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Come leggere il pensiero, secondo le neuroscienze
di Federica Sgorbissa*
Lo stato dell’arte delle ricerche su decodifica del pensiero e telepatia
Nel 1995, in Strange days, Kathryn Bigelow immaginava un futuro in cui memorie e pensieri possono essere registrati, venduti e comprati come fossero dei video. Nel film uno stralunato Ralph Fiennes interpreta Lenny Nero, una sorta di “spacciatore di ricordi” che sviluppa una dipendenza dal suo stesso “prodotto”. Un racconto simile l’aveva girato qualche anno prima Wim Wenders in Fino alla fine del mondo, dove Henry, interpretato da Max Von Sydow, è uno scienziato che resta intrappolato nelle sue ricerche, vittima, al pari di Lenny, del consumo compulsivo dei sogni altrui. Curiosamente, entrambi i film sono ambientati alla fine del 1999, con una differenza sostanziale: Strange days si spinge un po’ più avanti nell’immaginazione tecnologica e così, mentre Henry si limita a vedere i sogni su uno schermo, come fossero film, Lenny non solo può archiviare le esperienze in una sorta di minidisc, ma rivive queste registrazioni direttamente nel proprio cervello grazie allo SQUID, una specie di Playstation per ricordi.
Nonostante la visionarietà di Bigelow e Wenders, il capodanno del 2000 è passato senza la nascita di nessuna tecnologia simile. A distanza di vent’anni, tuttavia, si stanno effettivamente ottenendo grandi avanzamenti nel campo della decodifica di sogni e pensieri e, almeno parzialmente, della trasmissione brain-to-brain. Fra gli scienziati più attivi e ottimisti c’è Moran Cerf, professore della Kellogg School of Management della Northwestern University, imprenditore high-tech e consulente scientifico di Hollywood (oltre che ex-hacker). “Con l’elettroencefalografia oggi si possono avere decodifiche anche molto precise, usando dispositivi indossabili e non invasivi”, dice Cerf a il Tascabile.
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Inasprire il vincolo esterno. Il Meccanismo europeo di stabilità e il mercato delle riforme
di Alessandro Somma
Un Superstato di polizia economica
Nel corso degli anni l’Europa unita è divenuta un catalizzatore di riforme che elevano il principio di concorrenza a paradigma dello stare insieme come società, e impediscono a principi alternativi di persistere o eventualmente di riemergere. I Paesi membri sono chiamati a tradurre le leggi del mercato in leggi dello Stato, riducendo così l’inclusione sociale a inclusione in un ordine incentrato sul libero incontro di domanda e offerta. Il tutto presidiato da uno “Stato forte e indipendente” cui attribuire compiti di “severa polizia del mercato”: come sintetizzato anni or sono da un padre del neoliberalismo[1].
Spicca tra questi compiti il contrasto delle concentrazioni di potere economico, ovvero l’isolamento dell’individuo di fronte al mercato, al fine di condannarlo a tenere i soli comportamenti che costituiscono reazioni automatiche agli stimoli della libera concorrenza. E lo stesso deve valere per gli Stati, che si devono rendere incapaci di operare in senso difforme rispetto a quanto corrisponde alle aspettative dei mercati. Anche per questo i Trattati europei codificano il “principio del non salvataggio finanziario”, per cui “l’Unione non risponde né si fa carico degli impegni assunti dalle amministrazioni statali, dagli enti regionali, locali, o altri enti pubblici, da altri organismi di diritto pubblico o da imprese pubbliche di qualsiasi Stato membro” (art. 125 Trattato sul funzionamento Ue).
Il divieto di bail out non costituisce un presidio contro l’indebitamento pubblico, o almeno questa non costituisce la sua principale ragion d’essere. Prevale infatti una diversa finalità: costringere gli Stati a reperire risorse presso i mercati, a cui si conferisce così la funzione di disciplinare i comportamenti degli Stati.
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Il Venezuela ha tre parlamenti
I media di guerra scelgono Guaidó (ovvero gli USA)
di Geraldina Colotti
Seguire i passi del nemico, analizzarne le strategie, serve per affinare le proprie, usando la capacità critica come l’imperialismo usa i suoi droni. Contrastare il racconto egemonico costruito dai media di guerra nei paesi capitalisti, è un’impresa titanica, almeno finché non interviene un nuovo ciclo di lotta che spazzi via la cortina di fumo e mostri un’altra visione del mondo. Tuttavia, si può (si deve) aprire qualche breccia, mostrare le insidie attraverso le quali s’insinua l’interpretazione dominante.
Ieri abbiamo seguito in diretta la seduta parlamentare che, in Venezuela, doveva rieleggere il presidente dell’Assemblea Nazionale, uno dei cinque poteri di cui dispone la costituzione bolivariana, tenuti in equilibrio dalla massima istanza giuridica, il Tribunal Supremo de Justicia (TSJ). In contatto costante con i colleghi sul posto, ne abbiamo seguito tutte le fasi, confrontando tre fonti: la prima, proveniente dalla più estrema all’estrema destra venezuelana, ovvero quella di Patricia Poleo, che conduce una trasmissione da Miami intitolata Agárrate. La seconda, fornita dai vari giornalisti e i video-maker presenti a Caracas, e la terza diffusa dalle agenzie stampa in Italia.
Quello di Poleo è un programma che, volendo essere più a destra della destra, accusa l’autoproclamato “presidente a interim Juan Guaidó” di essere stato troppo timido nell’ordire le sue trame contro il socialismo bolivariano. In questo modo, tra urla e proclami, tira fuori però tutte le magagne dell’opposizione venezuelana, golpista, affarista e, soprattutto, ladrona.
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Sull’esito delle elezioni in Gran Bretagna
RP. intervista Joseph Halevi
RP. Come prima cosa ti chiedo una considerazione generale della sconfitta del partito laburista clamorosa in termini di seggi. Tenendo conto che la vittoria dei conservatori era comunque data per scontata.
JH. Fino a qualche tempo fa, quando anche Boris Johnson si vedeva bocciare le sue iniziative del parlamento, mi sembrava fosse su una linea meno catastrofica di Teresa May, che stava veramente distruggendo il partito conservatore. La scelta di Johnson per riprendere in mano la politica dei conservatori è stata proprio quella di andare alle elezioni e come le ha gestite. Però secondo me queste sono cose superficiali.
Secondo me il problema fondamentale sono i laburisti, i quali sono entrati in una crisi che rischia di essere di non ritorno. Come, anche se in condizioni completamente diverse, i socialdemocratici tedeschi sono in una crisi di non ritorno: loro oggi sono al 15%, mentre erano un partito del 40%. In Gran Bretagna non c’è lo stesso tipo di situazione, con la medesima politicizzazione che c’è in Europa continentale, quindi la dinamica è diversa, però un partito che sta sul 30% diventa non agibile, diventa non spendibile perché non è un sistema pluralistico al livello politico. È un sistema che si basa su due partiti, che possono fare qualche alleanza qua e là, occasionalmente, però devono essere tutti e due in una situazione maggioritaria, dal punto di vista dei seggi (cioè essere sempre nella situazione di diventare maggioritario). Se uno dei due non ha la maggioranza dei seggi, può rimanere fuori per decenni. Come è accaduto ai laburisti negli anni trenta con la spaccatura introdotta da MacDonald e sono stati fuori fino al 1945; quando, sostanzialmente, è stata la guerra a fargli vincere le elezioni. Perché, anche se la guerra l’ha condotta Churchill, era cambiata l’idea presso la classe lavoratrice inglese che con la vittoria il mondo sarebbe stato diverso per ciò che li riguardava, i diritti, ecc.
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Dallo Stato-imprenditore allo Stato-stratega
Dibattito sull’Iri
di Andrea Muratore
Nelle ultime settimane la crisi industriale dell’Ilva, con la problematica partita apertasi tra il governo e Arcelor-Mittal, unitamente al nuovo rinfocolamento del caso-Alitalia ha riportato in auge il tema dello “stato-imprenditore”, del coinvolgimento pubblico nell’economia funzionale allo svolgimento della politica industriale, e la parola “Iri” è ritornata prepotentemente nel dibattito.
Il modello di riferimento, nel dibattito italiano, non ha potuto che essere l’Istituto di Ricostruzione Industriale (Iri), il conglomerato fondato nel 1933 per iniziativa di Alberto Beneduce e divenuto nel secondo dopoguerra il principale braccio operativo del sistema di economia mista che ha guidato la rinascita del Paese. L’Iri, fino alla crisi conclusiva della Prima Repubblica che segnò l’inizio della sua messa in liquidazione (terminata nel 2002), ampliò gradualmente il suo perimetro sino a risultare protagonista nei principali gangli strategici del sistema Paese: dal ramo bancario (azionista in Banco di Roma, Credito Italiano e Banca Commerciale Italiana) alla siderurgia (Finsider, l’antenato dell’Ilva), passando per le telecomunicazioni (Stet), la cantieristica e la difesa (Fincantieri e Finmeccanica) e i trasporti (controllando Alitalia e le autostrade). Nel 1993, quando il governo Ciampi iniziò la sua graduale privatizzazione, l’Iri era il settimo conglomerato al mondo per dimensione, potendo contare su un fatturato superiore ai 67 miliardi di dollari.
L’Iri è stato citato esplicitamente dal Ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli (Movimento Cinque Stelle) che ha affermato esplicitamente di non essere contrario al “ritorno” al sistema di gestione statale, nel contesto di una forte critica alle modalità di privatizzazione delle proprietà dell’ente.
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Rompere lo specchio neoliberista
Bjarke Skærlund Risager intervista David Harvey
Nel 2005 usciva Breve storia del neoliberismo di David Harvey, saggio ancora oggi tra i più citati sull’argomento. Da allora sono esplose diverse crisi economiche e finanziarie, ma anche nuove ondate di resistenza che spesso hanno fatto proprio del neoliberismo il loro bersaglio critico.
Ma di cosa parliamo esattamente quando parliamo di neoliberismo? Si tratta di un concetto utile per la sinistra? E come si è evoluto dal momento della sua genesi alla fine del ventesimo secolo? Bjarke Skærlund Risager ha affrontato questi temi con David Harvey.
* * * *
Neoliberismo è un termine molto in voga, ma spesso non è chiaro a cosa faccia riferimento esattamente. Cercando di darne una definizione più sistematica potremmo dire che si riferisce a una teoria, a un insieme di idee, a una strategia politica oppure a un periodo storico. Potresti spiegarci, per cominciare, cosa intendi per neoliberismo?
Ho sempre concepito il neoliberismo come quel progetto politico portato avanti tra la fine degli anni Sessanta e tutti gli anni Settanta da una classe capitalista che si sentiva messa all’angolo sia dal punto di vista politico che economico e ha operato un tentativo disperato di fermare l’ascesa della classe lavoratrice al potere.
Si è trattato quindi di un progetto controrivoluzionario sotto molti aspetti, che servito a stroncare sul nascere i movimenti rivoluzionari dei paesi in via di sviluppo dell’epoca (Mozambico, Angola, Cina, ecc.) ma anche a contrastare la crescita del consenso per i movimenti comunisti in paesi come l’Italia, la Francia e, in misura minore, la Spagna.
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Piazza Fontana e la psicologia delle masse
di Enzo Pellegrin
Riceviamo e pubblichiamo
Nell’anniversario del tragico 12 dicembre 1969, mi è capitata sott’occhi un’intervista allo Storico Miguel Gotor, titolata “Non chiamiamola strage di Stato” (1). Come spesso avviene, il titolo ingigantisce le parole dell’intervistato anche oltre il lecito, ma è significativo un passo dell’intervista dell’autore sul punto:
“La Strage di Stato è stato il titolo di un libro che ebbe molto successo all’epoca. Cosa pensa di questo concetto?
Fu un’espressione efficace sul piano politico, propagandistico e militante allora, ma oggi, dal punto di vista storico, la trovo insufficiente e persino ambigua. In primo luogo perché deresponsabilizza i neofascisti che ormai lo usano anche loro in questo senso. Se è stato lo Stato, nessuno è stato. Per capire, invece, bisogna anzitutto fare lo sforzo di distinguere. E poi perché, se è ormai accertato sul piano giudiziario e storico che nei depistaggi furono coinvolti esponenti degli apparati, dei servizi segreti e dell’ “Alta polizia” sopravvissuti al fascismo, vi furono anche magistrati come Pietro Calogero e Giancarlo Stiz o agenti come Pasquale Juliano che imboccarono da subito la strada della pista nera, con coraggio e andando controcorrente. Non erano anche loro esponenti dello Stato? Nella notte della Repubblica, nonostante il fango deliberatamente sollevato, il faro della giustizia e della ricerca della verità rimase acceso e non è giusto dimenticare l’impegno personale e professionale di quegli uomini con formule genericamente autoassolutorie.” (2)
Gotor si scaglia anche contro il concetto di “manovalanza neofascista” della strage. Partendo dal materiale processuale, che più di ogni cosa ha provato il coinvolgimento della “pista nera”, lo storico afferma che, ritenere i neofascisti dei puri esecutori, rischia di attenuare il loro ruolo militante nell’attacco alla democrazia.
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Il ritorno del capitalismo in Russia
di Fabrizio Poggi
L’atteggiamento di molta pubblicistica di sinistra nei confronti della Russia odierna si divide in due grandi filoni. Da un lato, una perenne venerazione di tutto quanto promani da Mosca, ignorando persino le critiche rivolte al Cremlino anche dai comunisti del KPRF, di cui, pure, spesso ci si fa portavoce. Dall’altro, il completo silenzio su qualsiasi manifestazione dell’opposizione che non sia quella liberal-borghese o confessionale, come se altra non ne esistesse.
Non ci è capitato di leggere nulla, ad esempio, sui duecento dipendenti licenziati dai supermarket SPAR e SemJA di Pietroburgo, caricati il 30 dicembre dalla polizia mentre stavano picchettando gli uffici di Intertorg, chiedendo il pagamento di 10 milioni di rubli di salari arretrati. I lavoratori erano dipendenti di un’agenzia interinale, “scomparsa”; così, i funzionari di Intertorg, ritenendosi estranei alla cosa, hanno chiamato i reparti speciali della milizia per disperdere i manifestanti.
Lo stesso giorno, a Mosca, una cinquantina di custodi addetti a manutenzione e pulizia dei caseggiati del rione “Lomonosov” avevano chiesto un incontro col direttore dell’impresa semi-pubblica di gestione, per lamentare l’organico ridotto alla metà, il non esser ammessi al convitto (sono tutti migranti da altre Repubbliche dell’ex URSS, con salari dai 20 ai 27mila rubli: 3-400 euro) anche in caso di malattia, se non dopo le 18, mancata fornitura di tenute invernali e di materiali per le riparazioni. Il direttore li sbatte fuori dell’ufficio e loro cominciano la protesta in strada. Risultato: tutti alla stazione di polizia e in tribunale; il rischio è condanna e espulsione dalla Russia.
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Esuberi & rottamazioni … che fare?
di Francesco Cappello
Esuberi più recenti, come riportati dalla stampa, senza pretesa di completezza
SAFILO annuncio di 700 esuberi in Italia e chiusura stabilimento di Martignacco (Udine) Nonostante la previsione di vendite in leggera crescita nei prossimi cinque anni, l’azienda ha avviato un programma di ristrutturazione industriale. L’amministratore delegato Angelo Trocchia ha affermato che punterà su “una crescita più significativa del nostro business e-commerce direct-to-consumer“.
CONAD il gruppo Conad dichiara 3.100 esuberi, di cui più di mille nella sola Lombardia, su 6.600 dipendenti dei negozi Auchan e Simply (punti vendita già confluiti in Conad), appena acquisiti. I lavoratori che operano già sotto il marchio Conad hanno visto un peggioramento delle loro condizioni lavorative, rispetto al passato, in termini di orario, turni e salario.
CONTINENTAL 500 esuberi annunciati , da qui a 10 anni, negli stabilimenti Continental di Pisa e Fauglia. Sono il primo risultato dei cambiamenti produttivi, del passaggio dalle auto a benzina o diesel alle auto elettriche. L’auto elettrica ha bisogno di nuovi macchinari e linee produttive che comporteranno la riduzione del 60% della forza lavoro.
Anche le fabbriche del GRUPPO MAHLE pagano il prezzo della grande fuga dal diesel.
Risultano in via di chiusura in Piemonte, 620 esuberi alla BOSCH di Bari, produzione in calo del 30 per cento nello stabilimento FCA di Pratola Serra, nell’avellinese.
FEDEX-TNT giganti delle spedizioni e consegne a domicilio. In ballo 361 licenziamenti e 115 trasferimenti. Il progetto prevede, anzitutto, la chiusura di 24 sedi su 34 e l’allontanamento di 361 lavoratori (315 in Fedex, quasi tutti corrieri, e 46 in Tnt). Previsti anche cento spostamenti di sede. Si teme esternalizzazione massiccia di personale.
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Colpo su colpo verso la guerra? Trump! E chi sennò?
Le bufale delle analisi, le panzane delle previsioni
di Fulvio Grimaldi
“Le guerre verranno fermate solo quando i soldati si rifiuteranno di combattere, quando gli operai rifiuteranno di caricare armi su navi e aerei, quando la gente boicotterà i presidi economici dell’Impero sparsi su tutto il globo” (Arundhati Roy. “Il potere pubblico nell’era dell’Impero)
Una prima risposta
La risposta iraniana, una prima risposta, è venuta subito. Da poche ore, sette milioni di iraniani avevano terminato il corteo funebre, quando dozzine di missili iraniani si sono abbattuti su due basi USA in Iraq, a Ain el Assad, nella provincia centrale di Anbar e a Irbil, Kurdistan iracheno. Qui alcune decine di militari italiani, lasciati lì col cinismo servile propri di tutti i nostri regimi dal 1945, l’hanno scampata nei bunker, dato che Tehran, consapevole del diritto di internazionale e delle pratiche di guerra quanto non lo sono gli USA e tutta la Nato, aveva dato preavviso dell’attacco alle autorità irachene.
E’ una prima ritorsione all’assassinio del generale Suleimani, ma è anche un monito a Washington e alla Coalizione, in linea con la richiesta di Baghdad, di togliersi di mezzo. A Tehran, nella mattinata successiva, è precipitato un aereo delle Ucraina Airlines (perfino l’Ucraina, dissestata più di noi, ha una sua compagnia di bandiera!). 177 le vittime.
Entrambe le parti minimizzano. Le 80 vittime dell’attacco missilistico iraniano non ci sarebbero, le 177 dell’aereo di linea sarebbero dovute a un guasto dopo il decollo. E’ probabile che il conto dei morti nelle basi sia esatto, e forse riduttivo, ma che la propaganda provi a sminuire l’efficacia dell’azione. Che nel caso dell’aereo caduto, potrebbe avere tutte le caratteristiche di un’operazione emulativa del principale alleato degli Usa nel Vicino Oriente.
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Nel mondo senza opposizione
di Bollettino Culturale
“L'uomo ad una dimensione” di Herbert Marcuse venne pubblicato nel 1964, sotto la minaccia della "catastrofe atomica". Marcuse svela come, nelle società industriali, l'irrazionalità si maschera da razionalità tecnologica e continua descrivendo la cooptazione e il contenimento di tutte le richieste di cambiamento qualitativo alla luce delle "tendenze totalitarie della società monodimensionale". Il famoso libro di Mark Fisher “Realismo Capitalista: non ci sono alternative?” è stato pubblicato nel 2009 all'ombra del tardo capitalismo distopico, della crisi economica globale e del senso diffuso che "non solo il capitalismo è l'unico sistema politico ed economico praticabile, ma anche che ora è impossibile persino immaginare un'alternativa coerente.” Nei quarantacinque anni che separano i due testi, le affinità tra loro sono chiare. Entrambi gli autori si spingono fino al limite del pensiero critico, descrivendo tutto nei termini più severi e rimanendo, nonostante tutto, impegnati a trasformare tutto. In questo modo, quindi, entrambi i testi sono modelli esemplari di scrittura senza speranza, continuando comunque a scrivere. Alla fine di “L'uomo ad una dimensione”, dopo aver notato che "Il vero volto del nostro tempo si vede nei romanzi di Samuel Beckett", Marcuse cita Walter Benjamin che scrive all'inizio dell'era fascista: “È solo per il bene di quelli senza speranza che la speranza ci viene data.” Il testo di Fisher si conclude con un'affermazione altrettanto poetica: "L'evento più piccolo può fare un buco nella cortina grigia della reazione che ha segnato gli orizzonti delle possibilità sotto il realismo capitalista. Da una situazione in cui nulla può accadere, improvvisamente tutto è di nuovo possibile ".
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Siria, Iraq, Libano: il Medio Oriente inquieto dopo Soleimani
Verdiana Garau intervista Mauro Indelicato
Il mio lungo caffè con Mauro Indelicato discutendo sul recente raid statunitense a danno del generale Qasem Soleimani, comandante delle Forze Quds, il numero due iraniano, secondo soltanto all’Ayatollah Sayyid Ali Hosseini Khamenei supremo leader dell’Iran, e che ha trovato la morte la notte dello scorso 3 Gennaio 2020.
* * * *
V.G. Il 31 dicembre Trump aveva già fatto sentire odore di minaccia dopo l’ultimo attacco subìto dall’ambasciata americana a Baghdad e rivendiacto dalle forze sciite filo-iraniane. L’anno 2020 è iniziato con l’esecuzione di Soleimani, numero due dell’Ayatollah Khamenei e capo della forza di Quds, gli informatori sciiti per l’Iran presenti in Libano, Siria, Yemen e Iraq che si occupavano di trovare anche fondi e reclute per gli attacchi.
È una pedina in meno rimossa dallo scacchiere che infastidiva i sunniti?
L’opinione pubblica si è sollevata. Soleimani era anche colui che aveva contribuito a sconfiggere l’ISIS. Ma mi chiedo perché i sunniti (che costituiscono la maggioranza in Medio Oriente) dovrebbero reagire? Questo rischio non c’è. L’Arabia Saudita non ha mai gradito l’ingerenza dell’Iran in Medio Oriente ad esempio.
Cosa faranno gli sciiti soprattutto adesso?
M.I. La situazione attuale è figlia di una escalation che si protrae da Novembre scorso. Il NYT e la CNN più volte hanno riferito sui reportages dei missili lanciati dall’Iran. In Iraq la situazione è cominciata ad essere instabile e ha visto e vede le fazioni filoiraniane in contrapposizione a quelle filoamericane.
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Tempo rubato: Food for thought
di Eugenio Donnici
1. Tempo rubato inteso come un campo di battaglia. Sottrazione di tempo da parte di pochi, di un piccolo gruppo che restringe gli spazi di emancipazione collettiva. Un terreno conflittuale dove si scontrano desideri di autonomia personale ed imperativi di comando. Un furto legalizzato che espropria i venditori della forza lavoro, precari e sottopagati. Ladri di tempo che rubano sogni, che rullano gli affetti, che impediscono l’auto-realizzazione dei “dipendenti”, il che presuppone la variabile “indipendente”, e quindi che i primi agiscano in funzione dei secondi, che i primi siano funzionali ai secondi. Una relazione di dipendenza che ha di nuovo preso il sopravvento, che è diventata dominante e imprescindibile.
E lo Stato cosa fa?
Rimane a guardare, incarna il fuori gioco della politica, manifesta la sua impotenza.
Sembra che la politica abbia perso il suo tempo o che porti in giro i suoi perditempo, che non sia in grado di incidere sugli aspetti essenziali di quella relazione di tempo, da cui parte il lavoro di S. Fana e che trova un’espressione sintetica nel titolo del suo libro.
La sua analisi fa riferimento alla teoria del valore-lavoro di Marx, una teoria che è stata oggetto di una miriade di interpretazioni, ma l’autore non entra nei dettagli polemici e sulla fondatezza o validità della teoria. Egli evidenzia con molta chiarezza un aspetto della teoria di Marx che è caduto nel dimenticatoio e che troppo spesso non viene preso in considerazione, se non in via accessoria, vale a dire il perseguimento del plus-valore-plus-lavoro e che si condensa e trova attuazione nella pratica sociale dello sfruttamento.
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Ceto medio e suo movimento in questa fase
di Michele Castaldo
Prendo spunto da un commento di Dino Erba, «I “nuovi marxisti” alla (ri)scoperta delle “nuove” classi medie», al libro di Bruno Astarian e Robert Ferro, per tornare su un punto teorico e politico di un certo interesse: il ruolo del ceto medio in questa fase. Se i comunisti d’oggi cercassero di analizzare i fatti per come essi parlano, capirebbero molto di più delle loro strampalate analisi ideologiche.
Non conosco il lavoro di Astarian e Ferro, ma dal commento di Dino Erba c’è materiale a iosa per riflettere sul fenomeno del movimento del ceto medio, che fa parlare di sé in questa fase. Faccio un’avvertenza obbligata: qualcuno ha scritto che «è pesante da digerire l’esasperato oggettivismo del Castaldo». Lo credo bene, e dal momento che non ho cambiato metodo e impostazione, si può anche non continuare a leggere il presente contributo.
Procedo per punti per rendere più agevole il punto di vista:
A. La polemica tra Bernstein, Kautsky e Rosa Luxemburg sul ruolo del ceto medio del tempo che fu c’entra in questa fase come il cavolo a merenda semplicemente perché allora il modo di produzione capitalistico era in fase ascendente, mentre oggi lo stesso movimento è in una crisi che possiamo definire definitiva dagli esiti sconosciuti, ma certamente catastrofica. Sicché se un movimento sociale storico cresce, in esso e con esso si sviluppano tutte le componenti che la forza delle sue potenzialità esprimono. Se decresce espelle una parte del proprio creato. È un concetto semplice, si direbbe lapalissiano.
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Iraq, Iran, Siria, Turchia, Libia... e Wall Street. Sostanze esplosive dappertutto
Vicini al punto critico di rottura?
di nucleo comunista internazionalista
Questa breve nota scritta prima degli odierni avvenimenti, cioè prima dell'uccisione del capo militare iraniano per mano americana, non ha bisogno di alcuna rettifica. Come in essa vogliamo sottolineare, l'imperialismo democratico non è affatto invincibile. Tutt'altro. La copertina di Der Spiegel (ottobre 2019), che riproduciamo, è altamente indicativa dello stato reale delle cose.L'alternativa secca è la seguente:
1. Escalation che prelude ad un attacco massiccio all'Iran. Allora gli Usa e l'Occidente tutto si preparino a pagare un prezzo salatissimo all'azzardo criminale.
2. L'America (mascherando la sua impotenza) si fermerà prima del passo fatale e, con la coda tra le gambe, chiederà aiuto alla potenza russa e a quella cinese, che non gli verrà negato, data la solidarietà di classe che accomuna la borghesia mondiale in difesa del supremo ordine capitalistico dentro il quale esse si contendono i profitti estorti al proletariato internazionale.
Ma, da buoni uomini di businnes e di real politik quali sono i borghesi russi e cinesi, il loro "aiuto" al partner concorrente americato per tirarlo fuori dai guai e salvargli la faccia, ha un prezzo: la cessione di fette di potere a scala mondiale, la sanzione della fine dell'egemonia nordamericana.
Potranno allora gli indici di Wall Street non registrare, con paurosi ribassi rispetto ai massimi attuali, i mutati reali rapporti di forza fra potenze capitalistiche?
Questo è il tracciato, indipendentemente da come la pensiate, peste o corna. Così sarà. Quello che ci compete, e a cui siamo tenuti, è auspicare e fare tutto il possibile per realizzare la disfatta dell'imperialismo democratico occidentale. Fare tutto il possibile perchè il nostro proletariato non si accodi alla crociata "per la libertà e la democrazia", nella rigorosa difesa dei nostri principi e della nostra indipendenza di classe.
Che la sollevazione antimperialista delle masse irachene, iraniane e di tutto il Medio Oriente travolga Trump e tutto il marcio fradicio occidente imperialista.
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Per il Diritto Internazionale l’azione di Trump è configurabile come atto criminale e terrorista
di Luca Cellini*
È argomento di cronaca internazionale ormai e oggetto di discussione l’uccisione del generale Qassem Soleimani avvenuta alle prime luci dell’alba del 3 gennaio 2020 quando il maggiore generale Soleimani è stato assassinato sotto il fuoco di un attacco statunitense all’aeroporto internazionale di Baghdad, in Iraq. Assieme a Soleimani sono rimaste uccise altre 7 persone fra cui il capo delle Forze di Mobilitazione Popolare sciite irachene Abu Mahdi al-Muhandis. L’operazione è stata ordinata direttamente dal presidente statunitense Donald Trump, dopo conferma della CIA, senza nemmeno avvisare il Congresso statunitense.
Qassem Soleimani era il potentissimo leader delle Guardie rivoluzionarie di Teheran, Soleimani era il viceré dell’Iraq, della Siria, del Libano e di Gaza, l’uomo più temuto del Medio Oriente, operava al diretto servizio della Guida Suprema Ali Khamenei e aveva funzioni operative da generale, da capo delle azioni clandestine, da direttore dei servizi segreti e da ministro della Difesa e degli Esteri.
Non è però obbiettivo di questo articolo entrare nel merito a chi fosse o non fosse il generale Soleimani e tantomeno su cosa abbia rappresentato o meno nell’area mediorientale, visto che le opinioni generali sono varie e discordanti, come sempre accade d’altronde all’interno di un conflitto e con interessi e posizioni da difendere da una o dall’altra parte, alcuni lo definiscono una grande figura carismatica, un eroe o addirittura una leggenda, altri ancora lo definiscono non certo un santo, un uomo di guerra, sì, ma anche colui che aveva organizzato la strategia e condotto le numerosissime operazioni che di fatto hanno fermato e sconfitto l’avanzata dell”Isis e dello stato del Daesh, altri ancora lo definiscono un brutale e spietato assassino, responsabile di uccisioni di massa con la morte di migliaia di persone e oppressore dei popoli.
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Pensare l’Italia
Giacomo Bottos intervista Lucio Caracciolo
Lucio Caracciolo – direttore di Limes – in questa intervista indaga una pluralità di temi connessi ad alcuni nodi di fondo relativi alla storia, alla posizione geopolitica e all’economia italiane, facendo emergere un tema di grande importanza: l’assenza di fondamenti comuni di una visione relativa al futuro del Paese, che siano condivisi dalle classi dirigenti, è una delle questioni principali che impedisce di impostare una strategia efficace per affrontare alcuni dei più annosi problemi italiani.
* * * *
Limes, nei suoi venticinque anni di vita, si è ciclicamente occupata dell’Italia in molteplici numeri della rivista. Si può dire che la sua stessa nascita nel 1993, in un periodo di forti cambiamenti sul piano internazionale e nazionale, sia legata anche all’idea della necessità per l’Italia di assumere maggior consapevolezza strategica e capacità di definire le proprie priorità in un quadro in cui venivano meno molti dei punti fermi che avevano caratterizzato il contesto precedente?
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Tecnologia e imperialismo
Crisi economica, produzione intellettuale, sfruttamento e conflittualità tra capitali
di Francesco Schettino*
Materialismo Storico. Rivista semestrale di filosofia, storia e scienze umane è una pubblicazione dell'Università di Urbino con il patrocinio della Internationale Gesellschaft Hegel-Marx, n. 1 2019
1. Introduzione
Il dominio della casse borghese sulla classe proletaria (o lavoratrice), quindi subalterna, è l’elemento che innegabilmente qualifica il modo di produzione capitalistico; il rapporto di proprietà instaurato tra le due classi – perno attorno a cui ruota tutto il sistema – si concreta nella produzione di plusvalore, ossia l’appropriazione da parte della classe dominante di una parte dell’attività erogata da quella subalterna, che è l’essenza della riproduzione dell’economia nel suo complesso. Se per il capitale nella sua astratta unicità ciò che interessa è l’incremento della massa di plusvalore e, ancor di più, essa in relazione al valore anticipato dalla totalità dei capitalisti, dal punto di vista del capitale individuale la produzione di plusvalore necessita di “schiudersi”, ossia trasformarsi per divenire utile, realizzandosi quindi in forma monetaria (quella del profitto). L’incremento del plusvalore, ossia dell’appropriazione di lavoro altrui non pagato, è dunque la condizione principale per cui l’accumulazione possa procedere a tassi crescenti ed è per questo motivo l’obiettivo prioritario del sistema nella sua totalità e quindi del singolo agente del capitale.
La contraddittorietà tra unicità del capitale e molteplicità dei suoi agenti si svolge mediata dalla concorrenza e agisce principalmente nel momento della trasformazione del plusvalore in profitto e del saggio di plusvalore in tasso di profitto: infatti, se la massa del profitto coincide con quella del plusvalore, non subendo le fluttuazioni del valore, ciò non avviene per i rispettivi tassi.
In particolare, l’agire della concorrenza, nella fase della circolazione e le differenze nella composizione organica dei diversi capitali, rende impossibile tale convergenza. Di conseguenza, le strategie dei diversi partecipanti al “banchetto” del frutto espropriato dall’attività dell’operaio complessivo necessariamente si contrappongono avendo in comune l’obiettivo dell’incetta del maggior quantitativo di fette possibile.
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Il costo ecologico dell’economia di piattaforma
Ovvero, l’inquinamento connesso alle nuove tecnologie
di Giorgio Pirina
Il periodo storico in cui viviamo è stato definito con due accezioni, fortemente collegate tra loro: società post-industriale e società dell’informazione. Queste definizioni indicano un fenomeno preciso, ovvero il maggior rilievo assunto nei paesi a economia avanzata dal settore terziario (servizi e informazione) rispetto al settore secondario. Parimenti, questa fase è stata accompagnata dalla retorica dell’immaterialità della produzione e del consumo (e dunque dell’impatto ambientale) posizionandosi gioco forza in una prospettiva eurocentrica. Al contrario, se analizziamo il sistema socio-economico come un’unità organica, ci accorgiamo che la supposta dematerializzazione nel Nord globale (contraddetta a sua volta dalla persistenza di forme di lavoro vivo profondamente degradate), si poggia sulla produzione e sul consumo delle risorse umane e ambientali del Sud globale. Il caso dei cosiddetti ‘minerali insanguinati’ è illuminante da questo punto di vista: essi indicano l’insieme di quelle risorse naturali provenienti da zone di guerra o nelle quali si fa ricorso al lavoro forzato. Tra questi i più conosciuti fino agli albori del XXI secolo erano l’oro e i diamanti, le cui filiere sono state regolamentate dal Protocollo di Kimberley. Tuttavia, con le innovazioni tecnologiche nel campo dell’informatica, della cibernetica, dell’elettronica e dell’automobile, altri minerali sono diventati risorse cruciali per le industrie di riferimento; per esempio il coltan (una combinazione di niobio e tantalio), il cobalto e, ancor più recentemente, il litio. Queste risorse sono centrali, in quanto base da cui realizzare le infrastrutture socio-materiali dell’attuale modello di accumulazione del capitale.
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Mostri metabolici: il capitale dei vampiri nell'Antropocene
di Bollettino Culturale
Parafrasando un passaggio di Marx nei Grundrisse, Stavros Tombazos osserva che "ogni economia è alla fine un'economia del tempo". Questo per dire che la produttività del lavoro, l'accumulo di ricchezza e la circolazione di beni e risorse che compongono un'economia nel suo senso più ampio sono tutti componenti di una particolare organizzazione del tempo. I cambiamenti di questa organizzazione economica sono quindi avvertiti non solo nelle trasformazioni che hanno effetto materialmente, ma anche nell'ordine della temporalità e dei ritmi di vita possibili in un particolare sistema economico. Il fatto che il passare del tempo, che è così spesso dato per scontato, è in realtà condizionato dalle condizioni materiali ed economiche in cui viviamo non è più evidente che nel nostro momento attuale di cambiamento climatico e catastrofe ecologica.
Due lunghi secoli di capitalismo industriale ci hanno lasciato con una percezione del tempo che non è più adeguata alle condizioni materiali che stanno ora rimodellando la nostra vita. Gli storici ecologici Christophe Bonneuil e Jean-Baptiste Fressoz caratterizzano questo vecchio ordine del tempo per la sua dipendenza dall'estrazione di combustibili fossili: "Il tempo continuo del capitalismo industriale", scrivono, è stato "proiettato su rappresentazioni culturali del futuro, concepito come un progresso continuo che si dispiega al ritmo degli incrementi di produttività ”. Lo shock del nostro momento presente è che questo aumento costante e lineare della produttività, concepito come il naturale progresso verso un domani più grande di oggi, è stato sempre e solo il prodotto di un afflusso temporaneo di energia da una risorsa in diminuzione.
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NATO, ONU, Fratelli Musulmani uniti contro la Libia
di Fulvio Grimaldi
Erdogan: la Libia val bene un’Idlib siriana, ma noi abbiamo Di Maio l'Africano
Il Talleyrand di Pomigliano e il Sultano neottomano
Venendo alla Libia e al grandissimo casino che abbiamo contribuito a scatenare in quel paese, fino a ieri prospero, unito, giusto e felice, viene in questi giorni infausti anche da pensare a Luigino Di Maio ministro degli Esteri. Tipo Stenterello che si veste da Metternich. Dopo aver già dato prova di scarso senso delle proporzioni assommando in sé, in successione o contemporaneamente, gli incarichi di mezza dozzina di accademici, o tecnici del CNR, o politici a 24 carati, ora si occupa di quel pantagruelico pasto per avvoltoi che è la Libia. Resta il dato che, in ogni caso, Di Maio, pur rinnegando le premesse di politica estera dell’ottimo M5S d’antan, resta un mezzo visir tra i buffoni di corte che lo hanno preceduto su quello scranno.
Ci avessero mandato qualcuno che di mondo ne ha visto, come un Alessandro Di Battista, o di giusto e ingiusto capisse, come un Bonafede, o sapesse scrivere sulla lavagna i buoni e i cattivi, come un Fioramonti, o, ancora meglio, che sapesse di traffici mafiosi come un Morra… Ma spedire da quelle parti, o da qualunque parte, Luigi Di Maio, è come mandare il Pinocchio di legno a spegnere gli incendi della California (e mi viene in mente il burattino perché ho visto la bella trasposizione cinematografica di uno dei massimi capolavori della letteratura mondiale).
Sapete cosa si dovrebbe chiedere a un Di Maio ministro degli esteri, o a un Giuseppe Conte premier? Di fare l’Erdogan. Ve li immaginate? Eppure, ragionando in termini coloniali, a me ostici, ne avremmo avuto le migliori ragioni perché siamo i dirimpettai, le zampe sulla Libia le abbiamo messe noi, prima o meglio dei turchi, con i romani, con Giolitti e, infine, con Berlusconi che la bombardò e aiutò il premio Nobel per la Pace Obama e l’onesto Sarkozy, eletto grazie ai fondi libici, a raderla al suolo. Ora se ne occupano il Talleyrand di Pomigliano e il Coniglio Mannaro pugliese, fan di Padre Pio.
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La solitudine operaia nel corrotto crepuscolo del sindacato dell’auto negli USA
di Felice Mometti
Che cosa si è ottenuto scioperando 40 giorni di fila contro un’azienda multinazionale il cui secondo maggior azionista è il sindacato che ha indetto lo sciopero? La domanda è legittima. Se la sono posta, su Facebook, alcuni operai della General Motors (GM) americana guardando l’accordo contrattuale sottoscritto dal sindacato United Auto Workers (UAW) alla fine di ottobre.
Lo scenario
A metà settembre sono scaduti i contratti aziendali delle Big Three, le tre principali aziende automobilistiche americane: General Motors, Ford e Fiat-Chrysler Automobiles (FCA). La strategia del sindacato unico UAW – negli Usa non sono ammessi più sindacati nella stessa fabbrica ‒ è quella di scegliere di volta in volta l’azienda in cui si firmerà l’accordo pilota da applicare poi nelle altre due. Gli iscritti all’UAW nelle tre fabbriche sono circa 150 mila, praticamente quasi tutti gli addetti negli Stati Uniti, su un totale di 390 mila aderenti al sindacato. Una forza d’urto in teoria considerevole se si guarda solo ai numeri e a un tasso di sindacalizzazione di oltre il 90%. Un conto però sono i numeri e le percentuali, un altro sono la struttura, il funzionamento e la volontà del sindacato di avanzare rivendicazioni e produrre conflitto. Non è mai un rapporto lineare e il caso americano ne è un esempio perché nei fatti, in base ad accordi tra sindacato e Big Three, c’è l’obbligo di iscriversi all’unico sindacato riconosciuto.
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La crisi di sistema italiana, tra Falsari e realtà
di Claudio Conti
L’ultimo weekend dell’anno, tradizionalmente, vede i giornali proporci ponderosi articoli di “bilancio” dei dodici mesi appena trascorsi, con qualche tentativo di azzardare “soluzioni” alla perenne crisi italiana.
Ogni tradizione è tutt’altro che innocente e quindi abbiamo scelto di proporvi due articoli completamente opposti, pur provenendo da due testate che sono parte integrante della “buona borghesia” nazionale. La quale non deve attraversare un periodo facile, se è oscillante tra due visioni – e interessi – così lontane.
La diversità è anche nel tipo di testata, oltre che nell’Autore. La prima è un antico e noto – ma non “prestigioso” – quotidiano italico, che affida “l’articolessa” a un notissimo protagonista della politica nazionale con riconosciute competenze economiche. L’altra è un quotidiano “di nicchia”, specializzato sui temi economici e dunque letto da “addetti ai lavori” (imprenditori e operatori finanziari), che si affida invece a un analista dalla penna feroce, piuttosto incline a guardare le cose in faccia, per come sono. Che è poi quello che chiede il “lettore tipo” di quel giornale (gente che deve investire o gestire cifre importanti e dunque ha bisogno di informazioni vere, non di “narrazioni”).
Date queste premesse, avrete già capito che il primo editoriale è scritto da un Falsario in servizio permanente effettivo, il secondo ci aiuta a districarci nella nebbia. Ma è bene conoscerli entrambi, perché per combattere i luoghi comuni (ideologia pura, ossia “falsa coscienza”) del primo occorre conoscere, se non padroneggiare, le informazioni e la logica del secondo.
Anche il Falsario, comunque, deve partire a un fatto vero per dare l’impressione della serietà al suo argomentare. Sarà l’unica cosa vera del suo articolo e quindi citiamola:
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Note sulla fase politica
Autunno 2019
del Collettivo Tazebao
In un momento in cui la velocità degli avvenimenti molto spesso supera di gran lunga la capacità dei compagni di elaborarne una lettura di classe per poi orientare la propria pratica, il Collettivo Tazebao, attraverso la redazione e diffusione periodica delle Note di fase, punta a socializzare il proprio dibattito e sintesi politica, al fine di contribuire al confronto e alla crescita del movimento comunista e proletario. Auspichiamo che questo sforzo sia utile non solo alle realtà politiche e soggettive a esso interessate, ma anche allo sviluppo e all’arricchimento della nostra stessa discussione e del nostro lavoro politico sul territorio. Per questo invitiamo tutti a farci pervenire osservazioni, critiche, proposte di confronto, collaborazione e quant’altro venga ritenuto giusto o necessario
Sulla situazione internazionale
Il 15 dicembre, sarebbero dovuti scattare nuovi dazi degli Usa nei confronti di 160 miliardi di dollari di prodotti cinesi, ma due giorni prima Trump annunciava un’intesa che li congelava, affermando che le trattative condotte avrebbero portato a “molti cambi strutturali ed acquisti massicci di prodotti agricoli, energetici e manifatturieri”. Si è aperto così un nuovo capitolo nella lotta all’insegna del protezionismo tra Usa e Cina [1], inaugurato da Trump con i dazi annunciati già nella primavera del 2018 su acciaio e alluminio, a cui è arrivata immediatamente la risposta della Cina, con contro dazi su una lista di 128 prodotti made in Usa. Finora, Pechino pare comunque essere stata in vantaggio complessivo nel conflitto commerciale, con perdite leggermente inferiori rispetto a quelle statunitensi, grazie alla svalutazione dello yuan rispetto al dollaro, che consente alle merci cinesi di essere ugualmente competitive sul mercato interno degli Usa nonostante l’incidere dei dazi sui prezzi.
Beninteso, l’annuncio di Trump a metà dicembre è solo una tregua in un conflitto commerciale che è parte della più vasta contraddizione interimperialista tra gli Usa e la Cina, nella quale per gli Stati Uniti non è in ballo semplicemente il proprio pesante deficit commerciale, ma, strategicamente, il primato imperialista mondiale. In particolare, con il progetto della “nuova via della seta”, l’imperialismo cinese punta a creare un’area globale, dai propri confini fino all’Africa, dove esportare capitali e di cui controllare i mercati. Quest’area investe anche l’Europa, dunque direttamente l’area della Nato, rispetto alla quale gli Usa stanno utilizzando pressione economica, politica e culturale per colpire l’avanzamento cinese.
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Possiamo salvare il pianeta prima di cena, ma non lo faremo
di Paolo Costa
L’ultimo libro di Jonathan Safran Foer – Possiamo salvare il mondo prima di cena. Perché il clima siamo noi – poggia su un’intuizione tanto interessante, quanto filosoficamente problematica. In breve, la sua tesi è che noi umani sappiamo di essere sull’orlo di una catastrofe senza precedenti, ma non riusciamo a credere veramente a questa verità semplice.[1] E non ci riusciamo perché si tratta di una verità letteralmente incredibile in quanto crederci fino in fondo metterebbe a soqquadro il nostro modo ordinario di incorniciare l’esperienza. Per citare le sue stesse parole, non lo crediamo perché «credere dovrebbe immancabilmente far sorgere in noi l’urgente imperativo etico che ne consegue, smuovere la nostra coscienza collettiva e renderci pronti a compiere piccoli sacrifici nel presente per evitare sacrifici epocali in futuro».[2] Di fatto, però, siamo abulici e questo dimostra empiricamente che non ci crediamo con tutto noi stessi, che questo sapere, insomma, non lo «sentiamo» nostro.
L’analogia a cui ricorre Foer per chiarire che cosa sia una verità nota ma non credibile (perché inverosimile) è scontata per chi conosce anche solo superficialmente i suoi precedenti scritti. Le prime notizie che giunsero in Europa e poi in America sullo sterminio sistematico degli ebrei nei territori conquistati da Hitler – il genocidio che da qualche anno abbiamo imparato a chiamare rispettosamente «Shoah» – sembrarono a molti troppo assurde per essere vere e i pochi testimoni oculari vennero ritenuti non attendibili. Perché mai qualcuno sano di mente avrebbe dovuto spendere soldi ed energie per fabbricare migliaia di cadaveri di un popolo inerme dopo essersi imbarcato in una guerra rischiosissima contro mezza Europa? Quale odio irrazionale poteva giustificare una strategia così palesemente autolesionista?
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