decisamente in una fase recessiva fra la fine dell'anno scorso e l'inizio del 2008, e questo lo consacreranno senza alcun dubbio i dati ufficiali sul primo trimestre, e con ogni probabilità anche quelli del secondo. A questo punto è una questione aperta la durata della recessione stessa. Si è formato una sorta di consensus fra gli economisti che la crisi sarà relativamente leggera e di breve durata, probabilmente non più di sei mesi: Ma io sono di opinione profondamente diversa.
Come vivere al tempo della recessione? Ormai dobbiamo abituarci alla dura realtà dei fatti. Questa è la domanda che il mondo deve cominciare a porsi, e alla quale i governi devono cercare di fornire una risposta.
Ritengo infatti che la recessione sarà più lunga e pesante: andrà avanti almeno per dodici mesi, cioè per tutto quest'anno, e forse anche per 18 mesi, cioè fino a metà del 2009.
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La guerra si fa globale
di Danilo Zolo
La guerra di aggressione scatenata il 20 marzo 2003 contro l'Iraq dalle armate statunitensi e britanniche ha segnato il culmine di una deriva bellicista che ha preso avvio nell'ultimo decennio del secolo scorso, dopo la fine della guerra fredda. Si tratta di un fenomeno che ha investito il mondo intero e che è ben lontano dall'essersi esaurito, come ha provato la guerra contro il Libano dell'estate scorsa e come provano i preparativi di guerra contro l'Iran. Sia il fenomeno della guerra, sia gli apparati retorici della sua giustificazione sono rapidamente cambiati. E questo cambiamento può essere adeguatamente interpretato solo nel quadro dei processi di trasformazione economico-finanziaria, informatica e politica che vanno sotto il nome di «globalizzazione». In questi anni, in altre parole, si è sviluppato un processo di transizione alla «guerra globale», con al centro l'adozione da parte delle potenze occidentali della nozione di «guerra preventiva», concepita e praticata dagli Stati uniti contro i cosiddetti «Stati canaglia» e le organizzazioni del global terrorism.
Questa transizione non ha riguardato soltanto la morfologia della «nuova guerra», e cioè la sua dimensione strategica e la sua potenzialità distruttiva. Strettamente connessa è una vera e propria eversione del diritto internazionale, dovuta all'incompatibilità radicale della «guerra preventiva« con la Carta delle Nazioni unite e al diritto internazionale generale. A questo si aggiunge la regressione alle retoriche antiche di giustificazione della guerra, inclusa la dottrina «imperiale» della «guerra giusta« e del suo nocciolo di ascendenza biblica: la «guerra santa» contro i barbari e gli infedeli. Queste retoriche sono diventate oggi, nel contesto della globalizzazione dei mezzi di comunicazione di massa, uno strumento bellico di eccezionale rilievo.
La guerra di aggressione contro l'Iraq è stata una guerra «globale» perché è stata condotta all'insegna di una strategia imperiale che il suo attore principale - gli Stati uniti d'America - ha orientato verso obiettivi universali come la sicurezza globale ( global security ) e l'ordine mondiale ( new world order ). La finalità non è stata la conquista di spazi territoriali secondo il modello delle guerre coloniali. La «guerra globale» è stata combattuta per decidere chi avrebbe dovuto assumere la funzione di leadership entro il sistema mondiale, chi avrebbe imposto le regole della competizione fra le grandi potenze, chi avrebbe avuto il potere di modellare i processi di allocazione delle risorse e far prevalere la propria visione del mondo.
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