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Moneta, finanza e crisi. Marx nel circuito monetario
Marco Veronese Passarella*
Ricorre il 5 gennaio il secondo anniversario della morte di Augusto Graziani, uno dei più eminenti economisti italiani del novecento e padre del filone teorico eterodosso noto come teoria del circuito monetario. Per l’occasione, rendo qui disponibile la bozza preliminare di un mio contributo recente su teoria del circuito monetario, critica marxiana e finanziarizzazione. Per gli aspetti più tecnici della teoria del circuito, rinvio ad un secondo contributo (in lingua inglese) in uscita su Metroeconomica
1. Introduzione: l’altro Marx
Fin dalla pubblicazione postuma del Terzo Libro de Il Capitale, il dibattito “economico” attorno alla grande opera incompiuta di Karl Marx si è concentrato prevalentemente sul cosiddetto problema della trasformazione (dei valori-lavoro in prezzi di produzione), nonché sulla legge della caduta tendenziale del saggio del profitto. In altri termini, è soprattutto sulla possibile frizione tra Primo Libro e (prima e terza sezione del) Terzo Libro che si è storicamente focalizzata l’attenzione dei più, dentro e fuori le mura accademiche. Per contro, ad eccezione dei capitoli finali dedicati agli schemi di riproduzione,1 il Secondo Libro de Il Capitale è stato a lungo trascurato. Peggior sorte è toccata alla quinta sezione del Terzo Libro, dedicata al credito, al capitale fittizio ed al sistema bancario. In effetti, se l’analisi delle due forme – mercantile e capitalistica – della circolazione è stata solitamente sminuita a sorta di breve introduzione al problema dell’individuazione dell’origine del plusvalore (problema affrontato compiutamente da Marx nel Primo Libro), il ruolo della moneta, del credito e della finanza nell’ambito della teoria marxiana, laddove contemplato, è stato quasi sempre ridotto a quello di amplificatori del ciclo economico.2 Lungi dall’essere considerati elementi costitutivi del modo di produzione capitalistico, e dunque di ogni modello analitico che aspiri ad indagarne le leggi di movimento, moneta, istituzioni creditizie e finanza sono state di norma assimilate a “frizioni” nell’ambito di un modello fondato sull’interazione tra grandezze “reali”. Paradossalmente, si tratta di una visione non dissimile da quella che ha permeato il pensiero economico dominante a partire dalla fine del diciannovesimo secolo.
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Energia dell’indifferenza
Andrea Cortellessa
Mentre la città affonda in una nuvola di smog, soffice e dolce come lo zucchero a velo sul pandoro tenuto al calduccio sul termosifone (come insegnavano le zie d’un tempo), i sempre più inadeguati autobus della Capitale inalberano, simpaticamente unanimi, l’ultima versione della campagna – in corso ormai da quasi due anni, ma di questi tempi in ovvia escalation – di quello che il prossimo giugno, con ogni probabilità, sarà il mio prossimo sindaco: Alfio Marchini. Come nelle precedenti, allo slogan generale IO AMO ROMA. | E TU? (dove la o di Roma è sostituita da un cuore rossastro che al suo interno – in proporzioni però tali da renderlo invisibile a chi guardi il manifesto anche con una certa attenzione, ma senza avvicinarsi troppo – riproduce il reticolato irregolare della viabilità urbana) e all’indirizzo mail del comitato elettorale (che sostituisce la firma di chi con questo messaggio ci si rivolge), viene premessa una frase di volta in volta diversa, tale da seguire più o meno da vicino le vicende dell’attualità, le urgenze del quotidiano che ben conosce chi l’autobus, ahilui, lo prende (o prova a prenderlo) tutti i giorni. La frase «d’attualità» è evidenziata in sfondo giallino, alludendo a device in dotazione ai più comuni programmi informatici di scrittura.
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Giano, Podemos e Manolo Monereo
Santiago Alba Rico
Un intervento, quello qui sotto, che ci spiega molte cose sull'aria che si respira in Spagna dopo le elezioni del 20 dicembre, ma che offre elementi importanti per comprendere il fenomeno Podemos e quanto sta accadendo a sinistra
Gennaio è il mese di Giano, il dio romano che guardava sia avanti che indietro, la doppia porta che collegava il passato e il futuro. Se consideriamo le elezioni del 20 dicembre una soglia gianica e guardiamo indietro, è difficile esagerare i mutamenti subiti dalla Spagna da due anni a questa parte, da quando a Madrid venne alla luce l’iniziativa che oggi chiamiamo Podemos. La strada intensa, imprevedibile e talvolta tortuosa che ha portato a questi 69 deputati ha già consegnato al nostro Paese almeno tre cambiamenti decisivi.
Il primo ha a che fare con la messa in discussione di tutti gli accordi di ferro della cosiddetta “transizione” e, di conseguenza, delle pratiche politiche associate al bipartitismo dominante negli ultimi decenni.
Appoggiandosi all’aura immunologica del 15M [gli Indignatos, NdR], Podemos ripoliticizzato le maggioranze sociali spostando l’egemonia in una direzione opposta a quella dilagante in Europa. Nel paese che sembrava meglio blindato, peggio preparato e più conservatore, è riuscito a rimuovere il tabù che pesava su alcune questioni chiave (la monarchia, il modello economico e, soprattutto, "la questione nazionale") imponendo un nuovo quadro discorsivo alle forze proprie ed a quelle del regime e bloccando la strada, così facendo, al populismo di destra che avanza nel continente.
Un piccolo esempio recente: mentre in seguito agli attentati di Parigi il 13 novembre, il Fronte nazionale imponeva al "socialista" Hollande una reazione bellicosa e islamofoba, in Spagna Podemos, con la sua iniziativa di pace e contro i bombardamenti indiscriminati, ha dettato il ritmo agli altri partiti disattivando la danza elettoralista del “patto antijihadista".
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Gli anni vissuti pericolosamente
Riccardo Bellofiore
La cosiddetta “età d’oro” del capitalismo - il termine non mi piace tanto, in verità – i trenta anni tra il 1945 e il 1975, spesso viene qualificata come un’epoca di compromesso tra le classi. Ma quando mai! Era un’epoca di dominio forte da parte del capitale, un comando sul lavoro, dentro cui, con il conflitto e con l’antagonismo, si sono, nel corso della seconda metà degli anni Sessanta soprattutto e primi anni Settanta, strappate una serie di conquiste. Il fatto che tanto i governi conservatori quanto quelli più di centro-sinistra abbiano perseguito politiche di bassa disoccupazione lo si deve alla storia tragica dell’Europa nel Novecento; e poi alla competizione di un sistema, che non ha mai avuto la mia simpatia, che era il sistema sovietico, e che però imponeva all’Occidente di stare al passo. In quel trentennio, prima ancora che i keynesiani in senso stretti divenissero consiglieri espliciti dei governi (avverrà soprattutto con Kennedy e Johnson), esiste una piena occupazione e una contrattazione collettiva, un lavoro decente secondo la definizione dell’ILO, e salari progressivamente crescenti in termini reali.
La fase del neo-liberismo monetarista è la fase che risponde alla crisi di questo capitalismo “keynesiano”, che è anche una caduta da sinistra, una caduta dovuta anche ad un conflitto sociale, ad un conflitto del lavoro in cui i lavoratori non accettano di farsi usare come strumento di produzione, come cose, magari risarciti con la piena occupazione e un “equo” salario (lo aveva di nuovo intuito Kalecki).
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Star Wars. Mitologia Jedi e cultura convergente
Gianluca De Sanctis
Per spiegare l’incredibile successo ottenuto da Star Wars nei suoi quasi quarant’anni di vita alcuni non hanno esitato a chiamare in causa la nozione di “mito”, senza tuttavia preoccuparsi di specificare le ragioni di tale definizione o valutarne seriamente l’attendibilità. Come si sa nel linguaggio moderno in effetti il termine “mito” viene applicato, forse in modo troppo superficiale, a tutti quegli oggetti culturali che hanno in qualche modo colonizzato l’immaginario collettivo finendo per imporsi all’attenzione anche di chi non si considera un fan. Nel caso di Star Wars tuttavia l’appellativo di “mito” rischia di recuperare il suo significato originale, ossia quello di racconto (nel senso più largo del termine) che presenta un certo tipo di requisiti o elementi, che lo distinguono nettamente da altre tipologie di testo narrativo. Ovviamente esistono un’infinità di definizioni di “mito” e persino i Greci, che ne sono gli inventori, non erano d’accordo quando si trattava di dire cosa fosse un mythos. Per semplificarci il compito faremo nostra la definizione, semplice ma al tempo stesso estremamente affidabile, proposta diversi anni fa dal filologo svizzero Walter Burkert, secondo cui i miti altro non sarebbero che racconti tradizionali forniti di una loro «significatività». Il mito, dunque, è un racconto che viene da lontano, che ha attraversato il tempo, ha resistito al tempo, e che in virtù di questa sua forza continua a godere di una certa autorità nel presente, continua cioè ad essere «significativo» sul piano culturale. Vediamo allora se il nostro testo possiede questi due requisiti.
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Una candela che brucia dalle due parti
Rosa Luxemburg tra critica dell’economia politica e rivoluzione
di Riccardo Bellofiore*
Nous ne pouvons plus maintenant avoir aveuglément confiance, come Rosa, dans la spontanéité de la classe ouvrière, et les organisations se sont écroulées. Mais Rosa ne puisait pas sa joie et son pieux amour à l’égard de la vie et du monde dans ses espérances trompeuses, elle les puisait dans sa force d’âme et d’esprit. C’est pourquoi à présent encore chaucun peut suivre son exemple (Simone Weil).
Introduzione
Sono passati ormai quasi cent’anni da quando, nel gennaio del 1919, Rosa Luxemburg venne assassinata. L’immagine che di lei hanno avuto ed hanno i suoi avversari, di ieri e di oggi, è semplice abbastanza da poter essere sintetizzata in un’espressione efficace come “Rosa la sanguinaria”. Ma anche le immagini che di lei hanno dominato e dominano tra chi dovrebbe averne più a cuore la memoria – penso ai marxisti di questo secolo, e a un certo femminismo – sono a volte talmente semplificate da risultare ancora meno accettabili.
Si prenda, per esempio, un articolo di Margarethe von Trotta, regista di un film su Rosa Luxemburg. La regista tedesca sintetizzava l’eredità della rivoluzionaria polacca nell’amore, nell’incapacità di odiare, nel rifiuto della violenza. Non si potrebbe immaginare certo nulla di più lontano da “Rosa la sanguinaria”. Già nel film, peraltro, la Luxemburg vi appare come una pacifista, amante della natura, che patisce la divisione tra politica e sentimenti, precocemente oltre il femminismo nella convinzione di una maggiore positività delle relazioni femminili. Tutti tratti, si badi, che hanno un riscontro in momenti ed aspetti di questa donna cui è capitato di essere rivoluzionaria. Ma se si assolutizzano questi lati mettendo tra parentesi la sua vita spesa nel lavoro teorico marxista, tra analisi dell’accumulazione e agire politico, la sua lucida coscienza della amara spietatezza delle leggi della storia e della lotta contro di esse, si finisce – magari contro le intenzioni – con il riproporre una divisione delle ragioni dalle passioni.
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Creare beni comuni
George Caffentzis e Silvia Federici
Ovunque gli spazi urbani vengono privatizzati, le strade commercializzate ed è proibito persino sdraiarsi su di una spiaggia senza pagare. I fiumi intanto vengono contenuti dalle dighe, le foreste disboscate, l’acqua imbottigliata e messa sul mercato, i sistemi di conoscenza tradizionali saccheggiati attraverso norme di proprietà intellettuale e le scuole trasformate in imprese volte al profitto. Ciò spiega perché l’idea dei beni comuni esercita una forte attrattiva sull’immaginario collettivo. Del resto, in ogni angolo del mondo gruppi di persone hanno cominciato a costruire insieme beni comuni: orti urbani, banche del tempo, gruppi di acquisto solidale, monete locali, licenze “creative commons”, pratiche di baratto, cucine popolari, esperienze di pesca comunitaria… Creare e difendere beni comuni è più di un argine contro gli assalti neoliberisti alle nostre vite. È la forma embrionale di un modo diverso di vivere, è il seme di una società oltre il mercato e lo stato. “Il nostro compito è comprendere come possiamo connettere queste diverse realtà – spiegano in questo splendido saggio George Caffentzis e Silvia Federici – E come possiamo assicurarci che i beni comuni che creiamo siano realmente trasformativi delle nostre relazioni sociali e non possano essere cooptati”
Abstract
Il documento mette a confronto la logica sottostante la produzione dei “beni comuni” con quella delle relazioni capitaliste e descrive le condizioni in base a cui i beni comuni divengono semi di una società oltre lo stato e il mercato. Mette anche in guardia rispetto al pericolo di cooptazione dei beni comuni per fornire forme di riproduzione a basso costo e analizza come poter prevenire tale esito.
Introduzione
I “beni comuni” stanno diventando una presenza costante nel linguaggio politico, economico e persino in campo edilizio, dei nostri tempi. Sinistra e destra, neoliberisti e neokeynesiani, conservatori e anarchici utilizzano il concetto nella loro propria accezione politica.
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Il 2016 di fuoco delle banche italiane
I pericoli per il sistema bancario, i rischi dei risparmiatori e quelli del governo Renzi
di Leonardo Mazzei
Da anni questo blog segue le dinamiche di crisi del sistema bancario italiano. Nel luglio 2013, di contro a chi si ostinava a non vedere il problema, indicavamo il rischio del crollo del sistema bancario italiano. Mazzei torna sull'argomento con un'analisi impeccabile dei diversi aspetti della bomba bancaria e conclude con una proposta
Almeno per le banche, il 2016 non sarà un anno come gli altri. Che il sistema bancario italiano abbia dei seri problemi, questo ormai l'hanno capito tutti. Le stesse ripetute rassicurazioni sulla sua "solidità" non fanno altro che confermare la gravità della situazione. In poche settimane abbiamo avuto il "decreto salvabanche", le perdite dei risparmiatori coinvolti, lo scontro di Renzi con la Germania, il caso delle dimissioni rientrate del governatore Visco, la corsa di fine anno alla sistemazione di alcuni istituti di credito (Banca Veneto e non solo), mentre dal primo gennaio saranno legge le norme del bail-in voluto dall'Europa. Insomma, una situazione in forte movimento, con sullo sfondo la questione delle questioni: il via libera oppure no, e se sì in quale forma, alla bad bank, il nuovo istituto che dovrebbe assorbire i crediti in "sofferenza" delle banche italiane, consentendo alle stesse una consistente ripulitura dei bilanci.
Tante le questioni in gioco: politiche, economiche e finanziarie. Tanti i soggetti a rischio, potenzialmente diversi milioni di italiani. Proviamo allora ad inquadrare i vari aspetti del problema.
1. Lo scontro con Angela Merkel non è solo propaganda
Partiamo da un fatto politico: lo scontro inscenato da Renzi nei confronti di Angela Merkel all'ultimo Consiglio europeo non è solo propaganda. Chi lo pensa sbaglia.
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Ora e sempre inconsistenza!
La menzogna assoluta contiene sempre in sé il proprio opposto
Andrea Magoni, Pier Paolo Dal Monte, Ugo Boghetta
Nell’articolo “Il male della banalità” pubblicato su a/simmetrie il 15 luglio si riconosceva, portando l’esempio della Grecia, l’impossibilità per qualsiasi formazione della cosiddetta “sinistra” di affrancarsi dalla gabbia dell’europeismo di maniera, fatto di significanti senza significato e di slogan ad effetto che non hanno alcun nesso con la realtà dei fatti. Come scrivemmo:
«È ormai evidente che quest’Unione Europea è totalmente irriformabile, perché è incompatibile con la democrazia; pertanto non si pone più alcuna questione su quali cambiamenti siano necessari per renderla migliore. Fanno sorridere gli appelli delle variopinte anime belle delle varie sinistre movimentiste sulla necessità di ridisegnare le regole europee, i parametri e i patti di stabilità, allo scopo di contrastare le politiche di austerità, visto che nella gabbia della moneta unica e dei trattati europei non c’è possibile redenzione. Il ricorso ad improbabili iniziative referendarie od elettoralistiche, su queste basi, è quindi destinato all’irrilevanza».
Questo è uno dei punti fermi da tenere sempre presenti, se non si vuole cadere nell’inconsistenza di una prassi fine a se stessa o, cosa peggiore, in un’operazione di cosiddetto “gatekeeping” che serva solo ad intercettare voti per impedire la formazione di forze politiche che possano essere veramente utili per contrastare la crisi nella quale versa il nostro Paese e il nostro continente e, cosa più importante, per modificare la situazione attuale creando una vera alternativa politica.
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Salario minimo garantito (reddito di cittadinanza)*
Gianfranco Pala
“Se ci vien fatto di dimostrare che la carità legale, applicata secondo questo principio, può essere utilmente introdotta nelle società moderne, noi avremo tolto al comunismo i suoi più formidabili argomenti, e segnata la via a migliorare le sorti delle classi più numerose, senza mettere a repentaglio l’esistenza stessa dell’ordine sociale” (Camillo Benso conte di Cavour)
Il carattere “sociale” e “minimo” del salario non deve assolutamente essere frainteso. Vi sono difatti molti, oggigiorno, che sull’onda delle mode riproduttive e fuori mercato, intendono con codesto tipo di dizioni forme spurie di salario o reddito garantito dallo stato o da altre istituzioni pubbliche, mediante prestazioni più o meno accessorie fornite a lavoratori e disoccupati, donne e giovani, cittadini e utenti. Una tal commistione di categorie, e meglio anzi sarebbe dire una tale lista di attributi tra loro incongruenti, conduce a un pasticcio di rapporti di forza, di lotta e di diritti, di assistenzialismo e di elemosina (quel tipo di confusione concettuale “inetta e barbarica” sulla quale Hegel ironizzava chiamandola “un ferro di legno”). L’essere sociale e minimo del salario è invece unicamente conseguenza dell’essere merce della forza-lavoro entro il rapporto di capitale posto da questo modo della produzione sociale. Non vi è spazio né teorico né storico, perciò, per confondere il carattere sociale del salario con sole sue parti o con differenti forme assistenziali cui le istituzioni borghesi saltuariamente provvedono per concessioni parziali, né il suo livello minimo con analoghe forme assistenziali o contrattuali che dànno veste legale all’ipocrita solidarietà della filantropia borghese.
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L’Unione Bancaria nuoce all’Italia
Consulta e Cassa Depositi intervengano
di Enrico Grazzini
A causa delle pessime regole dell'Unione Bancaria decise dalla Commissione Europea sotto dettatura del governo tedesco, il risparmio italiano e l'intero sistema bancario nazionale sono a rischio. Dopo che i buoi sono scappati dalla stalla – ovvero dopo che migliaia di ignari e innocenti piccoli risparmiatori hanno perso tutti i loro soldi, come è successo nel caso delle quattro banche regionali Banca Marche, Carife, Popolare Etruria e CariChieti – Matteo Renzi, leader maximo del governo italiano, si lamenta che la Unione Europea usa due pesi e due misure: uno per la Germania e l'altro per l'Italia (e per gli altri paesi cosiddetti periferici dell'eurozona). La Germania fa quello che vuole non solo sulle banche, ma anche sull'immigrazione e sull'energia e sul business con la Russia. Renzi se ne accorge solo ora? Meglio tardi che mai!
Lamentarsi – magari per cercare di recuperare i voti del crescente malcontento – non basta: per riuscire veramente a uscire dalla morsa teutonica, occorre che in prospettiva il governo imponga la revisione degli idioti, unilaterali e anticostituzionali trattati europei, a partire da quello sull'Unione Bancaria. Nell'immediato bisogna invece emettere nuova moneta fiscale e nazionalizzare almeno una grande banca italiana con l'intervento della Cassa Depositi e Prestiti. Questa sarebbe la vera difesa del risparmio italiano! Uscire dalla trappola della liquidità e salvare le banche.
Renzi ha approvato senza fiatare trattati europei anti-costituzionali, tra cui l'Unione bancaria. Oggi però si lamenta che i due capi del governo tedesco, Merkel e Gabriel, fanno solo ed esclusivamente gli interessi del loro paese.
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Sovrappopolazione e Capitale
di Giorgio Carlin*
Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta spinge irresistibilmente nel futuro, cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo”.,Walter Benjamin, Nona tesi su concetto di storia
(su “Angelus Novus” di P.Klee)
Contributo alla discussione congressuale nazionale di Sinistra Anticapitalista
Mi ha colpito molto la drammaticità della crisi ambientale del pianeta descritta da Daniel Tanuro in “Di fronte all’urgenza ecologica..”.
Vorrei aggiungere alcune riflessione a proposito della sovrappopolazione “assoluta” e la strategia del Capitale. Chiarisco che si parla di sovrappopolazione assoluta per intendere una densità umana incompatibile comunque con qualunque progetto di convivenza degno di questo nome, mentre la s. relativa, di marxiana memoria, si riferiva al modo di produzione dominante, in cui dai semplici raccoglitori al più evoluto sistema industriale si potevano alimentare popolazioni umane crescenti. E’ evidente che l’eventuale “spinta progressiva” dello sviluppo demografico si stia capovolgendo.
Non è che l’uomo (ma anche altre specie animali) non sia riuscito a creare disastri ambientali anche con relativamente piccole comunità. Solo alcuni esempi eclatanti (citati da lettore curioso e non certo specialista):
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Hayek, Issing, Visco, Patuelli: preveggenza inspiegabile sulla moneta unica (bancaria)?
di Quarantotto
Antefatto 1
Prendiamo le mosse da questa interessante dichiarazione di Visco in un'intervista alla Repubblica:
"...La mera possibilità del "bail in" renderà più onerosa la raccolta bancaria, rischiando di essere, se non ben gestito, controproducente. Se un supermercato fallisce, magari se ne apre uno vicino in grado di vendere le stesse merci al pubblico di quello fallito. Se fallisce una banca, non ne riapre un'altra uguale vicina. Il rischio è che ne fallisca un'altra. Lentamente l'Europa sta cominciando a capire quali possono essere le reali conseguenze delle nuove norme".
Ma Visco dovrebbe magari dialogare, ad esempio, con Otmar Issing, che pare un interlocutore €uropeo, piuttosto attendibile e autorevole, visto che quest'ultimo, come vedremo, queste "reali conseguenze" pareva averle comprese molto bene fin dall'inizio, come vedremo in dettaglio. Il che pone allo stesso governatore delle esigenze di chiarimento con gli interlocutori europeisti, per appianare quella che, indubbiamente, risulta oggi come una fondamentale divergenza di vedute e di visioni strategiche.
Antefatto 2
A ciò aggiungiamo queste dichiarazioni del presidente dell'ABI, Patuelli che, come vedremo in una più attenta analisi del complessivo funzionamento "VOLUTO" della moneta unica (almeno a sentire Otmar Issing in qualità di esponente BCE e in tempi non "sospetti"), risultano obiettivamente contraddittorie.
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Coworking e millenials, o delle rivoluzioni addomesticate
Cristina Morini
Parlare di coworking è alfine un espediente per osservare la geografia attuale del lavoro e le difficoltà politiche e organizzative che incontriamo sul tema. Il coworking è infatti un’utile idea, nata dal basso, per tentare di fare emergere il lavoro dalla situazione individualizzata e isolata indotta dalla precarietà, insistendo sull’aspetto sociale e collaborativo del processo. Storicamente, la condivisione degli spazi in cui il lavoro si compiva ha contribuito a costruire la consapevolezza, la cognizione, anche epica, della sua forza antagonista. Oggi, essere al lavoro vuole spesso dire anche essere simbolicamente “fuori” dal lavoro così come per tradizione è stato visto, interpretato e validato. Sandra Burchi che, a partire da dieci racconti di donne alle prese con il loro ufficio domestico, ha dedicato una ricerca importante al fenomeno aggiornato del “lavorare da casa” condensata nel libro Ripartire da casa, invita a perlustrare la nuova dimensione in cui il lavoro si svolge, considerandola come uno “spazio terzo” da reinventare. Luogo tutt’altro che privo di resistenza proprio perché incarna, concretamente, la collisione tra produzione e riproduzione, tra lavoro e non-lavoro, lavoro concreto e lavoro astratto, dunque esprime la fenomenologia dirompente di una realtà che andrebbe – finalmente – considerata congiuntamente perché inseparabile. Effettivamente, non è banale rapportare questa dimensione esistenziale del lavoro precario all’esperienza del lavoro domestico delle donne: la domestication del lavoro diventa l’occasione per disarticolare ogni precedente separazione, prima voluta e sancita, tra sfera pubblica e sfera privata, che significa un prodigioso ampliamento delle possibilità di far “comunicare, lavorare ed essere”, contemporaneamente, il soggetto precario.
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Il pranzo al sacco di Mario Mineo
di Angelo Foscari
Avvertenza: nella migliore tradizione post-althusseriana, ho scritto quanto segue avendo letto poco di Mario Mineo e pochissimo di Lefebvre. D’altro canto, il ‘Modo di Produzione Statuale’ pone dei problemi evidenti, e qualcosa andava detto. Sempre alla maniera della scuola di pensiero di cui sopra, sono comunque disponibile a compiere una o due (massimo 3!) autocritiche. Perciò fatevi sentire.
1. On s’engage et puis on voit ?
Per parafrasare lo stesso Mineo: “Qualsiasi imbecille è oggi in grado di spiegarvi che Marx non scriveva ‘ricette per le osterie dell’avvenire’, rifiutandosi di definire a priori i caratteri della futura società socialista”. Dato però che la strada della fuoriuscita dell’umanità dal sistema capitalista è lunga e impervia, né ci è data alcuna certezza riguardo alla conclusione di tale cammino, in attesa di raggiungere questo benedetto avvenire e scoprire cos’è che si mangia nelle sue osterie, all’inizio del 1987 – circa sei mesi prima dell’improvvisa scomparsa – il dirigente e teorico marxista rivoluzionario palermitano Mario Mineo volle fornire ai viandanti anticapitalisti un assai opportuno pranzo al sacco, sotto forma di Lo Stato e la Transizione. Un saggio sulla teoria marxista dello Stato, testo che costituisce una buona metà del volume che raccoglie gli Scritti Teorici di Mineo (a cura di Dario Castiglione, Enrico Guarneri e Piero Violante), da cui cito e sul quale ha relazionato per i seminari di PalermoGrad Giovanni Di Benedetto in questo articolo. Se l’interlocutore polemico cui Mineo si rivolge in prima battuta, Norberto Bobbio (che faceva notare l’assenza di una teoria marxista dello Stato) è scomparso da tempo, quasi tutti gli altri sono ben presenti nel dibattito attuale e seguitano a dire – più o meno - le stesse cose di trent’anni fa, dal Mario Tronti dell’Autonomia del Politico al Claus Offe del Capitalismo Disorganizzato, fino a Toni Negri per cui, in seguito ad una rivoluzione anticapitalista “il proletariato sarà sempre e in ogni caso capace di inventare le forme istituzionali della gestione del potere”: posizione questa che Mineo considera fuori dalla realtà, ma non più di quella dello stesso Bobbio, che spera “in un sostanziale avanzamento della democrazia rappresentativa in Occidente” a fronte invece di “tendenze involutive che sono in opera da parecchio tempo” (126-7).
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La Siria, lo Stato Islamico e la “guerra all’Europa”/seconda parte
di Militant
Qui la prima parte
III. Lo Stato Islamico, il pensiero strategico del nuovo jihadismo
Intervistato dal Corriere della Sera Vali Nasr, rettore della Scuola di studi politici internazionali della John Hopkins University di Washington, ha recentemente dichiarato:
Se andiamo a cercare spiegazioni per tutti i rivoli rischiamo di perdere il quadro d’insieme. Il nodo centrale è la Siria. Se non ci fosse stata la guerra civile siriana oggi l’Isis non esisterebbe.(…) Il fatto che esista un’organizzazione terrorista con una sua base territoriale è una cosa di enorme importanza. Sul piano operativo e anche su quello psicologico. Un ribelle reclutato dall’Isis, magari un criminale comune, all’improvviso si sente investito di una missione: ha non solo un’ideologia, ma anche una patria da difendere.
Il politologo di origine iraniana, già consigliere di Obama, coglie così, meglio di molti altri osservatori politici, gli elementi di novità strategici e tattici che stanno dietro l’ascesa dello Stato Islamico. La categoria del “terrorismo islamico”, con cui si è soliti inquadrare il tema, inchioda il nemico a due sole dimensioni: la violenza e la fede. Il problema è che lo stigma bipolare coglie alcuni aspetti epifenomenici della questione, ma ne nasconde altri, meno visibili ma indispensabili per comprenderne la natura.
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L'Unione Europea tra Rivoluzione Passiva e questione meridionale
Note a partire da Gramsci
di Diego Fusaro
“L’umanità europea si è allontanata dal telos che le è innato. È caduta in una colpevole degenerazione poiché, pur essendo già divenuta consapevole di questo telos (avendo mangiato dell’albero della conoscenza), non lo ha portato alla più piena coscienza né ha insistito nel tentativo di realizzarlo come proprio senso vitale pratico, ma gli è diventata infedele”. (E. Husserl, L’idea di Europa)
1. Premessa
Scopo del presente saggio è rileggere l’odierna Unione Europea e il suo processo di integrazione dei popoli attraverso il prisma interpretativo di tre categorie dei gramsciani Quaderni del carcere, in particolare a) la “rivoluzione passiva”, b) la “quistione meridionale”, e c) il “cesarismo”.
Tuttavia, prima di affrontare i plessi teorici appena annunciati, occorre svolgere alcune considerazioni preliminari, onde evitare fuorviamenti interpretativi. In particolare, allorché si ragiona sul dibattutissimo tema dell’Unione Europea, bisogna preventivamente distinguere tra i tre piani dell’ideale, del reale e dell’ideologico.
In estrema sintesi, l’odierna Unione Europea viene troppo spesso surrettiziamente presentata come se, nella sua attuale configurazione, corrispondesse in actu alle premesse e alle promesse del nobile ideale europeo quale era venuto prendendo forma, sia pure secondo modalità differenti, nelle elaborazioni concettuali di alcuni dei protagonisti della stagione filosofica moderna (da Immanuel Kant1 a Edmund Husserl2). In questo modo, il reale viene scambiato indebitamente con l’ideale, in una totale rimozione del fatto che, tra i due, nell’odierno presente si dà uno scarto abissale; uno scarto in forza del quale si può, senza esagerazioni, sostenere che l’attuale Unione Europea si pone come antitesi del grande ideale dell’Europa come confederazione – così in Kant, ma poi anche in Spinelli – di Stati liberi e democratici, uguali e solidali.
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Perché ci odiano?
Culture neocoloniali e deindustrializzazione nel ventre molle dell’Europa
di Militant
Dopo gli attentati di Parigi dello scorso 13 novembre da più parti ci si è chiesti: perché ci odiano? Questa volta le risposte, almeno quelle presenti nell’informazione generalista – che però è quella che forma l’opinione pubblica e di conseguenza le risposte politiche che a loro volta formano l’opinione pubblica in un loop senza fine – hanno tentato la carta psicologica. I terroristi altro non sarebbero che “scarti sociali” con “un livello medio-basso di cultura, una famiglia molto solida ed unita alle spalle e la pericolosa tendenza al fanatismo religioso. In tutti i terroristi si è sempre osservato che più si chiudevano ed isolavano rispetto alla società più diminuiva il loro senso di realtà, alimentando così dichiarazioni sempre più farneticanti da rendere quindi ogni loro “delirio” come giusto e possibile. In tutti i terroristi si è anche sempre osservato che la molla che li ha spinti ad agire è sempre l’odio” (qui). La scelta terrorista sarebbe la conseguenza di un’esistenza alienata e marginale che trova nell’idea forte del radicalismo islamico una prospettiva altrimenti impossibile e con internet lo strumento di relazione della propria patologia. Di tutte le risposte che i policy makers occidentali potevano escogitare questa è davvero la più incredibile. Non che ci credano essi stessi (se il capitalismo fosse così stupido sarebbe seppellito da un pezzo tra le bizzarrie della storia), ma essendo la più veicolata diviene quella socialmente più accettata, dando vita ad un processo di de-responsabilizzazione complessivo delle società occidentali. Corollario alla risposta psicologica è la richiesta di una “psicologia dell’antiterrorismo”, che miri a prevenire psichiatricamente la patologia del terrorista. Purtroppo, a queste cose l’opinione pubblica ci crede davvero.
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Teoria della “crisi”. Un’analisi filosofica
di Elio Franzini
In un tempo in cui la parola “crisi” è tra le più presenti nel nostro vocabolario quotidiano, era necessario che la riflessione filosofica contemporanea più avvertita ne affrontasse i caratteri di fondo. Elio Franzini, nel volume “Filosofia della crisi”, propone una rigorosa analisi sulle linee di sviluppo del concetto di “crisi”, nel suo rapporto con la verità e con alcune articolazioni del pensiero, restituendogli un senso più profondo. Proponiamo ai nostri lettori la Premessa del libro, pubblicato da Guerini, ringraziando l’editore per la gentile concessione
Difficile ignorare, in avvio, che questo libro appare, pur se concepito con altro scopo, in un momento in cui abbondano le riflessioni dei filosofi su se stessi e, di conseguenza, sulla filosofia. È questo il segno di una crisi, che periodicamente si rinnova, e che assale quando a una funzione «tradizionale», che si svolge in prevalenza nelle università e nell’editoria specialistica, se ne affianca un’altra, che cerca la sua visibilità sulle pagine culturali dei giornali, nell’universo sempre più ampio dei «media». Non è una tendenza nuova dal momento che ne parlava anche Leopardi, criticando la filosofia dei gazzettieri: ma si è ingigantita negli ultimi cinquant’anni sino a creare quasi una dicotomia sociale, tra ciò che è chiuso in un ambiente ristretto e ciò che, invece, affronta la vita, con differenze di linguaggio che non possono non incidere sulla tradizione e sulla storia.
Tutto ciò che segnala una crisi del proprio orizzonte di ricerca non può essere ignorato: ma, tuttavia, neppure enfatizzato, dal momento che solo di enfasi vive. Incarna, molto semplicemente, un’esigenza sempre più forte di divulgazione, che a volte sfiora la banalizzazione, l’eccitazione per il «nuovo», sia esso un paradigma, un «ismo», un metodo, un nesso con altre discipline, un prefisso, un suffisso e via dicendo. Un’esigenza generata certo dalla diffusione della comunicazione e dei mezzi di trasmissione del sapere, ma che, tuttavia, non muta i termini generali in cui si muove la disciplina.
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Austerity, supervisione e ristrutturazioni bancarie
Il ruolo controverso della BCE
di Raffaele Giammetti
In letteratura sussistono vari riscontri a sostegno della esistenza di una relazione tra politiche fiscali restrittive, calo della produzione e dei redditi e connesso deterioramento dei coefficienti patrimoniali delle banche europee. Le analisi suggeriscono che una restrizione dei bilanci pubblici può compromettere la stabilità dei bilanci bancari, inducendo piani di ricapitalizzazione e al limite liquidazioni e acquisizioni estere: vale a dire, fenomeni di “centralizzazione” dei capitali bancari in Europa. Se si accetta questa chiave di lettura, si può trarre anche una riflessione critica sul nuovo duplice ruolo della BCE, di gendarme dell’austerity e di supervisore bancario.
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Dal novembre 2014 la Banca Centrale Europea ha preso in consegna la supervisione regolamentare diretta di circa 130 gruppi bancari dell’area euro. Si è così perfezionato il Meccanismo Unico di Vigilanza (MUV), primo tassello verso la creazione di una Unione Bancaria Europea. L’avvio del nuovo meccanismo di vigilanza è stato preceduto dal Comprehensive Assessment (CA), un esercizio ufficiale di valutazione dei bilanci effettuato con l’obiettivo di esaminare la qualità degli attivi, il grado di resistenza a shock macroeconomici esterni e più in generale l’adeguatezza patrimoniale dei bilanci delle banche dell’Unione europea.
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Brevi note sulla sostenibilità sociale del sistema previdenziale pubblico in Italia
di Andrea Fumagalli*
In Italia, il sistema pensionistico pubblico è strutturato, seppur solo formalmente, secondo il criterio della ripartizione.
Ciò significa che i contributi che i lavoratori e le aziende versano agli enti di previdenza vengono utilizzati per pagare le pensioni di coloro che hanno lasciato l’attività lavorativa. Per far fronte al pagamento delle pensioni future, dunque, non è previsto alcun accumulo di riserve.
È evidente che in un sistema così organizzato, il flusso delle entrate (rappresentato dai contributi) deve essere in equilibrio con l’ammontare delle uscite (le pensioni pagate).
In Italia, da un lato, il progressivo aumento della vita media della popolazione (fatto di per sé positivo, a meno che non si voglia ripristinare un “Monte Taigeto” di spartana memoria o una “rupe Tarpea” di latina memoria) ha fatto sì che si debbano pagare le pensioni per un tempo più lungo, dall’altro, il rallentamento della crescita economica ha frenato le entrate contributive.
Per far fronte a questa situazione, sono state attuate una serie di riforme tutte orientate a riportare in equilibrio contabile la spesa pensionistica:
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I mass media, Gramsci e la costruzione dell’uomo eterodiretto
di Paolo Ercolani
Nella realtà sociale, nonostante tutti i cambiamenti, il dominio dell’uomo sull’uomo è rimasto il continuum storico che collega la Ragione pre-tecnologica a quella tecnologica. (H. Marcuse1)
Con l’evoluzione della «società dello spettacolo» sta maturando il passaggio da una forma di dominio sui corpi a una sulle menti. L’individuo, sotto attacco nella sua sfera intellettiva, rischia di perderela capacità di agire consapevolmente e di essere soggetto della storia
Se uno degli ambiti di studio e azione più importanti della filosofia marxista è consistito nell’analisi delle forme di dominio del più forte sul più debole, la grande intuizione di Antonio Gramsci, e quindi uno dei suoi lasciti più fecondi, risiede nell’aver compreso come, con il Novecento, il terreno su cui si svolgevano – e si sarebbero svolte – le nuove forme di dominio non era più dato dal solo contesto strutturale, ma avrebbe interessato la sovrastruttura ideologica 2. In forme e con modalità certamente non osservabili (e quindi prevedibili) in tutta la loro potenzialità ai tempi del pensatore sardo, ma che sono sotto gli occhi di tutti nei giorni nostri in piena epoca di trionfo della società dello spettacolo, con i suoimeccanismi tecnologici annessi 3.Con l’elaborazione del nesso fra teoria e pratica,tra pensiero e azione, in buona sostanza tra filosofia e politica, Gramsci non soltanto superava quel marxismo meccanicistico che concentrava la propria attenzione sul solo momento strutturale (di contro al problema opposto rappresentato dall’Idealismo), ma poneva le basi per un recupero della centralità dell’uomo (e della sua dignità) come soggetto pensante e agente (inscindibili i due momenti) e, in quanto tale, soggetto consapevole e «creatore della sua storia» 4. All’interno di questo discorso si comprende l’intento gramsciano perché al nesso fra teoria e azione (o tra filosofia e politica) corrispondesse quello tra «intellettuali» e «semplici»: innanzitutto affinché i primi sapessero elaborare dei principi coerenti con i problemi che le masse si trovano a porre con la propria attività pratica, al fine di costituire un «movimentofilosofico» che non svolgesse «una cultura specializzata per ristretti gruppi di intellettuali», ma che fosse in grado di trovare nel contatto costante coi semplici «la sorgente dei problemi da studiare e risolvere». Soltanto in questo modo una filosofia si «depura» dagli «elementi intellettualistici» e si fa «vita» 5.
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La fine del mondo. Capitalismo e mutazione
Daniele Balicco
Nella manifattura la rivoluzione del modo di produzione prende come punto di partenza la forza-lavoro; nella grande industria il mezzo di lavoro. Occorre dunque indagare in primo luogo in che modo il mezzo di lavoro viene trasformato in macchina, oppure in che modo la macchina si distingue dallo strumento del lavoro artigiano. (Karl Marx, Il capitale)
Noi ci siamo occupati tanto a fondo del problema di sapere che cosa pensiamo da esserci dimenticati di chiederci che cosa la psiche inconscia pensi di noi. (Carl Gustav Jung, L’uomo e i suoi simboli)
Il rito, ogni rito, è un condensato di storia e preistoria: è un nocciolo dalla struttura fine e complessa, è un enigma da risolvere; se risolto, ci aiuterà a risolvere altri enigmi che ci toccano più da vicino. (Primo Levi, Opere)
1. Realismo ingenuo
La cultura contemporanea occidentale immagina il proprio futuro con molta difficoltà. Non a caso la forma più comune di rappresentazione simbolica del futuro è la catastrofe. Naturalmente esistono ragioni oggettive che possono giustificare questo impulso simbolico autodistruttivo.
Prima fra tutte, la percezione fisica, percettiva, estetica della distruzione dell’ecosistema e della biosfera; ma, subito dopo, potremmo enumerare una serie di condizioni di pericolo a cui ci stiamo abituando a essere esposti, per lo meno a livello ipotetico: caos sociale, crisi economiche, povertà, violenza politica, guerre, terrorismo, se la nostra sensibilità è soprattutto storico politica; contaminazioni radioattive, manipolazioni genetiche, epidemie, avvelenamenti di massa, disastri tecnologici, se ci spaventano di più quelli che Ivan Illich avrebbe chiamato gli esiti contro-produttivi della produttività (cfr. Illich 1973). Anche solo l’elenco sommario di queste condizioni di pericolo mostra come, in questi ultimi decenni, la cultura occidentale abbia sperimentato, con intensità crescente, la crisi dell’idea di progresso, non tanto a livello teorico, quanto a livello percettivo-sensibile.
La società contemporanea trova però anche molto difficoltà a immaginare il passato. Da meno di vent’anni comunichiamo tutti con la posta elettronica.
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Supportare la resistenza, preparare l’offensiva
Dove sono i nostri
di Collettivo Clash City Workers
Incontro-dibattito sul libro Dove sono i nostri. Lavoro, classe e movimenti nell’Italia della crisi, Clash City Workers (La casa Usher, 2014) presso La casa in Movimento, Cologno Monzese (MI), 13 novembre 2015
Il progetto Clash City Workers nasce a Napoli nel 2009 e si diffonde a Roma, Firenze e Padova, in piccolo anche a Milano, Torino e Verona, dove si sono sviluppati dei nodi del collettivo Clash. Di base è nato dall’esigenza di trovarsi, dal fatto di essere sempre stati legati a livello ideologico a una visione della società che vede il lavoro al centro quantomeno del ragionamento politico, una visione che però non aveva gli strumenti adeguati per leggere la realtà che si trovava di fronte: andavamo davanti ai luoghi di lavoro a distribuire il volantino ma non riuscivamo a parlare con i lavoratori, ad avere con loro una relazione, proprio perché il nostro approccio era puramente ideologico. In più si aggiungeva la constatazione che quel lavoro che i media raccontavano non esistere più, o perlomeno essere confinato a una parte marginale delle nostre vite, di fatto lo vivevamo direttamente, o anche indirettamente perché disoccupati e studenti che si andavano a formare per poi inserirsi nel mercato del lavoro.
Eravamo di fronte quindi a una mancata considerazione di quel campo che è al centro sia della nostra esperienza individuale e collettiva sia, anche se in modo rovesciato, del discorso pubblico – se pensiamo a qual è il centro dell’operato del governo Renzi, iniziato con una riforma che, a parole, doveva garantire una maggiore occupazione e risolvere il problema del dualismo del mercato del lavoro, e si è tradotta in un un abbassamento generalizzato delle condizioni complessive, con i due passaggi del Jobs Act che prima ha peggiorato il dualismo con la semplificazione dei contratti a termine e poi ha messo in atto l’attacco più violento con l’abolizione dell’articolo 18.
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Il fordismo individualizzato e lo storytelling della sharing economy
di Lelio Demichelis
Non crediamo più a Babbo Natale e neppure alle sue renne, però crediamo alla rete, ai motori di ricerca, a Facebook e oggi anche alla sharing economy. Abbiamo creduto – e in molti lo credono ancora - che la rete fosse libera e democratica e magari anche un poco anarchica. Che si potessero fare le rivoluzioni via Facebook e via Twitter. Credendoci, abbiamo adottato senza accorgercene ma pieni di tecno-entusiasmo il nuovo dizionario che veniva proposto e imposto, necessario per la costruzione di una nuova lingua universale, omologante, pedagogica, a una sola dimensione (tecnica & economica), fatta per integrare tutti in rete, per diventare tutti capitalisti, competere contro tutti, crederci individui liberi e libertari, essere in una nuova era, in una nuova economia, in una vita tutta nuova.
Recentemente l’abbiamo definita come LII, Lingua Internet Imperii - attualizzando le riflessioni e il titolo del libro Lingua Tertii Imperii del filologo tedesco Victor Klemperer. Analisi di come il nazismo sia arrivato a conquistare il potere anche usando la parola e non solo la violenza, attivando un processo minuzioso, incessante e pervasivo di sostituzione del senso delle parole con quello dettato/richiesto dall’ideologia nazista, dando cioè alle parole un significato progressivamente diverso (e a farlo condividere) da quello che avevano per tradizione e per dizionario. Una trasformazione della lingua e del linguaggio utile/necessaria alla costruzione e poi alla accettazione di massa (il conformismo, oggi si chiama effetto rete) della nuova lingua del potere e alla introiezione da parte di ciascuno di ciò che il potere voleva (e che vuole oggi: la connessione di tutti con tutti e con la rete e con il mercato, ma tutti rigorosamente separati dagli altri, incapaci di fare società e di autonomia, ma attirati da tutto ciò che fa comunità).
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