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Perché festeggiare "Necrologhi"
Giuseppe Mazza
Prima di parlare del libro di Maria Nadotti (Necrologhi - saggio sull'arte del consumo, Il Saggiatore) e della sua importanza, stabiliamo il campo.
Gli uomini di lettere oggi non sanno niente della pubblicità. Non la studiano, non la annoverano tra i fenomeni d'interesse. Costoro si occupano volentieri di cinema, tv, giornalismo, design, fumetti, raccolte di figurine e di ogni altro linguaggio della modernità, ma quello della pubblicità rimane loro estraneo e lo lasciano volentieri allo studioso settoriale. Come dire che non è adatto a un discorso collettivo, dunque politico.
La crepa di questo distacco si è aperta nel tempo e inesorabilmente. La progressiva scomparsa dell'Italia industriale (Gallino) oggi ha separato gli intellettuali dal mondo della produzione e dai suoi linguaggi. Eppure nel 1961 un editore come Giangiacomo Feltrinelli presentava "La pubblicità" di Walter Taplin descrivendo luoghi comuni che sembravano sul punto di essere superati: "Uno studio senza divagazioni moralistiche sulla pubblicità come fenomeno tipico dell'economia moderna (...) un fenomeno-chiave della società contemporanea su cui tutti quanti son pronti a straparlare. Questo libro non si compiace di descrivere i pubblicitari come maghi o bari della psicologia di massa, ma conduce un ragionamento serrato misurandosi con i fatti – e con le teorie degli economisti, che sinora, non diversamente dall'uomo comune, hanno parlato della pubblicità in termini superficiali".
C'è nel nostro passato una relazione tra intellettuali e linguaggio delle merci. Il primo in Italia a parlare di umanesimo pubblicitario, cioè della necessità di un linguaggio alternativo alla "pubblicità autoritaria" fu Vittorini nel 1939. Anni nei quali era concepibile per l'uomo di lettere entrare nel mondo della produzione, cercare un rapporto tra l'oggetto fabbricato e le mani dell'uomo che lo realizzavano. A quel punto diventava naturale soffermarsi sul linguaggio pubblicitario, che del processo produttivo era la fase conclusiva. Olmi nel 1969 entra in un'agenzia pubblicitaria di Milano, non la guarda da fuori: la studia e ne trae il più informato e profondo film italiano su quell'ambiente professionale, Un certo giorno.
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Bernie for president?
di Felice Mometti
È la seconda volta che Hillary Clinton, la candidata «inevitabile» alla presidenza degli Stati Uniti, vede la sua corsa ostacolata da un outsider. Sappiamo come è andata a finire la volta scorsa con Obama. La storia non si ripete, non si deve ripetere, questo il mantra recitato negli ultimi giorni dal potente staff della ex segretario di Stato. Ma i risultati delle primarie del Partito democratico in Iowa e nel New Hampshire hanno proiettato Bernie Sanders nel ruolo di antagonista credibile di Hillary, la «combattente globale» che difende i diritti civili, non disdegna gli interventi militari ad ampio raggio ed è molto vicina a Wall Street. È vero, e si sa, che le primarie americane, non fa differenza se democratiche o repubblicane, sono tutto meno che un esercizio di democrazia da parte dei cittadini elettori. Regole diverse e non sempre chiare e condivise nei vari Stati, mancanza di controlli su chi vota e chi ne ha diritto, lanci di monetine per determinare la vittoria in alcune circoscrizioni, interventi a tutto campo delle società di marketing politico sui social network e nei sondaggi che hanno lo scopo non di rilevare le intenzioni di voto ma di orientarle. Come se ciò non bastasse con la sentenza della Corte Suprema nel 2009 si è dato il via libera – togliendo qualsiasi limite di spesa e di rendicontazione – ai PAC e super PAC (Political Action Committes) e cioè a quei gruppi organizzati di imprenditori, banche, multinazionali, fondazioni che raccolgono denaro e fanno campagne perlopiù aggressive, usando tutti i media possibili, a favore o contro un candidato. Sempre però senza mai accordarsi e coordinarsi, così dice la sentenza, con il candidato che appoggiano.
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Rottura della continuità storica o recupero della tradizione?
Giangiorgio Pasqualotto
Prosegue con questo intervento di Giangiorgio Pasqualotto (titolare della cattedra di estetica dell’Università di Padova e cofondatore dell’Associazione “Maitreya” di Venezia per lo studio della cultura buddhista) , il dibattito a cura di Amina Crisma sul libro di Maurizio Scarpari, Ritorno a Confucio. I precedenti interventi di Paola Paderni Luigi Moccia, Ignazio Musu e Guido Samarani sono stati pubblicati nella rubrica “Osservatorio Cina” di questa rivista . Il prossimo intervento è di Attilio Andreini.
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Il più recente libro di Maurizio Scarpari, Ritorno a Confucio. La Cina di oggi fra tradizione e mercato (Il Mulino, 2015) è un’ opera importante: non solo per la consueta acribia analitica messa in gioco dall’autore, né solo per la sua chiarezza espositiva, né soltanto per la capacità di produrre sintesi con argomenti enormi (come quelli dell’incredibile sviluppo economico cinese e della millenaria tradizione confuciana), ma soprattutto perché ci risulta che il suo sia il primo tentativo di cercare le radici profonde di un’operazione che appare a tutti gli effetti – e non solo agli ‘occhi’ europei – assolutamente inedita ed inaudita: proporre gli antichi insegnamenti di Confucio come modello di vita e di sviluppo per la Cina del futuro.
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Classe operaia globale: insurrezione o lotta di classe?
Il concetto di “classe” è nuovamente divenuto popolare. Dopo la più recente crisi economica globale, anche i giornali borghesi hanno cominciato a porsi la domanda: “Dopo tutto, forse che Marx non avesse ragione?”. “Il Capitale nel XXI secolo” di Thomas Piketty è stato nella lista dei bestseller degli ultimi due anni – un libro che descrive in modo dettagliato e puntuale come storicamente il processo capitalistico di accumulazione abbia sortito il risultato di una concentrazione di ricchezza nelle mani di una stretta minoranza di possessori di capitali. Per di più, nelle democrazie occidentali le notevoli diseguaglianze hanno provocato un accentuato timore di rivolte sociali. Negli ultimi anni, questo spettro ha ossessionato il mondo – dai disordini di Atene, Londra, Baltimora, fino alle rivolte in Nord Africa, a volte con la cancellazione di governi statali. Come di consueto, in questi tempi di agitazione, mentre una fazione dei detentori del potere invoca la repressione armata, l’altra solleva la “questione sociale”, che si suppone dovrebbe essere risolta attraverso riforme o politiche redistributive.
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La crisi globale ha de-legittimato il capitalismo; la politica dei padroni e dei governi per costringere i lavoratori e i poveri a pagare per la crisi ha alimentato la rabbia e la disperazione. Chi potrebbe ancora contestare il fatto che noi viviamo in una “società classista”? Ma questo che cosa sta a significare?
Le “classi” nel senso più stretto del termine emergono solo con il capitalismo - ma l’appropriazione indebita dei mezzi di produzione, da cui deriva la condizione del proletariato privo di proprietà, non è stato un processo storico eccezionale. L’appropriazione indebita è un ripetersi quotidiano all’interno del processo produttivo: i lavoratori producono, ma il prodotto del loro lavoro non appartiene a loro.
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Borse e bolle: accumulazione finanziaria e speculazione sulla vita
di Andrea Fumagalli
Dicono gli esperti di borsa che di solito il mese di gennaio è un mese favorevole per gli indici azionari. Ma si dice anche, secondo la tradizione popolare e le statistiche passate, che i giorni della Merla, gli ultimi tre di gennaio, siano i giorni più freddi dell’anno.
Beh, il mese di gennaio 2016 ha sicuramente rappresentato un’eccezione. Ma si tratta veramente di un’eccezione o invece sta avvenendo qualcosa, sia a livello economico che a livello meteorologico, che induce a pensare che siamo di fronte ad un fatto strutturale, alla conferma di un nuovo ciclo?
Sul piano meteorologico e ambientale, sono oramai tanti i segnali che ci indicano che la struttura ecologica si stia modificando in tempi relativamente brevi sotto l’influsso dell’avvento dell’antropocene.
Sul piano dell’analisi economica, nonostante i vari campanelli d’allarme, sono ancora molti gli economisti (quelli della scuola neoclassica, secondo la quale il sistema economico è rappresentato da un equilibrio economico generale, perfettamente razionale e quindi immutabile, o, di converso, quelli della scuola marxista più ortodossa secondo la quale i rapporti di sfruttamento tra le classi di oggi avvengono ancora con le modalità di quelli dell’Ottocento) che, nonostante il periodo di turbolenza e di crisi, credono che in fin dei conti nulla sia cambiato nelle leggi economiche e nei fondamentali.
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Toni Negri, dentro e contro
Con due testi, firmati rispettivamente da Raffaella Battaglini e da Francesco Raparelli, dedichiamo il piccolo speciale di questo sabato alla Storia di un comunista di Toni Negri che, uscita da poco per Ponte alle Grazie, ha sollecitato reazioni diverse, in diversi casi caratterizzate da una notevole aggressività. A segnalare ancora una volta che nelle vicende italiane dell'ultimo mezzo secolo c'è una ferita rimasta aperta, e difficile - a quanto pare - da rimarginare.
* * *
Autobiografia del noi
Raffaella Battaglini
Dichiaro subito la mia parzialità: conosco Toni Negri da quando sono nata, e questa frase va intesa in senso letterale, perché Toni era amico di mio padre. Nella seconda metà degli anni Settanta, anch’io ho fatto parte di quel movimento che Negri in quanto teorico e militante ha contribuito a creare e organizzare. Molto più tardi, nel 2006, ho scritto insieme a Toni un testo teatrale su quegli anni, intitolato appunto Settanta.
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"Tanto non accade nulla"
Vertigine del potere della moneta, Unicredit banca europea più a rischio ed altre vicende
nique la police
"Voi banchieri siete un covo di vipere e ladri. Con l'aiuto di Dio, vi sconfiggerò"
(Andrew Jackson, settimo presidente Usa, 1815)
"La verità è che la finanza è proprietaria del governo fin dai giorni di Andrew Jackson“
(F.D. Roosevelt, 1933)
1.
Nella ritualità dell'opposizione politica, qualunque veste questa assuma, la questione bancaria ricopre tre ruoli: quello dell'indifferenza, verso un fatto "tecnico", comunque risolvibile quando emergerà un qualche tavolo di trattativa sul problema; quello della protesta che cerca di evidenziare l'uso sacrificale dei risparmiatori nella crisi ma non indica verso quale sistema bancario si debba andare; quello del calcolo superficiale, quello del "tanto non accade nulla" perchè, in qualche modo, le banche sistemeranno il problema tra di loro appena sfiorando la politica.
Ognuno di questi ruoli è contenuto nel rituale di metabolizzazione della crisi bancaria da parte di ogni sorta di opposizione politica. Rituale che deve condurre, come tutti i riti, alla metabolizzazione ma non alla risoluzione del problema. Si parla di una opposizione che, qualsiasi sia l'atteggiamento o la colorazione che la caratterizza, conta su due elementi di fiducia: quello che vuole che l'allargamento della platea dei partecipanti alla democrazia deliberativa non sia un metodo ma una soluzione (di tutto, anche della crisi bancaria), quello che vuole la propria base sociale, o il settore di opinione pubblica di riferimento, magari in difficoltà oggi ma con un sicuro avvenire. Una volta allargata la platea dei partecipanti alle decisioni democratiche, s’intende.
E qui il problema non sta nello scoprirsi antidemocratici ma di indicare le attuali retoriche sulla democrazia taumaturgica come un atteggiamento di cui non si sa se è più fuori dal tempo o dallo spazio.
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L’ambigua ribellione di Renzi
Antonio Lettieri
L'evidente fallimento delle politiche imposte all'eurozona dall'asse Berlino-Bruxelles ha provocato la sconfitta di tutti i governi che ne sono stati fedeli esecutori. Il premier italiano ne ha preso atto e ha aperto un confronto conflittuale, lontano dall’etichetta dei rapporti riservati. E' comunque un’occasione da non perdere
La crisi dell’eurozona nella quale abbiamo assistito alla ribellione di Matteo Renzi viene da lontano. L’origine risale alle conseguenze del collasso finanziario egli stati Uniti nel 2008. Ma la crisi dell’eurozona non era fatele. E’ il risultato di politiche sbagliate e autolesioniste. Il confronto fra le due sponde dell’Atlantico è istruttivo.
1. Dopo il collasso della Lehman Brothers nell’autunno del 2008, il governo americano decise senza esitazioni di intervenire per bloccare il contagio. Il Congresso mise a disposizione del governo (erano gli ultimi giorni di George Bush) 700 miliardi dollari da impiegare per disinnescare la crisi bancaria. L’operazione ebbe successo. Il temuto ripetersi di della catastrofe del 1929 fu scongiurato.
Una politica equivalente fu negli anni successivi adottata in Europa. Gli Stati investirono centinaia di miliardi di euro nel salvataggio delle banche: da quelle britanniche, che furono nazionalizzate, a quelle tedesche e francesi, nonché irlandesi, spagnole, e così via. Si trattò di una reazione analoga a quella adottata in America. Ma l’analogia si ferma qui.
A parte il salvataggio delle banche, le politiche cominciarono a divergere radicalmente. In America, Barack Obama decise, non appena approdato alla Casa Bianca, una manovra di bilancio di 800 miliardi di dollari per ridare fiato all'economia, con la crescita di investimenti e consumi. In Europa si adottò la linea opposta. Poiché il salvataggio delle banche aveva accresciuto i disavanzi di bilancio e del debito pubblico, le autorità dell’eurozona imposero una politica di austerità finalizzata al rientro del disavanzo.
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Valore senza crisi - Crisi senza valore?
Sull'assenza di una teoria della crisi in Moishe Postone
di Richard Aabromeit
"Una nuova interpretazione della teoria critica di Marx" è il sottotitolo del libro di Moishe Postone "Tempo, Lavoro e Dominio sociale" del 1993 [*1]. Questa bella dichiarazione fa venire l'appetito e se, come ho fatto io, si comincia a leggerlo pieni di grande aspettativa e poi, in seguito, si partecipa anche ad un seminario per poter completare la discussione del libro in un circolo di lettura, con partecipazione attiva - e sì, allora probabilmente quanto meno alcuni desideri si avverano, e vuol dire che in questo paese l'elaborazione della teoria critica non è poi messa tanto male... Eravamo fiduciosi, fin dall'inizio della nostra lettura e della nostra discussione cominciata più di un anno fa, che, al di là della definizione o della reinterpretazione di molte categorie sociali, come il genere, il valore, il lavoro, il denaro, il capitale ecc., il testo si sarebbe pronunciato circa quello su cui si può basare una prospettiva che punti al superamento della formazione sociale capitalista o del patriarcato produttore di merci: fornire, fra le altre cose, una teoria (radicale) della crisi. Tale teoria della crisi, da un lato, dovrebbe riferirsi ai frammenti in tal senso ammissibili di tutta l'opera di Marx, in particolare ai tre volumi del Capitale, ai Grundrisse e al Contributo alla Critica dell'Economia Politica. Dall'altro lato, si dovrebbe condurre la discussione anche nel senso di unire, collegare e trasformare questi frammenti, con l'obiettivo di effettuare il completamento e l'attualizzazione di tale teoria. Dopo la morte di Marx nel 1883, com'è noto, questi tentativi vennero intrapresi varie volte, ma in realtà più sporadicamente, fra gli altri da Rosa Luxemburg, Karl Korsch ed Henryk Grossmann.
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La Crisi irrisolta
Quel che si cela dietro ai drammatici crolli di borsa
di Francesco Schettino
È un fatto tristemente noto, grazie anche alla pluralità di pellicole girate sul soggetto e, soprattutto per esperienza diretta di coloro che tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta erano almeno adolescenti, che l’eroina è una bestia feroce in grado di trasformare completamente qualsiasi essere umano sino a ridurne in fumo ogni traccia di razionalità. Questo concetto doveva essere ben chiaro anche alla classe dominante giacché, anche attraverso l’inondazione del mercato di questa immondizia, che si sostituiva alle cosiddette droghe leggere, o agli allucinogeni, ampiamente usati nella decade precedente, essa riuscì – in modo estremamente più efficace di qualsiasi altra manovra repressiva – ad infliggere un colpo mortale a quello che era restato del movimento della sinistra alternativa italiana erede della resistenza al fascismo e delle battaglie di classe di fine anni cinquanta ed inizio anni sessanta[1]. È altrettanto riconosciuto, anche grazie alla recente uscita di libri o testi sul tema, come la cocaina, droga di classe (dominante) per eccellenza, circoli abbondantemente negli ambienti della finanza ed in particolare a Wall Street, come ampiamente descritto e documentato da un recente film di Scorsese.
Dunque, droga, dipendenza e tossicomania sono elementi che, in un modo o in un altro sono connaturati al modo di produzione del capitale giacché, essendo esso stesso un meccanismo sociale che agisce alla stregua di un organismo biologico, non può esimersi dall’essere attratto da sostanze\elementi che possono generare dipendenza risollevando, nell’immediato, da fasi più o meno lunghe di crisi profonda.
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La deflazione salariale spiegata agli operai della Whirlpool (che la conoscono già)
Sergio Cesaratto
Spiegare ai compagni della Whirpool cosa significhi deflazione salariale è in un certo senso imbarazzante. Suppongo che loro sappiano benissimo cosa significhi per averla provata sulla propria pelle. Il padrone glielo avrà spiegato mille e una volta: in tanti altri paesi i salari sono molto, ma molto più bassi che in Italia. Allora che fate? O i vostri salari diminuiscono, oppure decentriamo la produzione (oppure chiudiamo e basta). È la globalizzazione bellezza, e se a decidere è una multinazionale è ancor peggio perché il ricatto di spostare la produzione è più forte.
BOX 1 – Deflazione salariale vuol dire competere con gli altri paesi giocando su un basso costo del lavoro. Si noti che questo vuol dire rinunciare a un ampio mercato interno per i prodotti – se i salari sono bassi, tali saranno anche i consumi – con l’obiettivo di conquistare mercati esteri. La strategia di deflazione salariale è detta anche deflazione competitiva: si punta a tenere prezzi e salari nazionali bassi per spiazzare i concorrenti sui mercati esteri. L’obiezione fondamentale alla deflazione competitiva è che se tutti i paesi adottano questa strategia, chi compra? E’ questo il nodo fondamentale del capitalismo, per cui oggi si parla di stagnazione secolare, un pericolo che deriva dal pauroso aumento della diseguaglianza. |
Una prima linea di difesa dei lavoratori è nella qualità del lavoro, che non è la medesima in tutti i paesi ed è certamente più elevata in Italia. In sostanza quello che l’impresa guadagna via minori salari se sposta la produzione, lo perde sul piano della produttività (prodotto per lavoratore). Ma naturalmente questo è vero fino a un certo punto, in quanto le produzioni più standardizzate sono facilmente trasferibili, e con macchinario adeguato la produttività è la medesima. È solo quando il prodotto richiede conoscenze molto puntuali e non facilmente trasferibili che ci si difende bene.
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Vessillifero rosso della false flag nera
Soros traccia il solco
Fulvio Grimaldi
Monaco 1938-2016
La sciarada è in enigmistica lo schema per cui unendo due parole se ne forma una terza: X+Y = XY. Capirai che impresa. Di conseguenza è anche il modo per dire di una chiacchierata che non porta a niente, si arrotola su se stessa. E quello che abbiamo visto a Ginevra, poi a Vienna, poi di nuovo a Ginevra e, ora, a Monaco. Con i gufi che già strillavano alla Monaco della resa, rianimando il patto di Monaco del 1939 con Chamberlain che avrebbe ceduto a Hitler, con le conseguenze immaginabili. A parte il fatto che gli anglosassoni, allora e fino a qualche anno dopo, speravano che la Germania di Hitler costituisse un baluardo contro l’assai più temuta URSS, e le si avventarono addosso solo quando divenne manifesto che quel baluardo si sbriciolava (e anche perché i tedeschi rompevano ai colonialisti inglesi in Africa), la Monaco dell’altro giorno rappresenta, come i negoziati precedenti, una sciarada. La chiacchierata finisce con un OK, vocabolo nuovo, ma con dentro le stesse parole di prima.
I siro-irano-russi che avanzano e vanificano l’intero disegno del Nuovo Medioriente, gli statunitensi (con Israele sulla spalla destra) che non se la sentono di finire nel pantano in fase pre-elettorale, i francesi che non ce la farebbero mai da soli, i turco-sauditi che se la vedono proprio male, anche internamente, se tutto quanto hanno combinato in 5 anni, mettendo in piedi lo sfracello Nusra-Isis e appendici terroristiche, non portasse alla cancellazione perlomeno della Siria. Sono questi ultimi a spingere per l’intervento di terra. Ridicolo quello delle armate raccogliticce di Riyad, svaporerebbero al primo impatto con i ben altrimenti motivati combattenti patriottici.
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Il rumore del picco del petrolio
di AMT
Cari lettori,
questo 2016 è stato segnato da una notizia che ha occupato una parte apprezzabile del sempre conteso spazio mediatico: la volatilità della borsa cinese. Nell'Impero di Mezzo si sono vissuti giorni di grande ribasso, fino al punto che si è dovuta sospendere la sessione per un paio di giorni, essendo il ribasso oltre il 7%. La borsa cinese aveva avuto un'evoluzione abbastanza mediocre nel 2015 e a quello che sembra tutti i problemi accumulati sono sempre più evidenti nel 2016. Le borse occidentali hanno accusato l'impatto con diminuzioni accumulate che ammontano alla metà di quelle cinesi, ma dimostrano che l'evoluzione del gigante asiatico ha molta influenza in ciò che avviene nel mondo.
Ma che succede alla Cina? Semplicemente che la Cina, la fabbrica del mondo, sta accusando con forza la diminuzione della domanda mondiale di ogni tipo di bene. Cosa logica, se si tiene conto del fatto che la riduzione della leva finanziaria del debito iniziata nel 2008 è andata a minare progressivamente la rendita disponibile delle classi medie (tramite la diminuzione delle prestazioni ed il degrado della qualità del lavoro salariato). E quella classe media, sempre più impoverita, compra meno cose e consuma di meno.
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La fabbrica della disperazione
Franco Berardi e il disagio dell’«ipermodernità»
Damiano Palano
Il tempo della disperazione
Al termine del Disagio della civiltà, dopo aver mostrato come il processo della civilizzazione fosse il risultato del controllo progressivamente esercitato sul corredo pulsionale degli esseri umani, Freud veniva a contrapporre l’una all’altra le due forze elementari che riteneva di avere scoperto, Eros e Morte. E proprio nelle righe finale, aggiunte nel 1931, segnalava come i pericoli maggiori per il genere umano giungessero dalla pulsione di morte e dalle tendenze aggressive che ne discendevano:
«Il problema fondamentale del destino della specie umana, a me sembra sia questo: se, e fino a che punto, l’evoluzione civile degli uomini riuscirà a dominare i turbamenti della vita collettiva provocati dalla loro pulsione aggressiva e autodistruttrice. In questo aspetto proprio il tempo presente merita forse particolare interesse. Gli uomini adesso hanno esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda, fino all’ultimo uomo. Lo sanno, donde buona parte della loro presente inquietudine, infelicità, apprensione»[1].
È facile riconoscere in quelle parole il riflesso cupo della stagione di barbarie che si avvicinava.
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Iniziata la fase B?
di Raffaele Sciortino
Sembra ufficiale: secondo Bloomberg la prosecuzione dei cali sulle borse mondiali - i più consistenti dalla crisi dei debiti sovrani del 2011 - segna inequivocabilmente il passaggio da toro a orso, da un mercato ascendente a uno in discesa di cui non si riesce a prevedere l’atterraggio. Controprove principali: corsa all’oro come bene rifugio (faccia nascosta della moneta creata con un click del computer); acquisti a valanga di titoli di stato Usa, tedeschi, inglesi come “porti sicuri” per il risparmio anche a costo di rendimenti negativi e del gonfiamento di una nuova bolla; assicurazioni sui rischi di default (cds) in netto rialzo.
C’è di più. Fin qui il crollo dei titoli, soprattutto bancari ed energetici, veniva messo in riferimento con il ribasso del prezzo del petrolio, lo scoppio delle bolle speculative e il rallentamento dell’economia cinesi, le difficoltà delle economie emergenti colpite da ingenti fughe di capitali e svalutazioni valutarie, nonché con il pur modesto aumento dei tassi statunitensi da parte della Federal Reserve (la banca centrale). Tutto vero. Ora però viene fuori che il problema di fondo sono i profitti in calo di buona parte della maggiori corporation mondiali - ma con epicentro proprio negli States! - con prospettive ancora più fosche dato il trend negativo di investimenti e ordinativi. Con l’aggravante di livelli di indebitamento -supportati in questi anni dalle politiche monetarie “facili” delle banche centrali- che ora diventano difficili da reggere sia per le imprese sia per le banche che devono cancellare dai bilanci sempre più crediti inesigibili. Il che porta a ulteriori vendite di titoli in un circolo vizioso che si autoalimenta.
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Perchè la sinistra deve tornare ad essere radicale e di classe
Intervista a Marco Veronese Passarella
Abbiamo rivolto qualche domanda a Marco Veronese Passarella, docente di economia presso l’Università di Leeds e co-autore con Emiliano Brancaccio del libro: “L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa”. Come era già accaduto alla Scuola di formazione estiva del Collettivo Stella Rossa, dalla conversazione che abbiamo avuto sono emersi diversi temi, non soltanto tecnici, ma anche politici, sociali, culturali.
* * *
“CSR: In Italia, si guarda molto alle esperienze della sinistra radicale di altri paesi europei, in particolare di Spagna e Grecia. Gianis Varoufakis, però, ha recentemente rilasciato un’intervista in cui critica le recenti scelte del governo di Syriza e parla delle politiche di austerità che potrebbero derivare da un governo di coalizione fra Socialisti del PSOE e Podemos.
MP: Vi sono delle similitudini fra il caso greco e quello spagnolo. Personalmente, se proprio devo scegliere, mi sento più vicino a Syriza che a Podemos. Podemos non ha un chiaro riferimento di classe nel suo programma. Sostanzialmente, è un movimento sganciato dalla topologia politica tradizionale. Il che di per sé non è una cosa negativa. Solo che non mi è chiaro quale sia la loro idea di società e come pensino di darle corpo. D’altra parte, Varoufakis ha ragione quando sostiene che non vi sono margini di agibilità politica dentro l’Unione Europea. Il rischio, infatti, è che tutti i governi, anche i più progressisti e ben intenzionati, facciano come in Grecia.
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Argentina: ritorno al passato ?
di Marco Consolo
Il neo-presidente argentino Mauricio Macri non ha perso tempo. Dopo la sua risicata vittoria elettorale (51,4%), due mesi dopo il suo insediamento si può trarre un primo bilancio del governo del “Berlusconi gaucho”, figlio di un buon amico degli Agnelli e di Licio Gelli.
Approfittando della “luna di miele” dei primi tempi, ma soprattutto della chiusura del parlamento in vacanza, Macri avanza come un bulldozer. Non c’è settore che non sia sotto attacco del revanscismo neo-liberista della destra al governo, che ha prodotto un drastico rovesciamento del quadro politico con l’appoggio del Partito Radicale (ex social-democratici) di Alfonsin Jr. L’obiettivo dichiarato è quello di smantellare strutturalmente il progetto-Paese dei governi Kirchner e sbarazzarsi delle conquiste politiche, economiche e sociali.
Macri agisce come un potere de facto, ai margini della legalità democratica, saltando il Parlamento dove è ancora in minoranza. Un dettaglio in via di soluzione, visto che, nei giorni scorsi, è riuscito a spaccare l’unità del peronismo e a far passare una ventina di parlamentari dalla sua parte.
In nome del “repubblicanesimo”, a colpi di “Decreti di Necessità ed Urgenza” (DNU), ha fatto piazza pulita di molte delle conquiste degli ultimi anni, iniziando dal nuovo Codice di Procedura Penale e dalla “Legge sui mezzi di comunicazione”, che metteva in discussione poteri forti, consolidati all’ombra della passata dittatura, a cominciare dal Gruppo Clarín, una potenza mediatica di tutto rispetto.
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La classe sociale propulsiva del socialismo del XXI Secolo
Una possibile ipotesi
Riccardo Achilli
Si registra l’emergere impetuoso, ma privo di rappresentanza politico/sindacale adeguata, di un proletariato del general intellect, le cui modalità di riproduzione e di sfruttamento non passano più tramite la “spremitura” di una energia lavorativa, con modalità di organizzazione del lavoro standardizzate e ripetitive, come succedeva all’operaio fordista, ma anche all’impiegato “di concetto” novecentesco (basta guardare un qualsiasi film di Fantozzi per vedere come, nel secolo scorso, anche il ceto impiegatizio fosse sottoposto ad una forma peculiare di taylorismo). Le modalità di sfruttamento di questo nuovo proletariato del general intellect passano per il tramite dello sfruttamento della propria intelligenza, della propria preparazione culturale e della propria capacità di elaborare in modo creativo e comunicare in modo efficace informazioni e conoscenze.
Lo sfruttamento e il disciplinamento di questo nuovo proletariato devono quindi passare tramite organizzazioni del lavoro diametralmente opposte rispetto a quelle neofordiste novecentesche (caratterizzate dalla stabilità del lavoratore sul posto di lavoro), che ne flessibilizzino gli orari ed i tempi di lavoro e di consegna del prodotto richiesto dal datore di lavoro, al fine di controllare l’appropriabilità dei risultati del suo lavoro, posto che le tradizionali tecniche dei “tempi e metodi” del fordismo non sono più applicabili adu n lavoro discontinuo, non standardizzato e creativo.
Dette organizzazioni del lavoro, inoltre, devono trovare l’equilibrio ideale fra autonomizzazione del singolo lavoratore intellettuale ed esigenza crescente di interazione di gruppo, unica forma attraverso la quale la creatività del singolo può trovare una espressione compiuta in un “prodotto intellettuale” perfettamente definito ed idoneo alla valorizzazione di mercato.
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Titoli pubblici come Risk Weighted Asset
Come intendono porvi riparo?
di Quarantotto
1. Periodicamente, viene offerta come notizia qualche "indiscrezione" sulla volontà tedesca di uscire dall'euro.
Questa diffusione di "voci", a dire il vero, assume più spesso, nei toni di chi la diffonde, il sapore di un'implicita minaccia mediatica a noi italiani: la mamma severa ma esemplare, la Germania, si sarebbe stancata di noi discoli e ci manderebbe in collegio, prendendosi una lunga vacanza da questa integrazione €uropea, che tanto gli costa in termini di sacrifici fatti per noi inutili PIGS indisciplinati.
Risultato: senza l'euro come faremmo ad andare avanti, chi ci proteggerebbe dalla Cina? Cosa potrebbe evitare il default del debito sovrano italiano e la conseguente spaventosa crisi di finanziamento dello Stato e di travolgimento di tutto il welfare che ne conseguirebbe?
Insomma, viene agitato implicitamente lo "spauracchio Grecia" (in caso di uscita dall'euro!!!), dimenticando allegramente che quello che si è verificato in Grecia, in termini di tagli alle pensioni e sostanziale disattivazione del sistema sanitario pubblico nonchè di svendita di ogni possibile asset pubblico (e deprezzamento totale degli asset privati), sta avvenendo dentro la moneta unica e, anzi, a causa del memorandum di misure fiscali imposte dall'ESFS (ESM), FMI, e Eurogruppo, per poter rimanere dentri l'UEM.
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La lotta per il lavoro del XXI secolo
L’esperienza della lista disoccupati e precari del VII Municipio
di Militant
Su di un metodo di lotta per il lavoro
Ormai è da più di un anno che stiamo supportando le attività della Lista dei Disoccupati e Precari del VII Municipio e del Coordinamento Disoccupati e Precari Organizzati nato tra le diverse liste esistenti sul territorio romano. Un breve – ma intenso – periodo di lotta, condiviso finora con compagni dei Carc, della Casa del Popolo Giuseppe Tanas, dell’Unione Sindacale di Base e di altre realtà e singoli provenienti da diverse esperienze politiche o di lotta. E, naturalmente, con precari e disoccupati di Roma e provincia. L’idea alla base di un movimento di disoccupati e precari nasce principalmente dalla constatazione che in una regione dove il tasso di disoccupazione supera il 12% e quello dei giovani è quasi il triplo, il tentativo di ricomposizione di una classe di lavoratori (occupati e disoccupati) sempre più frammentata, oltre che di organizzazione di un movimento politico e sociale capace di agire da controparte e alternativa all’establishment centrale e locale, non possa che passare – anche – dall’organizzazione di un movimento di lotta per il lavoro. Tanto più in territori periferici come quello del VII Municipio (Cinecittà) dove il livello di disoccupazione e di marginalità sociale raggiunge livelli ben più alti di quelli registrati su scala provinciale e regionale.
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Contro la tirannia del progresso
DeLillo e Sebald, alcuni esercizi di resistenza
Arturo Mazzarella
Stando ai numerosi enunciati riguardanti le sorti della letteratura che puntualmente si susseguono negli ultimi anni, la maggior parte degli scrittori e dei critici – anche di orientamento diverso – è concorde nell’affidare alla scrittura letteraria una funzione etica, uno slancio moralmente costruttivo, in grado di custodire e rilanciare l’intero patrimonio di valori appartenenti all’ambito individuale e collettivo del Bene. Che si tratti di un obiettivo assolutamente nobile, in tutti i sensi, è fuori discussione. Bisogna vedere, però, se dietro questa nobiltà etica non si nascondano delle insidie profonde, tali da paralizzarne gli esiti.
La prima proviene da una concezione teleologica della temporalità, granitico presupposto – come ha dimostrato, nel corso del Novecento, la più agguerrita tradizione filosofica – di un radicale, inaggirabile nichilismo. L’adempimento di qualsiasi progetto costruttivo, inscritto nel solco del Bene, è inestricabilmente congiunto, infatti, a una consolidata idolatria del divenire storico.
Progettare, costruire, rinnovare – oppure, al contrario, restaurare un valore consegnato all’oblio – significa trasformare ciascun segmento temporale nello strumento finalizzato al raggiungimento di uno scopo. Nietzsche, quasi in ogni pagina della sua opera, non si è mai stancato di ricordarlo. Tale tensione rivolta verso il divenire implica necessariamente lo svuotamento dell’attimo: irripetibile nella sua particolarità, nella sua «abissale» singolarità, direbbe Nietzsche in Così parlò Zarathustra.
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Il vecchio muore e il nuovo non può nascere
di Renato Caputo
“La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”*, osservava Gramsci in una nota scritta in carcere nel 1930; questa considerazione è purtroppo ancora oggi particolarmente attuale. Se non saremo in grado di far nascere una più razionale organizzazione della società, sulle rovine dell’attuale, andremo incontro a un’epoca ancora più oscurantista e imbarbarita della presente
Sfruttando a proprio vantaggio una crisi provocata da assetti proprietari sempre più monopolizzati da pochissimi privati, che impediscono lo sviluppo economico, una élite progressivamente ristretta si appropria di una quota sempre più spropositata del prodotto di un lavoro in misura crescente diviso e strutturato a livello internazionale. Così oggi l’1% della popolazione, senza dover lavorare, possiede maggiori ricchezze del 99%, spesso costretto a faticare per tutta la vita per consentire a una ristrettissima minoranza di vivere nel lusso più sfrenato, tanto che 63 nababbi si appropriano di una quota maggiore della ricchezza totale di 3 miliardi e seicento milioni di persone, il 50% più povero dell’umanità.
In tale situazione ormai solo un mentecatto può dar credito all’ideologia positivista, espressione sovrastrutturale del dominio della borghesia, secondo la quale il progresso tecnologico e scientifico risolverà progressivamente i problemi della società visto che gli interessi degli industriali non possono che coincidere con gli interessi dei salariati. Allo stesso modo non può che apparire assurda la fede liberale nelle capacità della società civile, non ostacolata dal potere politico, di autoregolarsi secondo le sacre leggi di un mercato, per cui domanda e offerta tenderebbero spontaneamente a equilibrarsi.
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Sicurezza: il terrorismo si può combattere, senza indebolire il web
E la crittografia non è il male
di Fabio Chiusi
"Niente panico", titola un nuovo rapporto del Berkman Center for Internet & Society dell'Università di Harvard: proteggere le nostre comunicazioni online tramite un ricorso sempre più diffuso e sofisticato alla crittografia non impedirà alle forze dell'ordine e all'intelligence di fare il loro lavoro. Una preoccupazione che le agenzie governative ripetono da decenni, e che tuttavia secondo gli autori – un gruppo di esperti di sicurezza informatica provenienti dal mondo accademico, dalla società civile e perfino dalla stessa comunità dell'intelligence – non trova fondamento per ragioni tecniche, economiche, e per la traiettoria oggi intuibile dello sviluppo tecnologico nel lungo periodo.
Sbagliano dunque le spie a ripetere la metafora del "going dark", lo spettro sempre incombente di "restare al buio" circa le comunicazioni di criminali o sospetti terroristi a causa dei progressi delle tecniche di cifratura dei loro messaggi. Un mantra che si è letto e riletto nuovamente anche e soprattutto dopo lo scandalo Datagate: ora che sappiamo di essere tutti potenzialmente sorvegliati, e che giganti come Google e Apple implementano forme di cifratura "forte", stiamo forse privando forze dell’ordine e intelligence del necessario accesso a comunicazioni indispensabili per sventare attacchi terroristici? E davvero la soluzione, come chiedono, è che i fornitori dei servizi di comunicazione – a partire dai colossi web, ma non solo – consentano comunque un accesso a quelle comunicazioni (tramite le cosiddette backdoor)?
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Smart Working
Sfruttamento illimitato della costrizione al lavoro
di Carla Filosa
In realtà, il dominio dei capitalisti sugli operai non è se non dominio delle condizioni di lavoro autonomizzatesi contro e di fronte al lavoratore… cioè i mezzi di produzione… e i mezzi d sussistenza,… benché tale rapporto si realizzi soltanto nel processo di produzione reale, che è essenzialmente processo di produzione di plusvalore; processo di autovalorizzazione del capitale anticipato. Marx, Il Capitale, libro I, cap. VI inedito.
Mediaticamente coinvolti in questi ultimi tempi solo dai cosiddetti diritti civili, forse non ricordiamo nemmeno più quella proposta effettuata nel dicembre scorso dal ministro Poletti, sull’abolizione “tecnologica” della misurazione temporale dellagiornata lavorativa. Dopo l’impegno, in settembre, ad abbassare le pensioni a chi ne avesse anticipato la fruizione, l’ineffabile ministro del Lavoro si è messo all’opera per rosicchiare, non solo il salario differito sui binari della riforma Fornero, ma anche quello diretto, angustamente percepito solo come busta paga, ma in realtà di natura sociale. I diritti fondamentali, quelli conquistati entro il rapporto lavorativo vessatorio e fraudolento, sono così scivolati nell’inavvertita prassi governativa abile nell’elargire una progressiva dimenticanza da spargere su tutto il piano del reale. Sublimati su battaglie giuridiche, i conflitti sono stati spostati su piani ideologico-religiosi con altri soggetti di diritto, dal piano economico a quello sociale, più permeabile a compromessi. Il capitale rimane pertanto nel cono d’ombra, libero di far erodere anche il salario indiretto con il taglio delle spese sociali e i favori fiscali alle imprese.
Quando poi le “innovazioni” politiche non si vogliono far capire bene agli interessati, ormai si usa la lingua dominante sul mercato mondiale.
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L'alternanza scuola lavoro
Ovvero perchè la riforma della scuola riguarda tutti noi
di Super User
1. Il fenomeno in cifre
Gli studenti che hanno seguito percorsi di alternanza scuola lavoro nel solo anno scolastico 2013/2014 sono stati 210.506 (il 10,7% degli iscritti alle scuole superiori di II grado) per una media di quasi 100 ore a studente. Secondo i dati diffusi dall’INDIRE (Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa) l’alternanza scuola lavoro, introdotta nel 2005, ha riguardato negli ultimi 10 anni un numero crescente di alunni (45.897 nell’as 2006/2007).
La legge 107_2015, ossia la “Buona scuola” di Renzi, determinerà un incremento notevole tanto del numero di studenti quanto delle ore minime pro-capite impegnate nell’alternanza scuola lavoro. La riforma infatti prevede per la prima volta un monte ore minimo obbligatorio a cui tutti gli studenti saranno costretti a conformarsi: almeno 200 ore nei licei e almeno 400 nei tecnici e nei professionali1. Parliamo, in soldoni, di circa 500.000 studenti interessati già a partire da quest’anno, e di circa un 1 mln e mezzo quando la riforma sarà entrata a regime. Un’enormità.
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