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La politica monetaria europea tra ordoliberalismo e New Consensus Model
di Stefano Figuera, Guglielmo Forges Davanzati, Andrea Pacella
1. Introduzione
L’impianto della politica monetaria europea ha risentito delle vicende storiche e del dibattito teorico della prima metà del secolo scorso. Il paradigma ordoliberale che vide la luce in Germania all’inizio degli anni Trenta ha rappresentato a quest’ultimo proposito un importante punto di riferimento. Lo scopo del nostro lavoro è duplice: da una parte esso intende ricostruire l’influsso ordoliberale sulla politica monetaria europea nel corso del tempo, e dall’altro dimostrare come essa sia stata anche condizionata, a diverso titolo, dagli sviluppi del mainstream teorico, dal neoliberalismo al New Consensus Model (NCM).
2. L’eredità della tradizione ordoliberale
Negli anni Trenta del secolo scorso, ad opera di un economista, Walter Eucken, e di due giuristi, Franz Böhm e Hans Grossmann-Doerth, tutti docenti nell’Università di Friburgo, prese avvio una riflessione sui limiti del liberalismo classico e sul ruolo dello Stato.
In un manifesto programmatico del 1936, intitolato “Il nostro compito”, essi esplicitarono il loro intento, di “rimettere il diritto e l’economia al loro giusto posto”[1], individuando a tal fine alcune linee lungo le quali muoversi.
Nel sistema teorizzato dall’ordoliberalismo il principio base dell’economia è rappresentato dalla presenza di un efficiente sistema di prezzi di concorrenza perfetta. A questo principio base ne vengono affiancati altri sei, dei quali tre attengono a importanti profili di politica economica: il primato della politica monetaria, la costanza della politica economica e il principio dei mercati aperti.
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Le crepe nell’ordine neoliberale
J. C. Pan intervista Gary Gerstle
Siamo in piena transizione: anche se il neoliberismo potrebbe non essere finito, di certo non è più l'ideologia indiscussa del nostro tempo
Un movimento politico diventa ordine politico quando le sue premesse cominciano a sembrare ineludibili. Negli anni Cinquanta, i Repubblicani si piegarono alla realtà politica e sostennero i programmi di assistenza sociale del New Deal; negli anni Novanta, i Democratici abbracciarono la deregulation di Ronald Reagan.
Tuttavia, come sostiene lo storico Gary Gerstle nel suo nuovo libro, The Rise and Fall of the Neoliberal Order: America and the World in the Free Market Era, nessun ordine politico è immune dal potere destabilizzante delle crisi economiche.
Per Gerstle, la stagflazione degli anni Settanta minò l’ordine del New Deal proprio come la Grande Depressione aveva contribuito a realizzarlo. E oggi, all’ombra della Grande Recessione del 2008-2009, con l’inflazione che galoppa e la pandemia che si estende ancora in tutto il mondo, l’ordine neoliberista sembra vacillare. Dunque, cosa potrebbe venire dopo?
Jen Pan ha posto a Gerstle questa e altre domande nel corso di un recente episodio di The Jacobin Show. Nella loro conversazione, che è stata editata per chiarezza e lunghezza, Pan e Gerstle discutono di come Donald Trump e Bernie Sanders siano sintomi di destra e di sinistra del crack neoliberista, di come la New Left abbia inconsapevolmente aiutato l’ascesa del neoliberismo e perché pensa che «il capitalismo [non è] al posto di guida» in questo momento tumultuoso.
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Intendi qualcosa di molto specifico quando parli di un ordine politico. Cosa distingue un ordine politico da, diciamo, un movimento politico o un’ideologia politica? E quali sono stati alcuni importanti ordini politici negli Stati uniti?
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Per una Lista Comunista Unitaria Nazionale
Crisi del governo Draghi ed elezioni
di Fosco Giannini
Mentre scriviamo – 21 luglio – il governo Draghi è in agonia. Non ne conosciamo l’epilogo, ma ciò ci interessa relativamente rispetto all’esigenza che abbiamo di andare all’essenza delle cose, sottraendoci all’impudico balletto a cui partecipa quasi tutto l’arco parlamentare italiano, che si muove in un vaudeville di personaggi obesi nell’animo, ipocriti ed untuosi, quelli già per sempre tratteggiati e condannati da George Grosz.
Il governo Draghi cadrà e all’orizzonte si profilerà la vittoria di una destra guidata da Giorgia Meloni. Il PD, il partito che ha fatto entrare nella Città d’Italia quel Cavallo di Troia pieno di soldati iperliberisti e antioperai, con le bandiere della Nato e dell’Ue, lancerà gridi d’allarme per la democrazia e cercherà di costruire altri fronti liberisti ed atlantisti contro la destra.
E l’orrido vaudeville continuerà, sarà più volte al giorno trasmesso in ogni casa italiana, nella menzogna, nella rimozione totale della verità, in una “politique politicienne” di massa entro la quale il tesoro della verità sarà nascosto sottoterra, come le 300 monete d’oro d’epoca bizantina ritrovate solo nel 2018 sotto le terre di Como.
Se la destra capeggiata da Fratelli d’Italia vincerà, nulla sul piano sostanziale, cambierà: l’alleanza tra FdI, Lega e Forza Italia garantirà di nuovo una totale subordinazione all’Ue, alla Nato, all’Ucraina di Zelensky e al grande capitale italiano.
Se dovesse riaffermarsi un fronte di centro-sinistra o di “unità nazionale” attorno al PD, magari allargato al nuovo Centro in composizione, tutto sarà come prima: fedeli alla guerra imperialista, all’Ue e a quella nuova borghesia italiana che ora domina il sistema finanziario, bancario e industriale italiano con quella ferocia padronale che le permette quell’ormai lunga assenza dell’opposizione politica, sociale e sindacale in Italia.
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Democrazia o salvezza. Cosa ci dice la crisi del governo Draghi
di Gaspare Nevola
Democrazia o salvezza? Elezioni o il Bene del Paese? Questi gli interrogativi che non vogliamo porci. Ma cosa ci dice, in ultimo, la crisi del governo Draghi?
1. Vita o crisi di un governo, voti di fiducia del Parlamento. La fisiologia di una democrazia parlamentare
La settimana scorsa il Presidente del Consiglio Draghi si è dimesso, nonostante avesse avuto il voto di fiducia istituzionale del Senato. Ma non avendo ottenuto il voto di fiducia politico da parte del M5S, ha ritenuto che la maggioranza parlamentare, che lo aveva fatto sorgere, di fatto non esisteva più, e per ciò stesso veniva meno il governo nato circa un anno e mezzo fa. Dopo che il Quirinale ha respinto le sue dimissioni, oggi (20 luglio) il premier Draghi si reca in Parlamento. In quale direzione si uscirà dalla crisi di governo ufficializzata, se non innescata, dalle dimissioni del Presidente del Consiglio? Una riflessione si impone comunque già ora, su alcune tendenze di fondo che vanno rafforzandosi nella politica e nel sentiment del Paese. Anche qualora, alla fine, si dovesse andare alle elezioni anticipate. Ma andiamo con ordine a svolgere il nostro tema, che si articolerà su una pluralità di fuochi di analisi, come, ad esempio, quello dell’opinione pubblica organizzata nei canali della stampa nazionale, quello delle trasformazioni della “cosa-democrazia” a fronte del persistere del “nome- democrazia”, quello del significato del voto nelle liberaldemocrazie contemporanee.
2. Fisiologia di una democrazia parlamentare sul viale del tramonto?
Che un governo nasca, viva o muoia sulla base dei voti e della fiducia o sfiducia parlamentari, nonché sulla base delle scelte politiche che compiono i partiti, rappresenta la fisiologia di una democrazia parlamentare, quale è quella italiana disegnata nella Costituzione del 1948 – indipendentemente dal fatto che gli esiti a cui portano tali dinamiche politiche possano, a seconda dei casi, piacere o no.
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«La politica estera della Russia punta a creare un ordine internazionale multipolare»
Fabrizio Verde intervista Yoselina Guevara
Il mondo è entrato in una fase di cambiamenti che si susseguono sotto i nostri occhi e che spesso non riusciamo a cogliere nella loro interezza. Il dominio unipolare statunitense emerso dopo l'implosione dell'Unione Sovietica e del blocco socialista è ormai giunto agli sgoccioli. Il mondo si avvia verso un nuovo assetto multipolare dove emergono con forza le potenze eurasiatiche, con gli annessi cambiamenti geopolitici conseguenti. Un mondo dove potranno trovare nuovo protagonismo regioni come l'America Latina che hanno dovuto patire il dominio incontrastato della potenza imperialista statunitense.
Di questi cambiamenti, del conflitto in Ucraina e delle sue ricadute geopolitiche, del nuovo protagonismo di potenze emergenti come Russia e Cina e dei paesi dell'America Latina guidati alla riscossa dall'esempio del Venezuela, abbiamo discusso con la giornalista venezuelana Yoselina Guevara. Esperta e studiosa di Russia e mondo multipolare.
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Lei è un’esperta e studiosa di Russia e mondo multipolare, ci può illustrare le sue ricerche?
Innanzitutto Vi ringrazio per l’opportunità concessami attraverso questa intervista.
Mi lusinga la Vostra definizione di esperta in quanto reputo di avere ancora molta strada da fare e molto da imparare. Anche se le definizioni a volte limitano, sono d'accordo con lei nel definirmi studiosa perché lo studio riflessivo implica una curiosità, una ricerca di conoscenza, un interesse per ciò che ci circonda ed è un esercizio, un'attività che si esercita costantemente e che non si esaurisce solo con una laurea o un corso di studi. Noi comunicatori siamo caratterizzati da questo interesse, dalla curiosità, ma questa curiosità non può essere superficiale, deve essere arricchita giorno per giorno.
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La cecchina dell'Armata Rossa
Autobiografia di una soldatessa
di Domenico Moro
La cecchina dell’Armata Rossa (Odoya, 2021, euro 22) è un libro interessante e da leggere, non solo perché ci descrive alcuni episodi della Seconda guerra mondiale poco conosciuti in Italia, come le vicende dell’assedio di Odessa e Sebastopoli. Il libro ci restituisce anche uno spaccato della vita sociale, non solo militare, dell’Urss degli anni ’40 del XX secolo, immediatamente prima dello scoppio della guerra e durante i primi due anni di combattimento.
Il libro si ricollega a un sotto-settore del genere dei libri di guerra, quello delle autobiografie dei cecchini, cioè dei tiratori scelti o sniper, parola inglese che negli ultimi anni è sempre più utilizzata per definire questa specialità militare. Il cecchino si presta ad essere il protagonista di libri o film d’azione perché, nell’epoca del dominio delle macchine e degli eserciti di massa, rappresenta il combattente individuale che, utilizzando un fucile di precisione e combattendo spesso in modo solitario, infligge perdite pesanti al nemico. Non a caso, negli anni recenti sono usciti diversi film sui questi soldati, spesso ispirati a autobiografie di cecchini del passato e del presente. Tra questi ci sono American sniper (2014) di Clint Eastwood, sul cecchino statunitense Chris Kile, operativo durante la seconda invasione dell’Iraq, e il Nemico alle porte (2001) di Jean Jacques Annaud, sul cecchino sovietico Vasilij Zajcev, che combatté a Stalingrado.
Anche sulla protagonista di La cecchina dell’Armata Rossa, Ljudmila Pavličenko, è stato girato un film, Resistance. La battaglia di Sebastopoli (2015). Si tratta di una produzione russo-ucraina, fatto notevole, a fronte del solco che, a partire dal 2014, si è scavato tra le due nazioni sorelle e che ha condotto alla guerra attualmente in corso.
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Vi spiego perché vogliono andare alle elezioni proprio adesso
di Claudio Messora
Il Parlamento peggiore della storia di questa Repubblica SpA si avvia a fare le valigie. Con pochissime eccezioni, arroccate sia tra le fila dei partiti che nei gruppuscoli di fuoriusciti, numericamente ininfluenti, questa masnada di pavidi, opportunisti, utili idioti ed arrivisti ha avallato la peggiore macelleria sociale e le politiche di repressione più violente dai tempi della Seconda guerra mondiale, tanto più stolide quanto basate su assunti scientifici traballanti quando non completamente falsi. Ha supinamente recepito tutte le direttive imposte dall’alto, e non già dalle organizzazioni internazionali, di per sé poco rappresentative degli stati nazionali perché comunque eterodirette, come l’Oms, ma direttamente dalle multinazionali e dai ricchi padroni del pianeta che si riuniscono nei loro parlamenti privati di Davos. Un Parlamento che avrebbe dovuto rappresentare la voce del popolo italiano (perché siamo ancora, sebbene formalmente, una Repubblica parlamentare), e che invece, esattamente come i sindacati, ha rappresentato solo la sua subordinazione muta al potere dei soldi, della finanza e dei progetti di ingegneria sociale dei multimiliardari globali.
Per un parlamentare la prima legge morale è la coerenza. In questo senso, forse i migliori sono i piddini: tutto quello che è successo è opera loro, fa parte del loro dna. Sono loro i globalisti, i cessori di sovranità, loro che anelano ad un mondo in cui il potere anche politico risiede nelle mani di pochi, possibilmente lontano dai popoli che amministrano, meglio sarebbe addirittura su un altro pianeta.
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Una provocazione repressiva in grande stile, contro il proletariato della logistica, il SI Cobas, il sindacalismo conflittuale
di Tendenza internazionalista rivoluzionaria
Dopo due anni di pandemia e dentro una guerra che non finirà a breve e avrà effetti di devastazione sociale enormi anche fuori dall’Ucraina, il padronato e le forze parlamentari di governo e “opposizione” sanno che il malessere sociale ha raggiunto un livello tale di tensione che può esplodere da un momento all’altro. Di qui l’intensificazione della repressione in chiave preventiva: mettere sulla difensiva, terrorizzare, disorganizzare, delegittimare, dividere e normalizzare quella che è stata finora la frazione della classe lavoratrice più attiva e combattiva
All’alba di questa mattina è partita una pesante ed insidiosa operazione repressiva contro dirigenti del SI Cobas (il coordinatore nazionale Aldo Milani, Mohamed Arafat, Carlo Pallavicini, Bruno Scagnelli) e dell’USB, a sei dei quali sono stati comminati gli arresti domiciliari.
La provocatoria imputazione è quella di associazione a delinquere per avere compiuto atti di violenza privata, resistenza a pubblico ufficiale, sabotaggio, interruzione di pubblico servizio in occasione di scioperi e picchetti per “estorcere” da padroni e padroncini condizioni di “miglior favore” non per i lavoratori, ma per sé stessi – in una sorta di “faida”, anch’essa a fini privati, tra sindacati “di base”.
Insomma: la realtà dei fatti negata, mistificata, rovesciata. Perché negli ultimi 10-15 anni, a cominciare dalla Bennet di Origgio, i proletari della logistica, immigrati in grande maggioranza, sono stati protagonisti del solo, significativo ciclo di lotta avvenuto in Italia negli ultimi decenni – il solo fatto di lotte vere, di scioperi veri, di picchetti veri, di veri coordinamenti tra le diverse realtà, con piattaforme di lotta vere. Lotte realmente auto-organizzate dai lavoratori in prima persona che hanno dato vita a un’esperienza di nuovo sindacalismo militante impersonato soprattutto dal SI Cobas. Le sole lotte che – in un quadro di generale arretramento della classe lavoratrice – hanno segnato significativi avanzamenti nella condizione materiale (salari, orari, garanzie, etc.) e nei livelli di organizzazione e di coscienza di classe di decine di migliaia di proletari, sia facchini che driver.
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Il futuro del lavoro: automazione
di Michael Roberts
L’automazione sotto il capitalismo significa perdite significative di posti di lavoro tra coloro che non hanno titoli di studio (l’istruzione è ora sempre più costosa) e colpisce il salario più basso. Sotto il capitalismo, l’obiettivo è aumentare la redditività (e nemmeno la produttività, poiché gran parte dell’automazione può effettivamente ridurre la produttività). E viene utilizzato per controllare e monitorare i lavoratori piuttosto che aiutarli a svolgere i loro compiti. Solo la sostituzione del movente del profitto potrebbe consentire all’automazione e alla robotica di offrire vantaggi reali in termini di orari di lavoro più brevi e maggiori beni sociali
In questa seconda parte (qui la prima parte) della mia serie sul futuro del lavoro, voglio affrontare l’impatto dell’automazione, in particolare dei robot e dell’intelligenza artificiale (AI) sui posti di lavoro. Ho già trattato questo problema del rapporto tra lavoro umano e macchine , inclusi robot e intelligenza artificiale. Ma c’è qualcosa di nuovo che possiamo trovare dopo il crollo del COVID?
Il principale esperto americano di mainstream sull’impatto dell’automazione sui lavori futuri è Daron Acemoglu, Institute Professor al MIT. In testimonianza al Congresso degli Stati Uniti, Acemoglu ha esordito ricordando al Congresso che l’automazione non era un fenomeno recente. La sostituzione del lavoro umano con le macchine iniziò all’inizio della rivoluzione industriale britannica nell’industria tessile e l’automazione svolse un ruolo importante nell’industrializzazione americana durante il 19° secolo. La rapida meccanizzazione dell’agricoltura a partire dalla metà del XIX secolo è un altro esempio di automazione.
Ma questa meccanizzazione richiedeva ancora il lavoro umano per avviarla e mantenerla. La vera rivoluzione sarebbe se l’automazione diventasse non solo macchinari controllati dall’uomo, ma anche robot nella produzione e automazione basata su software nei lavori d’ufficio che richiedono non solo meno lavoro umano, ma potrebbero sostituirlo totalmente. Questa forma di automazione iniziò a verificarsi a partire dagli anni ’80, quando i capitalisti cercarono di aumentare la redditività eliminando in massa il lavoro umano. Mentre la meccanizzazione precedente non solo ha perso posti di lavoro, spesso ha anche creato nuovi posti di lavoro in nuovi settori, come ha osservato Engels nel suo libro, La condizione della classe operaia in Inghilterra (1844) – si veda il mio libro sull’economia di Engels pp 54-57.
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Industrializzazione del quotidiano e trasformazioni del lavoro
di Salvatore Cominu
Pubblichiamo oggi la trascrizione dell’intervento di Salvatore Cominu nell’ambito del corso di formazione «L’industrializzazione del quotidiano. Dal lavoro flessibile allo smart working», organizzato dal Punto Input di Bologna sul finire del 2021. Negli incontri che si sono succeduti con studiosi di varie discipline, si sono analizzate le trasformazioni del lavoro, in particolar modo le dinamiche di precarizzazione e flessibilizzazione e i processi di automazione e di macchinizzazione delle nuove forme di organizzazione del lavoro. Crediamo che la pubblicazione di questo intervento e degli altri interventi possa essere utile per analizzare e contestualizzare i cambiamenti del lavoro a cui stiamo assistendo da anni. Ringraziamo il Punto Input di Bologna per averci concesso la possibilità di pubblicare questi preziosi interventi.
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Mi interessa, più che entrare nel merito specifico o nella genealogia di quello che per velocità chiamiamo smart working e che nell’esperienza di questi due anni sarebbe più corretto definire lavoro in remoto, soffermarmi sui rapporti tra «digitalizzazione» e lavoro, entrando nel merito di quella espressione un po’ criptica che è industrializzazione del quotidiano e dunque collocando la remotizzazione del lavoro in questo frame. A maggior ragione se pensiamo che non tutto il lavoro per cui è tecnicamente possibile sarà remotizzato (si vedano i ruvidi appelli al ritorno in ufficio di Elon Musk o la preferenza generalmente accordata dai manager HR verso il full-time in sede, almeno per i professional e le figure «core»), mentre larga parte del lavoro che non richiede la compresenza di partner cooperanti o dell’erogatore e del beneficiario della prestazione (ossia, la parte crescente) sarà distanziato, sia che il termine indichi il lavorare da casa o in sedi remote, sia che si vada in ufficio. Distanziato, dunque intermediato da dispositivi digitali.
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Tradizione e rivoluzione, dall’oscurità della storia
Una lettura sotto l’ombrellone
di Gaspare Nevola
1. Una comunità che arriva dall’oscurità della storia
Kalasha (o Kalash) è una comunità che arriva dall’oscurità della storia umana. Da secoli vive sulle pendici dell’Hindikush, ai confini tra Pakistan e Afghanistan. Vive nelle valli che le sue genti, secondo immemore tradizione, chiamano “Il Tetto del Mondo”. Sotto il profilo politico-amministrativo, la comunità fa parte del multietnico Pakistan a dominanza musulmana, di cui costituisce la comunità più piccola (circa 5 mila persone) e una minoranza religiosa che continua a seguire un culto “pagano”, politeista. I suoi abitanti sono geneticamente ritenuti euro-asiatici, e forse con geni europei; hanno in prevalenza una carnagione rosea, capelli biondi e occhi chiari, non di rado azzurri; si ritengono discendenti dei soldati di Alessandro Magno, che ebbe a governare quelle terre con le sue milizie. Nel corso del tempo la comunità ha abbandonato i territori più bassi, sempre più islamizzati, e si è ritirata in tre remote valli di alta montagna, nel distretto di Chitral. Questo, tuttavia, non le ha permesso di restare al riparo dagli aspri conflitti armati che hanno via via pervaso l’Afghanistan e lo stesso Pakistan, dato che l’area – proprio perché impervia – è diventata luogo di guerriglia e di manovre militari di portata strategica in un confine caldo della conflittualità internazionale
Con ogni probabilità, gli attuali Kalasha rappresentano l’ultima discendenza di una popolazione antichissima ora in via di estinzione. La loro è un’economia di sussistenza, basata sulla coltivazione del grano e della vite e sull’allevamento di ovini e bovini.
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Democrazia, bonapartismo, populismo
di Michele Prospero (Università di Roma “la Sapienza”)
C’e un tema molto importante (quello della torsione autoritaria dei regimi politici nelle crisi di sistema) che attraversa la ricerca di Losurdo e costituisce un nucleo analitico rilevante del suo studio: dal libro della Bollati Boringhieri, Democrazia o bonapartismo, ritorna anche nell’opera postuma su La questione comunista, soprattutto nel capitolo riguardante il neopopulismo.
Nel libro su Democrazia o bonapartismo il merito di Losurdo è quello di intrecciare la storiografia filosofica delle idee con l’analisi delle dinamiche politiche istituzionali. In particolare, Losurdo raccoglie il nucleo analitico più profondo del 18 brumaio di Marx e ne assume le categorie essenziali come fondamento possibile di un’interpretazione dei momenti critici delle democrazie occidentali. L’assunto che Losurdo sviluppa è che il bonapartismo e il populismo costituiscano fenomeni ricorrenti strutturali. Rappresentano cioè l’ombra delle democrazie di massa nelle giunture problematiche.
Il bonapartismo emerge nell’analisi di Marx proprio a ridosso della grande crisi di modernizzazione degli istituti politici francesi che introdussero il suffragio universale maschile. Il bonapartismo e il populismo, in questo senso, sono fenomeni che riguardano la difficoltà che i ceti politici e sociali dominanti incontrano nel gestire con le risorse procedurali dell’ordinamento i grandi conflitti della modernità. In tal senso il cesarismo con la personalizzazione del potere indica l’ombra che accompagna la democrazia moderna.
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Fra egemonia e avanguardia: il Lenin di Guido Carpi, il nostro Lenin
di Marco Duò
Il Lenin di Guido Carpi, una biografia in due volumi, è un contributo utile e stimolante per pensare al marxismo e alla politica rivoluzionaria del XX secolo per formulare una guida per l’azione oggi
Per i militanti, la biografia di un rivoluzionario del passato, si sa, è sempre prima di tutto un manuale. In queste biografie, l’approccio militante consiste, di solito, nel cercare di scovare delle indicazioni e dei modelli, per trasformare il racconto in precedente e per porsi lungo lo stesso tracciato storico percorso dal protagonista. Fare proprio un fatto storico, però, è possibile e doveroso, anche e soprattutto se lo si fa con lo scopo di darsi una guida per l’azione. Esisto-no, infatti, delle biografie che già di per sé sono concepite come manuali per la militanza. È questo, senza dubbio, il caso della biografia di Vladimir Il’ič Lenin scritta da Guido Carpi, intitolata Lenin, e uscita in due volumi (il primo nell’ottobre 2020, il secondo l’ottobre scorso) per Stilo Editore.
Si tratta di una pubblicazione che, pur collocandosi lungo un filone che sembrava ormai esaurito (si pensi alle opere di Gorkij (1927), Trotsky (1936) e Lih (2010), per citarne solo alcuni), presenta notevoli e numerosi elementi di originalità. Fra questi, spiccano sicuramente l’impostazione dell’opera e l’uso delle fonti. Quella di Carpi, infatti, non è la classica biografia da vertici di partito, basata esclusivamente su fonti ufficiali, dove il profilo del protagonista e quello dell’istituzione di cui egli fa parte faticano a distinguersi. Stavolta, la linfa da cui prende vita il racconto è la corrispondenza fra il rivoluzionario russo e i militanti di base del partito. Attraverso un ampio catalogo di frammenti epistolari, firmati quasi sempre da nomi che non hanno avuto la fortuna di essere consegnati alla storia, il lettore si scontra direttamente con la realtà dell’organizzazione politica nei suoi aspetti più crudi e pratici.
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Sanzioni alla Russia e crisi alimentare globale
di Geraldina Colotti*
Linee imperialiste e antimperialiste al G20 dei ministri degli Esteri, a Bali, in Indonesia
Al G20 dei ministri degli Esteri, a Bali, in Indonesia, la crisi alimentare e le tensioni sull’energia nel contesto del conflitto in Ucraina sono state al centro dell’agenda. L’edizione 2022 del rapporto delle Nazioni Unite, “Lo stato della sicurezza alimentare e della nutrizione nel mondo” dice che il numero delle persone che soffrono la fame a livello mondiale è salito a ben 828 milioni nel 2021, ossia circa 46 milioni in più dal 2020 e 150 milioni in più dallo scoppio della pandemia di COVID-19, arrivando a colpire fino al 9,8% della popolazione mondiale. Cifre che allontanano ulteriormente la “prospettiva di sconfiggere, entro il 2030, la fame, l’insicurezza alimentare e ogni forma di malnutrizione”.
Nel 2021, circa 2,3 miliardi di persone (29,3%) in tutto il mondo erano in una situazione di insicurezza alimentare moderata o grave – 350 milioni in più rispetto a prima dello scoppio della pandemia da COVID-19. Quasi 924 milioni (11,7% della popolazione mondiale) hanno sofferto di insicurezza alimentare grave, con un aumento di 207 milioni in due anni. Anche il divario di genere nell’insicurezza alimentare è ulteriormente aumentato nel 2021. In tutto il mondo, il 31,9% delle donne ha sofferto di insicurezza alimentare moderata o grave, rispetto al 27,6 % degli uomini: un divario di oltre 4 punti percentuali, rispetto ai 3 del 2020.
Intanto, il conflitto in Ucraina, che coinvolge due dei maggiori produttori mondiali di cereali di base, semi oleaginosi e fertilizzanti, sta mettendo in difficoltà le catene di approvvigionamento internazionali – che già risentono pesantemente di eventi climatici estremi sempre più frequenti, specialmente nei paesi a basso reddito – e sta facendo salire i prezzi di cereali, fertilizzanti, energia e anche degli alimenti terapeutici pronti all’uso per bambini affetti da grave malnutrizione. Incombono, dice il rapporto, conseguenze drammatiche per la nutrizione e la sicurezza alimentare mondiali.
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All’attacco, e poi si vedrà
di Gigi Roggero
Con il secondo volume su Lenin, con il sottotitolo Verso la Rivoluzione d’Ottobre (1905-1917), Guido Carpi completa una delle più importanti biografie in circolazione del dirigente bolscevico. In questo articolo Gigi Roggero dialoga con un’opera pensata come unitaria. E unitario è il percorso di Lenin, a patto però che per unitarietà non si intenda omogeneità o linearità. La misteriosa curva della sua retta, di cui ci hanno parlato prima Babel’ e poi Tronti, è ancora lì a interrogarci.
* * * *
È fin troppo scontato, di fronte al sequel di un film, o al protrarsi delle stagioni di una serie televisiva, sostenere che il primo episodio fosse decisamente migliore. Ciò non vale necessariamente per i libri, o almeno non vale per questo libro, il Lenin di Guido Carpi (Stilo editrice, 2020-21), di certo una delle più importanti biografie in circolazione del dirigente bolscevico. Non ripetiamo quanto già abbiamo scritto nella recensione del primo volume [1]: la continuazione conferma i meriti e le caratteristiche della lettura leniniana offerta da Carpi. Del resto, i due volumi sono pensati come un’opera unitaria. Si potrebbe dire che unitario è il percorso di Lenin, a patto però che per unitarietà non si intenda omogeneità o linearità. La misteriosa curva della sua retta, di cui ci hanno parlato prima Babel’ e poi Tronti, è ancora lì a interrogarci.
Al diavolo le cambiali della borghesia!
Come già per il primo volume – La formazione di un rivoluzionario (1870-1904) –, anche per il secondo il sottotitolo delimita i confini temporali e tematici dell’analisi: Verso la Rivoluzione d’Ottobre (1905-1917).
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La dialettica del liberalismo
di Carlo Freccero
Ugo Mattei è giurista, ricercatore e docente universitario sia in Italia che in America. Questa possibilità di conoscere da vicino e dall’interno la cultura statunitense, di cui siamo in qualche modo una colonia, gli conferisce una lucidità ed uno sguardo che oltrepassa la bolla spazio-temporale e autoreferenziale in cui da anni è relegato il dibattito politico italiano.
In un momento di grande incertezza e di incomprensione del presente, il suo libro “Il diritto di essere contro” ci offre la bussola per orientarci.
Tutti capiamo che la nostra Costituzione è stata calpestata, messa da parte e neutralizzarla. Ma come? Dove? Quando? E a che scopo?
Mattei fa un lavoro enorme sia sul piano giuridico che storico, per spiegare e ricostruire nei particolari il ribaltamento delle Costituzioni liberal-democratiche nel nuovo dispotismo occidentale.
Il suo ultimo libro potrebbe intitolarsi “La dialettica del liberalismo”. Mi ha colpito nell’impostazione del discorso proprio la struttura dialettica per cui una premessa si ribalta nel suo contrario. È la stessa struttura del libro di Horkheimer Adorno “La dialettica dell’illuminismo”. L’illuminismo, che è la glorificazione della razionalità, si ribalta, nel corso del tempo, nel suo opposto: l’assoluta irrazionalità del nazismo. La stessa cosa accade alle costituzioni liberal-democratiche moderne. Il liberalismo nasce per essere la glorificazione della libertà politica e si ribalta, nel corso del tempo, in dispotismo. Le limitazioni della libertà di espressione e di opposizione al sistema che soffriamo oggi hanno la propria matrice nel sistema liberale stesso.
Come si spiega tutto ciò? Mattei vede le origini del momento attuale nell’11 settembre. È a partire dal Patrioct Act che le libertà individuali della tradizione liberale vengono sacrificate sull’altare di un unico bene imposto dalla propaganda: la sicurezza.
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Cosa è andato storto nelle politiche anti COVID
di Redazione
Riceviamo e pubblichiamo volentieri questo documento critico sulle modalità in cui è stata gestita la crisi sanitaria legata al Covid-19. All’insegna del pluralismo informativo e del dissenso informato
Prime firme:
Sara Gandini (epidemiologa biostatistica), Mariano Bizzarri (oncologo e saggista), Emilio Mordini (medico psicoanalista e filosofo), Fabrizio Tuveri (medico), Maurizio Rainisio (matematico statistico), Marilena Falcone (ingegnere biomedico), Maria Luisa Iannuzzo (medico legale), Elena Flati (biologa nutrizionista e farmacista), Clementina Sasso (astrofisica), Ugo Bardi (chimico) .
Sottoscritto da:
Massimo Cacciari e la Commissione Dubbio e Precauzione, Elena Dragagna (giurista), Gilda Ripamonti (giurista), Maria Sabina Sabatino (storica dell’arte), Guglielmo Gentile (giornalista), Remo Bassini (giornalista), Luciana Apicella (giornalista), Francesca Capelli (sociologa e insegnante), Ludovica Notarbartolo (libraia), Thomas Fazi (Giornalista e saggista), Francesca Gasparini (Studiosa di performance e docente di musica).
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In base alle conoscenze disponibili all’inizio della pandemia era difficile capire quali scelte sarebbero state più efficaci. Oggi si possono valutare tali scelte, e individuare quelle sbagliate. Vinayak Prasad, ematologo-oncologo e professore associato di Epidemiologia e Biostatistica presso l’Università della California, ha stilato recentemente un elenco degli errori commessi durante la pandemia. Noi abbiamo preso spunto dallo stesso e questo è il nostro punto di vista anche rispetto all’Italia partendo dalle evidenze scientifiche attuali:
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La CIA e l'anticomunismo della Scuola di Francoforte
Gabriel Rockhill*
I fondamenti dell'impianto teorico globale
La teoria critica della Scuola di Francoforte è stata, insieme alla teoria francese, uno dei prodotti più caldi dell'industria teorica globale. Insieme, esse fungono da fonte comune per molte delle forme di critica teorica di tendenza che attualmente dominano il mercato accademico del mondo capitalista, dalla teoria postcoloniale e decoloniale alla teoria queer, all'afro-pessimismo e oltre. L'orientamento politico della Scuola di Francoforte ha quindi avuto un effetto fondante sull'intellighenzia occidentale globalizzata.
I luminari della prima generazione dell'Istituto per la Ricerca Sociale - in particolare Theodor Adorno e Max Horkheimer, che saranno al centro di questo saggio - sono figure di spicco di quello che viene definito marxismo occidentale o culturale. Per coloro che hanno familiarità con il riorientamento di Jürgen Habermas dal materialismo storico nella seconda e poi nella terza generazione della Scuola di Francoforte, questo primo lavoro rappresenta spesso una vera e propria età dell'oro della teoria critica, quando essa era ancora - anche se forse passiva o pessimista - dedicata in qualche modo alla politica radicale. Se c'è un fondo di verità in questo assunto, è solo nella misura in cui la prima Scuola di Francoforte viene paragonata alle generazioni successive che hanno rifatto della teoria critica un'ideologia radicalmente liberale, o anche solo palesemente liberale. [1] Tuttavia, questo punto di paragone pone l'asticella troppo in basso, come accade ogni volta che si riduce la politica alla politica accademica. Dopo tutto, la prima generazione della Scuola di Francoforte ha vissuto alcuni degli scontri più catastrofici della lotta di classe globale del XX secolo, quando si combatteva una vera e propria guerra mondiale intellettuale sul significato e sul senso del comunismo.
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La guerra a perdere
di Alfonso Gianni
Primo Levi conclude la sua splendida trilogia sul sistema concentrazionario con alcune semplici e definitive parole, prive di retorica quanto gravide di verità: “E’ avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire”.1 L’Autore si riferisce in particolare al fatto, fino a quel momento incredibile, di un intero popolo civile che ai accoda a un istrione criminale. Tuttavia non è una forzatura intendere il senso delle sue parole in modo più ampio. “L’avvenimento fondamentale e inaspettato è avvenuto, fondamentale appunto perché inaspettato”. E il pensiero, in questi tempi, non può evitare di correre ad un altro avvenimento “fondamentale”: lo scoppio della bomba atomica a Hiroshima e a Nagasaki. Se i paragoni, storicamente del tutto discutibili ma capaci di suscitare emotività, fra Putin ed altri dittatori del secolo scorso e ancora più in là, si sprecano per quantità sui mass media, la riflessione e l’avvertimento sul pericolo di una guerra nucleare è invece ancora sottotraccia, e quando viene evocato è per sottolinearne l’estrema improbabilità o addirittura la impossibilità del suo concreto verificarsi. Eppure “é accaduto, quindi può accadere di nuovo”.
La cultura del Manifesto di Ventotene
La percezione di questo pericolo era sicuramente più viva negli anni cinquanta e nei primi anni sessanta che non al tempo d’oggi. La cultura del Manifesto di Ventotene aveva diffuso e lasciato i suoi fruttiferi semi, almeno per allora, ben al di là dell’alveo culturale in cui era nata.
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Spiegare l'assurdo
(lettere al futuro 7)
di Marino Badiale
1. L’assurdo
In un intervento precedente [1] ho osservato come sia paradossale la situazione dell’umanità contemporanea, posta di fronte al cambiamento climatico, e più in generale alla devastazione ambientale indotta dalla società attuale: da una parte si accumulano le conoscenze scientifiche che delineano un quadro di grande pericolo e grande urgenza, mentre le prime avvisaglie della crisi climatica in corso stanno concretamente interferendo con la vita di varie comunità sparse nel pianeta [2]; dall’altra, la società globalizzata contemporanea non sta in sostanza facendo nulla di essenziale per affrontare la crisi climatica e le altre problematiche ambientali. Dicendo “nulla di essenziale” intendo dire che le iniziative che si tenta di porre in essere, a livello sia degli individui sia delle comunità e delle istituzioni, per quanto lodevoli e necessarie, non appaiono tuttavia sufficienti rispetto alla gravità dei processi in atto. Il problema sta infatti nella struttura fondamentale della nostra organizzazione economico-produttiva, nei rapporti sociali ed economici che la strutturano e che possiamo riassumere come “capitalismo”. Senza toccare questi dati strutturali non è possibile un’azione realmente efficace di contrasto e contenimento della crisi climatica. Ciò che colpisce è il fatto che l’umanità contemporanea sembra ignorare questa “scomoda verità”, e quindi appare nella sostanza indifferente rispetto alla crisi climatica, nonostante le oscillazioni di maggiore o minore interesse che si possono avere negli anni. Questa indifferenza appare con molta evidenza nei ceti dirigenti dell’attuale società globalizzata, perché ovviamente sono loro ad avere il potere e i mezzi per “fare qualcosa”, ed è l’assenza del loro “fare” la principale responsabile della situazione in cui ci troviamo, e del cupo futuro che ci si prepara.
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Decrescita: socialismo senza crescita
di Timothée Parrique e Giorgios Kallis
Le persone sembrano comprendere il concetto astratto di “illimitatezza”, ma è più difficile comprendere che il concetto non può e non dovrebbe essere applicato al concetto di crescita. Anche i socialisti devono liberarsi dell’idea che la quantità possa aumentare, quando conta solo la qualità
Importanti (eco)socialisti hanno di recente criticato il concetto di decrescita. In questo articolo vogliamo argomentare che tale critica è malriposta. Il concetto di crescita è un problema che va oltre e che è al di sopra del capitalismo. Un eco-socialismo che sia sostenibile dovrebbe rigettare ogni forma di associazione all’ideologia e alla terminologia della crescita. I socialisti del 21° secolo dovrebbero iniziare a pensare a come sia possibile pianificare delle società che possano prosperare senza la crescita. Che piaccia o meno, la crescita infatti è destinata a finire. La questione riguarda il come e in quale modo questo debba succedere, a breve o troppo tardi, per evitare disastri a livello planetario.
Ogni forma di crescita senza fine è insostenibile a livello ecologico
La tipica risposta socialista alla questione della decrescita è che il problema, in realtà, è il capitalismo, e la crescita nel capitalismo, non la crescita economica di per sé. Ma questo è il punto: nessuna crescita economica può essere sostenibile. Per ciò, un incremento degli standard materiali di vita richiede più materiali, indipendentemente dal fatto che l’economia in questione sia il capitalismo, il socialismo, l’anarchia o un’economia primitiva. La crescita negli standard di vita materiale richiede la crescita dell’estrazione di materiali e l’emissione di inquinanti (la crescita negli standard di vita in generale non richiede invece questo; ne discuteremo più avanti). Ne risulta che ora – e molto probabilmente anche in futuro – la crescita economica è fortemente correlata con l’uso di energia e di materiali. Questo fatto poi va considerato a livello globale in quanto è l’unico modo per avere un quadro completo in un’economia globalizzata.
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Libertà dei moderni, liberalismo e comunismo in Domenico Losurdo
Su "La questione comunista" di Domenico Losurdo
di Antonio Cantaro (Università di Urbino Carlo Bo)
1. Corpo a corpo
Non ho nulla da aggiungere alla nitida introduzione di Giorgio Grimaldi all’inedito La questione comunista. Storia e futuro di una idea (Carocci, 2021) e alla lucida recensione di Francesco Fistetti dello scorso 14 gennaio su “Il Quotidiano di Puglia”. Condivido senz’altro la notazione che qui Losurdo continua ad osservare il marxismo negli elementi che in esso confluiscono e in ciò che è ancora capace di produrre.
Siamo, insomma, di fronte, ad un uno “scritto d’occasione” (la ricorrenza dei cento anni dalla rivoluzione di ottobre), ma tutt’altro che “occasionale”. Mimmo prosegue, anche in questa occasione, il suo appassionato corpo a corpo con le ripetute rimozioni del conflitto delle libertà perpetrate tanto dal liberalismo reale – le concrete e storiche società liberali – quanto dal socialismo irenico, il “comunismo utopico e messianico”. E rivendica, per contro, la persistente attualità della filosofia classica tedesca e di una tradizione del movimento comunista – la linea Gramsci-Togliatti – che coloro che hanno metabolizzato l’opera losurdiana conoscono assai meglio di me.
Si tratta, osserva Grimaldi, della questione del potere – questione altamente teorica e altamente pratica – che completa e beneficamente complica il quadro inaugurato con lo spiazzante Il marxismo occidentale, dall’eloquente sottotitolo Come nacque, come morì, come può rinascere1.
Lo specifico effetto spiazzante di questo secondo lato del “dittico” losurdiano è l’affermazione che il movimento comunista deve autocriticamente prendere atto dello straordinario valore di certe acquisizioni del liberalismo.
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Pane e tulipani, ovvero così non parlò Piero Sraffa
Cronache marXZiane n. 8
di Giorgio Gattei
1. Con l’accumulazione del profitto realizzato in moneta viene messa in gioco la sorte del pianeta Marx. Ma come procedere per comprenderlo? Vale pur sempre la regola esposta dal suo primo “mappatore” per cui, davanti ad un fenomeno complesso, «si deve sempre partire dal presupposto che le condizioni reali corrispondano al loro concetto o, ciò che significa la stessa cosa, che le condizioni reali vengano esposte solo in quanto coincidano con il tipo generale ad esse corrispondenti» – insomma che il concetto sia adeguato all’oggetto secondo la sua necessità logica, mentre le altre condizioni, che sul momento sono state trascurate, potranno poi esservi aggiunte. Ciò vale soprattutto per l’argomento conclusivo da considerare, e cioè che il pianeta Marx, a differenza di ogni altro corpo celeste, ad ogni rotazione cresce di dimensione per l’accumulazione del profitto indirizzandosi verso un esito finale, una sorte o un destino che si possono almeno congetturare. Si sa che Marx ne aveva previsto la fine per la “caduta tendenziale” del saggio generale del profitto: essendo «il vero limite della produzione capitalistica il capitale stesso», esso entra «in conflitto con i metodi di produzione a cui deve ricorrere per raggiungere il suo scopo e che perseguono l’accrescimento illimitato della produzione, la produzione come fine a se stessa, lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali del lavoro», cosicché «il modo di produzione capitalistico, che è un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva materiale e la creazione di un corrispondente mercato mondiale, è al tempo stesso la contraddizione costante tra questo suo compito storico e i rapporti di produzione sociali che gli corrispondono».
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Dall’economia spazzatura a una falsa visione della storia
Dove la civiltà occidentale ha preso una svolta sbagliata
di Michael Hudson
Il testo di Michael Hudson è la trascrizione del suo intervento al simposio Costruire ponti. Attorno al lavoro di David Graeber, che si è svolto a Lione in Francia nei giorni 7-8-9 di questo mese, organizzato del Laboratorio Triangle. Di seguito una breve presentazione degli obiettivi del simposio.
David Graeber, Professore di Antropologia alla London School of Economics, scomparso improvvisamente il 2 settembre 2020, durante la sua breve esistenza ha segnato il suo passaggio attraverso la sua creatività scientifica e i suoi contributi originali ai grandi dibattiti pubblici.
Avendo contribuito a un’antropologia che può essere definita politica, dimostrando che la diversità delle organizzazioni sociali rivelata dalle indagini etnografiche apre l’idea di una pluralità di possibilità e quindi la prospettiva di una società più egualitaria e democratica, è diventato una importante figura intellettuale della sinistra libertaria.
Il suo lavoro, associato al suo coinvolgimento nei movimenti politici di protesta transnazionali, sono la fonte della sua forte visibilità pubblica. Ma le sue opere più accademiche costituiscono anche importanti contributi alle scienze sociali: l’etnografia del Madagascar, l’antropologia della magia, la natura della regalità, la conoscenza delle società preistoriche, tra gli altri. Sono spesso attraversati anche da riflessioni filosofiche ed epistemologiche della storia delle idee nelle scienze sociali, come illustrato dai suoi testi sulle concezioni del valore.
Il suo intervento anche nell’ambito degli effetti della crisi finanziaria degli anni 2008 con la pubblicazione nel 2011 del suo libro Debt, The first 5000 Years, ha messo in discussione drasticamente i dogmi delle istituzioni monetarie ed economiche alla luce della profondità storica e antropologica delle pratiche monetarie, un’opera che avrà ripercussioni a livello mondiale.
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Le mosse del Dragone
Monica Montella intervista Alberto Bradanini
Alberto Bradanini, ex-diplomatico, scrittore e attuale Presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea risponde a diverse domande che riguardano la Cina e la sua posizione su ciò che sta succedendo nello scenario geopolitico globale
Alberto Bradanini è un ex-diplomatico, tra i numerosi incarichi ricoperti, è stato Console Generale d’Italia ad Hong Kong (1996-1998) e Ambasciatore d’Italia a Pechino (2013-2015). Attualmente è il Presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea, ed ha risposto a diversi quesiti che riguardano la posizione della Cina di ieri, oggi e domani. Alberto Bradanini grazie alla sua esperienza di rappresentante d’Italia ad Hong Kong e Pechino ha assistito in prima persona ai cambiamenti politici, economici e sociali che hanno da sempre contraddistinto la Cina (leggi tutti gli articoli sulla Cina.)
Tale esperienza si denota chiaramente all’interno delle descrizioni del contesto cinese che sono presenti all’interno della sua opera intitolata “Cina, l’irresistibile ascesa” pubblicato da Sandro Teti. Tale libro rappresenta uno strumento essenziale per comprendere la politica ed economia della Cina contemporanea, ed anche il modo di pensare dei suoi abitanti. Utile per tutti coloro che si avvicinano alla Cina per curiosità intellettuale, ma anche per chi vi si reca per affari, studio o turismo culturale.
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Nella sua brillante carriera ha ricoperto il ruolo di Console generale d’Italia ad Hong Kong dal 1996 al 1998, trovandosi così nel momento in cui l’ex colonia britannica è tornata alla Cina come regione a statuto speciale. Può descrivere la sua esperienza ad Hong Kong e lo stato d’animo dei suoi cittadini nel passaggio di amministrazione? Come è cambiata Hong Kong da ieri ad oggi e come sarà domani?
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