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Henri Lefebvre: una teoria critica dello spazio
di Sonia Paone
Pubblichiamo la prefazione di Sonia Paone al libro di Francesco Biagi, Henri Lefebvre: una teoria critica dello spazio, Jaca Book, Milano, 2019, uscito da poche settimane. Buona lettura
Henri Lefebvre è stato un importante intellettuale e prolifico autore, avendo pubblicato nel corso di una lunga vita, che ha attraversato buona parte del Novecento, una sessantina di opere, alcune delle quali possono essere considerate un punto di riferimento per le scienze sociali e per quelle territoriali. In questo ultimo ambito le sue considerazioni e intuizioni sulle trasformazioni dei territori e sul destino delle città sono di grande attualità.
Lefebvre aveva evidenziato la forza distruttrice che accompagnava l’affermazione dell’urbano, ovvero l’avvento di una fase storica in cui la città si sarebbe identificata con la forma complessiva della società. E da qui aveva individuato e preconizzato una serie di fattori di crisi: l’impatto della produzione capitalistica sulla organizzazione dello spazio urbano e la sua conseguente mercificazione, la città diviene un mero oggetto di scambio e di profitto; la progressiva urbanizzazione del mondo intesa come espansione del cosiddetto tessuto urbano, ovvero un processo economico-culturale che avrebbe fatto aumentare la segregazione e la frammentazione urbana e avrebbe assoggettato il rurale, facendo scomparire la campagna, attraverso l’industrializzazione della produzione agricola; il declino della vita rurale tradizionale e la distruzione del suolo e della natura. Oggi ci confrontiamo sostanzialmente con gli esiti di quelle direttrici di sviluppo che Lefebvre aveva tracciato, siamo infatti nell’epoca dell’urbanesimo planetario visto che dagli inizi del nuovo millennio la maggior parte della popolazione mondiale risiede nelle città, ma questo traguardo è coinciso con l’esplosione della marginalità urbana poiché i tassi di urbanizzazione sono cresciuti e continueranno a crescere nei prossimi anni nei paesi poveri. Siamo anche nell’epoca del pieno dispiegamento delle logiche della valorizzazione economica sui territori, sia nel contesto urbano che in quello rurale.
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Venezuela, i 30 giorni nei quali Juan Guaidó non è andato da nessuna parte
di Gennaro Carotenuto
Escludendo l’intervento militare in Venezuela, la riunione del gruppo di Lima (il consesso dei governi latinoamericani di destra, riuniti ieri a Bogotá) ha chiuso nella sostanza la parabola del tentativo di Juan Guaidó come presidente autoproclamato del Venezuela e allo stesso tempo evitato la regionalizzazione della crisi. Proviamo a mettere insieme elementi di analisi sugli ultimi 30 giorni e in particolare sull’ultimo lungo fine settimana al confine tra Colombia e Venezuela.
La guerra si allontana dai Caraibi?
Partiamo dalla fine, da Bogotá e dal cosiddetto Gruppo di Lima, creato solo nel 2017 dagli USA come istanza multilaterale per risolvere la crisi venezuelana, e che, solo a gennaio, per riconoscere Guaidó aveva registrato la defezione di un pezzo da novanta come il Messico di Andrés Manuel López Obrador, messosi alla testa della linea del dialogo con Maduro. Pur con l’augusta presidenza del vice di Trump, Mike Pence, alla quale quasi tutti i convenuti riconoscono ben più di una primogenitura, dimostrando anche plasticamente come l’America latina sia tornata subalterna a Washington, questa volta tutto è andato male per il giovane capo (forse) dell’opposizione venezuelana. Salta infatti all’occhio che questa volta la riunione è stata appena per vice-presidenti, ma soprattutto che il Perú prima, il Brasile soprattutto, abbiano escluso la soluzione militare alla crisi sulla quale ancora poche ore prima batteva la grancassa mediatica.
Del Brasile diremo di più subito sotto. Perché i latinoamericani siano riottosi sull’intervento militare è presto detto: ne hanno paura e hanno paura di opinione pubbliche nelle quali il discorso integrazionista non si è mai spento. Una guerra civile in Venezuela rischia di creare un movimento enorme e armato, brigate internazionali in difesa del Venezuela.
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La ragionevole inefficacia della scienza di base (per la spiegazione della natura umana)
Alessandro Della Corte conversa con John Dupré
John Dupré si è principalmente occupato della filosofia delle scienze della vita. Un aspetto molto interessante del suo lavoro riguarda le ricadute dello studio degli organismi viventi su problemi classici dell’epistemologia come quelli riguardanti riduzionismo, determinismo e libero arbitrio. Spero che i lettori di Anticitera apprezzeranno l’intervista che Dupré ha gentilmente accettato di concederci.
* * * *
Nei suoi scritti lei ha criticato il riduzionismo, e in particolare la possibilità teorica di spiegare tutti i fenomeni naturali (inclusi comportamenti e abilità complessi tipici dell’uomo) utilizzando la fisica fondamentale. Oggi il riduzionismo è probabilmente meno popolare tra i filosofi rispetto a qualche anno fa, ma spesso continua a essere il modello epistemologico di riferimento (esplicito o implicito) per molti scienziati. Come mai, e che c’è di sbagliato in esso?
Penso che scienziati e filosofi diano alla parola riduzionismo significati leggermente diversi. Per gli scienziati, spesso è poco più che la convinzione metodologica che sia tipicamente una buona idea analizzare le varie parti di un sistema e descrivere le loro interazioni se si vuole spiegare il suo comportamento. I filosofi di solito intendono qualcosa di molto più forte, che ogni cosa è spiegabile, in linea di principio, in base alle proprietà e alle interazioni delle sue parti. Dal momento che le spiegazioni sono di solito supposte transitive, questo potrebbe implicare che tutto, in linea di principio, è spiegabile con la fisica fondamentale. L’espressione “in linea di principio” gioca un grande ruolo qui; vista la complessità dei calcoli richiesti, potrebbe essere necessario Dio per avere una vera spiegazione.
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L’oggettività ideologica del capitalismo assoluto
di Salvatore Bravo
Le leggi galileane della natura, l’eternità inamovibile delle leggi scientifiche sono il fondamento ideologico del capitalismo assoluto. L’ideologia instaura l’eterno, anche dove non vi è che la realtà “umana troppo umana”, come affermerebbe Nietzsche. Ogni piano della vita sociale è espropriato del tempo storico e di senso, per essere sostituito dal tempo eterno della ripetizione. La temporalità è ciclica ripetizione del sempre eguale, nella caverna del tempo vi cadono anche i detentori dei mezzi di produzione e di illusione di massa, poiché ritengono le leggi dell’economia attuale fondate scientificamente e dunque intrasmutabili. I guinzagli dei poteri sono scintillanti di calcoli ed oggettività, i sudditi ne accettano il giogo, perché dinanzi al feticcio della scienza avulsa dalla temporalità, credono con atto di fede automatico alla verità della condizione attuale. Rompere tali meccanismi automatici, nei quali siamo intrappolati è operazione non semplice, ma i grandi mali non sono esenti da potenziali rimedi, per riportare la storia nella vita dei popoli è necessario capire, ed in ciò vi sono autori imprescindibili: György Lukács in Storia e coscienza di classe, problematizza l’economicismo e l’esemplificazione per reintrodurre la possibilità del senso, contro coloro che vorrebbero congelare la storia in un silenzio esiziale e fatale per l’umanità ed i popoli1 :
”Dal punto di vista del capitalista singolo, la realtà economica appare come un mondo dominato da leggi eterne della natura, alle quali egli deve adeguare il proprio /faire e laisser /faire. La realizzazione del plusvalore, l'accumulazione si compie per lui (naturalmente non sempre, ma molto spesso) nella forma di uno scambio con altri capitalisti singoli. E l'intero problema dell'accumulazione è dunque soltanto quello di una forma delle molteplici trasformazioni subite dalle formule D-M-D e M-D-M nel corso della produzione, della circolazione, ecc. Così, esso diventa per l'economia volgare un problema scientifico-particolare di dettaglio, che non ha quasi nessun legame con il destino del capitalismo nel suo complesso, - un problema la cui soluzione è sufficientemente garantita dalla giustezza delle «formule, di Marx, che dovranno al massimo – secondo Otto Bauer - essere perfezionate in modo da renderle « aggiornate ,..
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La recessione incalza e l'euro ci soffoca
E' il momento di emettere dei titoli quasi-moneta per rilanciare l'economia
di Enrico Grazzini
Una recente indagine scientifica dell'autorevole istituto di ricerca tedesco Centrum für Europäische Politik e i dati della Banca Mondiale sul mancato sviluppo dell'eurozona dimostrano chiaramente e con la forza dei numeri che l'euro è una moneta che frena gravemente l'economia, provoca diseguaglianza, arricchisce alcune nazioni, come la Germania, e ne impoverisce altre, come l'Italia. Il Centrum für Europäische Politik dimostra, come vedremo, che l'euro ha tolto soldi ai cittadini italiani ma ha riempito le tasche dei cittadini tedeschi. Questo non basta: si prospetta una nuova recessione economica. L'Italia sembra oggettivamente paralizzata sull'orlo del precipizio (e questa volta non per sua colpa). Per rilanciare l'economia il governo italiano dovrebbe finanziare estesamente molti piccoli e grandi investimenti pubblici, ma mancano i soldi necessari. Il problema è che la Banca Centrale Europea non può sovvenzionare gli stati e pompa moneta solamente per le banche; ma le banche commerciali non hanno interesse a fare credito a favore di una economia depressa. Gli operatori finanziari lucrano invece sui debiti pubblici e chiedono tassi di interesse sempre più elevati per prestare denaro agli stati. Così i paesi dell'eurozona non trovano le risorse per fare gli investimenti necessari per rivitalizzare l'economia. Inoltre l'Unione Europea impone ulteriori restrizioni di bilancio pubblico. Il cappio si sta stringendo. La crisi italiana potrebbe facilmente precipitare.
In questo contesto di crisi annunciata tocca alla politica percorrere strade innovative e alternative per difendere e risollevare l'economia nazionale. A mali estremi estremi rimedi. Una maniera concreta di dare ossigeno monetario e fiscale al nostro Paese è che il governo emetta urgentemente dei titoli quasi-moneta complementari all'euro. Pur restando nell'eurozona i Titoli di Sconto Fiscale a favore delle famiglie, delle imprese e degli enti pubblici potrebbero legittimamente (e senza infrangere nessuna regola europea) affiancare l'euro e neutralizzare gli effetti deflazionistici della moneta unica.
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Che Guevara, Maradona e Jim Morrison
Metaintervistina 30 – Writing Bad
Intervista a Marco Veronese Passarella
1 ) WW: le metaintervistine sono nate per “intervistare” persone legate al mondo della letteratura, poi si sono spinte verso il mondo della musica e ora… siamo giunti all’economia. Marco Veronese Passarella: l’economia è scienza o è anche arte? L’economista può essere un artista nel suo essere, appunto, economista?
MVP: Mi verrebbe da dire che è confusione, come rivela il fatto che si usi comunemente lo stesso nome, “economia”, per riferirsi sia alla scienza che al suo oggetto. Prescindendo da questo, l’economia politica o “economica” è l’arte di dimostrare, attraverso l’utilizzo di strumenti e metodi scientifici, che l’interesse materiale particolare della propria parte sociale corrisponde all’interesse generale. Insomma, l’una e l’altra cosa – arte della retorica e scienza – al servizio della lotta di classe nel piano più alto della sovrastruttura, quello della produzione delle lenti attraverso cui filtriamo (e modifichiamo) il mondo.
2) WW: quando l’ho contattata, lei si è definito “un barbaro”, ci spiega perché? Intendeva nel campo della letteratura?
MVP: Lo sono nell’accezione propria di straniero, appartenente a una civiltà remota – dato che sono comunista, ateo e, nei fatti anche se non per scelta, apolide. E, inoltre, lo sono anche nel senso lato di persona che legge ormai pochissimi libri, quasi nessuno. Persino nel mio lavoro la maggior parte del tempo di ricerca è assorbito dalla scrittura di codici e dalla lettura ‘diagonale’ di manuali e pubblicazioni tecnico-scientifiche. E, naturalmente, niente più carta. Solo bit. La barbarie, appunto.
3) WW: Com’è arrivato a essere lecturer in economics presso l’Economics Division della Business School, University of Leeds, e che giudizio da’ di questa sua esperienza lavorativa?
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La non-contemporaneità
Temporalità plurale in Louis Althusser
di Joseph Serrano
Nel 1988, durante una conferenza dedicata a ciò che gli organizzatori chiamarono «L’eredità di Althusser», Étienne Balibar presentò una relazione intitolata La non-contemporaneità di Althusser. La distanza temporale tra il momento in cui si tenne la conferenza e la pubblicazione degli atti è significativa, a maggior ragione se si tiene conto delle ambivalenze di cui Balibar parla nella prima parte della sua presentazione: qual è il significato del termine «eredità» in relazione a un filosofo come Althusser il quale, se anche non produceva più testi filosofici come in passato, né ricopriva una posizione nei circoli accademici e politici, non era comunque morto?1
Certo, Athusser sarebbe morto prima della pubblicazione degli atti di quella conferenza, un fatto che rende le esitazioni di Balibar ancora più palpabili, come se la non-contemporaneità che Balibar individuava nel cuore del lavoro di Althusser potesse diventare visibile solo nella discrepanza temporale della stessa Eredità di Althusser, nel fatto cioè che la conferenza sarebbe arrivata troppo presto, e il libro troppo tardi. Trent’anni dopo (a cento anni dalla nascita di Althusser), nel mezzo di un rinnovato interesse per il marxismo e il lavoro del filosofo francese, siamo in grado di comprendere la potenza piena di questa non-contemporaneità. Il mio tentativo qui consisterà dunque nel far emergere questa forza considerandola come un momento di rottura che si produce nell’incontro tra la non-contemporaneità e un concetto fortemente problematico nel marxismo: la «determinazione in ultima istanza» ad opera dell’economia.
Il luogo in cui il problema della «determinazione in ultima istanza a opera dell’economia» viene esposto con maggiore chiarezza ed enfasi è Contraddizione e surdeterminazione, dove, alle ultime pagine del saggio, Althusser scrive: «l’ora solitaria dell’ultima istanza non suona mai, né al primo momento né all’ultimo»2. È impossibile non osservare la temporalità qui in gioco, anche se essa esiste solo a un livello letterario o metaforico.
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Proprietà, patriarcato e criminalità ecologica, Cop24
di Karlo Raveli
Pubblichiamo un nuovo testo di Karlo Raveli, speditoci da una tappa della sua lunga odissea migrante. Si scusa per il suo limitato italiano da immigrato da lunga data e spera che "possa apportare buone energie ai nuovi processi di lotta che a quanto pare si stanno accendendo globalmente"
“La nostra credenza di essere separati l’uno dall’altro, dipende da una illusione ottica della nostra coscienza” Albert Einstein
Non ci conosciamo personalmente, caro Guido Viale, ma – pur navigando per mari lontani – ho per fortuna pescato un tuo bel tracciato attraverso il nuovo movimento delle donne, diretto a (ri)scoperte risolutive per la possibile uscita dal progressivo imbarbarimento della civiltà capitalista (1). Alle dipendenze del potere reale di poche migliaia di delinquenti plurimiliardari con la loro coorte di milionari, statisti, direttori di stampa, TV, ecc. e di tutti gli altri mezzi politici, culturali, educativi, sportivi e mediatici sistemici. Società che si presenta sempre più sconvolgente, come riflette per esempio con impressionante pessimismo Bifo in un suo recente messaggio in Effimera, pure caduto per caso nelle mie reti (2). Una prospettiva ancor più vicina dopo l’esito scellerato della Cop 24.
E allora vediamo con un po' d’illusione o speranza come queste tue riflessioni si possano cuocere in modo più preciso e sostanzioso. Visto che per buona sorte appaiono sempre più frequentemente tra libertari e comunisti di questo policromo “movimento mondiale (di donne) che riempie la scena politica e sociale degli ultimi anni”. Facendoci presumere “che sarà protagonista di ogni possibile processo di trasformazione dei rapporti sociali nei decenni a venire” se riuscissimo ad evitare l’immane catastrofe planetaria verso cui ci porta questo modo di “sviluppo”. Trasformazione ancora possibile, come ci sta dimostrando la magnifica e straordinaria vicenda sociale curda in Rojava, non occultiamolo! O la nuova stupenda speranza di masse giovanili sempre più coscienti e attive, accese tra l’altro dalla stupefacente scintilla Greta.
Politica e scena politica reale
Ma cominciamo da questa ‘scena politica’ che proponi, e su cui non sono d’accordo. Almeno nel senso tradizionale di politico anche in uso nelle sinistre del sistema.
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Per il centesimo anniversario della fondazione della Terza Internazionale
di Eros Barone
Per la prima volta, dopo centinaia e migliaia di anni, la promessa di “rispondere” alla guerra tra gli schiavisti con la rivoluzione degli schiavi contro tutti gli schiavisti è stata mantenuta fino in fondo e lo è stata malgrado tutte le difficoltà.
Noi abbiamo cominciato quest’opera. Quando, entro che termine precisamente, i proletari la condurranno a termine? Non è questa la questione essenziale. È essenziale il fatto che il ghiaccio è rotto, la via è aperta, la strada è segnata.
Lenin, Per il quarto anniversario della rivoluzione.
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«Una nuova Internazionale veramente rivoluzionaria»
«Creare una nuova Internazionale veramente rivoluzionaria»: questa era la finalità che l’ultima delle Tesi di aprile di Lenin proponeva ai bolscevichi. La bancarotta dell’Internazionale all’inizio della guerra europea era stata infatti, per Lenin, la prova decisiva della crisi del socialismo europeo. Da questo punto di vista, la nascita di una Internazionale, che sarà la Terza dopo l’“Associazione Internazionale dei lavoratori” sorta nell’epoca di Marx e dopo l’“Internazionale Socialista” fondata nel 1889, era chiaramente la prova del maturare, ben oltre i confini della Russia, di un movimento rivoluzionario mondiale capace di assolvere il proprio compito, ossia di trasformare il pianeta in senso socialista. Così, la nuova Internazionale avrebbe dovuto essere, per un verso, la sintesi delle due Internazionali che l’avevano preceduta: della Prima doveva avere lo spirito intransigente e rigoroso, della Seconda l’organizzazione e il radicamento territoriale; ma, per un altro verso, rispetto alla Seconda essa doveva essere anche un’antitesi, in quanto doveva incarnare un netto rifiuto del riformismo, dell’opportunismo e dello spirito di compromesso che erano stati i caratteri distintivi delle socialdemocrazie europee.
Quindi, dopo la votazione dei crediti di guerra alle rispettive borghesie da parte dei partiti socialdemocratici, che segnò la bancarotta politica, ideologica e morale della Seconda Internazionale, Lenin non ebbe alcun dubbio sulla necessità e sulla urgenza della creazione di una nuova Internazionale.
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Compiti per il pensiero complesso
di Pierluigi Fagan
Nell’articolo, che originariamente è pubblicato sul sito del Festival della Complessità, si pone la questione della agonistica separazione tra cultura scientifica e cultura umanistica, conosciuta anche come questione delle “due culture”. Questa separazione,a grandi linee e con bordi sfumati, sembra corrispondere ad una più profonda divisione tra cultura europea e cultura anglosassone, che oltre al suo riflesso in filosofia ha oggi anche una sua attualità politica. Poiché finisce col presentarsi anche come separazione tra il fare le cose ed i fini per cui le si fanno, nonché il loro significato ed il come le giudichiamo criticamente e per altri versi come separazione tra uomo e natura, la si pone come una delle questioni in agenda per un pensiero che voglia ripensare le cose “nel loro complesso”, inclusa la conoscenza stessa. Parleremo anche del sito americano -Edge- un aggregatore di pensatori tra cui molti rappresentanti di un certo tipo di pensiero della complessità contemporaneo.
* * * *
L’americano John Brockman nasce come agente letterario a vocazione scientifica, ma nell’esercizio della sua professione è poi diventato depositario di così vaste conoscenze da vedere una possibile sintesi, quella sintesi di sintesi di cui abbiamo parlato in un precedente articolo (qui). E’ diventato così autore egli stesso e animatore di circoli di pensiero, sempre nell’ambito tecno-scientifico tipicamente anglosassone. Come autore, ha scritto almeno un libro l’anno negli ultimi quindici anni (più d’uno tradotto in Italia), mente quindi molto eccitata. Uno in particolare si distingue, “La terza cultura” (Garzanti, 1999), che segna il momento in cui gli si è formato un nuovo sistema mentale, un diverso modo di vedere le cose nel “loro complesso”. Di quel libro in cui il nostro ha preferito far parlare direttamente 25 scienziati tra cui molti interni alla tradizione del pensiero complesso (M. Gell Mann, F. Varela, B. Goodwin, S. Jay Gould, S. Kauffman, C. Langton, L. Margulis ed altri molto noti da S. Pinker a M. Rees, da L. Smolin a R.Penrose, più tangenziali a questa forma di pensiero) ha avuto l’intuizione del titolo che fa categoria e le categorie, si sa, ordinano le sintesi. Ma cos’è la “terza cultura”?
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Il regionalismo, il caos e l'unità nazionale
di Leonardo Mazzei
Questa del Mazzei è senza dubbio la migliore analisi critica del cosiddetto "regionalismo differenziato"
«Se passasse il regionalismo differenziato l'Italia diventerebbe, come disse il Metternich nel 1847, una mera "espressione geografica"...»
Diciamo le cose come stanno: con il fallimento del Consiglio dei ministri del 14 febbraio il cosiddetto "regionalismo differenziato" è stato messo su un binario morto. Per ora è solo un rinvio, ma adesso fermarlo è possibile. Lo stop imposto dai ministri M5S alle richieste di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna non è dunque roba di poco conto.
La scadenza di metà mese sembrava quella del giudizio divino: o il progetto passava, o il governo cadeva. Così tuonava Giorgetti all'inizio dell'anno, puntualmente rilanciato dai capibastone della Lega nordista. E invece, né l'una né l'altra cosa. Bene, anzi benissimo, a condizione che il dibattito che si è finalmente aperto conduca al definitivo affossamento del disegno in questione.
Quel che è incredibile è come in tanti ancora non si rendano conto della posta in gioco, che non è solo lo spostamento delle risorse dalle regioni più povere a quelle più ricche - che già di per sé griderebbe vendetta -, ma l'avvio di un processo disgregativo potenzialmente in grado di minare la stessa unità nazionale. Il tutto per la gioia dei potentati euro-tedeschi che non potrebbero chiedere di meglio.
Sulla materia la confusione è tanta. Proviamo perciò a mettere un po' di ordine, affrontando sette questioni: 1) che cos'è il "regionalismo differenziato"; 2) da dove arriva, ovvero il problema di una Costituzione "incostituzionale"; 3) cosa chiedono le tre regioni del nord; 4) il trucco dei "fabbisogni standard"; 5) la truffa dei "residui fiscali primari"; 6) il caos di un regionalismo "fai da te"; 7) un secessionismo di fatto che farebbe il gioco dell'oligarchia eurista.
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Critica del neoliberismo e critica dell’europeismo devono procedere assieme
Fabio Cabrini intervista Domenico Moro
Il titolo del tuo ultimo libro “La gabbia dell’euro” non lascia spazio a troppe interpretazioni. Ci spieghi, in sintesi, perché la zona euro dovrebbe essere intesa come una camicia di forza dalla quale liberarsi il prima possibile? Cosa rispondi alle critiche di coloro che vedono nell’uscita, dati gli attuali rapporti di forza, un evento che andrebbe ad avvantaggiare esclusivamente i partiti nazionalisti?
DM: L’integrazione europea, in particolare quella monetaria, aliena alcune importati funzioni – bilancio e moneta – dallo Stato alle istituzioni sovranazionali europee. Lo scopo è sottrarre le decisioni economiche fondamentali all’influenza dei Parlamenti, ossia alla sovranità popolare e ai lavoratori, allo scopo di ricondurle sotto il controllo dello strato superiore e fortemente internazionalizzato del capitale. L’integrazione europea modifica, insieme al funzionamento delle istituzioni dello Stato, anche i rapporti di forza tra classi sociali, lavoratori salariati e capitalisti, a favore di questi ultimi. Per questa ragione, in Europa al centro di una politica democratica e favorevole alle classi subalterne non può che esserci il superamento dell’euro e dei Trattati, in pratica il superamento della Ue. Dire che per uscire bisogna aspettare rapporti di forza favorevoli è sbagliato. Infatti, se uscire espone a dei rischi e rimanere è disastroso, qual è l’alternativa? Una tale posizione è ingenua e impolitica, condannando alla irrilevanza e all’impotenza qualsiasi posizione politica progressiva e di classe. I rapporti di forza si modificano attraverso la politica, cioè mediante la creazione di consenso e la costruzione di organizzazione attorno a posizioni forti e adeguate alla fase storica. Uscire dall’euro è una di queste posizioni, anzi al momento è quella centrale, imprescindibile nella definizione di un programma di sinistra e socialista.
A maggio si terranno le elezioni europee. A parte che un eventuale spostamento dei rapporti di forza si andrebbe a realizzare in un organo, il Parlamento europeo, dal peso specifico assai relativo, c’è anche da dire che il PPE e il PSE, forze che si richiamano a un europeismo di matrice neoliberale, quasi certamente manterranno la maggioranza. Insomma, ad oggi sembra alquanto difficile immaginare, come fanno alcuni sovranisti di destra, dei cambiamenti sostanziali circa gli equilibri vigenti. Cosa ne pensi?
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Obbligo o verità?
La battaglia dei vaccini e il silenzio-assenso della sinistra
di Marco Craviolatti
Copernico partì da osservazioni note e usò un metodo accessibile a tutti.
Molti non gli credettero, ma le sue affermazioni erano già vere,
perché chiunque ci sarebbe potuto arrivare, grazie alla scienza del tempo.
Il suo punto di vista non venne imposto da un re o dai preti.
Altrimenti sarebbe stata una verità instabile, contraddittoria e ingiusta.
Wu Ming, Proletkult
Renzi-Gentiloni, Macron, Macri. Se vi dicessero che questi governi-modello del liberismo globale hanno imposto la stessa misura legislativa in Italia, Francia e Argentina, vi scatterebbe qualche campanello d’allarme? Nemmeno se toccasse quanto di più sacro vi appartiene, non il vostro portafoglio, bensì il vostro corpo? Nemmeno se stravolgesse all’improvviso un contesto stabile della salute pubblica, virando a 180° le norme precedenti? Se l’allarme non è scattato siete in buona compagnia della sinistra italiana (quella poca ancora tale).
Nel giugno 2017 il DL Lorenzin (procedura di urgenza! Poi convertito dalla Legge 119/2017) ha introdotto un abnorme obbligo vaccinale (10 + 4 raccomandati) dai 0 ai 16 anni, con corollario di misure coercitive e punitive: è una svolta della politica sanitaria di portata almeno equivalente a quanto rappresentò il pacchetto Treu per il lavoro, il piano inclinato della progressiva cancellazione dei diritti. Come allora, si parte da alcune fasce della popolazione per raggiungere via via tutti gli altri. Nell’intera storia italiana, dal 1939, i vaccini obbligatori non avevano mai superato i 4. Nell’ottobre 2017 è la Francia a portare da 3 a 11 i vaccini obbligatori. L’ulteriore salto di qualità arriva nel dicembre 2018 con il DDL argentino 972-D, che impone vaccinazioni certificate anche agli adulti perfino per il rilascio dei documenti di identità, seppur non vincolandoli (ma il passo è breve). In compenso diventano già indispensabili per l’accesso a scuole e università e per le visite pre-assuntive e lavorative: no iniezione – no lavoro. No Jab – No Job proclama compiaciuto in Australia il governo del Partito Liberale, che ha adottato una misura analoga, oltre a quelle No Jab – No Pay (taglio dei sussidi familiari) e No Jab – No Play (esclusione dalla scuola).
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Per la storia. Per la politica
A proposito di Sei lezioni sulla storia di Edward H. Carr
di Giorgio Riolo
Questo breve scritto riprende una nota a suo tempo redatta come introduzione all’opera di Edward H. Carr. Come si cerca di argomentare, la storia non è solo disciplina, materia, ambito del sapere e della conoscenza. Essa è fondamento della cultura critica, dello spirito critico, tanto più necessario nella nostra realtà contemporanea, della educazione civile e della formazione della persona attiva. È fondamento e sostanza della politica
Queste note che seguono hanno il modesto fine di richiamare l'attenzione sulla questione della storia. A riconsiderare il problema della storia, come questione cruciale della sostanza della nostra cultura, della nostra politica, della nostra democrazia, della nostra vita. Nell'epoca del trionfo della filosofia complessiva del neoliberismo, non solo della sua naturalmente potente e decisiva dimensione economica. Nell'epoca della destoricizzazione compiuta, della eternizzazione del presente e quindi del potente bisogno dei dominanti di espungere la coscienza storica, la dimensione storica dalla coscienza diffusa delle persone. Coscienza diffusa già manipolata e alienata. Ma proprio al fine della manipolabilità infinita delle coscienze delle persone. A partire dal retroterra della filosofia individualistica compiuta (la signora Thatcher “La società come ente non esiste, esistono gli individui e le famiglie”), come una delle componenti più granitiche di questa filosofia complessiva. Cultura dell'io, cultura del corpo, cultura del narcisismo (Christopher Lasch): la trinità del contemporaneo monoteismo imperante.
Ricordiamo il problema che sottolineò Lukács, già nel 1923, e cioè che il limite del pensiero borghese (noi diremo oggi del pensiero e dell'ideologia capitalistiche), proprio perché appiattito sul “dato”, sul “compiuto”, sul “risultato” della forma-merce, occultando il processo genetico, la processualità, risiedeva nella difficoltà di considerare il presente come problema storico, il presente come storia. Questo complesso problematico è più attuale che mai proprio nell'era del capitalismo della globalizzazione neoliberista.
Queste note le facciamo cogliendo l'occasione della riproposizione di un testo importante della cultura storica, della metodologia della storia. Apparso in lingua italiana nel lontano 1966, formò molti di noi, non solo come libro di studio, liceale e universitario, ma anche come libro della formazione (e autoformazione) politica.
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Mario Draghi, “La sovranità in un mondo globalizzato”
di Alessandro Visalli
Nel mondo globalizzato che un sistema di azione altamente complesso[1] ha costruito a partire dai primi anni settanta, non c’è alcuno spazio per la democrazia dei nostri padri e nonni.
Non c’è alcuno spazio, cioè, per la democrazia inclusiva e popolare che muoveva, certo sempre in modo incompiuto e come progetto da rinnovare, dall’eguaglianza dei ‘cittadini’[2] in quanto ‘persone’ e non per le loro capacità (siano esse economiche o cognitive), quanto per il loro diritto di formarsi norma a se stessi. Certo una forma, quella democratica, che è sempre cambiata nel tempo, passando dal parlamentarismo delle origini alla democrazia a suffragio universale e di massa ‘dei partiti’ novecentesca, ed alla trasformazione di questa in una ‘democrazia del pubblico’[3], centrata su pratiche di sorveglianza e discredito per le forme della politica.
Il vuoto che anche l’autore diagnostica viene però riempito dall’espressione di una diversa ‘sovranità’: la vecchia definizione del ‘controllo’, ovvero della potenza. Si torna in questo modo alla ‘sovranità’ del discorso politico seicentesco[4]. A ben vedere il discorso di Draghi, nel momento in cui retoricamente difende la pace, è quindi un discorso di guerra, è esattamente il contrario di quel che dice di essere. Quel che accusa ad altri di essere lui è.
Come dice, infatti:
“La vera sovranità si riflette non nel potere di fare le leggi, come vuole una definizione giuridica di essa, ma nel migliore controllo degli eventi in maniera da rispondere ai bisogni fondamentali dei cittadini: ‘la pace, la sicurezza e il pubblico bene del popolo’, secondo la definizione che John Locke ne dette nel 1690[3]. La possibilità di agire in maniera indipendente non garantisce questo controllo: in altre parole, l’indipendenza non garantisce la sovranità.”
Qui il soggetto di potenza deve ‘controllare gli eventi’ per ‘rispondere’ a bisogni, che sono oggettivati, di cittadini che diventano destinatari passivi.
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Il governo giallo-verde. Non sarà per sempre
di Fabio Nobile
Dopo circa nove mesi di governo giallo-verde è possibile tracciare un primo bilancio del suo operato che va commisurato alle aspettative dell’articolato e contraddittorio aggregato sociale che lo ha sostenuto alle politiche dello scorso anno. Un bilancio che può essere supportato, in alcuni aspetti cruciali, dai risultati elettorali avuti in Abruzzo. La vittoria del centrodestra a trazione leghista (la Lega al 27,5% , il doppio rispetto ad un anno fa) e il pesante stop elettorale del M5s (la metà dei voti in percentuale rispetto a quelli ottenuti alle politiche un anno fa, in confronto ad un differenziale percentuale tra politiche e regionali precedenti molto più basso) sono la fotografia dei nuovi rapporti di forza nella maggioranza che già emergevano da recenti sondaggi. Va sottolineato, in questo senso, che ad oggi, oltre all’Abruzzo, sono sei le Regioni governate da una coalizione trainata dalla nuova Lega: Liguria, Lombardia, Friuli, Molise, Sicilia e Veneto. Al contempo la mobilità elettorale è da collocare in una fase fortemente instabile. Quello che è oggi, anche per la Lega, può cambiare radicalmente in poco tempo. Come lo stesso risultato del M5s non può essere letto come un dato di irreversibile arretramento. E questo è confermato ancora di più con i dati dell’astensionismo.
I bassi livelli di partecipazione al voto (ancora in calo rispetto alle regionali del 2014) segnalano una volatilità dell’elettorato ancora più grande rispetto a quello che dicono i numeri dei voti assegnati. Tale dinamicità può rappresentare, allo stesso tempo, la leva su cui impostare un lavoro per iniziare a tracciare un’alternativa.
Accennati alcuni elementi di analisi del voto in Abruzzo, prima di qualunque considerazione, il primo elemento da sottolineare riguarda l’approccio sulla natura di questo governo. Senza capirne la natura si rischia di andare fuori bersaglio o peggio stare al gioco di chi, con richiami ipocriti, dipinge fronti repubblicani funzionali solo a ristabilire quell’ordine politico che negli ultimi venti anni ha significato rigore economico e impoverimento di massa.
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Democrazia e laicità
di Stefano Petrucciani
1. Neutralità e laicità dello Stato democratico[1]
Tra i diritti fondamentali le moderne democrazie costituzionali non includono solo quello di manifestare le proprie idee politiche, ma anche quello di professare la propria religione. Anzi, si può dire che uno dei principi basilari del moderno Stato costituzionale sia proprio quello della laicità o neutralità religiosa dello Stato, che si è affermato nella cultura europea attraverso la sanguinosa vicenda delle guerre di religione che si scatenarono dopo la Riforma, e che è ormai patrimonio di tutte le democrazie liberali. Nel patrimonio culturale europeo risulta dunque acquisita (in buona misura) l’idea che lo Stato non può far propri i dogmi di una determinata religione, e tantomeno ispirare ad essi la propria legislazione, ma deve invece offrire una cornice nella quale si possano riconoscere sia i cittadini appartenenti a religioni diverse sia quelli che non ne professano nessuna. E’ questo appunto il contenuto del principio di laicità dello Stato, che in Italia è stato esplicitato e definito non tanto nella Costituzione vera e propria quanto soprattutto in alcune sentenze della Corte costituzionale: prima nella sentenza n. 203/1989 e poi in quella n. 508/2000 dove si afferma che «l’atteggiamento dello Stato non può che essere di equidistanza e imparzialità nei confronti»di tutte le confessioni religiose, senza alcuna rilevanza del dato quantitativo o delle reazioni sociali conseguenti alla violazione dei loro diritti, «imponendosi la pari protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede quale che sia la confessione di appartenenza»[2].
L’affermazione di questo principio, però, non risolve affatto tutti i problemi che si pongono nella convivenza tra diversi; problemi che diventano tanto più drammatici nel momento in cui migranti di etnia, cultura e religione differente dalla nostra attraversano ogni giorno i confini degli Stati europei, magari per entrare in aule scolastiche dove è esposto il crocefisso o dove il velo islamico – nelle sue tante varietà – non è ben accetto.
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Le morti sul lavoro sono un indicatore di classe
di Carmine Tomeo
Ogni anno nel mondo 3 milioni di persone muoiono per infortuni o malattie connesse al lavoro. Ma aumentare i controlli non basta, il problema è il paradigma economico che subordina le vite alla competitività delle imprese
Partiamo da un presupposto: una qualsiasi analisi degli infortuni e delle malattie professionali che tenti di abbracciare in maniera complessiva la materia non può prescindere dal considerare i rapporti di produzione esistenti. Una sanzione a questa tesi ci viene dal compianto sociologo torinese, Luciano Gallino: «Le imprese che per risparmiare qualche migliaio di dollari o di euro non predispongono misure adeguate per prevenire incidenti o gravi patologie a lunga genesi rappresentano in modo singolarmente efficace la lotta di classe sui luoghi di lavoro». Una lotta nella quale ogni anno muoiono milioni di persone.
Due milioni di morti ogni anno
Le più recenti stime dell’Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro) sono agghiaccianti: 2,78 milioni di lavoratori muoiono ogni anno per infortuni sul lavoro (quasi 400 mila) o per malattie connesse all’attività lavorativa (circa 2,4 milioni). Altre 160 milioni di persone contraggono malattie professionali seppure non mortali. Mentre molto spesso un incidente non mortale lascia tracce indelebili nella vita di un numero sterminato di lavoratori: 313 milioni di persone subiscono infortuni che provocano lesioni gravi e gravissime; dati Ilostat confermano che negli ultimi dodici anni, mediamente 2 milioni di persone ogni anno hanno perso in maniera permanente la capacità di svolgere le normali mansioni di lavoro nell’occupazione che avevano al momento dell’incidente; in moltissimi casi, com’è facile immaginare, la lesione ha provocato una totale incapacità lavorativa.
Così, nel tempo che avete dedicato a leggere queste poche righe, da qualche parte nel mondo 153 persone hanno subito un infortunio e 4 di esse hanno perso la vita, ammazzati da un sistema economico che fa stragi (pressoché nel silenzio generale) che non risparmiano nemmeno i minorenni, neppure i bambini.
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Contro la sinistra del Capitale
di Guillaume Deloison
L'idea stessa di rivoluzione, sembra essersi dissolta nell'aria, così come ogni critica radicale del capitalismo. Naturalmente, viene generalmente ammesso che ci sarebbero numerosi dettagli da cambiare per quanto riguarda l'ordine del mondo. Ma uscire dal capitalismo, e basta? E poi per sostituirlo con che cosa? Chiunque ponga questa domanda, rischia di passare per un nostalgico del totalitarismo del passato, oppure per un ingenuo sognatore. Ma, sulla base di quella che è la nostra situazione ecologica e sociale, appare decisamente necessario portare avanti una critica radicale del capitalismo, mostrarne il suo carattere distruttivo, che è allo stesso tempo anche storicamente limitato.
Contrariamente a quanto è stato ritenuto implicitamente da Adam Smith, David Ricardo, e perfino da quasi tutti i marxisti, le categorie capitalistiche della merce, del valore, del lavoro, non sono affatto naturali ed eterne. Tali categorie esistano specificamente solo grazie al modo di produzione attuale. Il valore considera solo la quantità di lavoro contenuta nelle merci, vale a dire, la quantità di tempo necessario alla loro produzione. Tempo che può essere visto solamente secondo il modo standardizzato della produzione capitalista: come pura astrazione. Un ora, quella della fabbrica, è la stessa ora dappertutto, ovunque. Il capitalismo si caratterizza a livello profondo per il fatto che la società tutt'intera è dominata da questi fattori anonimi ed impersonali. É ciò che Marx chiama «feticismo della merce», e che non è affatto riducibile ad una semplice «mistificazione» della realtà capitalista.
Piuttosto che mettere in discussione il valore di mercato, il lavoro, ecc., in quanto principio regolatore della produzione e della vita sociale, il movimento operaio ed i suoi teorici si battevano solamente per una sua «ridistribuzione» più giusta. Accettando quella che è la struttura stessa della produzione capitalista, si preoccupavano essenzialmente di riuscire ad ottenere le migliori condizioni di vita per le classi lavoratrici.
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La lezione dei gilet gialli: l’ambientalismo non è un pranzo di gala
di coniarerivolta
In occidente le lotte dei ‘gilet gialli’ (gilet jaunes), il movimento nato a metà novembre 2018 come forma di protesta per il rincaro del prezzo della benzina voluto dal governo di Macron, vengono continuamente e volutamente distorte da parte degli esponenti politici liberisti filo-europeisti e dagli organi di stampa mainstream. Si tenta di far passare il messaggio per cui la ragione di fondo di tali proteste, che da subito, ben oltre la miccia dell’innesco iniziale, hanno presentato una forte e decisa espressione di generale dissenso verso le politiche liberiste condotte dall’Unione Europea, vi sia la volontà di preservare lo status quo sul piano ambientale e sociale; mentre chi davvero combatterebbe per cambiare il mondo è una ragazza svedese di 16 anni, di nome Greta Thunberg, che tutti i venerdì mattina, da sei mesi a questa parte, salta la scuola per scioperare di fronte al parlamento svedese contro il cambiamento climatico. Le proteste della ragazza, anche grazie al vastissimo eco fornitole dalla stampa internazionale, le hanno consentito di salire sul palco della conferenza mondiale per il cambiamento climatico (Cop24) tenutasi in Polonia lo scorso dicembre 2018, e di partecipare alla grande manifestazione del 22 febbraio a Bruxelles contro il cambiamento climatico.
I messaggi che la politica e la stampa occidentale non hanno alcuna intenzione di far passare sono, però, fondamentalmente due.
1) In primo luogo, lo scopo delle proteste dei gilet gialli non è quello di negare l’esistenza del cambiamento climatico né tantomeno di promuovere politiche antiambientaliste, bensì ottenere condizioni di vita migliori per la maggioranza della popolazione. Tale scopo passa, anche, per la strada del dissenso verso sedicenti politiche fiscali “ambientaliste”, il cui costo viene fatto ricadere sulla collettività, in particolare sulle classi sociali più deboli.
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Politica, ontologie, ecologia
di Luigi Pellizzoni
Prende avvio, con questo intervento, la rubrica Ecologie della trasformazione, a cura di Emanuele Leonardi, che affronterà diversi aspetti del rapporto tra ecologia, politica e società
Politica, ontologie, ecologia: perché unire assieme queste tre parole, ciascuna delle quali provvista di una lunga storia? O anche: perché mettere “ontologie” in mezzo a politica e ecologia? Si tratta di un’inutile complicazione, che tira in ballo (tra l’altro al plurale) un concetto tra i più sdrucciolevoli della filosofia, o di un passo necessario? Nel prosieguo provo a motivare la seconda opzione.
“Ecologia politica” è un’etichetta che identifica un filone di studi piuttosto variegato dal punto di vista disciplinare (antropologia, sociologia, storia, geografia, economia, filosofia, ma anche scienze agrarie e forestali ecc.) ma ben riconoscibile nel suo incentrarsi sulla “relazione tra fattori politici, economici e sociali e le questioni e i mutamenti ambientali” (così recita la definizione che troviamo su Wikipedia)1, contestando gli approcci apolitici a tali questioni e mutamenti. Secondo Paul Robbins, autore di un libro di testo di un certo successo sull’argomento, si tratta di “un filone di ricerca critica basato sull’assunto che ogni strappo nella trama della rete globale di connessioni tra esseri umani e ambiente si riverbera sul sistema nel suo complesso”, e sull’impegno a “interrogare la relazione tra economia, politica e natura” (Robbins 2012, p. 13).
La matrice dell’ecologia politica è fondamentalmente marxista. L’interrogazione quindi riguarda non la storia umana in generale ma i processi di accumulazione capitalista, in quanto basati sul contemporaneo sfruttamento del lavoro umano e non-umano; sfruttamento che è andato depauperando e distruggendo l’uno e l’altra. L’idea portante dell’ecologia politica è così che non vi possa essere transizione ecologica senza trasformazione sociale, o viceversa. Proprio le ascendenze marxiane lasciano tuttavia in una certa ambiguità l’esatto carattere del nesso.
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Errori di previsione del Pil durante l’Eurocrisi: quali cause?
di Emiliano Brancaccio e Fabiana De Cristofaro*
Da cosa dipesero i gravi errori di previsione della crescita del Pil durante la crisi? Per l’ex capo economista del FMI Olivier Blanchard si trattò di una sottostima dei “moltiplicatori keynesiani”, che portò anche a sottovalutare gli effetti recessivi dell’austerity. Alberto Alesina, Carlo Favero e Francesco Giavazzi provano a confutare questa tesi e nel loro nuovo libro suggeriscono un’interpretazione alternativa. Emiliano Brancaccio, invece, questa volta spezza una lancia a favore dell’economista francese fornendo nuove evidenze empiriche a sostegno della sua interpretazione
Riabilitare la politica di austerity, nella versione basata sui tagli alla spesa pubblica: è questo l’ambizioso obiettivo di Austerità, il nuovo libro di Alberto Alesina, Carlo Favero e Francesco Giavazzi, che discuteremo oggi presso l’Università Bocconi.
Questo libro ha alcuni meriti. In primo luogo, presenta una metodologia di analisi in parte inedita, basata sul concetto di “piani fiscali” e su un insieme di dati più esteso di quelli solitamente adoperati dalla letteratura in materia. Inoltre, gli intenti scientifici del volume sono giudiziosamente delimitati: per esempio, gli autori specificano che i loro “risultati non indicano in alcun modo quali siano le dimensioni ottimali del settore pubblico” e aggiungono che l’impatto delle politiche di austerity sui livelli di disuguaglianza è “questione che esula dai propositi del libro”. Chi dunque speri di trovare in Austerità un sostegno indiscriminato alle politiche di lacrime e sangue, alle dottrine sullo “Stato minimo” o alle strategie reaganiane per “affamare la bestia” statale, rimarrà probabilmente deluso.
Nonostante le sue qualità, tuttavia, confessiamo che il libro non ci ha ammaliati. Qui ci soffermeremo su uno dei punti del volume che ci sono sembrati meno convincenti: si tratta dell’esercizio con il quale i tre autori provano a confutare una celebre tesi “keynesiana” di Olivier Blanchard. L’economista francese, ex capo della ricerca del Fondo Monetario Internazionale, ha sostenuto che gli errori di previsione sull’andamento del Pil in Europa durante la crisi sarebbero da imputare a una sottostima dei cosiddetti “moltiplicatori” della spesa autonoma. A nostro avviso la tesi di Blanchard regge alla prova empirica mentre il tentativo di confutazione di Alesina, Favero e Giavazzi ci pare contestabile. Ecco perché, dopo averlo in varie occasioni criticato, questa volta abbiamo ritenuto giusto scrivere un “Pro-Blanchard”.
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Temporalità plurali
La tradizione marxista a contropelo
di Vittorio Morfino
Carlo Rovelli nel suo libro L’ordine del tempo, un libro divulgativo sulla fisica relativistica e quantistica, scrive a proposito del tempo definito da Einstein:
[Vi è] un tempo diverso per ogni punto dello spazio. Non c’è un solo tempo. Ce ne sono tantissimi. Il tempo indicato da un particolare orologio misurato da un particolare fenomeno, in fisica si chiama tempo proprio. Ogni orologio ha il suo tempo proprio. Ogni fenomeno che accade ha il suo tempo proprio1.
Il tempo della relatività generale di Einstein non descrive «come il mondo evolve nel tempo» ma descrive «le cose evolvere in tempi locali e i tempi locali evolvere uno rispetto all’altro». In definitiva, conclude Rovelli, «il mondo non è come un plotone che avanza al ritmo di un comandante», ma «una rete di eventi che si influenzano l’un l’altro»2. Non posso negare che il concetto di temporalità plurale a cui faccio cenno nel titolo sia ispirato da un orizzonte di questo genere. Certo, non va sottovalutata la difficoltà del passaggio dal piano della fisica relativistica a quello della storia.
Facciamo allora un passo indietro e prendiamo in considerazione i due grandi modelli attraverso cui la tradizione occidentale ha pensato il tempo: il circolo e la linea. Il primo modello, con estrema generalizzazione, è quello greco, il secondo è quello che si apre con il cristianesimo. Cristo è il punto che stabilisce la doppia direzione del tempo storico, il passato come prefigurazione ed il futuro come giudizio universale. Löwith ha insistito giustamente sulle origini della filosofia della storia settecentesca e ottocentesca dal modello fornito da Gioacchino da Fiore – nel Libro della concordia tra antico e nuovo testamento3 – che aggiunge alla linea tempo ascendente una precisa epocalizzazione, che sarà ripresa dall’illuminismo al positivismo, dall’hegelismo al marxismo, sotto forma di sviluppo di fasi, gradi, stadi. Le epoche in questo contesto sono grandi aree di contemporaneità.
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Libertà come illusione nella cultura decadente
di Paolo Massucci
Sono cresciute negli ultimi anni tesi a sostegno del determinismo e dell’illusorietà del libero arbitrio, supportate da recenti scoperte delle neuroscienze. Vero avanzamento del pensiero scientifico e filosofico o ideologia funzionale al mantenimento dello status quo?
In un interessante testo del 2016 [1], Andrea Lavazza, studioso di filosofia morale e di filosofia delle neuroscienze, ci offre un quadro dell’attuale dibattito inerente ad uno degli argomenti da alcuni anni più discussi, che si candida ad essere tra gli snodi più importanti della riflessione filosofica, in virtù delle sue ricadute sull’esistenza. Si tratta dell’alternativa tra la nozione di determinismo, nelle sue diverse articolazioni, e quella di libero arbitrio [2], questione che ha segnato la storia del pensiero sin dall’antichità, almeno a partire da Democrito.
La prospettiva deterministica radicale, quale in particolare quella ottocentesca, fonda il divenire delle cose e del mondo - esseri viventi e uomo compresi - su un rapporto di causa/effetto basato su leggi naturali immutabili. Tale concezione è incompatibile con il libero arbitrio, in quanto quest’ultimo presuppone uno spazio di imprevedibilità, su cui interviene la libera volontà dell’individuo che decide di agire in un senso o nell’altro. L’idea che ogni evento abbia una causa fisica preclude la possibilità di una causazione prodotta dalle facoltà mentali, cioè di nuove catene causali che non siano predeterminate dagli eventi del passato. Dunque in tale concezione gli atti mentali non causerebbero mai eventi fisici e la libertà di azione della persona sarebbe illusoria. L’uomo può solo “immaginare” di essere libero, come una pietra in caduta che prende coscienza del moto e scambia tale coscienza con la causa del movimento, affermava Spinoza nel XVII secolo in una celebre metafora. Appartiene proprio a questa tradizione di pensiero la celebre affermazione di Laplace nel Saggio sulle probabilità del 1814 secondo cui un’intelligenza che conoscesse tutte le forze da cui è animata la natura, nonché la posizione rispettiva di tutta la materia, compresi gli esseri viventi, potrebbe avere, in linea di principio, completa e certa conoscenza di tutti gli accadimenti futuri.
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Atto XV: lezioni francesi
di Giacomo Marchetti
La “marea gialla” ha superato il suo terzo mese di mobilitazione permanente, ed è il movimento politico-sociale più longevo che ha conosciuto la storia repubblicana della Francia, eccezion fatta – ma si trattava di una dinamica diversa – per l’appoggio alla lotta anticoloniale del popolo vietnamita, o le mobilitazioni “per la pace in Algeria”.
Intellettuali e Potere
Macron e la sua maggioranza governativa non stanno disdegnando alcun mezzo per cercare di far cessare questo movimento, aiutati in questo da una serie di operatori dell’informazione – soprattutto televisiva – e da “intellettuali organici” al suo entourage, che hanno volentieri indossato l’elmetto nella guerra mediatica per la costruzione scientifica del nemico, stigmatizzando negativamente a tutto tondo i GJ.
I “nuovi mandarini” d’Oltralpe stanno conducendo una vera e propria battaglia culturale a favore delle élites tesa a riaffermare il proprio “etno-centrismo” di classe e la sua narrazione tossica della realtà, visto l’approfondirsi della perdita di egemonia e il riemergere di una visione del mondo in cui torna centrale il mutuo appoggio, l’azione collettiva e l’identificazione in un Peuple che, come ci ha insegnato Tano D’Amico, cambia la percezione di sé, non solo nel senso della sua raffigurazione.
Per comprendere il clima mefitico che si respira nell’Esagono, basti pensare che il Ministro dell’Interno Castaner, nella versione francese del celebre format televisivo “au tableau”, di fronte a degli alunni del set televisivo ha spiegato – legittimandolo – l’uso delle varie “armi non letali” in uso alle forze dell’ordine francesi tra cui, l’LBD, senza nascondere che si tratti di dispositivi pericolosi, mostrando i punti del corpo a cui il personale poliziesco è autorizzato a mirare!
Alla domanda degli alunni – che prevede una risposta obbligatoria da parte dell’improvvisato professore della trasmissione televisiva – su cosa succederebbe se questi dispositivi fossero soppressi, Castaner ha risposto:
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