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Tutte le Fake News di Marattin sull'Europa
di Thomas Fazi
Benvenuti alla terza puntata di “Le fake news economiche di Luigi Marattin”, la rassegna in cui analizziamo le “video lezioni di economia” che da qualche settimana a questa parte il consigliere economico del PD sta pubblicando sul suo profilo. Qui trovate le prime due puntate, dedicate rispettivamente al debito pubblico e al finanziamento monetario della spesa pubblica:
https://www.facebook.com/thomasfazi/videos/2341908382568953/
e
https://www.facebook.com/thomasfazi/posts/2351892221570569
Nel suo ultimo video (https://www.facebook.com/LuigiMarattinPD/videos/740118099768418/) Marattin si propone di spiegare nientedimeno che gli enormi benefici che l’Italia avrebbe tratto dall’ingresso nel mercato unico (UE) prima e nell’euro poi e perché, dunque, «non è vero che se uscissimo dall’Europa e dall’euro ci libereremmo di tutte le nostre catene». Come al suo solito, Marattin ricorre ad un classico argomento fantoccio, in cui si confuta un argomento proponendone una rappresentazione volutamente distorta e macchiettistica: nessuna persona ragionevole, infatti, ha mai posto la questione in questi termini. Ma passiamo oltre.
Secondo Marattin, «il vantaggio principale che abbiamo dal partecipare all’Unione europea, al mercato unico europeo, è quello di poter vendere le nostre merci [in Europa] senza pagare dazi doganali e senza restrizioni commerciali e quindi di poter creare occupazione e investimenti in Italia». «Basta chiederlo a ogni imprenditore che esporta», aggiunge, col tono di chi la sa lunga. Questa affermazione è problematica per numerosi motivi. Tanto per cominciare, dalle parole di Marattin ci si aspetterebbe che l’ingresso dell’Italia nel mercato unico abbia fornito un forte stimolo alle nostre esportazioni rispetto al periodo antecedente (e, di conseguenza, che un’uscita dall’UE e/o dall’euro sarebbe una rovina per l’export italiano).
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Ma cos’è questa crisi
di Michele Castaldo
Rodolfo De Angelis cantava negli anni ’30: “Ma cos’è questa crisi: […] L'esercente poveretto non sa più che cosa far e contempla quel cassetto che riempiva di danar […]”. Se è vero che la storia non si ripete mai uguale a sé stessa, e quando si ripete ha i connotati della farsa, va detto che questa crisi non è una farsa.
Si, è una crisi seria, molto seria e ad essere preoccupati sono innanzitutto lor signori, cioè categorie sociali e personaggi di un potere che vedono scuotere un intero sistema che sembrava incrollabile fino a qualche decennio fa. Cerchiamo di raccapezzarci qualcosa nelguazzabuglio nazionale all’interno di un caotico quadro mondiale.
Il problema è Salvini? Mettiamo subito in chiaro una cosa: Salvini è l’effetto e non la causa dello spettacolo che sta vivendo l’Italia in questa fase. Il problema vero – dunque la causa – è quel 37/38% di elettori (stando ai sondaggi) che lo vorrebbero presidente del consiglio, e perché no? presidente della Repubblica, visto che è così deciso, incisivo, chiaro, schietto, insomma così popolare? Un uomo del fare, un uomo dei sì, un uomo del produttivismo, un uomo che mette l’Italia e gli interessi degli italiani al di sopra di tutti gli altri.
Manovre internazionali? Certo, quelle non mancano mai, ma non inganniamo noi stessi: le manovre prendono piede lì dove c’è il terreno favorevole, tanto è vero che Steve Bannon può ben vantarsi di aver favorito la nascita di un governo come quello giallo verde, ma non potrebbe ascrivere a proprio merito il salto elettorale della lega prima del marzo 2018 ein meno di un anno il travaso di alcuni milioni di voti dal M5S alla Lega di Salvini, in modo particolare al sud. Insomma la storia non la fanno i personaggi che studiano a tavolino come muovere milioni di persone in un senso piuttosto che in un altro. I complottisti si inseriscono in tendenze oggettive cercando di favorire quella che più va incontro ai propri interessi. Il Complotto in assoluto non esiste: l’Urss implose perché le leggi del mercato la fagocitarono. La Jugoslavia implose per le stesse ragioni.
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La parola allo Zio Ho a proposito di “Patriottismo e Internazionalismo”
di Michele Franco
Negli ultimi mesi la discussione sul concetto di “sovranità” è stata egemonizzata da concezioni teoriche e culturali reazionarie. Spesso qualsiasi allusione a questo tipo di categoria è stata bollata come una concessione al nazionalismo borghese o a presunte derive da “piccole patrie”.
Costantemente, specie da parte degli epigoni della “sinistra” tale ragionamento viene catalogato come una variante del leghismo e associato all’altro grande ossimoro di questa bizzarra stagione politica: il sovranismo.
Eppure il marxismo, particolarmente nei punti alti dell’esperienza del movimento comunista internazionale, ha sempre affrontato e trattato la “questione nazionale” non disdegnando – sulla base del fondamentale metodo “analisi concreta della situazione concreta” – di misurarsi, senza complessi di inferiorità teorica o di subordinazione politica, con lo stesso concetto di “patria”.
Questo cimento politico/pratico è avvenuto non solo nell’ambito delle lotte di liberazione nazionale dal vecchio ordine colonialista e/o imperialista, nei paesi del Sud del mondo, ma si è concretamente palesato anche nelle battaglie politiche che i comunisti hanno affrontato, a vario titolo, nel cuore dell’Occidente capitalista durante il Novecento.
Da tale punto di vista le resistenze antifasciste durante e subito dopo il secondo conflitto mondiale (quella Jugoslava e Greca in primis, ma – per molti aspetti – anche quella Italiana) sono state paradigmatiche di come i comunisti declinarono il tema della “patria” nei vari contesti in cui agivano. Probabilmente, al giorno d’oggi, si può discutere e problematizzare gli esiti avveratisi, ma non possiamo non riconoscere la positiva e matura attitudine che i partiti comunisti riuscirono a mettere in campo quando furono chiamati ad intervenire dentro giganteschi sommovimenti sociali e politici.
Ma relegare al Novecento questa battaglia teorica e politica sarebbe una omissione storica ed un grave errore politico nei confronti dell’attuale corso generale della crisi capitalistica.
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La moneta mondiale privata
di Riccardo Petrella*
L’annuncio della creazione di una moneta mondiale digitale privata il Libra, da parte di Facebook e 27 altre maggiori imprese multinazionali (statunitensi) (1) non ha fatto bomba. Nel comunicato ufficiale della Facebook si legge «Tramite Calibra, si permetterà di rispamiare, inviare e pagare con Libra. (…) Calibra permetterà di trasferire dei Libra a qualunque persona dotata di uno smartphone in maniera altrettanto facile e istantanea che inviare un sms , a basso costo, gratuitamente. Nei tempi consentiti, speriamo offrire dei servizi supplementari ai particolari e alle imprese, come pagare delle fatture premendo solo su un bottone, comprare un caffé o utilizzare i trasporti pubblici senza denaro e senza biglietto».
Non ha suscitato nessun scalpore, nè reazione di massa, né dibattiti nazionali e internazionali al di fuori dei circoli degli addetti al lavoro. Le reazioni non sono mancate, ma è come se si fosse trattato di un fatto di cronaca. L’assenza di sorpresa da parte della gente non meraviglia. Le reazioni delle autorità pubbliche e monetarie sollevano molti interrogativi.
Un fatto normale ?
A proposito di « moneta mondiale » è evidente che dopo più di quarantanni di bombardamento mediatico e politico sulla nuova grande era della globalizzazione dell’economia , del commercio, dei trasporti, dell’informazione e comunicazione, delle imprese e della finanza, la crezione di una moneta mondiale (per il momento, mezzo di pagamento e di trasferimento di denaro) non costituisce una novità, ma è percepita come la concretizzazione di una necessità, di un’evoluzione naturale dell’economia di mercato globalizzata. Le economie nazionali hanno dato la nascita alle monete nazionali, l’economia mondiale crea la moneta mondiale.(2)
La stessa osservazione di « normalità » vale per la « moneta digitale ». Tutto sta diventando digitalizzato, specie nel mondo dell’informazione e della comunicazione, in tutti i campi della realtà , beninteso virtuale compresa. Da anni, la moneta metallica ed ora quella cartacea è in via di abbandono.
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Vento d’estate
di Giacomo Gabbuti
Mentre il tormentone della crisi di governo prefigura una musica ancora peggiore, inediti scioperi estivi nei trasporti portano un po’ di fresco, indicando da dove può sorgere l’opposizione alla Lega
Il 5 agosto, introducendo un incontro con le parti sociali, l’attuale traballante Primo ministro del fu Governo del Cambiamento ha affermato l’urgenza di «affrontare l’emergenza salariale». Il monito di Giuseppe Conte era forse un ultimo tentativo di bilanciare la maggioranza, tra la proposta del M5S di introdurre un salario minimo legale e le resistenze della Lega, strenuo difensore di imprese e profitti. Ma al di là dell’equilibrismo di Conte, l’ovvia realtà per qualsiasi persona si sia trovata a campare di salario nell’Italia degli ultimi trent’anni è diventata così evidente da vincere persino le ultime difficoltà statistiche.
Nonostante la stagnazione delle retribuzioni imposta dagli accordi del 1992-1993, dall’esplosione di contratti che definire precari è oramai eufemistico, dalle esternalizzazioni, dall’aumento della disoccupazione, e via discorrendo, l’Italia viveva infatti il paradosso di rappresentare una grande eccezione nel crollo della quota salario. Questa misura, elemento tradizionale dell’analisi marxista della distribuzione economica, altro non è che la parte di reddito nazionale di cui si appropriano i lavoratori, contrapposta a quella spettante al capitale. Dopo essere cresciuta nei cosiddetti “trenta gloriosi” anni del compromesso keynesiano, nei decenni successivi alla svolta neoliberale avviata da Thatcher e Reagan, la quota salario è andata riducendosi in tutte le economie avanzate – con parziale eccezione, appunto, dell’Italia.
Certo, anche da noi la “fetta” dei lavoratori si era ridotta sin dai primi anni Ottanta con l’avvio delle “riforme” che – silenziosamente come nel caso del divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia o più platealmente come nel caso della scala mobile e del Patto sui salari del 1992 – smantellarono quelle politiche che avevano permesso la riduzione delle disuguaglianze e una distribuzione più equa (in termini di classe ma anche geografici) dei frutti del Miracolo economico. L’estate stava finendo, e le conquiste dei lavoratori se ne andavano. Secondo le stime più autorevoli (che ho riassunto qui), il risultato fu portare questa misura a livelli addirittura inferiori a quelli degli anni Cinquanta. Tale declino sembrava essersi però fermato all’alba del nuovo millennio: soprattutto dalla crisi del 2008, la quota salario italiana addirittura aumentava, e non solo per le normali fluttuazioni tipiche delle recessioni (in cui, almeno finché esisteranno forme di tutela dei lavoratori, i profitti crollano prima dei salari).
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La politica del dilemma. A proposito del recente congresso dei Democratic Socialists of America
di Felice Mometti
Se fare una convention negli Stati Uniti è più o meno come fare un congresso in Europa, lo stesso non si può dire per le modalità di svolgimento della discussione politica e dei criteri per prendere delle decisioni. Nel primo weekend di agosto si è tenuta ad Atlanta la convention dei Democratic Socialists of America (DSA). Per due motivi, si è trattato di un appuntamento importante non solo per i DSA – la più grande organizzazione della sinistra americana da molti decenni a questa parte ‒ ma anche per gran parte di coloro che si collocano alla sinistra del partito Democratico. Il primo motivo era una verifica della tenuta politica di una formazione che in tre anni ha avuto una crescita esponenziale, passando da 5 mila a 56 mila iscritti. Il secondo riguardava la scelta di una forma organizzativa e le conseguenti modifiche dello Statuto. Fino a ora i DSA hanno funzionato in modo decentrato con un’ampia autonomia delle singole città e dei quartieri nelle grandi metropoli come New York, Los Angeles e Chicago. Il Comitato politico nazionale e le varie commissioni tematiche nazionali, nei fatti, erano riconosciuti più come ambiti di coordinamento che come organismi politici decisionali.
Raccogliere e contenere
La crescita dei DSA è avvenuta, da una parte, intercettando il processo di politicizzazione soprattutto di un settore giovanile, bianco e con un elevato grado di istruzione che aveva fatto la prima esperienza politica durante le scorse primarie sostenendo Bernie Sanders. Dall’altra parte, i DSA hanno raccolto le istanze di molti collettivi locali e gli attivisti di una serie di piccole organizzazioni della sinistra radicale che non avevano più reali prospettive di radicamento sociale. E, caso emblematico, nell’organizzazione si sono anche riversati molti e molte aderenti dell’International Socialist Organization, la principale formazione politica di matrice trotskista, dopo il crollo e l’autoscioglimento della stessa innescato dalle denunce di stupro e di molestie sessuali subite da alcune attiviste a opera di dirigenti nazionali.
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L’insegnamento scientifico e politico di Gramsci sulla costruzione del partito comunista
di Eros Barone
1. La direzione gramsciana del Partito Comunista d’Italia (1923-1926) e la lotta contro le opposizioni di sinistra
La lettura dei documenti raccolti nel quinto volume delle opere di Gramsci1 presenta, nell’attuale congiuntura ideologico-culturale, un interesse che, se difficilmente si può sopravvalutare, sicuramente arricchisce il significato dell’80° anniversario della morte del grande rivoluzionario e pensatore sardo. Questo elemento va sottolineato non tanto per i nessi che collegano la situazione di quella fase alla situazione del 1944-1945 e alla situazione odierna (nessi che pure vi sono) quanto per l’insegnamento scientifico e politico che si ricava da questa serie degli scritti di Gramsci precedenti il carcere: l’ultimo articolo contenuto in questo volume è infatti del 22 ottobre 1926 e la prima lettera datata dal carcere è del 20 novembre. L’arresto era avvenuto la sera dell’8 novembre a Roma. Si tratta perciò di un volume che abbraccia un arco di tempo (autunno 1923 – autunno 1926), che coincide con un periodo di intensa attività nella vita militante di Gramsci: periodo che ha riscontro solo nelle lotte operaie del “biennio rosso” 1919-1920, la cui eco si avverte, nitida e costante, in molte di queste pagine.
Il primo aspetto che occorre rilevare è che contro la direzione gramsciana del Partito Comunista d’Italia (d’ora in avanti PCd’I), costituita con un atto di forza della Terza Internazionale nella seconda metà del 1923 ed imposta ad una schiacciante maggioranza di bordighiani, convergevano, da un lato, la repressione fascista e, dall’altro, l’attacco della socialdemocrazia turatiana e nenniana contro i cosiddetti “fascisti rossi”: repressione ed attacco che trovavano spazio nell’assenteismo politico del vecchio gruppo raccolto attorno a Bordiga. Allora, esattamente come accade oggi con il tentativo di ricostruire un partito comunista nel nostro paese, la sinistra italiana contrapponeva al PCd’I la tesi secondo cui per battere il fascismo era necessario che la borghesia si staccasse dal fascismo; il corollario di questa tesi era la necessità di un ‘partito di sinistra’ (antifascista), ma non di un partito comunista (anticapitalista). Sennonché, si domanda Gramsci, dopo l’assassinio Matteotti (10 giugno 1924) che cosa è la ‘sinistra italiana’? chi sono gli antifascisti italiani? qual è, nella seconda metà del ’24, il significato della parola d’ordine ‘di massa’ del ‘cartello delle sinistre’?
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Onofrio Romano, “La libertà verticale”
di Alessandro Visalli
Onofrio Romano è un sociologo che insegna all’università di Bari ed ha scritto questo impegnativo libro nel 2019. Si tratta di un’ampia ricostruzione della logica della regolazione sociale lungo la storia del capitalismo interpretata con un modello binario di fondo: malgrado tutte le differenze e le specificità, si sono succeduti nel tempo due canoni: quello “orizzontale” e quello “verticale”. Il primo caratterizza profondamente la modernità capitalista, ma a lungo termine quando si presenta in forma pura risulta ogni volta insostenibile per la società, dissolta dal suo corrosivo acido. Il secondo ha dominato nella fase precapitalista, ma dopo il ‘disincanto’ del mondo seguito al processo di secolarizzazione e modernizzazione non riesce ad esse sopportato a lungo, entrando in contrasto con il desiderio di libertà individuale e l’autocomprensione dell’occidente.
Lo scontro tra i due ‘fratelli’ viene letto nel libro prevalentemente con gli strumenti della sociologia e con ampie ricostruzioni dei principali autori dell’ultimo secolo, a partire da quello in qualche modo centrale e dal quale il modello esplicativo viene ripreso: Karl Polanyi[1].
Al termine del lungo percorso emergerà una proposta che, in qualche modo, è perfettamente complementare con quella del libro di Carlo Formenti “Il socialismo è morto. Viva il socialismo!” che abbiamo appena finito di leggere: mentre quello cercava di identificare le condizioni oggi possibili di una “transizione alla transizione” verso il socialismo, Romano si impegna in un compito altrettanto arduo, fornire un abbozzo del possibile socialismo realizzato. Ovvero immaginare in che modo la giostra tra “orizzontalismo” e “verticalismo” può essere interrotta. Per dirla meglio: cosa bisogna mettere a tema per interromperla.
Per arrivarvi Romano disegna un percorso di esplorazione che potrebbe ricordare la “critica immanente” di Honneth e Jaeggi[2]: nella Prima Parte, riassume la storia della regolazione sociale nella modernità, poi, nella Seconda Partericostruisce l’evoluzione della sociologia in relazione alle fasi individuate e, infine, nella Terza Parte prova a tratteggiare la soluzione, ovvero la “libertà verticale”.
La Prima Parte è a sua volta divisa in tre fasi storiche: il “canone orizzontale”, nel periodo di ascesa del mercato auto-regolantesi descritto da Polanyi, fino al crollo del golden standard e la disgregazione che portò alla guerra mondiale; il “canone verticale” del novecento dal New Deal alla crisi degli anni settanta; il ritorno al “neo-orizzontalismo” a partire dagli anni ottanta (si potrebbe dire, con linguaggio più tradizionale, “liberismo”, “welfarismo”, “neo-liberismo”).
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Il populismo in generale e quello di Salvini
di Moreno Pasquinelli
Da alcuni anni, anzitutto dopo la sorprendente ascesa al trono di Trump, non c'è giorno in cui i media globali, anzitutto liberali e di rito politicamente corretto, non discettino sul "populismo".
Abbiamo così visto il fior fiore dell'intellighènzia di regime cimentarsi sul tema, chiedersi cosa il populismo sia e dove vada a parare. La categoria di populismo è diventata così onnicomprensiva, unpassepartout per aprire porte ad ogni latitudine: populisti Trump e Sanders, Le Pen e Maduro, Orban e Corbyn, Putin e Erdogan, Mélenchon e Farage, Grillo e Salvini, Podemos e l'AFD tedesca, la Kirchner peronista e Bolsonaro. Fiumi di inchiostro, tanta fuffa, univoco il risultato: scomunica del populismo come fenomeno funesto, illiberale e totalitario.
Le sinistre transgeniche d'ogni razza e latitudine hanno accettato questa narrazione. Chi a sinistra era stato colpito dall'anatema del populismo (Mélenchon, Corbyn o Iglesias) ha ben presto compiuto il rito dell'abiura rientrando nei ranghi del politicamente corretto.
La maledizione di Laclau
Minoritarie propaggini colte di questa sinistra hanno invece tentato di affrontare il fenomeno populista, andando alla sua genesi, alla sua polimorfica natura, alla sua fenomenologia.
Di qui la riscoperta delle riflessioni teoriche di Enesto Laclau e Chantal Mouffe. Qui avveniva tuttavia un fatto deprecabile: il più radicale congedo dalla tradizione teorica marxiana era direttamente proporzionale al vacuo funambolismo teorico.
Laclau, soprattutto quello della "seconda fase", porta una responsabilità enorme per questo smarrimento intellettualistico. Modo e rapporti di produzione relegati a "costrutti soggettivi"; le leggi antagonistiche del sistema capitalistico rifiutate come ipostasi metafisiche; il rifiuto di ogni teleologia e filosofia della storia sostituito dal "tutto contingente"; il determinismo sostituito dal più deciso indeterminismo; l'autonomia del Politico trasformata nella secessione del Politico dall'economico-sociale; il discorso di Gramsci sulla filosofia della praxis e sull'egemonia recuperato scaltramente per giustificare il più radicale empirismo.
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Filosofia, democrazia, Stato-nazione nei Quaderni del carcere
di Francesca Izzo (già Università L’Orientale, Napoli)
1. Teoria del moderno
I termini che compaiono nel titolo meriterebbero, anche singolarmente presi, una trattazione specifica ben più ampia di quella che è possibile in questa sede. Per delimitarne l’ambito, mi concentrerò sulla concezione della modernità elaborata da Gramsci: la sua genesi, la sua natura, le sue contraddizioni e la sua crisi. Il suo profilo emerge pienamente proprio nel nesso che tiene assieme filosofia, democrazia e Stato-nazione.
Né umanistica (la modernità sarebbe l’epoca dell’affermazione del regnum hominis, con l’inversione del rapporto Dio-mondo di contro alla trascendenza medievale) né “nichilistica” (la modernità sarebbe l’epoca della dissoluzione di ogni sostanzialità, destinata a consumare ogni fondamento stabile e ad affermare la libertà come decisione), la teoria del moderno di Gramsci si nutre, o meglio è un frutto originale, della sua rielaborazione/revisione del materialismo storico in termini di filosofia della prassi. E per anticipare quello che svilupperemo analiticamente nel prosieguo, per Gramsci l’epoca moderna non è “infondata”perché ha un soggetto, ma si tratta di un soggetto non umanistico: è lo Stato-nazione.
2. Filosofia della prassi (filosofia, politica, storia)
Come ampiamente mostrato dalla letteratura critica più recente, nei Quaderni Gramsci giunge, attraverso un percorso complesso e per nulla lineare, a maturare la sua interpretazione/revisione del materialismo storico in termini di filosofia della prassi, cioè di un’autonoma e integrale concezione della storia (una filosofia che è politica in quanto è integralmente storia) che non prende a prestito né dal materialismo filosofico né dall’idealismo elementi per “completarsi”; insomma, Gramsci rifiuta il cosiddetto “marxismo in combinazione”1. Il “ritorno a Marx” si inserisce appunto in questa ricerca di totale autonomia determinata da ragioni non astrattamente teoriche, ma altamente politiche.
A Gramsci appare sempre più evidente che la necessità della filosofia - in particolare di quella elaborata da Marx nelle Tesi su Feuerbach – discenda dal fatto che si tratta di rifondare su basi nuove la soggettività rivoluzionaria, il nuovo soggetto storico.
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Radiografia di una crisi di mezza estate
di Andrea Muratore
Dal Papeete al patatrac: Matteo Salvini e la Lega hanno scelto la rottura dell’alleanza con i Cinque Stelle. La crisi del governo Conte è scoppiata nel cuore di agosto, cogliendo in contropiede un’Italia intenta, in larga parte, a celebrare riposo e ferie. L’Osservatorio ha voluto “radiografare” la crisi, le sue cause e i potenziali sviluppi in ambito politico, economico e internazionale per fornirne una lettura a tutto campo che è risultata mancante in diversi settori dei media tradizionali. Per ragguagliare analisti e osservatori interessati sulle conseguenze a lungo termine del duello politico. Ma anche per aggiornare in maniera completa chi, tra riposo e vacanze, non ha potuto sino ad ora seguire in maniera continuativa le discussioni politiche e istituzionali.
* * * *
Il dado è tratto: Matteo Salvini e la Lega hanno deciso di ritirare il loro appoggio al Governo Conte e presentato una mozione di sfiducia al Presidente del Consiglio. Il Senato ha calendarizzato per il 20 agosto le comunicazioni a Palazzo Mada del Presidente del Consiglio, frustrando il tentativo leghista di accelerare il voto sulla mozione di sfiducia a prima di Ferragosto. Lo strappo del Carroccio dopo il voto contrastante di Lega e Movimento Cinque Stelle nelle mozioni sulla TAV ha funto da catalizzatore per una serie di reazioni in campo politico ed economico, aprendo diverse questioni di grande importanza sul futuro del Paese. La Lega invoca nuove elezioni forte della crescita di consensi certificata dal trionfo alle Europee, ma il percorso che punta al ritorno alle urne è intervallato da ostacoli: lo scioglimento delle Camere porrebbe fine alla più breve legislatura della storia repubblicana, garantirebbe un voto autunnale per la prima volta in un secolo ma, soprattutto, può essere decretato solo dal Quirinale. Che ora aspetta le mosse della macchina politico-istituzionale messasi in moto, di cui la Lega è solo una parte: per meglio orientarsi nel migliore dei modi nella ridda di dichiarazioni, ipotesi e voci che stanno interessando il dibattito politico l’Osservatorio Globalizzazione ha deciso di pubblicare questa radiografia della crisi per permettere a lettori e analisti di meglio comprenderne cause, sviluppi e conseguenze nei principali ambiti in cui essa si svilupperà.
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“La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo” di Massimo Cacciari
di Federico Diamanti*
Recensione a: Massimo Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo, Giulio Einaudi Editore, Torino 2019, pp. 128, 18 euro, (scheda libro)
L’ultima pubblicazione di Massimo Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’umanesimo, è introdotta da una brevissima pagina ‘memoriale’ in cui il filosofo racconta, con un’immagine che risalterà in tutta la sua importanza agli occhi del lettore, dove affondano le radici ‘umanistiche’ (nel senso stretto di ‘legate al periodo dell’Umanesimo) del suo pensiero. Esse – rintracciabili d’altronde in tutta la bibliografia cacciariana – sono però legate ad un anno, in particolare: il 1976. Come è noto, fu l’anno della pubblicazione del primo notevole cimento filosofico dell’autore, Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein; ma quello stesso anno vide l’inizio della circolazione di uno dei più importanti e maturi volumi di Eugenio Garin, Rinascite e rivoluzioni. Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo. Si incontravano dunque, nello stesso lasso di tempo, per una assoluta casualità di natura editoriale, due figure, due volumi e due percorsi di ricerca diversi, con differenti orientamenti e opposte esperienze alle spalle: ma la lettura di Rinascite e rivoluzioni significò qualcosa di più profondo per il filosofo. «Ed ecco che Rinascite mi spalancava di fronte una visione dell’Umanesimo come età di crisi, età assiale, in cui il pensiero si fa cosciente alla fine di un Ordine e del compito di definirne un altro, drammaticamente oscillante tra memoria e oscuri presagi, crudo scetticismo e audaci idee di riforma»: il volume con cui Garin supera le «colonne d’Ercole» della tradizionale concezione del Rinascimento (la definizione è di Michele Ciliberto[1]) e compie un passo ulteriore rispetto al suo dialogo con H. Baron a proposito dell’umanesimo ‘civile’ fu dunque il punto di partenza per una ‘cura’ di Cacciari nei confronti del secolo XV e dei suoi protagonisti: una cura che culmina nel saggio su cui qui si presenta una riflessione, già apparso – in forma lievemente meno estesa – come introduzione ad un fondamentale volume antologico del 2017, Umanisti italiani (a cura di R. Ebgi), che contiene un’ottima selezione di testi di epoca umanistica – tradotti e commentati – tuttora difficilmente reperibili in edizioni moderne e ben curate.
Il primo capitolo inquadra la questione della storia delle interpretazioni dell’Umanesimo. Si tratta certamente di un preliminare imprescindibile del libro, poiché è proprio a partire delle varie interpretazioni dell’Umanesimo che Cacciari ha elaborato, nel tempo, intuizioni filosofiche e criteri metodologici nella sua ricerca.
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Ancora sul salario cosiddetto minimo
di Carla Filosa
La necessaria riduzione dei costi dei capitali pagata dai lavoratori
Al momento attuale non si capisce più se il progetto di legge sul “salario minimo” sia diventato merce di scambio politico, o se proseguirà effettivamente nell’originario proposito di aggiornamento del controllo statale del lavoro e del non lavoro. Per quanto emerge dalla stampa su cui apprendere le più recenti proposte del PD di marzo – a firma di Tommaso Nannicini – e dei 5S – a firma di Marco Palladino e Alessandro Zona – si punterebbe a una regolamentazione nazionale della contrattazione. Una delega ad una Commissione presso il Cnel dovrebbe poi stabilire i criteri di misurazione e certificazione della rappresentatività di sindacati e datori di lavoro, per i contratti collettivi di riferimento, separatamente per categoria. Naturalmente quando si nominano i sindacati è da intendere che questi partiti considerano solo “quelli più rappresentativi”, o confederali, cioè con esclusione di quelli minori che avrebbero stipulato “contratti pirata” con un salario minimo più basso.
Se qui non possiamo riportare tutta la storia che ha condotto alla formazione dei sindacati di minor rilievo – per questioni di spazio e di specificità tematica – possiamo però attestare l’ambiguità dei confederali nella loro istituzionalizzazione e accettazione di una pace sociale da salvaguardare, lasciando ignorata la generale iniquità predisposta per i lavoratori. Se l’obiettivo che il Pd cerca di perseguire è quello di dare valore legale ai minimi contrattuali, per cui bisogna ipotizzare più salari minimi che riguardino anche quelli che – come i rider – non hanno un rapporto subordinato, bisognerebbe che riconsiderasse anche il perché di un mercato del lavoro frantumato in uno sventagliamento di competenze diversamente remunerate, mansioni, tempi, contrattualità, false autonomie lavorative, ecc. pur di precarizzare e poter ricattare ogni settore lavorativo a favore dei capitali investiti e da investire ulteriormente, attrattivamente!
Se questo banalissimo retroscena sotto gli occhi di tutti interessasse chi ancora si autodefinisce di sinistra (partiti o sindacati, per non citare economisti, intellettuali, giornalisti che confondono salario con reddito!) si scoprirebbe la banalissima realtà già individuata da Marx due secoli fa, per cui ai capitali, prevalentemente in periodi di crisi, occorre soprattutto ridurre i costi del lavoro per riappropriarsi di profitti in deficit di accumulazione, altrimenti insufficienti a sostenere la concorrenza internazionale.
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Tutte le fake news di Marattin sul "finanziamento monetario"
di Thomas Fazi
Benvenuti alla seconda puntata di “Le fake news economiche di Luigi Marattin” (la prima puntata la trovate qui).
Oggi prendiamo in esame l’ultima “video lezione di economia” di Marattin, in cui il consigliere economico del PD si propone di rispondere «ad una domanda che va molto di moda tra ciarlatani e finti economisti vari, cioè perché non possiamo semplicemente stampare tutta la moneta che vogliamo?».
La risposta è semplice: perché altrimenti faremmo la stessa tragica fine di tutti quei paesi i cui governi «hanno ceduto alla tentazione di stampare soldi», con il risultato che si sono ritrovati «l’inflazione al miliardo per cento» [sic] e «l’economia in rovina». Gli esempi portati da Marattin sono, ça va sans dire, i soliti noti cari agli amanti del genere “piaghe d’Egitto da iperinflazione”: la Repubblica di Weimar, lo Zimbabwe e il Venezuela. O, come si dice in gergo tecnico, lo Zimbabweimaruela.
«I tutti questi casi – dice Marattin – la molla che ha fatto scattare tutto questo è il governo che aveva bisogno di soldi e ha pensato di stamparli», facendo schizzare l’inflazione alle stelle. Marattin passa poi a spiegare il meccanismo economico, ahem, alla base di questo di questo fenomeno: «La moneta sottostà alle normali leggi di domanda e offerta di qualunque altro bene. Prendiamo i cellulari. Se il mondo fosse inondato di offerta di cellulari il prezzo di questi si ridurrebbe fino ad arrivare a zero. Per la moneta è la stessa cosa. Se chi controlla l’offerta di moneta – cioè la banca centrale – comincia a stamparne in quantità molto elevate, quindi ad aumentare l’offerta di moneta, il valore di quella moneta va rapidamente a zero».
Tutto questo spiegherebbe perché «la leggenda per cui se a un governo servono i soldi basta stamparli e tutto risolve è una leggenda che nell’ultimo secolo ha portato distruzione, danni permanenti all’economia ed è una pericolosa illusione che viene spacciata da chi non ha idea di come funzioni un sistema economico».
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L’anatra-coniglio della nazione "a sinistra"
di Diego Melegari
Nell’ancora minoritario mondo di quanti oggi tentano di intrecciare la riflessione sulla questione nazionale a politiche dalla parte delle classi popolari si assiste spesso ad un problema di focalizzazione non troppo diverso da quello segnalato dall’articolo di Matteo Masi sulla dialettica tra piano A e piano B relativamente alla questione euro [1] . Da un lato, abbiamo posizioni, come quella di Eurostop, in cui si pone correttamente il tema dell’irriformabilità dell’UE e, più recentemente, il riconoscimento del quadro nazionale come spazio di accumulo delle contraddizioni in vista della creazione di un’area euromediterranea[2], inibendosi però di definire il tipo di investimento soggettivo, “affettivo” direbbe Laclau, rispetto a questo stesso spazio. Dall’altro, ci sono posizioni come quelle espresse, ad esempio, da un recente articolo di Jacopo Custodi [3], ma anche da alcuni scimiottamenti della narrazione del primo Podemos (“patriottica” ma sostanzialmente ambigua sulla questione UE), in cui, nel comprensibile sforzo in termini emancipativi, inclusivi e aperti al conflitto, la questione della sovranità, si evita accuratamente di esprimersi sul problema dell’interesse nazionale, ovvero sullo Stato come ente giuridico distinto da altri (dunque delimitato da confini), in qualche modo indipendente dall’identificazione soggettiva con esso. “Patriottismo” diventa, allora, il contenitore per qualunque comportamento si ritenga moralmente e socialmente positivo. Un po’ come nella figura gestaltica dell’anatra-coniglio, chi vede la “patria” come orizzonte e riferimento di una politica di “sinistra” tende a non cogliere la cruda realtà degli interessi e dei rapporti di forza economici, istituzionali e geopolitici, chi pensa che anche in questi ultimi possa aprirsi un margine di contraddizione e, dunque, un suo utilizzo per una politica alternativa, magari socialista, fatica a costruire un discorso in cui sia possibile risignificare e rivendicare la propria appartenenza nazionale, il proprio “essere italiani”. Esiste, infine, chi, vedendo solo la figura nel suo complesso o soffermandosi su tratti particolari di essa, concepisce come mera illusione ottica quella di chi vi riconosce la forma dell’uno o dell’altro animale.
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Mario Tronti, “Il popolo perduto”
di Alessandro Visalli
Libro del 2019 di Mario Tronti, che certo non ha bisogno di alcuna presentazione. Uscito poco prima delle elezioni europee il testo, che ha la forma di una intervista, muove da una domanda decisiva: “quali sono le cause che hanno portato la sinistra in tutte le sue articolazioni partitiche, da quelle cosiddette moderate a quelle cosiddette radicali, al suo attuale punto di crisi, fino a perdere il suo popolo e quindi a perdere identità, riconoscibilità e forza”? Da intellettuale della vecchia scuola l’autore parte dalla situazione internazionale, vi iscrive quella dell’Italia e poi scende sul terreno del Partito, delle agende, delle scelte. C’è una dimensione propagandistica, di servizio al suo Partito, nel testo, e c’è una dimensione diagnostica, meno contingente. Entrambe sono interessanti, la prima per ascoltare quel che nel ceto politico e sociale nel quale l’autore si è abituato a vivere è considerato un buon argomento, determinante e decisivo. La seconda per confrontarsi con una più ampia visione del mondo di un grande intellettuale della sinistra, storico ed inaggirabile.
Capiterà di essere più facilmente in accordo con la seconda dimensione, francamente la prima è sorprendente, persino a questo livello allignano imbarazzanti miraggi, nella cui vaporosa sostanza, tuttavia si intravede chiaramente il profilo del solito, metallico, desiderio di potenza europeo-occidentale.
Tutto il discorso del nostro muove da una densa rete di concetti, che proveremo a scoprire un poco alla volta, e dal presupposto, dichiarato in apertura che tutto promana dal movimento (anzi, con vezzo gramsciano dalla ‘guerra di movimento’) nel mondo ‘grande e terribile’. Distinguendo tra ciò che trasforma (che si oppone al dominante mondo di vita), ciò che innova e ciò che conserva, dal movimento del mondo viene l’innovazione. E viene quindi, Tronti ne è certo al punto da non spendere una nota, una battuta, il macro-spostamento dell’asse globale dall’Atlantico al Pacifico. Viene, in altre parole, il “ritorno” alla centralità asiatica[1].
Ma la tentazione di leggere tutto secondo una interna coerenza, e di scivolare nella filosofia della storia è profondamente incardinata nell’ex marxista che quindi si dice “proprio convinto” di una “regolarità di movimento” della storia umana che si nutre di nuovo e ritorno del passato (riecheggiando le sue nuove letture del pensiero “grande conservatore”, Nietszche in particolare).
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L'ecomarxismo di James O'Connor*
di Riccardo Bellofiore
Quasi 30 anni fa usciva sulla benemerita (e ormai quasi introvabile) 'rivista internazionale di dibattito teorico' MARX 101 questo testo, adesso recuperato dall'autore (profetico nell'assenza di trionfalismo "sulla conciliabilità tra lotte operaie e lotte in difesa della natura ") che gentilmente ci permette di ripubblicarlo
L'ultimo libro di James O'Connor (L'ecomarxismo. Introduzione ad una teoria, Datanews, Roma 1989, trad. dall'inglese di Giovanna Ricoveri, pp. 56, Lit. 10.000), autore largamente e tempestivamente tradotto in italiano, ha certamente almeno un merito: quello di proporre, controcorrente, una "conciliazione" tra marxismo e ambientalismo, due corpi teorici e due esperienze politiche che molti vedono invece fieramente contrapposti.
L'obiettivo del saggio è, mi pare, conseguentemente duplice. Ai marxisti, che spesso snobbano con sufficienza la "parzialità" della questione della natura o criticano il troppo tiepido anticapitalismo degli ecologisti, O'Connor vuole mostrare che la difesa della natura è parte integrante dell'apparato categoriale marxiano, e non qualcosa che le è estraneo. Ai "verdi", O'Connor vuole mostrare come un ecologismo coerente non possa che investire globalmente i processi economici e politici su scala planetaria, segnati irrimediabilmente dal dominio del capitale.
La tesi centrale è, molto in breve, che l'ecologismo (ma anche i "nuovi movimenti sociali", e perciò anche il femminismo) puntano l'attenzione su questioni che sono qualcosa di più, e non di meno, della lotta di classe.
Il tentativo di O'Connor si svolge in quattro mosse.
La prima mossa è costituita da un ritorno alle rigorose definizioni di base del Capitale , che tengono esplicitamente conto delle "condizioni di produzione" tanto "esterne" (natura in senso stretto) quanto "personali" (la forza-lavoro come elemento materiale e naturale essa stessa).
La seconda mossa consiste in una traduzione della teoria della crisi economica del marxismo - si tratta qui in particolare della crisi da realizzo - in una teoria della crisi ecologica: la distruzione della natura dà luogo ad un aumento dei costi di riproduzione delle condizioni di produzione, quindi ad un uso improduttivo del capitale, che è costretto ad utilizzare una parte crescente del plusvalore per sanare le ferite che esso stesso procura all'ambiente invece di farne capitale addizionale.
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Il Plan Condor vola anche in Sicilia
di Antonio Mazzeo
A differenza delle persone in cerca di un rifugio o un lavoro, la pista insanguinata del terrore valica da sempre con estrema facilità le frontiere. Una preziosa inchiesta di Antonio Mazzeo, pubblicata su Le Siciliane, ricostruisce il percorso che ha portato in Sicilia un ex tenente colonnello della dittatura argentina, responsabile del “personale” di custodia di uno dei centri di detenzione clandestini più orrendi di quel tempo. Un inferno dove il privilegio di stuprare prigioniere inermi veniva giocato a carte, quello in cui, tra gli altri, fu fatta scomparire Marie Anne Erize, ex modella poi diventata militante montonera nelle villas miserias della capitale argentina. Una storia sordida e feroce, che intreccia impunità e tortura, logge massoniche e servizi segreti, paramilitari, mafia e neofascisti, corruzione e disprezzo della dignità delle persone e delle istituzioni che dovrebbero tutelare il corso della giustizia. Fino a un villino con vista sulle Eolie in cui ammirare splendidi tramonti ricordando gli orrori del Plan Condor, l’internazionale dei regimi criminali latino-americani diretta da Washington, che ha pianificato il genocidio di un’intera generazione che non si poteva piegare senza sterminarla.
* * * *
Le sue colpe? Essere intelligente, sensibile, politicizzata, bellissima e credere in un mondo migliore nel posto e nel momento sbagliato. Marie Anne Erize aveva 24 anni in quel maledetto 1976 segnato dal sanguinoso golpe fascista in Argentina che aveva insediato ai vertici del paese la Junta del generale Jorge Rafael Videla ed un manipolo di militari con tanto di tessera della loggia massonica P2 del venerabile Licio Gelli. Adolescente aveva intrapreso con successo a Buenos Aires la professione di modella. Poi si era iscritta alla facoltà di antropologia e come tante sue coetanee di allora, chitarra in spalla, aveva percorso l’Europa in autostop e conosciuto e frequentato artisti, intellettuali, musicisti. Marie Anne fece pure un tour negli USA in compagnia del grande chitarrista andaluso Paco de Lucia. Come per tanti coetanei fu determinante il lungo viaggio in Sudamerica e l’impatto con le contraddizioni e le ingiustizie sociali ed economiche del Brasile e dei paesi andini.
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La destra radicale noglobal. Antimondialismo e capitalismo
di Matteo Luca Andriola
Pronunciare oggi la parola antiglobalizzazione, ai più fa venire in mente la sinistra radicale e l’area della contestazione nata alla fine degli anni Novanta nota come “movimento noglobal”: area multivariegata, composta da associazioni e gruppi che contestano il processo della globalizzazione neoliberista, fonte di inaccettabili iniquità tra Nord e Sud del mondo e all’interno delle singole società nazionali, in lotta contro lo strapote re delle multinazionali e le politiche liberoscambiste seguite dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e dalla Wto (World Trade Organization). È giusto però porsi una domanda: vista l’egemonia della sinistra su tale movimento di protesta transnazionale, per la forte presenza di soggetti neomarxisti, ecologisti e vicini all’antagonismo, il fenomeno di questa contestazione si limita alla sinistra? No.
Marco Fraquelli, autore del volume A destra di Porto Alegre. Perché la Destra è più no-global della Sinistra (Rubbettino, 2005) sottolinea – pur essendo egli stesso di sinistra e discepolo del politologo Giorgio Galli – che i movimenti noglobal, nati a Seattle nel 1999 e protagonisti di importanti battaglie storiche, come la nascita nel 2001 del Social Forum di Porto Alegre in contrapposizione al World Economic Forum di Davos, e la contestazione del G8 di Genova, tendono “a contestare la globalizzazione convinti comunque che si tratti di un fenomeno che, attraverso opportuni correttivi, possa virare verso orizzonti positivi”, “che possa esistere insomma una globalizzazione ‘dal volto umano’, che sia possibile in altri termini, definire e imporre una nuova governance (e questo spiega per esempio le istanze per l’applicazione della Tobin Tax, per la cancellazione del debito contratto dai Paesi poveri, ecc.)” (1): ciò mostra che questi movimenti accettano le implicazioni della globalizzazione, rifiutando solamente il lato economico (“la Sinistra ha come obiettivo la mondializzazione senza il mercato” scrive Jean-François Revel), essendo figli dell’universalismo.
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La vera emergenza e l’agenda d’autunno
di Giacomo Marchetti
Il prodotto interno lordo italiano nel secondo trimestre di quest’anno è risultato “stazionario” secondo i dati Istat.
L’istituto afferma che l’attuale fase sia di “sostanziale stagnazione”, perché per il quinto trimestre consecutivo la variazione congiunturale si attesta intorno allo zero.
L’Italia è ferma, l’Eurozona pure, a cominciare dalla Germania.
L’indice con cui viene registrata l’espansione produttiva Pmi, elaborato da Ihs Markit, – sopra i cinquanta – o la sua contrazione – sotto i cinquanta – è molto chiaro: 43,2 Germania, Italia 48,4, Spagna 48,2, Francia 49,7.
E il cuore della crisi è tutto tedesco. Ieri mattina i dati sulla produzione industriale del mese di giugno erano previsti a -0.5, ma il dato reale è andato ancora peggio: -1,5%. Su base annuale la perdita sale così al -5.2%. Un disastro.
Rosie Colthorpe di Oxford Economics scrive: “il continuo ribasso evidenziato dai recenti report sull’Eurozona toglie ogni speranza di una ripresa nella seconda metà dell’anno”.
Più chiaro di così…
Il centro gravitazionale delle “nostre” decisioni politiche a Bruxelles non ha aiutano né aiuterà, la situazione, soprattutto in vista del Documento di Programmazione Economica e Finanziaria che dovrà essere varato entro la fine di quest’anno per il 2020. Il contesto è noto: siamo “commissariati” dall’Unione, con un gruppo di Paesi – con a capo l’Olanda e la Germania – pronti ad “impallinarci”, visto la mal-ingoiata “manovra correttiva”, perché Bruxelles avrebbe dimostrato troppa benevolenza nei nostri confronti; e gli equilibri politici continentali in un cui il governo grigio-verde non incide minimamente, se non in negativo.
La prossima “finanziaria” sarà una nuova bomba ad orologeria per le classi subalterne.
Qualora fosse necessario ricorrere all’esercizio provvisorio dal primo gennaio dell’anno prossimo – e gli attuali chiari di luna governativi sembrerebbero farlo presagire – scatterebbe automatico l’aumento dell’IVA e accise per 23,1 miliardi, pari all’1,2% del PIL.
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L'ecologia politica sta nelle lotte della riproduzione sociale
Intervista a Emanuele Leonardi
Pubblichiamo questa interessante intervista ad Emanuele Leonardi, ricercatore all'università di Coimbra, a cura dei collettivi di Ecologia Politica nata nel contesto del Festival Alta Felicità in Val Susa
Le lotte della sfera della riproduzione per una nuova ecologia politica.
L'ultimo anno politico in Italia è stato pieno di imprevisti e improvvisazioni. Non solo l'inversione a destra del polo di potere tra i due partiti di governo, ma anche nuovi problemi come quello del cambiamento climatico si sono imposti sul panorama mediatico e quindi aggiunti negli spot elettorali di vari partiti. Questo è stato l'anno delle grandi piazze che abbiamo attraversato: un Marzo in cui abbiamo incontrato tanti giovani e giovanissimi durante le manifestazioni di Non Una di Meno, Fridays for Future e nella Marcia per il clima e contro le grandi opere inutili. É stato anche l'anno in cui il popolo No Tav della Val Susa ha saputo dimostrare ancora una volta di essere determinato a proseguire l'opposizione alla costruzione del Tav Torino-Lione: una degna risposta agli annunci di Conte, Salvini e del Partito Democratico. Questa situazione ha permesso una nuova fibrillazione nel dibattito politico interno ai movimenti sociali che oggi guardano con maggior interesse a studi che provengono da quell'arcipelago di pensiero che è l'Ecologia Politica.
Questo nuovo filone di ricerca parte dall'idea che “il rapporto tra la società e la natura non sia immediato e che il dato ambientale da solo non dica molto: trova una ricchezza di significato invece se messo in relazione alle modalità attraverso le quali le comunità umane e non umane si organizzano per garantire la propria riproduzione attraverso un modo di produzione. Il filtro tra quello che le società danno e ricevono dalla natura è legato al modo di produzione e agli usi e costumi delle società”, riprendendo le parole di Emanuele Leonardi dal suo intervento durante l'incontro “Ecologia è Politica”, tenutosi al festival Alta Felicità in Val Susa.
Durante quei giorni in Valle Leonardi ci ha rilasciato un'intervista per approfondire alcuni temi toccati durante il dibattito.
* * * *
1. Cosa intendiamo con lotte della sfera della riproduzione? Perché queste ultime sono sempre più centrali all'interno del contesto politico contemporaneo?
Credo che si debba partire da una distinzione analitica che forse ci aiuta a capire i termini del problema legato alle lotte nella sfera della riproduzione.
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L’interpassività e il regno animale dello spirito
di Salvatore Bravo
Salvatore bravo legge Slavoj Žižek. Di fronte allo scollamento tra "Reale" e "realtà" occorre un pensiero che divenga esodo dal pensiero unico. All’interpassività che rafforza la gettatezza nel mondo bisogna agire nel silenzio del pensiero che diviene esodo dal pensiero unico e moltiplicatore delle resistenze
L’interazione passiva
La prassi[1] in Aristotele è l’interazione sociale in cui il soggetto, gradualmente, vive l’esperienza della verità nella comunità, parte imprescindibile di sé. Essa si coniuga con il deliberare, con la saggezza:[2] prassi e phrònesis sono vita activa, poiché il fine di entrambe è comunitario oltre che individuale. La buona prassi, come il giusto deliberare, sono inscindibili dal vivere comunitario. La vita attiva è l’interazione tra saggezza e prassi. Il mezzo con cui – per riprodurre se stesso – l’attuale modo di produzione inibisce la prassi ed il giusto deliberare è l’interpassività. I soggetti sono in perenne attività, ma quest’ultima, in realtà, spinge verso la ripetizione di gesti automatici, la religione del vitello d’oro resta velata, occulta nei gesti meccanici la riflessione consapevole delle conseguenze dei propri atti, ogni accadimento è un evento che “sic ed simpliciter” avviene. Tutto accade, e nel contempo il modo di produzione, riproduce se stesso, il vitello d’oro, la merce ed il plusvalore attraverso i fedeli sudditi, sempre agiti, perennemente situati, i quali si percepiscono come “razza padrona”, ma in realtà sono interni ad un paradigma che impedisce il discernimento. L’essere è solo “esse=capi”, è attività del depredare; l’ontologia del saccheggio è l’unico paradigma del capitalismo assoluto. Gli enti che non sono ghermibili sono tagliati dall’orizzonte esperienziale: ogni ente non catalogabile come potenziale mezzo per il plusvalore è escluso, espulso dalla rappresentazione, la quale si autorappresenta solo ciò che è calcolabile. Non vi è spazio nell’osservazione che per l’ente da arpionare per eventuale investimento. L’homo oeconomicus non ha immaginazione empatica, pertanto il suo mondo è solo un borsino immobiliare. L’azione di conquista e consumo è l’unica attività che eternamente ritorna su se stessa per riprodursi infinitamente.
Con l’interpassività si ha l’impressione di agire, di modificare il mondo, ma in realtà si conferma il sistema capitale. Il vitello d’oro, dopo il superamento della convertibilità delle monete in oro, si è liquefatto, ha perso con la forma ogni limite, è ovunque, pervade e feconda ogni spazio e tempo con le sue leggi inevitabili e fatali. Dietro l’attività conclamata vi è la passività, l’alienazione (Entfremdung), cifra vivente della religione del vitello d’oro e della mortificazione:
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Italia: come rovinare un paese in trent’anni
di Servaas Storm*
Parlare di “sorti del paese” senza saperne la storia economica – anche quella più recente – rasenta il tentativo di dare lezioni di vita a quindici anni. Buone intenzioni tante, esperienza zero.
Questa ricostruzione impietosa dellla storia economica italiana degli ultimi 30 anni può aiutare a mettere a fuoco molti problemi che gli “europeisti-senza-se-e-senza-ma” semplicemente ignorano (più sono esperti e più sono bugiardi, diciamo) e che i “populisti nazionalisti” riducono a questioncelle risolvibili con ricette da imbecilli.
Naturalmente non è una ricostruzione “neutra”. L’autore, Servaas Storm, è un economista olandese che si occupa di temi a cavallo tra macroeconomia, tecnologie, distribuzione del reddito, finanza.
L’articolo è stato commissionato e pubblicato alcuni mesi fa dall’Institute for New Economic Thinking, che di certo non può essere considerato un think tank di “sinistra”, visto che ha fra i fondatori il tristemente noto speculatore George Soros. Molte considerazioni critiche sarebbero possibili dal nostro punto di vista. La principale, che merge solare dai grafici ma Servaas sembra non vedere, è che il calo dei salari e di altri fattori è comune a tutte le economie europee prese a paragone. In Italia è più accentuato, certamente, ma all’interno di una curva discendente collettiva. L’austerità, insomma, è una malattia mortale per tutta l’Unione Europea e soprattutto per i lavoratori di tutto il continente.
Ma i numeri, quando sono messi in fila, mostrano una via. E quelli dell’economia italiana, nell’arco dell’ultimo trentennio, descrivono il cammino verso il precipizio per esplicita decisione politica sovranazionale, nel quadro di una serie di trattati europei che spingono per diseguaglianze crescenti e niente affatto casuali.
Buona lettura.
* Traduzione per Voci dall’Estero di Gilberto Trombetta
* * * *
La terza recessione italiana in 10 anni
La crisi italiana causata dall’austerità è un campanello d’allarme per l’Eurozona
Mentre la Brexit e Trump guadagnavano gli onori della cronaca, l’economia italiana è scivolata in una recessione tecnica (un’altra).
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La crisi di governo e i bisogni degli italiani: mancano 100 miliardi di euro l’anno
di Davide Gionco
Mentre l’Italia, ovvero molti milioni di italiani (non un concetto generico, ma persone, con le loro famiglie, il loro lavoro) continua ad essere immersa nei suoi gravi problemi sociali ed economici, ecco che ci ritroviamo in una crisi di governo, da cui francamente si fa fatica a vedere degli sbocchi positivi, che possano garantire una situazione “meno peggiore” di quella precedente.
Naturalmente è già partito il teatrino di tv e giornali sulle possibili nuove elezioni o sulle possibilità che venga formata una diversa maggioranza politica in Parlamento.
I vari partiti non perdono occasione di dire di non avere timore di presentarsi alle elezioni, proponendosi agli elettori come alternativa seria all’attuale ex maggioranza politica.
Per favore, scendiamo dalla giostra della “politichetta”!
Non stiamo giocando il campionato di calcio, dove l’importante è che la nostra squadra vinca la partita, per poter poi sventolare la nostra bandiera.
L’Italia continua ad avere milioni di persone in povertà assoluta ed altri milioni di persone a rischio di cadere in povertà.
L’Italia continua ad avere milioni di disoccupati e molti milioni di persone che tirano a campare, con lavoretti part-time, con datori di lavoro che li sfruttano, con l’Agenzia delle Entrate sempre pronta a tartassare le nostre piccole e medie imprese portandole senza remore al fallimento, con le poche aziende che sono riuscite a sopravvivere puntando sulle esportazioni e che ora devono fare i conti con le guerre dei dazi ed il calo di domanda dei vicini paesi europei, causato dalle politiche europee di austerità. Una tassazione da record mondiale, unita a servizi pubblici sempre più scadenti e inaccessibili.
I servizi pubblici vanno verso lo scatafascio: la sanità ridotta ai minimi termini dai continui tagli, al punto che mancano medici ed infermieri per curarci, per la manutenzione degli edifici pubblici ridotta al punto che molti edifici sono inagibili, per investimenti nelle infrastrutture (non solo nei trasporti, ma anche nelle telecomunicazioni, nella formazione professionale, nella ricerca, nell’energia…).
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Lo Yuan cinese ha rotto la soglia del rapporto 7:1 rispetto al dollaro
E’ iniziata la guerra monetaria globale
di Jack Rasmus
Proponiamo di seguito, tradotta in italiano, l‘ultima nota di Jack Rasmus sull’allargamento e l’intensificazione dello scontro commerciale tra Stati Uniti e Cina. Questo scontro e’ ora divenuto anche monetario: l’altro ieri (6 ago.) Trump si è appellato al FMI perché sanzioni e metta in riga la Cina.
Economista indipendente legato all’area Chomsky, (ma indipendente), Rasmus e’ tra quanti avevano previsto che difficilmente ci sarebbe stato un vero accordo commerciale tra Stati Uniti e Cina, perché la questione della tecnologia informatica di avanguardia è troppo cruciale per entrambi i contendenti per consentire loro di mettersi agevolmente d’accordo. E ora rivendica naturalmente di avere visto giusto, e prova ad ipotizzare i prossimi passaggi, quasi obbligati, di questa contesa sul piano economico.
La sua analisi appare lucida. La traiettoria di fondo non è quella dell’accordo, ma quella dello scontro – quali che siano gli svolgimenti immediati. Ma quello che a noi interessa molto sul piano politico-sociale è la sua previsione – realistica – su chi pagherà il prezzo più alto di questo scontro: Europa e paesi “emergenti”. Dietro l’agitazione compulsiva di un Salvini per sembrare uno che si occupa delle necessità del “popolo”, e dietro la decisione, condivisa da tutto il quadro politico, di apprestare nuovi strumenti repressivi addirittura più pesanti di quelli della legislazione fascista, c’è la percezione, se non la convinzione, che stia effettivamente per arrivare lo sconquasso che Rasmus prevede, e che ci si debba preparare a neutralizzarne le conseguenze, potenzialmente esplosive.
* * * *
Durante questo fine settimana, lo yuan cinese è uscito dalla sua traiettoria e ha oltrepassato il rapporto 7 a 1 con il dollaro. Nello stesso tempo, la Cina ha annunciato che non avrebbe acquistato più prodotti agricoli statunitensi. La strategia commerciale statunitense Trump-Neocons è così appena implosa. Come previsto da chi scrive, la soglia è stata ora superata, e si è passati da una guerra commerciale tariffaria a una guerra economica più ampia tra gli Stati Uniti e la Cina, nella quale vengono ora implementate altre tattiche e misure.
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