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Gramsci e i gruppi subalterni
di Lelio Laporta
Nel Quaderno 251 (1934) Gramsci propone alcuni criteri di metodo con cui procedere nell’analisi della storia delle classi subalterne caratterizzata dal formarsi dei gruppi subalterni, dalla loro iniziale difficoltà a liberarsi dalla tutela di altri gruppi preesistenti, dallo sforzo di imporre delle svolte in senso progressivo alle politiche dei gruppi dominanti, dalla creazione di formazioni specifiche dei gruppi subalterni al fine di costruire una posizione autonoma rispetto a quella precedentemente, seppure in parte, condivisa dagli stessi gruppi subalterni con altri gruppi. Quindi, va storicamente analizzata ed individuata, continua Gramsci, la linea di sviluppo storico nel corso della quale si sia manifestato lo spirito di scissione, cioè
«il progressivo acquisto della coscienza della propria personalità storica» (Q3, 49, 333), ossia il processo necessario allo sviluppo delle «forze innovatrici da gruppi subalterni a gruppi dirigenti e dominanti», dotate di «autonomia integrale» e unificate in uno Stato (Q25, 5, 2288)2.
Spetta allo storico il compito di rintracciare anche la minima iniziativa autonoma dei gruppi subalterni per ricomporre il quadro generale di una storia degli stessi gruppi subalterni;
da ciò risulta che una tale storia non può essere trattata che per monografie e che ogni monografia domanda un cumulo molto grande di materiali spesso difficili da raccogliere (Q25, 2, 2284).
Labriola e fra Dolcino
L’applicazione della premessa metodologica che Gramsci indica nel Q25 è individuabile nei corsi universitari che Antonio Labriola tenne, tra il 1896-97 e il 1899-1900, su Fra Dolcino3. Negli appunti preparatori dei corsi Labriola, infatti, procede a partire dalla fissazione di necessari punti di riferimento storici senza i quali non sarebbe comprensibile la vicenda di Fra Dolcino:
Il punto capitale è la formazione dei comuni, ossia la loro autonomia, e poi l’inizio delle libertà civiliossia la preformazione della borghesia e la liberazione della campagna dalla servitù personale dalla gleba e dal fitto perpetuo; l’assimilazione giuridica della terra al libero contrattante e quindi il fitto a tempo (di cui la mezzadria non è che una sottospecie), il predominio della città su la campagna, e l’impossibilità che si formasse un ceto di contadini piccoli proprietarii. Questo fatto primordiale ha deciso di tutta la sorte ulteriore della fisionomia sociale dell’Italia dove una classe di contadini (Germania, Norvegia) non c’è mai stata e viceversa non c’è stata che in modo minimo quella lotta che ha dato luogo alla guerra dei contadini4.
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La lotta di classe dall’alto e dal basso
Liberalismo, populismo e fascistizzazione
di Eros Barone
Non dimenticarlo mai: ora non è il momento adatto per vincere, ma per combattere le sconfitte.
Bertold Brecht
1. Il mondo va a destra: perché?
È in atto uno spostamento a destra che ha dimensioni mondiali. A partire da diversi paesi dell’America Latina, dove in precedenza governava la sinistra riformista e sono ora subentrati governi di destra, il cui esemplare più importante e più famoso è quello del Brasile di Jair Bolsonaro, apologeta del nefasto regime militare e della sua sanguinosa repressione, passando attraverso la rielezione di Modi in India, di Netanyahu in Israele e di Erdoğan in Turchia, per giungere all’Australia, dove è stato riconfermato il governo conservatore, e all’Unione Europea, dove le scorse elezioni hanno segnato un deciso spostamento a destra, tornano a soffiare i venti procellosi che hanno portato all’ascesa di Trump negli Stati Uniti e ora a quella di Johnson nel Regno Unito.
Quando avviene, su scala globale, uno spostamento così massiccio e così generalizzato, sorge spontanea la domanda: perché? Del tutto fuorviante è la risposta fornita a questo proposito dagli analisti liberali borghesi, intenti meccanicamente e schematicamente a classificare le forze sociali e politiche in base ai seguenti dilemmi: contro la UE o a favore della UE, contro l’immigrazione o a favore dell’immigrazione. Questo approccio, che isola singole contraddizioni da un contesto più ampio, scambia la sostanza con la superficie, la realtà con l’apparenza, il generale con il particolare. L’analisi marxista, che tende invece a ricongiungere la superficie alla sostanza, l’apparenza alla realtà e il particolare al generale, indica con chiarezza che quelle contraddizioni sono altrettante conseguenze della crisi economica che attanaglia l’economia mondiale dal 2008. Il ciclo declinante del saggio di profitto e il ciclo ascendente della reazione, il ciclo della concentrazione monopolistica del capitale e il ciclo della proletarizzazione della piccola borghesia trovano così una corrispondenza perfetta, confermando la tesi dei sostenitori della “stagnazione secolare” e ridicolizzando quei sicofanti della borghesia imperialista che, ipnotizzati dall’andamento a ‘yo-yo’ dell’economia mondiale, esultano quando tale andamento sembra impennarsi verso l’alto e cadono nello sconforto quando il rocchetto della valorizzazione discende sempre più in basso. Né il quadro viene modificato dalla discesa degli indici della disoccupazione, poiché, anche sorvolando sulla composizione in gran parte precaria degli occupati, il confronto tra periodi differenti, essendo la percentuale degli occupati diminuita, conferma un tasso di disoccupazione ben più alto di quello che registrano le statistiche ufficiali.
Lo spostamento a destra è dunque, a livello delle sovrastrutture e, in particolare, a livello delle sovrastrutture politico-istituzionali, la risultante del quadro di crisi e disoccupazione, che caratterizza attualmente la “struttura del mondo”.
2. La situazione politica europea
In sostanza è accaduto che, in una situazione ove i partiti liberali borghesi negano l’esistenza della crisi e la sinistra più o meno ‘radicale’ è incapace di formulare un programma alternativo, l’iniziativa è passata alla destra e al suo programma anti-immigrazione. La crescita della destra a livello mondiale si può quindi ascrivere alla combinazione tra il realismo con cui essa ha riconosciuto l’esistenza della crisi e della disoccupazione, e l’uso demagogico e divisivo che ne ha fatto attribuendone la responsabilità non alle classi dominanti che detengono le chiavi del sistema socio-economico interno e internazionale, ma agli immigrati e ai loro paesi di provenienza.
Stando ai risultati delle elezioni europee (e tenendo, peraltro, conto dei limiti derivanti da un’analisi, per così dire, sintomatologica, dipendente perciò dal carattere fluido, volatile ed emotivo che è proprio della pratica elettorale, di stampo essenzialmente mediatico, che caratterizza le attuali ‘post-democrazie’), il voto risulta essersi polarizzato tra le forze europeiste, che hanno manifestato una complessiva tenuta, e le forze populiste che hanno registrato notevoli successi in alcuni paesi (segnatamente, in Italia, in Francia e in Ungheria). Il fronte europeista, dal canto suo, si è diversificato in senso nettamente reazionario, isolando i socialdemocratici e aggregandosi attorno ai Verdi e ai liberali, che oggi rappresentano la prima linea del fronte cosmopolita e antinazionalista.
Secca e inappellabile è stata, poi, la sconfitta del Partito della Sinistra europea (una vera catastrofe storico-morale) che, perdendo numerosi seggi, vede ulteriormente ridursi la sua presenza già residuale a favore dei liberali e dei Verdi, senza riuscire nemmeno ad avvantaggiarsi della flessione dei socialdemocratici. Calano quindi la Linke tedesca, France Insoumise di Mélenchon e Unidos Podemos di Iglesias. Ma calano marcatamente anche quei partiti comunisti, come il KSCM nella Repubblica Ceca e il PCP nel Portogallo, che appoggiano i rispettivi governi socialdemocratici: aspetto, questo, che dimostra in modo inequivocabile come il sostegno ai governi di centrosinistra venga pagato a caro prezzo dai comunisti.
Il calo dei socialdemocratici è in parte compensato dai Verdi che, riemergendo dalle nebbie in cui vengono relegati quando non servono alla borghesia come arma di distrazione di massa e avvalendosi del pompaggio mediatico teso a presentare come nuovo un movimento piuttosto stagionato (i Verdi esistono perlomeno da quarant’anni), hanno ottenuto, grazie anche al sostegno di un blocco economico-finanziario di stampo eco-capitalistico, un vasto consenso tra le nuove generazioni.
Infine, va rilevato l’aumento dell’affluenza al voto, elemento, questo, che dimostra l’incidenza esercitata anche a livello elettorale dalla mobilitazione reazionaria delle masse, che è in corso su scala europea.
3. La situazione politica italiana
Il voto italiano è stato, ancor più che negli altri paesi europei, un plebiscito a favore della destra più reazionaria: dal 1945, quando ebbe fine la seconda guerra mondiale, uno spostamento a destra così marcato non si era mai avuto nel nostro paese.
È stato detto giustamente che l’ascesa della Lega non ha eguali in Europa sia per la sua progressione straordinaria (dal 17% al 34% in un anno di governo), sia per la sua estensione su scala nazionale, sia per il suo radicamento nell’Italia profonda della provincia, delle cittadine, dei piccoli paesi, delle campagne. In questo senso, una volta prosciugata Forza Italia, ‘partito-azienda’ decotto come il suo fondatore, assorbito buona parte del voto in uscita dal M5S e quasi tutto il bacino elettorale delle formazioni fasciste di Casa Pound e di Forza Nuova, eccezion fatta per quello di Fratelli d’Italia, che è peraltro complementare al bacino della Lega, quest’ultima è oggi per davvero, dal punto di vista elettorale e sul piano dell’immagine, “il partito della nazione”.
Ciò nondimeno, che la Lega sia nella realtà concreta, in primo luogo, uno strumento al servizio della superpotenza imperialista USA e, in secondo luogo, un satellite dell’imperialismo russo è un dato la cui evidenza è altrettanto palmare. In effetti, Trump e Putin, mentre confliggono in diverse aree del mondo, hanno un obiettivo comune: indebolire e disgregare l’Unione Europea imperialista. E in funzione di questo obiettivo sostengono e finanziano i partiti sciovinisti, populisti e di estrema destra che, alimentando l’odio fra i popoli e tagliando l’erba sotto i piedi ai tradizionali partiti socialdemocratici e liberali, contribuiscono ad inceppare il progetto di integrazione economica e politica europea diretto dall’imperialismo franco-tedesco, ma insidiato dal tarlo roditore della legge dello sviluppo ineguale.
Sul piano nazionale, la vicenda del Metropol, ponendo in luce i rapporti fra gruppi monopolisti, come l’ENI, e la Lega, ha confermato che oggi quest’ultima è assurta a partito-guida della grande borghesia sul terreno delle politiche neoliberiste e repressive. Pertanto, la Lega ha, sì, la sua base di massa nei piccoli e medi imprenditori del nord, in settori del ceto medio e anche in strati arretrati e disorientati del proletariato; ma a livello politico, nonostante la demagogia sociale, lavora per assicurare gli interessi della grande borghesia monopolista. Da questo punto di vista, esiste un parallelismo perfetto con il fascismo storico, poiché il rapporto fra la Lega e le componenti più reazionarie del grande capitale, degli industriali e degli agrari è (non congiunturale e tattico ma) strutturale e strategico.
I Cinque Stelle, fortemente ridimensionati nei rapporti di forza con il loro alleato-concorrente di governo e incalzati dal recupero del Partito Democratico, la cui strategia è evidentemente quella di accreditarsi come unica alternativa possibile a Salvini nel quadro di un rinnovato centrosinistra, seguono una linea ondivaga e velleitaria che nasce dalla fragilità della cultura politica di riferimento, dal carattere ‘liquido’ del movimento e dalla mancanza di una solida base sociale.
In sostanza, di loro, così come, in un altro senso, del Partito Democratico, si può dire che, a pari titolo anche se in campi diversi, lavorano per il re di Prussia, che è quanto dire per il leghismo e per la fascistizzazione. Non per nulla la mobilitazione reazionaria delle masse, che rappresenta il vettore più potente della fascistizzazione, è ‘a parte objecti’ il frutto velenoso della strategia del centrosinistra e del Partito Democratico, che ha contribuito a dividere le masse e ad isolare la classe operaia, mentre ‘a parte subjecti’ è la conseguenza tanto della politica perseguita dal gruppo dirigente renziano a favore di alcuni settori del capitalismo italiano ed europeo (quelli maggiormente legati al mercato tedesco) quanto della funzione svolta dal Movimento Cinque Stelle nel favorire, alleandosi ad un partito neofascista e impantanandosi nella melma di una politica del ‘giorno per giorno’ sganciata da un progetto adeguato alla fase, un consistente deflusso dei suoi voti verso l’alleato-concorrente: due apprendisti-stregoni che stanno già facendo, e ancor più faranno, i conti con le operazioni politicamente controproducenti e socialmente dannose che hanno posto in essere.
Dal canto suo, la Lega ha riscosso un crescente consenso negli strati popolari con una propaganda anti-sistema, pur rappresentando specifici settori capitalistici. Ha utilizzato il tema dell’immigrazione come strumento di costruzione di un legame etnocentrico, alimentando il nazionalismo con una strategia perfettamente riconducibile agli interessi di quei settori delle imprese italiane maggiormente penalizzati dal mercato unico europeo. Infine, ha monopolizzato il tema della sicurezza non solo per introdurre una ulteriore stretta repressiva sulle lotte sociali e gli scioperi, ma soprattutto per sacralizzare, sul piano pratico e ideologico, la proprietà privata (e questa è la ragione principale per cui, orbitando anch’essi all’interno di questa decisiva sfera ideologica e dei relativi interessi pratici, i partiti ‘di sinistra’ sono stati, sono e saranno del tutto incapaci di rappresentare un’alternativa alla Lega).
Per quanto riguarda taluni settori, anche rilevanti, del capitalismo italiano (energia, metallurgia, meccanica, grande distribuzione ecc.), questi settori hanno scelto di appoggiare la Lega in quanto hanno bisogno della sua politica ultrareazionaria e di scissione sistematica del proletariato per cercare di frenare l’inesorabile declino dell’imperialismo italiano e conservare i rapporti sociali esistenti, per intensificare lo sfruttamento e ridurre ulteriormente salari, diritti e spese sociali, per sopprimere le libertà democratiche degli operai, intimidire e attaccare le organizzazioni di classe e le forme di lotta più decise, impedendo, in coerenza con l’imperativo della controrivoluzione preventiva, che la ribellione proletaria e popolare si diriga contro le basi del sistema di sfruttamento.
Le menzogne spacciate da Salvini e il rifiuto opposto alla richiesta di riferire personalmente in Parlamento sul caso Lega-Russia non esprimono solo il timore per le conseguenze politiche di uno scandalo che dimostra la profonda corruzione del partito che dirige (condannato, fra gli altri reati, a rifondere 49 milioni di euro allo Stato per appropriazione indebita), ma mettono anche in luce il totale disprezzo del ministro di polizia e del suo partito nei riguardi della democrazia parlamentare borghese. La vicenda costituisce un altro tassello del processo di fascistizzazione dello Stato, che procede attraverso una lotta acuta con i vecchi partiti borghesi e nello stesso campo populista, all’interno del quale il M5S è in posizione totalmente subalterna.
Il Partito Democratico viene visto, soprattutto da quando è stato rivestito, per opera della segreteria Zingaretti, in contrapposizione a Salvini, dei panni e degli orpelli della cosiddetta ‘sinistra progressista’, come una forza alternativa alla destra, ma esso è in realtà, per la sua linea e per la sua base sociale (e in parte anche per quella di massa, se si considera l’organico insediamento dell’aristocrazia operaia al suo interno), uno schietto partito liberale borghese, del tutto interno alle compatibilità economiche e alle alleanze internazionali di una media potenza imperialista quale è l’Italia. Il falso ‘maquillage’ realizzato con la segreteria Zingaretti ha cambiato, frenando in qualche misura con la truffa/ricatto del ‘voto utile’ l’emorragia di consensi elettorali, il volto e la veste esteriore, ma non la sostanza intrinseca e la funzione di classe del Partito Democratico, che sono immodificabili. Il ‘partito operaio borghese’ di engelsiana memoria continuerà pertanto la sua opera deleteria di mistificazione e di inganno, fino a quando non sarà smascherato da una crisi di portata rivoluzionaria e le masse sfruttate non ne riconosceranno la reale natura di complice e gestore dello sfruttamento capitalistico.
Poche parole bastano a liquidare i cascami della Sinistra (suo malgrado) extraparlamentare. La liquidazione della centralità dell’autonomia di classe, consumata proprio negli anni della grande crisi capitalista; la sua sostituzione con la nozione democratico-borghese di cittadinanza progressista, riverniciata con qualche sbiadita coloritura sociale; l’appoggio e la partecipazione al II governo Prodi; le sperimentazioni ‘in vitro’ di schieramenti elettorali artificiosi e sempre più rachitici (Arcobaleno, Rivoluzione civile, Lista Tsipras ecc.) hanno costituito i ‘leitmotiv’ della catabasi e della eutanasia di questo movimento spettrale. Un ennesimo fallimento delle liste comuni di carattere elettoralistico ha infine ridotto questo piccolo movimento di ceti piccolo-borghesi ad un’esistenza querula, umbratile e servile, tenuta in non cale dalla borghesia monopolista cui non serve più come agente di corruzione ideologica della classe operaia, ignorata dalle masse proletarie con cui esso non intrattiene, né cerca di stabilire, alcun rapporto, e disprezzata dalle minoranze comuniste che ancora esistono nel nostro paese e che, lentamente ma progressivamente, si stanno riorganizzando.
4. Il processo di fascistizzazione avanza
Che il processo di fascistizzazione avanzi è ormai un dato di fatto del quale va preso atto. Quando si affronta questo tema, si deve, tuttavia, prestare attenzione a non incorrere in due distinti errori. Il primo errore è quello di limitare tale considerazione agli aspetti fenomenologici: una tendenza, questa, non a caso e significativamente incoraggiata dal Partito Democratico, intento ormai da tempo in un'opera di sfruttamento dell'immaginario antifascista tanto vacua quanto ipocrita, tutta fondata sulla rimozione, precedentemente portata avanti con successo dallo stesso centrosinistra per oltre vent'anni, della consapevolezza delle radici di classe del fascismo e dell'antifascismo e quindi del contenuto di trasformazione radicale dell'ordinamento sociale che quest'ultimo, se sincero e conseguente, assume in tutto il mondo ma, in particolare, in Italia. Il secondo errore è invece quello di ricercare negli avvenimenti attuali i tratti salienti del processo che condusse storicamente all’avvento del fascismo, sempre limitandosi ad accostamenti tra le caratteristiche esteriori dei due fenomeni che, evidentemente, sono solo in parte coincidenti.
La verità è che il processo di fascistizzazione si fa di giorno in giorno più evidente, più opprimente e più capillare, e chiunque abbia una certa sensibilità ne avverte già da molto tempo la stretta. In questo senso, il governo Salvini-Di Maio è solo il punto di avvio di un ulteriore salto qualitativo. Se confrontiamo infatti la situazione della prima metà del XX secolo con la situazione attuale, risulta palese il tratto comune costituito dalla crisi strutturale del capitalismo. Il secondo elemento, però, e cioè un’alternativa rivoluzionaria in atto, è sostanzialmente assente. Inoltre, la crisi del capitalismo si produce oggi nel contesto generato da un altro evento epocale, di segno opposto a quello rappresentato dalla rivoluzione d’Ottobre: l’abbattimento del vallo antifascista di Berlino e la fine del campo socialista, cioè la vittoria della controrivoluzione.
Orbene, questa particolare situazione, in cui il vecchio sta morendo ma il nuovo non è nemmeno in gestazione per assenza di antagonismo politico organizzato e diretto da finalità rivoluzionarie, dà luogo al fenomeno della “putrefazione dei processi storici”, di cui la fascistizzazione delle relazioni sociali è il frutto. La ricognizione finora svolta ha quindi permesso di porre in luce due elementi, la crisi strutturale del capitalismo e l’assenza di antagonismo organizzato, l’uno dei quali è convergente e l’altro è radicalmente divergente rispetto alla congiuntura storica che produsse storicamente il fascismo. Da ciò si ricava una prima conclusione: l’unica minaccia immediata che incombe sul capitalismo contemporaneo sono i suoi stessi limiti strutturali e le conseguenze che il loro manifestarsi comporta. Un fenomeno di acuta reazione, nella metropoli imperialista del nostro tempo, necessariamente erediterà la lezione del fascismo storico, ma non la riprodurrà, quanto meno nei suoi aspetti apertamente dittatoriali, se non in presenza di una soggettività politica capace di minacciare il dominio della borghesia monopolista.
D’altra parte, casi quali quello dell'Ungheria di Orbán, della Polonia, dei paesi baltici e dell’Ucraina dimostrano come il tipo di potere autoritario che serve oggi al capitalismo non abbia bisogno di mettere in discussione apertamente le caratteristiche esteriori della democrazia liberale, ad esempio il multipartitismo. È opportuno, inoltre, sottolineare che il fenomeno della fascistizzazione non si realizzerà, nella metropoli imperialista contemporanea, se non entro i confini dettati dalle compatibilità tra i regimi politici nazionali e il controllo economico e burocratico da parte delle istituzioni sovrannazionali e, in buona sostanza, dei vertici della piramide imperialista. Permanendo l’assenza di antagonismo politico e sociale soggettivamente organizzato, la borghesia è dunque libera di perseguire i propri interessi di classe dominante e di fornire alla crisi economica la propria risposta, che nella presente fase storica si identifica con la svalorizzazione delle forze produttive e l’accelerazione dei processi di concentrazione e/o centralizzazione del capitale.
Sennonché una conoscenza più adeguata del fenomeno della fascistizzazione della società italiana richiede che esso venga situato all’interno di quello spazio più ampio e di quel tempo più lungo che, all’inizio di questo articolo, è stato individuato come ‘ciclo politico reazionario’. La Brexit, l’elezione di Trump, la questione migratoria, prima ancora le guerre imperialiste contro i regimi progressisti della Libia e della Siria e le ‘dittature commissarie’ imposte all’Italia e alla Grecia sono stati gli eventi che hanno gettato la luce su una tendenza più articolata che include, tra i casi più rilevanti, la crescita delle forze neofasciste in tutta Europa, la restaurazione autoritaria in molti paesi sudamericani, lo spostamento a destra dell’India e dei paesi dell’Europa dell’Est. Un siffatto ciclo politico è, al contempo, l’effetto della “crisi organica di egemonia” delle classi dominanti e della stessa ideologia liberale. Esso si è configurato via via come reazione generalizzata all’erompere dei movimenti di massa contro le politiche di austerità negli anni centrali della crisi economica. A partire da questi eventi, il nazionalismo, declinato sempre più in chiave gingoista, si è presentato, da un lato, come una scelta, entro certi limiti, vantaggiosa per le classi dirigenti e, dall’altro, come uno strumento di rivendicazione immediata nella sempre più ristretta panoplia delle classi subalterne.
Da questo punto di vista, è opportuno ed illuminante aggiungere che la fascistizzazione si configura anche come il contraccolpo generato da un altro processo: la ‘democratizzazione’ della proprietà privata. Non per nulla, dalla Thatcher in poi, in Europa la diffusione del neoliberismo è stata declinata come un grande progetto volto ad estendere a tutte le classi sociali l’accesso alla proprietà privata e a tutti gli àmbiti della vita la logica patrimoniale: la ‘democratizzazione’ della proprietà privata è stata quindi, nel contempo, un mezzo potente per imborghesire il corpo sociale e una strategia con cui i neoliberisti hanno compensato la progressiva distruzione di un’altra forma di proprietà – quella sociale – incarnata, in qualche misura, dai moderni sistemi di ‘welfare’.
Questa particolare angolazione analitica permette di radiografare meglio quel vasto settore della composizione sociale della fascistizzazione, il cui protagonista non è affatto l’‘escluso’ o il ‘penultimo’, bensì una sorta di ‘sotto-borghesia’ costituita da quei ceti che si sono arricchiti negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso grazie al cosiddetto “capitalismo molecolare” e sono poi rimasti esclusi dalla nuova accumulazione di ricchezza seguita alla crisi del 2007. In Italia, per citare un caso paradigmatico, le modificazioni che hanno contrassegnato la funzione e il ruolo della Lega sono state rispecchiate dai mutamenti intervenuti nel suo discorso politico e sociale con una tale fedeltà e simultaneità che si possono, da questo punto di vista, considerare esemplari.
Così, sotto questo profilo, diventa intelligibile il crescente consenso che l’ideologia reazionaria è andata riscuotendo presso i gruppi sociali più poveri, esclusi dalla politica di diffusione della proprietà: consenso che ha dato luogo, per dirla con Gramsci, alla formazione di un “blocco storico” specifico. Il fenomeno testé evocato – rappresentato dalla ‘sotto-borghesia’ e dal lato reazionario della proletarizzazione dei ceti medi – dimostra quindi che è sbagliato, in primo luogo, sottovalutare l’intensità raggiunta dalla crisi di egemonia delle classi dominanti e dalla crescita correlativa del loro “sovversivismo” (cfr. sempre Gramsci), e, in secondo luogo, disconoscere la radicalità delle strategie che le classi dominanti sono disposte ad adottare per tentare di porvi un qualche argine.
Nondimeno, occorre precisare, sempre sotto questo profilo, che la questione qui evocata riguarda solo lateralmente un fenomeno politico come Salvini, poiché il problema principale è quello concernente la dislocazione dei soggetti di tradizione liberale e socialdemocratica. A tale proposito, va detto senza ambagi che una parte significativa dei gruppi dirigenti e dei maggiori gruppi editoriali del nostro paese non rifugge affatto dall’idea di fare ricorso a misure più o meno controllate di ‘guerra civile’ pur di superare la ‘crisi di legittimità’ a cui è esposta. Questa disponibilità non nasce semplicemente dall’esigenza di sintonizzarsi con quello che è considerato come un “senso comune popolare”, né da un mero calcolo di natura elettoralistica. Quello che si delinea è infatti un progetto complessivo di ristrutturazione dei rapporti sociali in senso sempre più autoritario e sempre più repressivo.
5. Quale strategia per il proletariato?
L’assunto da cui occorre prendere le mosse per rispondere correttamente alla domanda che dà il titolo a questo paragrafo è che le classi lavoratrici sono l’unico strato sociale che abbia un interesse diretto alla salvaguardia della capacità del paese di produrre ricchezza. Questa realtà, chiaramente confermata dall’esperienza italiana della lotta di liberazione contro il nazifascismo e, segnatamente, dalla difesa armata delle fabbriche ad opera degli operai contro l’invasore tedesco, deve essere ovviamente occultata e rimossa per consentire al processo di concentrazione del capitale di tramutarsi in guerra economica perdurante per la svalorizzazione delle forze produttive nei paesi subalterni.
Al contrario, l’immaginazione politica dovrebbe ripartire proprio da qui per tendere a rompere la paranoia proprietaria: dalla memoria storica e dall’attualità socio-politica delle forme di appropriazione collettiva dei beni.
Del resto, se il fascismo è il rovescio della soppressione sistematica delle alternative di vita, non ci sono fronti popolari, democratici o costituzionali che reggano, né l’antifascismo militante può da solo invertire la rotta: vi è, invece, il bisogno di politicizzare la vita e di rilanciare l’idea del socialismo se si intende lottare per davvero contro la Santa Alleanza del potere e del denaro.
Insomma, si tratta di capire che tra la democrazia liberale e il fascismo si interpone un lungo e articolato processo – la ‘post-democrazia’ - attraverso il quale l’estrema destra e le sue idee si socializzano gradualmente e diventano non solo ‘quasi-normali’, ma anche ‘quasi-normative’. Il fascismo può quindi apparire come un’opzione accettabile con cui talune frazioni dell’apparato statale stabiliscono apertamente i loro collegamenti. Non mancano, da questo punto di vista, le prove che talune idee fasciste stanno già circolando da tempo in strutture come la polizia o l’esercito. E se non è difficile immaginare che tali strutture possano fungere da supporto per passare all’offensiva quando la situazione sarà ritenuta matura dalle classi dominanti, non bisogna mai dimenticare che la transizione al fascismo è il risultato di un lungo processo. Siccome questo processo è in corso da diversi anni, ecco perché si deve parlare della fascistizzazione prima di parlare del fascismo. Naturalmente, tale processo, che non è ineluttabile e può essere contrastato e invertito, inizia ben prima del fascismo. Va da sé che quest’ultimo può pienamente affermarsi solo quando viene meno la mobilitazione rivoluzionaria delle masse nella lotta contro la fascistizzazione e nella lotta per il socialismo. Da qui scaturisce l’importanza di non minimizzare questo processo, dando per scontato che si tratti di una breve fase transitoria.
In realtà, i partiti politici tradizionali di orientamento liberale o socialdemocratico sono impotenti di fronte all’ascesa del fascismo e non riescono in alcun modo a fermare questo processo, di cui essi, tra le altre cose, sono la causa più o meno involontaria. Solo le classi lavoratrici sono in grado di contrastare e invertire il processo di fascistizzazione. Non si tratta, come dovrebbe esser chiaro, di deificare la classe operaia, ma di prendere atto, sul piano storico, che laddove il fascismo è stato sconfitto, la classe operaia era più attiva, più unita e più organizzata.
Oggi, a differenza del passato, esistono le condizioni per ridare alla classe quel partito, quella teoria e quell’ideologia senza i quali il proletariato ha le armi spuntate. Oggi, a differenza del passato, esistono almeno le condizioni ‘negative’ per non ricercare quelle scorciatoie opportuniste che hanno determinato la dissoluzione del movimento comunista in Italia.
Un partito comunista degno di questo nome deve dunque adoperarsi per la più vasta unità dei comunisti, ma sulla base di una linea rivoluzionaria e ideologicamente coerente. Un partito comunista degno di questo nome deve adoperarsi per lo sviluppo di iniziative politiche di approfondimento, dibattito e studio sulle principali questioni strategiche che sono oggi in discussione, senza disgiungere queste iniziative dalla partecipazione alle lotte reali che si svolgono nel paese. È perciò una necessità vitale, per un partito di questo tipo, la realizzazione della massima unità, sul terreno delle lotte sociali, con le forze sindacali di classe, con le organizzazioni del movimento studentesco e con i comitati di lotta, per costruire un’opposizione sociale alle politiche antipopolari del governo, per contrastare e invertire il processo di fascistizzazione, per rendere nuovamente concreta la prospettiva del socialismo.
Nello stesso tempo, con altrettanta determinazione e chiarezza un partito comunista degno di questo nome deve respingere ogni appello all’unità con il centrosinistra. La storia degli ultimi anni ha dimostrato infatti che non esistono margini per qualsiasi riforma in favore dei lavoratori e delle classi popolari, che il potere è saldamente nelle mani dei grandi gruppi finanziari e che la collaborazione di governo con forze di centrosinistra conduce solamente al tradimento dei lavoratori. L’unità con il centrosinistra non è utile a fermare la destra, e anzi la rafforza e la radicalizza, aumentandone il consenso nei settori popolari.
Occorre quindi continuare la lotta politica e ideologica per far comprendere ai lavoratori e alle classi popolari che il Partito Democratico non è un partito in favore dei lavoratori; che non è migliorabile dall’interno; che non siamo tutti dalla stessa parte e che sulle questioni decisive il PD è il partito più rappresentativo degli interessi del grande capitale. In questo senso, occorre lavorare per contrastare il tentativo del PD di accreditare una “svolta a sinistra” che non esiste e che è solamente un espediente elettoralistico per riconquistare consensi. Allo stesso tempo, occorre spiegare che l’unità con la sinistra che cambia nome e sigla ad ogni elezione, che è pronta e prona ad accordi con il PD, porta all’immobilismo e all’estinzione; che è impossibile l’unità con chi nei fatti difende l’Unione Europea e la Nato, con chi non iscrive la propria azione nella prospettiva strategica dell’abbattimento del sistema capitalistico di produzione e di scambio.
Infine, un partito comunista degno di questo nome non può che essere internazionalista, il che significa innanzitutto contribuire alla ricostruzione internazionale del movimento comunista, già da tempo positivamente avviata.
Concludendo, la congiuntura storica in cui ci troviamo conferma che, al di là del successo a breve termine che la destra può ottenere nel mobilitare le masse intorno a un programma falso e divisivo, essa è sostanzialmente incapace di riscattarle dall’attuale condizione di disoccupazione, precarietà, incertezza del futuro e disperazione. La storia insegna infatti che, sebbene vi siano momenti nella vita di una nazione in cui il sistema esistente appare stabile e destinato a sopravvivere a lungo, tutto ciò può cambiare rapidamente, lasciando il posto a momenti in cui il sistema semplicemente non può più continuare come prima. Per il capitalismo questo momento, se non è ancora giunto, sembra però avvicinarsi giorno dopo giorno. Per quanti successi possa ottenere qui o altrove, la destra non può modificare questo dato di fatto, la fascistizzazione non passerà e l’idea del socialismo è destinata a ritrovare, arricchita dalle meditate lezioni del passato e dalla meravigliosa freschezza con cui la parte migliore della gioventù la sta riscoprendo, tutta la sua credibilità e tutta la sua forza di avvenire.
Indicazioni sitografiche sulle fonti consultate nel corso della stesura del presente articolo
https://proletaricomunisti.blogspot.com/2019/06/pc-6-giugno-la-rielezione-di-modi.html
https://ilpartitocomunista.it/2019/05/28/per-una-prima-analisi-del-voto-e-prospettiva-del-partito-comunista/
https://www.pclavoratori.it/files/index.php?obj=NEWS&oid=6189
http://piattaformacomunista.com/
https://www.lacittafutura.it/editoriali/cosa-intendiamo-quando-parliamo-di-fascistizzazione-della-societa
http://www.operaicontro.it/?p=9755752515
http://www.euronomade.info/?p=10283
https://sinistrainrete.info/politica/15352-eros-barone-immigrazione-gingoismo-ed-esercito-industriale-di-riserva.html
https://sinistrainrete.info/politica-italiana/14145-eros-barone-vicoli-ciechi-e-cambiamenti-storici.html
https://sinistrainrete.info/politica-italiana/13625-eros-barone-il-governo-piccolo-borghese-e-antioperaio-degli-amici-del-popolo.html
https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/12340-eros-barone-crisi-organica-venditori-napoletani-e-mezze-classi.html
https://sinistrainrete.info/storia/10230-eros-barone-cosa-ci-insegnano-le-tesi-di-lione.html
http://www.lariscossa.com/2017/05/09/linsegnamento-gramsci-costruzione-del-partito-comunista/
https://sinistrainrete.info/societa/14356-eros-barone-l-ideologia-della-casa-in-proprieta-e-le-catene-dorate-del-capitale.html
https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/13792-eros-barone-cavalieri-demagoghi-e-popolo.html
Indicazioni bibliografiche
Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, ed. a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, vol. I, pp. 326-327; vol. II, p. 869; vol. III, pp. 1602-1604
Reinhard Kühnl, Due forme di dominio borghese: liberalismo e fascismo, Prefazione di E. Collotti, Feltrinelli, Milano 1973
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Dove va la transizione italiana?
di Pierluigi Fagan
Si scriveva qui all’indomani del voto alle elezioni politiche del 2018, che l’Italia sembrava essersi messa in moto verso dove non si sapeva. A volte il muoversi ha chiaro solo il da dove scappare, non necessariamente il dove andare. Tale transizione giunge oggi ad un nuovo passaggio, da cui la breve analisi e commento.
In Italia, come del resto in Francia, Germania, Spagna ed altrove c’è una storica maggioranza di centro-destra vs un minoranza di centro-sinistra. Da quando seguo cose politiche, ovvero da non pochi decenni (parecchi decenni, più di tre) tale differenza si conferma più o meno puntualmente ad ogni elezione. Può essere più o meno pronunciata a seconda di quanta gente dei rispettivi schieramenti va a votare e -in alcuni rari casi come quello di Prodi- quando il centro-sinistra trova l’intenzione di aggregarsi nonostante le forti differenze interne, differenze più marcate e dirimenti di quelle del contro-destra, invertire gli storici rapporti di forza. Data la maggiore eterogeneità però, il centro-sinistra che pure arriva a sintesi nel cartello elettorale, naufraga poco dopo su qualche votazione marginale poiché i compromessi corrodono l’identità, là dove soprattutto per le forze più a sinistra del cs, l’identità è tutto. Essendo le più deboli, sono poi quelle a cui si chiedono i maggiori sacrifici identitari. Su questa sociologia delle intenzioni politiche che non muta quasi mai o molto lentamente, si verificano elezioni ora con questi simboli ora con altri, ora con questi leader ora con altri.
L’unica cosa che potrebbe auspicare un analista non troppo coinvolto nel giudizio di valore ovvero non troppo coinvolto nel fluttuare di maschere e discorsi che lasciano il tempo che trovano e verniciano di nuovo vecchie tenzoni, è solo di continuare a transitare, creare e distruggere forze politiche, creare e distruggere forme di governo, andare a votare il più spesso possibile, sperabilmente col sistema proporzionale. L’unica cosa che è interesse di tutti avvenga, è che la transizione vada avanti. E’ per non averla fatta, per averla congelata all’indomani dei primi anni ’90, che abbiamo accumulato una trentina di anni di ritardo rispetto a ciò che andava fatto. E’ un po’ come nelle forti sbronze, si combatte contro il combinato disposto di mal di stomaco e mal di testa ma alla fine, l’unica soluzione, sono le due dita in gola.
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Finale di partita, ma nessuno è sicuro di vincere
di Dante Barontini
E’ finita una stagione politica. Breve, quasi sempre fuori da ogni logica costituzionale, greve, senza un disegno unitario che potesse cogliere e provare a sciogliere i nodi che inchiodano questo paese sulla via del declino e le fasce deboli della popolazione su quella dell’impoverimento continuo.
La prossima può essere peggiore, qualsiasi sia una delle soluzioni ad oggi possibili.
Matteo Salvini e la Lega hanno infine tolto la spina al governo Conte. Sono passate settimane di provocazioni continue, assorbite dai grillini con atteggiamento suicida e complice delle peggiori nefandezze, nell’eterno e noioso “gioco del cerino” su chi dovesse intestarsi la crisi di governo. Basti pensare alla presentazione strumentale di una “mozione No Tav” (nelle certezza che sarebbe stata bocciata) il giorno dopo aver votato la fiducia a quel “decreto sicurezza bis” che consentirà a qualsiasi futuro ministro dell’interno di affrontare il Movimento No Tav manu militari.
Salvini ha provato ieri a portare a casa l’ultimo successo possibile: le dimissioni “volontarie” di Giuseppe Conte, l’apertura di una velocissima crisi extraparlamentare (le Camere sono state appena chiuse) e infine il voto anticipato entro la prima metà di ottobre. Per capitalizzare – come riferito esplicitamente dallo stesso Conte in tarda serata – “il consenso conferitogli dalle elezioni europee e dai sondaggi”. Vantaggi privati in barba alle esigenze pubbliche, insomma.
Le consultazioni tra il presidente del consiglio venuto dal nulla e il Quirinale sono state probabilmente continue e la durissima dichiarazione di ieri sera – “non è il ministro dell’interno a decidere i tempi della crisi”, “venga in Parlamento come semplice senatore e capo della Lega” – porta direttamente a un dibattito parlamentare da concludersi con la sfiducia verso il governo, l’uscita della Lega dalla maggioranza e l’avvio del classico iter previsto dalla Costituzione (consultazioni al Quirinale, tentativo di presentare un “governo elettorale” o “tecnico”, e solo dopo – eventualmente – scioglimento delle Camere e indizione delle elezioni anticipate).
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Ancora su alcune false convinzioni circa il debito pubblico
di Davide Cassese
E’ stato pubblicato, su Il Foglio, un contributo dell’economista Gianpaolo Galli. L’articolopubblicato è parte di un capitolo, scritto da Galli, di un nuovo libro, edito dall’Istituto Bruno Leoni, dal titolo “Noi e lo stato: siamo ancora sudditi?”.
I punti su cui Galli si concentra sono sostanzialmente tre: la relazione tra debito pubblico e tassazione; l’idea per cui l’emissione di debito pubblico non troverebbe ostacolo, dato che i contribuenti non sono consapevoli che, in periodi futuri, verranno aumentate le tasse; l’onere che il debito rappresenterebbe per le future generazioni. Questo articolo intende controbattere alle tesi esposte da Galli, opponendo ad esso argomentazioni alternative.
1. Se emettere debito pubblico significa tassare
Nella parte iniziale dell’articolo Galli sostiene che poiché, prima o poi, il debito deve essere ripagato un aumento di debito di un certo ammontare oggi corrisponda ad un aumento delle tasse domani. Stando alle parole di Galli il debito sarebbe “tassazione differita”, e su questo Galli sostiene che vi sia “sostanziale consenso tra gli economisti”.
Su questo tema viene fatto un esempio in cui si suppone che lo stato decide di ridurre le tasse di 1.000 euro per ogni cittadino e di finanziare il mancato gettito emettendo un titolo con scadenza annuale e con cedola del 5 per cento. Secondo Galli “lo stato dovrà pagare 1.050 euro a ogni detentore del titolo, il che significa che ogni contribuente ottiene una riduzione di tasse di 1.000 quest’anno e un aumento di 1.050 l’anno prossimo.” Questo dovrebbe far presupporre un peggioramento della condizione della collettività. A parere di chi scrive questa conclusione è erronea per due ordini di ragioni.
Primo: Galli implicitamente sostiene che il debito pubblico debba essere azzerato. A meno che non si tratti di casi molto particolari, che rappresenterebbero un’eccezione e non certo la regola, non sembra esserci evidenza su fenomeni di azzeramento del debito pubblico da parte di un Paese tramite politiche di rientro. Si possono registrare, certo, fenomeni di riduzione del debito in rapporto al PIL ma non si registrano episodi in cui un Paese abbia azzerato il suo debito.
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Chi ha paura di Salvini…chi ha paura?
di Sandro Moiso
Muore anche l’impero della notte / I suoi guerrieri vanno via / Prima del domani
(Chi ha paura della notte – PFM)
I sacerdoti degli antichi culti pagani, i druidi delle foreste e delle culture celtiche e gli aruspici abituati a “sviscerare” letteralmente il linguaggio dei simboli segreti, avrebbero riconosciuto fin dalla sera precedente e dalla furia degli elementi della mattina stessa tutti i segni di quello che sarebbe stato l’andamento della giornata di sabato 27 luglio.
Sarebbe bastato osservare l’energia che scaturiva dal pogo scatenatosi sotto il palco del Festival Alta Felicità, sul quale i membri della Premiata Forneria Marconi riproponevano, per un pubblico molto più giovane, molti dei loro brani più celebri in una versione quasi punk, oppure l’energia liberata dalla Natura durante il breve il violento diluvio scatenatosi sul campeggio poco prima della formazione del corteo, ma arrestatosi in tempo per permetterne la partenza, dopo aver liberato l’aria dalla minaccia incombente.
Eppure per molti la forza, la determinazione e la vivacità del corteo, che da Venaus è giunto ancora una volta fino al fortino del cantiere in Val Clarea, hanno costituito una sorpresa.
Per moltissimi gradita, ma estremamente sgradita per i difensori delle grandi opere inutili e imposte e per le forze politiche e del disordine che dovrebbero garantirne la realizzazione.
Almeno quindicimila persone hanno marciato insieme.
Hanno risalito la montagna, percorso il sentiero che da Giaglione si dirige verso l’osceno buco scavato nel territorio da uomini, e macchine, che hanno, forse, la forza e la potenza formale ma non l’intelligenza. Che non hanno sensibilità e nemmeno lucidità, ma che sono soltanto attratti dalle logiche del profitto immediato senza alcun riguardo per il futuro della specie e dell’ambiente con cui la stessa, da centinaia di migliaia di anni, convive.
La forza di quelle migliaia di persone (giovani, anziani, bambini, donne, uomini, italiani e immigrati) ha fatto sì che, ancora una volta, il muro di Gerico eretto per bloccare il percorso fosse abbattuto.
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Giustizia
di Salvatore Bravo
La scomparsa delle parole
Lo stato presente ha la sua verità nella signoria della merci, i tavoli ballano, affermava Marx, come se avessero vita propria, tanto più signoreggiano i dominati quanto più il controllo del linguaggio, il suo declinarsi nella forma del calcolo o della chiacchiera erode spazi di significato della politica. Vi è comunità solo se vi è politica, il fondamento, la casa della politica come della comunità parafrasando Heidegger, è il linguaggio. Si assiste al teatrino del nichilismo dei significati, ci si confronta sul nulla, fingendo di essere su posizioni politiche opposte pur governando assieme, il riferimento è alla perenna scenetta tragicomica Di Maio-Salvini. In realtà non si tratta di casi politici, ma del sintomo di una malattia endemica dovuta alla signoria del valore di scambio. L’attuale teatrino, ormai quotidiano, non è che l’espressione di un corpo infetto interno a relazioni politiche segnate dai processo liberistici di mercificazione. Sono venute a mancare le parole-valori della politica, parole che fungono da catalizzatrici per i programmi politici. Tali parole sono scomparse dal linguaggio, al loro posto non vi è che la violenza della pancia, parole-insulti il cui fine è distogliere lo sguardo dalla razionalità dell’accadere per orientarlo verso la violenza, verso obiettivi secondari. Vi sono parole che l’ordine del discorso del turbocapitalismo, mette in circolazione per colonizzare l’immaginario per anestetizzare i significati disfunzionali al sistema capitale.
La parola della politica, della comunità di cui nessuno osa proferire parola, è la parola giustizia. La filosofia politica dell’occidente nella sua storia ha fatto della giustizia la pietra miliare della discussione politica. Giustizia è metron per i Greci, si pensi alla giustizia commutativa-regolatrice e distributiva in Aristotele (Etica Nicomachea libro V). Nel Vangelo il miracolo dei pesci e dei pani, riportatato da tutti gli evangelisti, nell’interpretazione di Massimo Bontempelli e Costanzo Preve significa simbolicamente che se c’è giustizia, c’è razionalità e dunque equa distribuzione, per cui ce n’è per tutti. Gesù raccoglie gli avanzi della moltiplicazione, perché lo spreco è un lusso che offende con la sua ingiustizia chi vive nella penuria. Il miracolo è la giustizia.
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Un ciclo trentennale è finito. E ora?
di Dante Barontini
I cambiamenti d’epoca risultano facili da leggere solo a distanza di tempo. Ai posteri è semplice vedere le date spartiacque, le decisioni di svolta, l’emergere e l’affondare di protagonisti collettivi.
A chi vive dentro, invece, tocca il compito di cogliere i vari segnali, distinguere ciò che è rilevante da quello che non durerà nulla, connettere quei punti e individuare una prospettiva nel buio oceano denso di onde.
Da qualche tempo andiamo dicendo che la globalizzazione è finita. Quel periodo iniziato formalmente con la caduta del Muro e subito dopo dell’Urss, segnato dal trionfo del neoliberismo capitalistico e dall’egemonia assoluta statunitense, dall’affermarsi di un “pensiero unico” che accompagnava l’esistenza reale di un mercato mondiale altrettanto unico, dove le uniche variabili di prezzo erano rappresentate dalle monete e soprattutto dal lavoro umano.
In quest’arco di tempo ha preso corpo reale anche l’Unione Europea, quasi-Stato fatto di trattati sagomati sull’interesse nazionale dei paesi più forti, fonte di diseguaglianze mai viste sotto la coltre retorica della “comunità”. Germania e Francia ne sono state protagoniste, costruendo o conservando in modo diverso la propria prosperità a scapito degli altri partner, soprattutto mediterranei, e attingendo alle infinite possibilità di delocalizzazione nei paesi dell’Est europeo.
La crisi esplosa oltre dieci anni fa ha fatto prima traballare quegli equilibri. La crisi Usa e l’emersione prepotente della Cina come potenza economica gli hanno dato la spallata definitiva. Le economie occidentali a guida anglosassone rimangono stagnanti solo grazie a politiche monetarie così espansive da aver reso negativo il rendimento del denaro (un controsenso, in ambito capitalistico), indice rivelatore di una “avversione al rischio” degna di una classe di rentier, non certo di imprenditori.
L’apparizione dei Trump, dei Bannon o dei Salvini è un effetto di questa crisi di egemonia e dell’impossibilità di “conservarli”. Così come le frequenti stragi messe in atto da suprematisti bianchi, negli Usa come in Nuova Zelanda, sono la reazione stragista di una perdita di centralità mondiale dell’uomo bianco anglosassone e protestante.
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Riflessioni sulla dinamica politica attuale: Boghetta e Pastrello
di Alessandro Visalli
Due interventi sulla dinamica politica in corso, il primo è di Ugo Boghetta[1] e si intitola “Euro5stelle e il governo uno e trino”, lo riporto integralmente:
“Con il voto per la presidentessa della Commissione Europea Von der Leyen il M5S è ufficialmente in maggioranza a Bruxelles. Questo potrebbe essere un passaggio del guado. Se così fosse, avrebbe vinto la linea Conte e, forse, dell'ineffabile Di Maio. Pure Salvini aveva pensato di votarla ma poi non ne ha fatto niente. Probabilmente ha preferito tenersi le mani libere per cercare di incassare altri aumenti elettorali. Non a caso il M5S e Conte stanno tentando, con la proposta a Commissario della Buongiorno, di legare le mani anche alla Lega. Se Salvini resisterà alla nomina di un legaiolo, apparirà come l'unico antagonista dell'Unione. Che questo contrasto sia reale o finto ha poca importanza.
In questo modo la situazione italiana si confonde ulteriormente.
Il voto dei 5S, infatti, significa che con tutta probabilità il governo avrà qualche margine di manovra in più, a parte accenni di commedia: la Von der Leyen ha già ammonito che avremo il debito monitorato. Di conseguenza la prossima Finanziaria comporterà un braccio di ferro fra M5S e Lega piuttosto che con la Commissione.
Del resto, in tempi recenti il governo ha anche accettato di ridurre un poco il deficit e congelato due miliardi su istruzione (fra le spese più basse dell'Unione) e sostegno alle imprese (nonostante la stagnazione).
In questo modo si allontana quella tensione positiva che il governo gialloverde aveva comunque prodotto l'anno scorso verso le politiche unioniste.
A tutto ciò si deve aggiungere il sì alla TAV del Presidente del Consiglio. Decisione che parla da sola. E conta poco per pentastellati il rifugiarsi in un voto parlamentare che li vede perdenti a tavolino.
La situazione del M5S è, dunque, destinata a complicarsi. Da una parte, infatti, dovrà moderare i toni verso Bruxelles (e non avere il nemico esterno è un problema, lasciarlo alla Lega è suicida). Dall'altra si avvicina pericolosamente alle posizioni piddine. Mentre Salvini continua ad avere le mani abbastanza libere anche se non è privo di difficoltà. Una di queste viene dal Presidente del Consiglio. Conte, infatti, avendo evidentemente preso gusto a fare il premier, sembra giocare una sua partita per ora e per il dopo. I cosiddetti poteri forti, più avanti, potrebbero pensare a lui come cavallo di prima scelta.
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“Misteri” trasteverini? Decreti “Sicurezza”? Pirandello e D’Annunzio “sporchi fascisti”? Bibbiano, salvi i bambini?
Ci prendono per somari nel paese dei balocchi
di Fulvio Grimaldi
A Collodi
Se c’è un borgo che rappresenta l’Italia in quella che dei fantocci cartonati, fantaccini del mondialismo azzeratore, deridono o stigmatizzano come identità, dileggiando l’opera sinergica di natura ed esseri viventi nel corso di migliaia d’anni, per me è Collodi, in collina sopra Pistoia. Un borgo che si conquista risalendolo e che si perde scendendo. Non per nulla è da un paese così che è nata una delle più grandi opere della letteratura mondiale. Non per nulla il suo creatore, Carlo Lorenzini, s’è dato il nome d’autore di quel paese.
Un libro, Pinocchio, che, come succede per i capolavori assoluti, ogni volta che lo rileggo vi trovo un nuovo strato dell’edificio della conoscenza. Come succede con le vette più vicine all’Olimpo, meglio, al cielo, più dentro al cosmo: Omero, il teatro dei greci, di Shakespeare, di Pirandello, la Divina Commedia, il Faust, La figlia di Jorio. Da quel genio del profondo e difficilmente visibile che era, Carmelo Bene ha fatto Pinocchio a teatro, dando a questo supremo romanzo di formazione l’introspezione necessaria a tirarne fuori le verità scomode, occultate dalle verità comode di superficie. Facendo della solita fatina buona e maestrina, la madre megera che si agita nel nostro inconscio fin dai lontani millenni del matriarcato. Quella anche di Haensel e Gretel.
Quando dal paese dei balocchi si esce somari
Questo ampio preludio vuole rendere omaggio a un personaggio, burattino, diversamente da tutti noi, solo di se stesso, che da sempre mi insegna a gettare abbecedari in testa al politicamente corretto. Ma apre anche a un mio sacrilegio nei confronti di Collodi, quando mi permetto di sostituire a una sua allegoria un’altra, che mi pare più consona. Nel Paese dei balocchi, dove sollecitato dall’infiltrato liberista Lucignolo e trasportato dal pusher Omino di burro, a forza di giochi, coca e assenza di scuole, i ragazzi diventano tutti ciuchini. Animale malscelto.
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“Il processo Stalin”. L’ultimo libro di Ruggero Giacomini
di Fosco Giannini
Nel 1897 lo scrittore irlandese Bram Stoker pubblica un romanzo, “Dracula”, dal carattere gotico e romantico, che avrebbe segnato di sé tanta parte della futura letteratura europea e mondiale e tanta parte dell’arte e del cinema, sino ai nostri giorni. Segnando di sé anche il senso comune, la cultura, di centinaia di milioni di uomini e donne, non solo in Europa ma nel mondo.
Il grande successo del romanzo convince intere generazioni che Dracula sia stato davvero, storicamente, un vampiro assetato di sangue, un terrificante demone della notte. Ma l’opera di Stoker è di una totale falsità, che attraverso l’immensa popolarità a cui giunge, produce uno dei più grandi inganni di massa che mai la letteratura, l’arte, la filosofia abbiamo prodotto. Il Dracula storico, infatti, quello che tuttora tutti i giovani liceali della Romania studiano, è stato un grande rivoluzionario rumeno, un liberatore dalle qualità intellettuali di un Machiavelli e dalle capacità militari di un Garibaldi, un condottiero che nella seconda metà del 1.400 caccia gli ottomani invasori liberando e unificando la Romania. È difficile capire il motivo per cui Stoker mette in campo una così grande menzogna, peraltro per lui fruttifera. Un dato può forse aiutarci: Stoker è uno scrittore di lingua inglese, un intellettuale dell’occidente che vede i Carpazi, la terra di Dracula, con lo sguardo dell’imperialista, del colonialista, attraverso il quale i Carpazi son già di per sé la terra dell’orrore e del sangue, l’anti occidente.
Chi scrive è convinto che scientemente, con gli stessi strumenti della menzogna totale ed organizzata, della manipolazione, anche Stalin abbia subito, da parte dell’intero apparato ideologico, culturale, politico dell’occidente (con l’aiuto decisivo di Chruščëv, come vedremo) lo stesso processo di demonizzazione che Dracula subì ad opera di Stoker e della cultura occidentale dominante. Sino al punto che ancora oggi è difficilissimo misurarsi con quel senso comune, disseminato in profondità dal pensiero americano ed europeo, secondo il quale Stalin sarebbe stato quel dittatore sanguinario raccontato dal Rapporto Chruščëv e poi sapientemente divulgato dai mille Stoker al servizio, sin dagli anni ’50, dell’anticomunismo e dall’antisovietismo.
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Sabotiamo il mondo macchina della rete 5G e la Smart city
di Collettivo Resistenze al Nanomondo
“Dovrei parlarti della Berenice nascosta, la città dei giusti, armeggianti con materiali di fortuna nell’ombra di retrobotteghe e sottoscale, allacciando una rete di fili e tubi e carrucole e stantuffi e contrappe si che s’infiltra come una pianta rampicante tra le grandi ruote dentate (quando queste s’incepperanno, un ticchettio sommesso avvertirà che un nuovo esatto meccanismo governa la città)”.
Italo Calvino, 1974
Anche in Italia a breve si procederà con l’introduzione della rete 5G, si sono infatti da poco concluse le aste per l’assegnazione dei lotti di frequenza. Hanno partecipato Fastweb, Iliad, Tim, Vodafone e Wind-Tre. Tim e Vodafone sono gli operatori che più stanno investendo nella sperimentazione e in progetti pilota, tali attività vedono Vodafone operante a Milano, il gruppo Telecom-Fastweb a Bari e Matera, Wind-Tre a Prato e l’Aquila. Sia Tim che Vodafone prevedono di lanciare un’offerta iniziale nel corso dell’estate di quest’anno, le vere e proprie offerte commerciali complete sono previste per il 2020. Vodafone assicura di aver coperto Milano per l’80%, le città che seguiranno sono Roma, Napoli, Torino e Bologna. La Tim ha annunciato di aver acceso la prima stazione 5G a Torino, in collaborazione ovviamente con il Politecnico di Torino, con l’Ericson e l’amministrazione comunale nell’ambito di un più vasto studio per la realizzazione di una smart city.
Tutto sembra già predisposto: Samsung, Huawei, Zte, Nokia ed Ericson, un ristretto gruppo di aziende operanti nel campo delle infrastrutture 5G, forniranno le stazioni base da cui partiranno tutti questi processi, con lo scopo di poter passare poi ad una vera e propria introduzione su vasta scala della tecnologia 5G. Questa sperimentazione inaugurata al momento dalla Vodafone che non sappiamo neanche quando è cominciata, di fatto non è mai finita: siamo nel pieno di un esperimento in corso dove tutti siamo potenziali cavie. Presto arriveranno i nuovi tapirulan per intrattenere i cittadini consumatori sotto forma di nuovi smartphon 5G, con cui sarà possibile gingillarsi a scaricare velocissimamente tutto dall’universo di internet e ovviamente sarà non solo desiderabile, ma assolutamente imprescindibile relazionarsi in maniera nuova con l’ambiente che abbiamo intorno, soprattutto nelle nuove città rinominate smart city.
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Andre Gunder Frank, “Riflessioni sulla nuova crisi economica mondiale”
di Alessandro Visalli
Il libro raccoglie i testi di alcune conferenze di Andre Gunder Frank nel cruciale periodo 1972-77, quando la crisi economica sistemica nella quale siamo ancora immersi si stava affacciando alla consapevolezza della sinistra critica, estendendosi dalla sua prima forma, connessa con la crisi energetica (che però è solo un sintomo), fino alla generalizzazione in occidente delle politiche di austerità sostenute ovunque dai partiti socialdemocratici e da quelli ‘eurocomunisti’. Leggeremo questo testo nel contesto dello studio delle diverse diramazioni della “teoria della dipendenza” (e poi dei “sistemi mondo”) che stiamo svolgendo e che sono riassunti provvisoriamente nel post “Sviluppi della teoria della dipendenza”.
Si tratta comunque di una serie di testi di occasione che si collocano in una fase decisiva: si è appena prodotto il trauma della ‘decapitazione’ della “teoria della dipendenza”, da parte del generale Pinochet[1], e Frank, lavorando in stretta connessione con Samir Amin, sta cercando un nuovo schema interpretativo che successivamente si addenserà nella “teoria dei sistemi mondo”. Siamo ancora lontani dalla crisi del 1999, quando lo stesso Frank rompe con la “banda dei quattro” (o, meglio, con i restanti tre membri) formulando la base della sua “teoria del sistema-mondo”[2], e Gunder Frank è certamente ancora marxista. Per fornire ancora un qualche contesto, nel biennio successivo a quello di queste conferenze (per lo più tenute tra il 1974 ed il 1976) si avrà la conclusione del ciclo di crescita della sinistra comunista italiana (ormai divenuta “eurocomunista”, come vedremo) e l’offerta di “sacrifici senza contropartite”, insieme all’esordio al centro della scena del “vincolo esterno”[3].
Ma riepiloghiamo le posizioni a questo momento: innestandosi sul tronco della “teoria della dipendenza” di Prebisch, Furtado, Dos Santos, ma innestandovi elementi derivanti dalla sua solida formazione economica[4] e dalla scuola americana di Baran e Sweezy, Gunder Frank negli anni sessanta sviluppa la tesi che per comprendere la persistenza dei fenomeni di sottosviluppo, che interessano l’America Latina, è necessario allargare lo sguardo e focalizzare le relazioni economiche, commerciali e finanziarie, che connettono le élite dei paesi in una catena funzionale alla perpetuazione dei rapporti di sfruttamento.
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Il salario minimo legale
di Ascanio Bernardeschi
Un’analisi sul terreno della teoria economica del salario minimo ci dice che esso non può sostituire la lotta di classe e il compito storico di superare il capitalismo
Se ci vien fatto di dimostrare che la carità legale,
applicata secondo questo principio,
può essere utilmente introdotta nelle società moderne,
noi avremo tolto al comunismo i suoi più formidabili argomenti,
e segnata la via a migliorare le sorti delle classi più numerose,
senza mettere a repentaglio l’esistenza stessa dell’ordine sociale
Camillo Benso Conte di Cavour
Già Carla Filosa ha trattato l’argomento del salario minimo su questo giornale, esaminando le diverse proposte di PD, 5 Stelle e Leu ed evidenziando gli inganni ideologici che vi stanno dietro. Federico Giusti dal canto suo ha colto le opportunità e i rischi derivanti da questo istituto. Nel presente articolo mi propongo di farne una lettura con le “lenti” delle tre principali scuole di teoria economica, quella monetarista, quella keynesiana e quella legata alla critica marxiana dell’economia politica.
I monetaristi, da bravi liberisti, sono contrari a ogni forma di ingerenza statale nel “libero” mercato del lavoro. Per loro esiste un livello “naturale” dei salari, che viene raggiunto nel gioco fra domanda e offerta. Quindi non è opportuno che con provvedimenti di legge si alteri questo equilibrio. Esiste anche, per i seguaci di questa scuola, un livello ottimale della disoccupazione, denominato Non-Accelerating Inflation Rate Of Unemployment (Nairu). Come si intuisce dalla denominazione, si tratta del livello di disoccupazione al di sotto della quale si genera inflazione. Infatti, per questa scuola i profitti non hanno origine dal plusvalore, dal lavoro non pagato, ma sono un ricarico, un “mark up” in gergo, che i capitalisti applicano ai loro costi di produzione per determinare i prezzi. Se diminuisce, per effetto di una politica statale espansiva, la disoccupazione, diminuisce l’offerta di braccia da parte dei lavoratori in confronto alla domanda di forza-lavoro da parte delle imprese. I lavoratori disporranno di un maggiore potere contrattuale, i salari aumenteranno e, dato il mark up applicato, aumenteranno i prezzi. L’aumento dei prezzi farà scendere i salari reali al livello precedente i provvedimenti statali e con ciò la domanda reale.
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Clamoroso: la Germania ha fatto default, ma non è successo niente
di coniarerivolta
Da oltre vent’anni a questa parte, il dibattito politico è costretto a muoversi negli angusti spazi del pareggio di bilancio: qualsiasi opzione politica deve confrontarsi con il paradigma della scarsità delle risorse che, secondo i paladini dell’austerità, caratterizzerebbe il funzionamento di un’economia sana. Ci viene spiegato ogni giorno che quel paradigma non ce lo impone l’Europa, con i suoi vincoli al deficit e al debito pubblico, ma deriva dalla razionalità dei mercati: se ti indebiti troppo perdi la credibilità dei mercati e nessuno è più disposto a finanziare il tuo debito pubblico. È lo spettro del default, agitato in ogni discussione politica per tenere a bada le istanze di progresso sociale: non possiamo aumentare le pensioni, non possiamo costruire nuovi ospedali, non possiamo garantire la piena occupazione perché non ci sono i soldi, e se non tieni i conti in ordine ti ritrovi – questa la minaccia ricorrente – in bancarotta. L’incubo degli statisti di ogni colore politico sarebbe dunque quello di scatenare l’ira dei mercati, e cioè di ritrovarsi senza più nessuno disposto a prestare i soldi allo Stato. L’austerità, in questa narrazione, è la medicina amara ma necessaria: tagliare diritti, salari e stato sociale non piace a nessuno, ma dobbiamo farlo per evitare un baratro di nome default.
Nel disinteresse generale, pochi giorni (esattamente, il 10 luglio 2019) fa si è verificato un piccolo ma significativo fatto, una curiosa circostanza che dimostra plasticamente l’infondatezza di tutto questo terrorismo sul debito pubblico. Ironia della sorte, lo spettro del default – o, per dirla più semplicemente, del fallimento, della bancarotta – è apparso dove meno te lo aspetti: un’asta di titoli del debito pubblico della virtuosa Germania ha registrato una domanda di bund (così sono chiamati i titoli di Stato tedeschi) inferiore alla quantità offerta dal Governo. A fronte di 4 miliardi di euro di titoli di Stato tedeschi offerti al mercato, sono pervenute domande per 3,9 miliardi. Il risultato? Come avrete notato, non è successo assolutamente nulla. Capire perché un’asta scoperta non produce alcun default può aiutarci a sfatare alcuni miti sul debito pubblico e, soprattutto, a ricollocare tutti questi fenomeni economici nella dimensione politica che gli è propria, l’unica entro cui possono essere compresi. Ma andiamo con ordine.
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Lo scambio di plusvalore nel Capitalismo delle Piattaforme
di Massimo De Minicis
Pluslavoro - Il rapporto OECD fornisce una analisi qualitative e quantitative concernenti i lavoratori delle piattaforme digitali
Premessa
Molti studi ormai da tempo hanno affrontato il tema delle piattaforme di lavoro dell’economia collaborativa digitalizzata[1]. Sono stati così approfonditi numerosi aspetti sulla natura e sull’organizzazione produttiva di questa ultima evoluzione della tecnologiaimpiegata nei processi di produzione. Ma alcune questioni, al di là delle numerose concettualizzazioni realizzate, rimangono contrastate, provocando tensioni di carattere giuridico e sociale. In particolare, nell’economia collaborativa digitalizzata rimane ancora profondamente irrisolta una comune classificazione della relazione lavorativa tra la piattaforma digitale e il lavoratore. Così obiettivo del paper, è cercare di comprendere meglio questo rapporto, esaminando il ciclo di produzione delle piattaforme di lavoro alla luce, anche, di alcune considerazioni teoriche dell’analisi marxiana sulla relazione tra automazione e produzione industriale. Nuova rilevanza sembrano, infatti, acquisire oggi, le analisi presenti nel Libro I del capitale e nei Gundrisse sull’utilizzo dei macchinari nella grande industria per la determinazione di maggiori quote di produttività e profitto (pluslavoro e plusvalore). In particolare, quando parla di automazione, Marx introduce una articolata classificazione di concetti teorici, che ancora oggi può essere utilizzata per comprendere meglio l’effetto della tecnologia sulla produzione e sul lavoro, a dispetto dei sorprendenti avanzamenti tecnologici intercorsi.
Il ciclo produttivo delle Labour Platform
Il rapporto OECD Measuring Platform Mediated Workers (aprile 2019) fornisce una analisi sulle diverse indagini qualitative e quantitative concernenti i lavoratori delle piattaforme digitali in Europa. Definendoli come coloro che utilizzano una app o un sito Web per incontrarsi con i clienti al fine di fornire un servizio (piuttosto che una merce) in cambio di denaro. Dalle analisi descritte le labour platform si confermano come soggetti protagonisti della Gig economy, coinvolgendo sempre più lavoratori (Figura 1).
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Uno sguardo lucido sui 5 Stelle
E, di palo in frasca, uno sguardo annebbiato sui misteri e orrori di Trastevere
di Fulvio Grimaldi
Sembrerebbe che i due argomenti che ho affastellato qui c’entrino tra loro come i cavoli a merenda. E così è. Ma, se guardiamo al contesto, sono entrambi pioli di una scala che continuiamo a scendere.
Con Mario Monforte, della rivista "Il Ponte" fondata da Piero Calamandrei e una delle poche pubblicazioni rimaste a opporsi con intelligenza critica e propositiva, sono da tempo in proficua e istruttiva corrispondenza, in particolare sulla vicenda, oramai parabolica, del Movimento 5 Stelle, forza sociale e politica che entrambi abbiamo sostenuto. Oggi mi ha inoltrato un breve intervento in vista di una delle assemblee che i 5 Stelle e i cittadini dell'ex-Repubblica Fiorentina organizzano per confrontarsi con gli eventi e, magari, reagirvi. Lo pubblico in calce e rimando a data successiva una mia seconda puntata su quanto sta determinando la sostituzione della lotta contro il Tav con una puramente strumentale e demagogica campagna verbale NoTav in un parlamento quasi tutto TAV e, dunque, dall'esito scontato. Una sciarada. Esito assolutamente per niente scontato, prima dell'ennesima fuga all'indietro del premier Conte e del patetico traccheggiare per mesi dei vari ministri 5 Stelle.
Il pasticiaccio brutto di Piazza Gioachino Belli
Ma lasciatemi dire un paio di parole sul fattaccio-fattone del giorno: l'uccisione di un carabiniere da parte di due future promesse dei Marines, passate prima per maghrebine, poi per africane e, solo alla resa dei conti con Salvini e i salviniani, per cittadini statunitensi. Lascio ad altri investigatori non condizionati, nè Nato-guidati, la disanima di un'inchiesta che più pasticciona, contradditoria, piena di buchi e ombre vastissime, è difficile confezionarla, pure in un paese di pasticci, misteri e intrighi esperto per antichissima pratica dei suoi potenti. Mettete insieme uno spacciatore evaporato, un mediatore che chiama i carabinieri a dispetto della sua identità di correo e che qualcuno qualifica di informatore, i carabinieri che spediscono una pattuglia mobile in divisa e armata che, però, poi svanisce e, successivamente due carabinieri in borghese, disarmati, che i due tossici Usa prendono per chissà chi e, in evidente dubbio sulle loro intenzioni, ne accoltellano uno a morte. Dell'altro carabiniere non s'è mai capito bene cosa avesse finito col fare. Pare che si stesse accapigliando con il secondo ragazzotto.
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La società autofaga
intervista ad Anselm Jappe
«Nessun problema attuale richiede una soluzione tecnica. Si tratta sempre di problemi sociali». - Per il pensatore tedesco Anselm Jappe, il capitalismo narcisista nel quale ci troviamo inseriti ha dato luogo alla società «autofaga» che, come nel mito, quando non c'è più niente in grado di soddisfare il suo appetito, finisce per divorare sé stessa
Anselm Jappe (Bonn, Germania, 1962) è un pensatore inclemente e vigoroso, allergico ad ogni argomento consolatorio e ai sotterfugi intellettuali. Da anni, insieme ad altri devianti da quella che è l'ortodossia marxista (Robert Kurz in Germania, Moishe Postone negli Stati Uniti, Luis Andrés Bredlow in Spagna) continua a mettere in discussione gli assiomi di una sinistra che negli ultimi decenni, secondo Jappe, è stata incapace di comprendere le trasformazioni del capitalismo . Per Jappe ed i suoi, il filo di Arianna che bisogna seguire, per poter decifrare lo spirito dell'epoca, è la cosiddetta "critica del valore": «Mentre il marxismo tradizionale si è sempre limitato a chiedere una diversa distribuzione dei frutti di questo modo di produzione, la critica del valore ha cominciato a mettere in discussione il modo stesso di produzione». [...] Il suo ultimo libro - "La Société autophage. Capitalisme, démesure et autodestruction", un esaustivo studio del meccanismo impazzito nel quale il sistema economico si è convertito, e su come il suo funzionamento ci stia portando a fare la fine di Erisittone. il re greco che finì per divorare sé stesso quanto arrivò al punto in cui non c'era più niente in grado di soddisfare il suo appetito - funziona come un'allegoria di una civiltà, la nostra, che, accecata dall'eccesso, si autodistrugge. Anselm Jappe, risponde qui alle domande che El Salto gli ha posto via e-mail.
* * * *
El Salto: Lei parte dall'idea secondo la quale la "critica del valore" permette di dare un senso a fenomeni sociali, culturali e politici differenti che, a priori, sembrano non avere alcuna relazione fra di loro. Potrebbe spiegare che cos'è la "critica del valore", e perché ritiene che possa essere lo strumento più accurato per poter comprendere la società capitalista?
Anselm Jappe: «La critica del valore è una tendenza internazionale, nata in Germania alla fine degli anni '80 intorno alla rivista Krisis e a Robert Kurz, che propone una critica radicale della società capitalista basata sulle teorie di Marx, ma che prende le distanze dal marxismo tradizionale. La critica del valore pone al centro le categorie della merce, del valore, del denaro e, soprattutto, quella del lavoro astratto, vale a dire, il lavoro considerato solo per la quantità di tempo speso, senza tener conto del suo contenuto.
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Settis, Serianni e la catastrofe della scuola
di Marino Badiale, Università di Torino; Fausto Di Biase, Università di Chieti-Pescara; Paolo Di Remigio, Liceo Classico di Teramo; Lorella Pistocchi, Scuola Media di Villa Vomano
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
L’eliminazione della tradizionale traccia di storia dalla prima prova dell’esame di Stato ha sollecitato alcuni intellettuali a pubblicare sul quotidiano ‘Repubblica’ un appello preoccupato per la decadenza della cultura storica in Italia[1]. Ne è seguita un’audizione alla Commissione Istruzione Pubblica – Beni Culturali del Senato[2], nella quale il prof. Settis, sulla base dell’etica implicita nella Costituzione, ha pronunciato un’appassionata apologia degli studi storici come pilastri della sovranità della nazione e della libertà del cittadino, e il prof. Serianni, responsabile dell’ultima versione della prima prova dell’esame di Stato e quindi chiamato direttamente in causa dall’appello, ha smentito che la nuova formula dell’esame emarginasse la storia, sostenendo, al contrario, che ‘la storia è e resta fondamentale come dimensione culturale e anche come elemento di verifica di competenze e conoscenze degli studenti arrivati alla fine’, che ‘la storia, proprio come dimensione che innerva tutti gli altri saperi, è largamente presente’, anzi è addirittura ‘privilegiata’.
Il prof. Serianni, preoccupato soprattutto di difendere il nuovo esame di Stato e di assumere un atteggiamento complessivamente rassicurante, è molto lontano dal rilevare che il cambiamento subito dalla scuola italiana negli ultimi venti anni vi ha posto la cultura storica, come pure la cultura in generale, in una posizione di estrema precarietà; non evita però di menzionare due ‘criticità’: la prima che nel biennio degli istituti professionali l’insegnamento della storia è ridotto a un’ora alla settimana, la seconda che in futuro esso potrebbe essere ridotto in tutte le scuole affinché vi abbia spazio la nuova disciplina ‘Cittadinanza e Costituzione’, che il Parlamento non potrà non approvare(non si capisce se per deliberazione dello stesso prof. Serianni)[3]. Non emerge dal suo intervento, e invero neanche dagli altri, che queste ‘criticità’ sono gli ultimi episodi di una lunga vicenda di ostilità, i cui precedenti risalgono alla riforma Moratti del 2003 e alla riforma Gelmini del 2010. Mettendo fine alla tradizione che alle elementari affidava una prima esposizione di tutta la storia e alle medie una sua più approfondita riesposizione, la prima riformatrice destinò a quelle la storia dalle origini fino alla tarda antichità e a queste la storia dalla tarda antichità fino al presente, eliminò cioè la sua ripetizione, come se i bambini memorizzassero le conoscenze con un facile clic sul comando ‘Salva’; distribuì inoltre gli argomenti in modo che il tempo concesso alla terza elementare fosse dilapidato a favoleggiare dei dinosauri.
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Crisi ambientale e sociale: le due facce della catastrofe capitalistica
di Carlo Lozito
L'ampio dibattito sull'ambiente, dopo le manifestazioni studentesche seguite all'appello di Greta Thunberg, tratta un'infinità di aspetti salvo quello fondamentale: il disastro ambientale è causato dal modo di produzione capitalistico. Così alla questione sociale, autentica emergenza contemporanea, si aggiunge quella ambientale mostrando l'insostenibilità del capitalismo e la necessità di metterlo in discussione per liberare l'uomo e la natura dal suo dominio
Il capitale contro la Terra
Per dare un'idea della velocità dei cambiamenti avvenuti negli ultimi due secoli è sufficiente considerare i grafici dell'aumento della popolazione mondiale e della crescita della produzione negli ultimi millenni. Essi, praticamente piatti negli fino a due secoli fa, indicano come la crescita demografica e della produzione si concentrino sostanzialmente a partire dalla rivoluzione industriale quando si sviluppa il capitalismo moderno fondato sulla grande industria. Tenuto conto che la crescita demografica è legata alla produzione e disponibilità di cibo, è nei meccanismi di funzionamento del capitalismo che dobbiamo cercare la causa di queste crescite senza precedenti in tutta la storia umana.
Marx con la formula d-m-d' descrive l'essenza del ciclo di accumulazione del capitale: denaro investito dal capitalista (d) che si trasforma in mezzi di produzione e salari che servono per la realizzazione delle merci (m) le quali, una volta vendute sul mercato, si trasformano nuovamente in denaro ma in quantità accresciuta (d'). L'accrescimento è dovuto al plusvalore estorto all'operaio e non pagato dal capitalista, plusvalore incorporato nelle merci prodotte che una volta vendute si trasforma in profitto. Questo processo, che è specifico del modo di produzione capitalistico, permette teoricamente un accrescimento illimitato del capitale. Più il capitalista investe, più merci fa produrre agli operai, più allarga il mercato in cui venderle, più la sua tasca si gonfia di nuovo capitale. Nel ciclo successivo, per ripetere il processo e tenuto conto del saggio medio del profitto quale obiettivo da perseguire, il capitale di partenza ha una dimensione maggiore e per questo costringe il capitalista a una dimensione aumentata della produzione. E così via per i cicli successivi. Naturalmente qui abbiamo volutamente semplificato la descrizione del processo. Ciò che importa sottolineare è che il perseguimento del profitto induce la spinta alla produzione su scala sempre più allargata, la quale a sua volta genera la spinta al consumo di quanto prodotto. Poco importa che si tratti del capitalista dell'Ottocento oppure delle attuali imprese monopolistiche guidate da un consiglio d'amministrazione, la legge fondamentale operante nel capitalismo è sempre questa.
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Classi Sociali e Geometria del Governo Giallo-Verde
di Gianmarco Oro, Giorgio Gattei
1. Le classi sociali nell’emiciclo parlamentare.
La doppia ipotesi che muove questa indagine è che i partiti politici non sono altro che i “veicoli” con cui le classi sociali si contendono il potere politico nelle competizioni elettorali e che queste classi sono riconducibili, grossolanamente, alle denominazioni classiche di “borghesia”, “proletariato” e “ceti medi”. Naturalmente queste denominazioni andrebbero adattate al giorno d’oggi, così da distinguere la borghesia in industriale, agraria e finanziaria; il proletariato da chiamarsi meglio “salariato” o “classe operaia” (ma non certamente “classe subalterna”!); mentre i ceti medi risultano come un coacervo di strati sociali difformi in cui sono indistintamente compresi i “padroncini” (di fabbrica e di campagna), i lavoratori autonomi (artigiani, commercianti, e liberi professionisti) e gli impiegati sia privati che pubblici. E qui va ricordato lo sconcerto che ci prese quando, appena pochi anni dopo l’insorgenza operaia dell’autunno caldo, Paolo Sylos Labini osò documentare, statistiche alla mano, che l’Italia era un paese a maggioranza della “quasi classe” dei ceti medi invece che del proletariato: nel 1971 il 49,6% contro il 47,8% che nel 1983 era già passato al 54% contro il 42,7%[i].
Ora c’è anche una teoria, ignorata dai più, secondo la quale la classe borghese si è storicamente espressa sotto la forma di due partiti politici: in Gran Bretagna i liberali e i conservatori e negli Stati Uniti i democratici e i repubblicani, data la doppia specie del suo reddito: il profitto industriale oppure la rendita (agraria e finanziaria)[ii]. In Europa anche il proletariato ha preso politicamente forma doppia: il partito socialista dapprima e il partito comunista poi, riformista il primo, rivoluzionario il secondo. E i ceti medi? Data l’anomalia della loro ambigua composizione sociale, hanno solitamente mancato di presentarsi con una propria forma-partito, affidando la difesa dei propri interessi di classe al partito “dei padroni” oppure a quello “di parte operaia” che sentivano al momento più vicino. Ma valeva comunque l’ammonimento marxiano per cui «i ceti medi, il piccolo industriale, il piccolo negoziante, l’artigiano, il contadino [mancavano al tempo i liberi professionisti e gli impiegati], tutti costoro combattono la borghesia per salvare dalla rovina l’esistenza loro di ceti medi.
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Da Stalin a Churchill: marxismo, linguistica e glottofagia
di Eros Barone
Non imiterò che me stesso, Pasolini. Più morta di un inno sacro / la sublime lingua borghese è la mia lingua. / Non conoscerò che me stesso / ma tutti in me stesso. La mia prigione / vede più della tua libertà.
Franco Fortini, da Composita solvantur, 1994.
- Il contributo di Stalin sul rapporto fra la teoria linguistica e il marxismo
È comunemente ammesso che nessuna scienza può svilupparsi senza una lotta di opinioni, senza libertà di critica.*
Gli scritti di Stalin sulla linguistica sono costituiti da una serie di risposte che Stalin dètte ad alcuni giovani comunisti sui problemi riguardanti il rapporto tra la linguistica e il marxismo, risposte che furono pubblicate sulla «Pravda», il principale quotidiano sovietico, tra il giugno e l’agosto del 1950. Le domande rivolte a Stalin concernevano soprattutto il problema dei rapporti tra la lingua e la struttura economica della società, e si possono così riassumere: la lingua è una sovrastruttura determinata dalla base economica? la lingua è il prodotto di una determinata classe sociale? quali sono gli elementi che definiscono una lingua nell’àmbito della vita sociale?
Rispondendo a queste domande, Stalin ebbe l’opportunità di intervenire nel dibattito che si era aperto sulle colonne della «Pravda» per confutare la teoria, dominante da circa un ventennio, del linguista Nikolaj Jakovlevič Marr, il quale sosteneva l’esistenza di un diretto rapporto di determinazione tra la base economica di una società e la sua lingua. Partito da studi specialistici di filologia armena e georgiana e di lingue caucasiche, Marr era noto soprattutto per la sua teoria ‘jafetica’ secondo cui esisterebbe un’affinità genealogica tra le lingue del gruppo caucasico e quelle semitiche, affinità che, in via di ipotesi, sarebbe estensibile non solo a tutte le lingue preindoeuropee del bacino del Mediterraneo, ma perfino a tutte le lingue del mondo in cui, dall’Asia all’Africa e all’America, il linguista russo cercò di individuare le tracce della famiglia jafetica. 1
In séguito alla rivoluzione d’ottobre e alla lettura di Marx, Engels e Lenin, Marr si propose di dare un nuovo fondamento filosofico marxista alla teoria generale del linguaggio, cui era approdato applicando meccanicamente lo schema materialistico secondo il quale le sovrastrutture di una società sono determinate dalla struttura economica ed estendendo la nozione di sovrastruttura sino ad includervi la lingua, la quale, essendo determinata dalla base economica, recherebbe il marchio della classe che l’ha prodotta.
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La Libra di Facebook, il monopolio bancario sulla moneta e le controproposte di riforma
di Enrico Grazzini
Facebook, il social network con 2,5 miliardi di persone connesse, ha recentemente annunciato di volere emettere nel 2020 una nuova moneta privata globale, la Libra.[1] Si tratta di un ulteriore e forse decisivo passo in avanti verso una moneta completamente privatizzata, denazionalizzata, liberalizzata in mano a Facebook o ad un altro dei colossi digitali, come Amazon, Apple, Google e Microsoft.
Ovviamente il sistema attuale difende tenacemente le sue prerogative e i suoi privilegi. Da Donald Trump, passando per il governatore della Banca d’Inghilterra Mark Carney fino alla Banca Centrale Europea c'è stata una levata di scudi. "È fuori discussione permettere loro di svilupparsi nel vuoto normativo, perché è semplicemente troppo pericoloso “ha affermato Benoit Coeure dell'Executive Board della BCE” Progetti come quello di Facebook sono però un utile campanello d'allarme per i regolatori e le autorità pubbliche. Dobbiamo muoverci più rapidamente di quanto abbiamo fatto finora". Anche il ministro francese delle finanze Bruno Le Maire ha precedentemente affermato che "è fuori questione" che la Libra sia autorizzata "a diventare una moneta sovrana. Non può e non deve accadere".
In effetti le monete globali potrebbero diffondersi molto più velocemente di quanto a prima vista uno si aspetterebbe. Basti pensare che Facebook si è quotata in borsa solo nel maggio 2012 e oggi raggiunge già 2 miliardi e mezzo di persone. Il dilemma è se il sistema monetario attualmente dominante tenterà di fronteggiare gli sviluppi della moneta digitale arroccandosi in difesa dei suoi privilegi, o se invece l'assetto monetario attuale – che provoca costantemente crisi e che dà alle banche commerciali il privilegio esclusivo di stampare moneta – sarà capace di riformarsi come bene pubblico a favore della società, della democrazia e dell'eguaglianza sociale.
Per ora comunque Mario Draghi, presidente della Banca Centrale Europea, ha già respinto una proposta di riforma della BCE stessa con l'introduzione della moneta digitale. Il Parlamentare europeo Jonás Fernández (del gruppo dell'Alleanza Progressista di Socialisti e Democratici, S&D) ha infatti chiesto se la BCE ritiene valido di introdurre la moneta digitale aprendo ai privati la possibilità di avere dei conti correnti direttamente presso la BCE stessa.
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Asimmetria e autonomia
Nord-Sud nella proposta di governo, un pericolo per l’Italia
di Adriano Giannola
Adriano Giannola (Università di Napoli “Federico II”, presidente Svimez) analizza il tema delle “intese” sulla Autonomia differenziata tra Governo e regioni a statuto ordinario e svela i meccanismi fiscali sottostanti che mettono in crisi lo stereotipo, cavalcato dalla Lega, che la secessione Nord/Sud gioverebbe alle regioni del Nord
1. Premessa
L’attenzione a tematiche urgenti come la “questione Tav” fonte di serie tensioni all’interno della compagine governativa hanno lasciato finora sullo sfondo il tema delle “intese” sulla Autonomia differenziata tra Governo e regioni a statuto ordinario. Il che desta una certa sorpresa se si considera che proprio questo è il solo punto definito “assolutamente prioritario” nel Contratto. Anche l’attenzione della stampa per l’argomento è stato a lungo tiepido e intermittente, spiazzata ogni giorno dalla strategia cara al ministro degli interni di utilizzare armi di distrazione di massa. Proprio per la cura posta a non parlarne fidando, di poter agire con rapidità e senza trovare soverchie resistenze, la questione si è fatta particolarmente preoccupante e va attentamente monitorata. Perciò è utile qualche riflessione sull’ impatto che questoprogetto lombardo-veneto potrà avere per il paese tutto e non solo per la popolazione del Mezzogiorno.
Le diverse bozze di intesa scaturite finora da una trattativa accuratamente riservata che nelle intenzioni doveva restare segreta hanno il tratto comune, ossessivamente reiterato, di fare cassa imponendo il principio che il finanziamento standard delle nuove funzioni non sia correlato al loro costo bensì al gettito (“capacità fiscale”) della regione. Si insiste con una disinvoltura che pretenderebbe di essere sofisticata e che al contrario è progressivamente esercizio di artificiose acrobazie logiche basate sul curioso principio-privilegio in base al quale a identici servizi erogati corrispondono fabbisogni standard tanto più elevati quanto maggiore è la capacità fiscale di un territorio. In sostanza le regioni che producono più reddito e pagano più tasse dovrebbero ricevere a copertura di identici servizi maggiori risorse delle regioni più povere. Si tratta di un insulto alla logica ancor prima che al dettato della Costituzione che con chiarezza stabilisce che ogni cittadino debba pagare le tasse in base al reddito e ricevere i servizi indipendentemente dal dove risiede.
E’ comprensibile che la Lega confermi, al di là delle apparenze, la sua vera natura di partito del Nord, sorprende invece l’acritico sostegno fornito fino ad ora -anche se con qualche distinguo ed imbarazzo- dal Movimento 5 stelle.
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La dedollarizzazione dell’impero finanziario americano
Bonnie Faulkner intervista Michael Hudson
Abbiamo tradotto per voi questa interessantissima intervista all’economista americano Michael Hudson. Nonostante la lunghezza, ne consigliamo la lettura, in quanto ci aiuta a comprendere in modo molto chiaro come l’uso del dollaro e dei bond americani nel mondo sia determinante per la politica internazionale attuale e dei prossimi decenni. Buona lettura
L’imperialismo è il conseguimento di qualcosa in cambio di niente. E’ una strategia per ottenere il surplus di altri paesi senza svolgere attività produttive, ma creando un sistema di rendita estrattivo. Un potere imperialista obbliga altri paesi a pagare un tributo. Ovvio, l’America non dice apertamente agli altri paesi “dovete pagarci un tributo”, come facevano gli imperatori Romani con le province che governavano.
I diplomatici statunitensi insistono semplicemente sul fatto che altri paesi investano gli utili della loro bilancia dei pagamenti e le riserve ufficiali della loro banca centrale in dollari americani, in particolare in titoli del Tesoro americano. Questo sistema di utilizzo dei buoni del tesoro americani trasforma il sistema monetario e finanziario globale in un sistema tributario in favore degli USA. E’ questo che consente agli USA di pagare i costi delle spese militari, incluse le 800 basi militari dislocate in tutto il mondo.
Il tema di oggi è la dedollarizzazione dell’impero finanziario americano.
Il dottor Hudson è un economista finanziario e anche uno storico. E’ presidente dell’Institute for the Study of Long-Term Economic Trend [Studio delle tendenze economiche a lungo termine], è analista finanziario a Wall Street e distinto professore di economia presso l’Università del Missouri, a Kansas City. Fra i suoi libri più recenti troviamo: And Forgive Them Their Debts…Lending [E perdona I loro debiti.., prestando], Foreclosure and Redemption from Bronze Age Finance and Jubilee Year [Preclusione e riscatto dalla finanza dall’età del bronzo al Giubileo], Killing the Host: How Financial Parasites and Debt Destroy the Global Economy [Uccidere l’ospite, come i parassiti della finanza e il debito distruggono l’economia globale]; e J is for Junk Economics: A Guide to Reality in an Age of Deception [J come “junk economy” (economia spazzatura), una guida alla realtà in un’era dell’inganno].
Torniamo oggi su una discussione dell’importante libro del 1972 del dottor Hudson, Super Imperialism: The Economic Strategy of American Empire [Super imperialismo: la strategia economica dell’impero americano], una critica del modo in cui gli Stati Uniti sfruttano le economie straniere attraverso il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale.
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