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Armi letali: il gran ballo dei diritti umani e la macelleria della guerra
di Sandro Moiso
“La società non esiste. Esistono soltanto gli individui” (Margaret Tatcher)
“A Fort Branning, la sede della scuola di fanteria e delle truppe corazzate dell’esercito statunitense, i soldati che vengono «preparati e formati per combattere e vincere» le guerre devono anche frequentare il corso di diritti umani. L’obiettivo del corso è di «inculcare negli allievi che i valori democratici, la legislazione internazionale sui diritti umani e il Diritto Internazionale Umanitario sono doti di comando essenziali nelle forze armate” (Nicola Perugini e Neve Gordon – «Il diritto umano di dominare»)
”NATO, Keep the progress going!” (Amnesty International – Manifesto per il “Summit ombra per le donne afghane”, Chicago 2012)
Nel 2012, poco dopo che Barack Obama aveva pubblicamente dichiarato di essere intenzionato a richiamare tutte le truppe americane di stanza in Afghanistan entro il 2014, nel centro di Chicago (città dove nel mese di maggio dello stesso anno si sarebbe tenuto un summit della NATO per mettere a punto i dettagli della exit strategy) erano comparsi manifesti che esortavano la NATO a non ritirare le proprie truppe dal tormentato paese centro-asiatico.
Su quei poster era scritto:”NATO, Keep the progress going!” (NATO, occorre portare avanti il progresso), stabilendo così un chiaro collegamento tra l’occupazione militare e il progresso. Sotto il titolo, poi, si annunciava un “Summit ombra per le donne afghane” che si sarebbe tenuto durante lo stesso summit della NATO. A differenza, però, di quanto si potrebbe pensare tale iniziativa non era sponsorizzata da qualche fondazione repubblicana o dalla lobby delle armi ma da Amnesty International, la più nota tra le organizzazioni per i diritti umani presenti al mondo.
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Niels Bohr: 100 anni dalla rivoluzione dell’immaginario
di Emilia Margoni
“In certi momenti, una sensazione di conflitto tra irrealtà diverse mi faceva chiedere se tutto quel dramma giocato tra forze fantastiche […] non fosse una specie di sogno semillusorio creatosi in gran parte nella mia mente” (Howard P. Lovecraft, I racconti del Necronomicon, Newton Compton, Roma, p. 120). Così, Lovecraft segna quel salto imprevisto con cui la mente razionale del calcolo e della ponderazione prende atto che qualcosa sfugge, che si danno vie d’accesso a dimensioni subliminali in cui la distinzione tra realtà e irrealtà è poco più che analogica. Né stupisce che sorsero dubbi e leggende più che urbane sull’esistenza del Necronomicon, che possiede l’invidiabile virtù di essere un libro mai scritto, eppure citato, commentato, ricco di genealogie. Il punto, però, non sta nell’esistenza dell’oggetto-libro, quanto nella sua capacità, da oggetto inesistente, di produrre sia realtà sia dubbi intorno ad essa.
D’altro canto, è questa la dinamica portante dell’intera produzione letteraria del genere horror: la progressiva perdita di quel solido piano d’appoggio che siamo soliti definire “reale”. Ma pensare che simili fascinazioni riguardino il solo campo della letteratura è un malinteso che varrà qui la pena segnalare. Basterà far cenno al fascino che la fisica esercita oggi, e in misura crescente, sul grande pubblico: quel che in essa ne va non è il reale né l’irreale, ma un “conflitto tra irrealtà diverse”. E proprio questo conflitto è stato al centro della più che decennale polemica tra Niels Bohr e Albert Einstein, due divinità ctonie del campo in questione – un confronto serrato e a più riprese, che non ruotava attorno a come la teoria dell’uno spiegasse qualcosa meglio di quella dell’altro, ma come la teoria dell’altro, secondo l’uno, portasse a concepire un universo del tutto irreale.
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La mia militanza
Massimo Cappitti intervista Sergio Fontegher Bologna
Sergio Fontegher Bologna*: Io non ho imparato a leggere e scrivere a scuola perché c’era la guerra. Non so se fu per una scelta dei miei genitori o perché la scuola che avrei dovuto frequentare era stata trasformata in caserma. Ho fatto i primi tre anni delle elementari da privatista, con un’insegnante che era nostra vicina di casa, abitava sul nostro stesso pianerottolo. Il marito era un vecchio colonnello di artiglieria e lei un’ex maestra di scuola, per questo la chiamavamo “la colonnella”. Ho imparato a leggere e scrivere a casa di questa signora, in cucina, mentre lei preparava la jota o il gulasch. Alla fine di ogni anno mi presentavano a fare l’esame da privatista e ho cominciato ad andare a scuola in quarta elementare, quando la guerra è finita. Ho trovato nel diario di mia madre, ad esempio, che l’esame d’ammissione alla terza l’ho fatto dieci giorni dopo che c’era stato il peggiore bombardamento che ha avuto Trieste, in cui il nostro quartiere, l’epicentro, ha avuto 463 morti, quasi 1.000 feriti e 5.000 senzatetto.
Un’altra cosa da dire è che nella nostra casa non c’erano libri. Io non avevo una biblioteca perché i miei genitori avevano avuto un’infanzia e un’adolescenza durissime, mia madre aveva fatto la terza media, mio padre era riuscito a diplomarsi e a diventare un tecnico progettista. Ha tentato di fare l’università per corrispondenza senza riuscirci.
So ancora a memoria quali erano i titoli dei libri che avevo a casa, tipica letteratura popolare: Victor Hugo, Jack London, La vita delle api di Maeterlinck, La cena delle beffe di Sem Benelli, che non so cosa c’entrasse… però i miei genitori erano delle persone molto sensibili e aperte alla cultura.
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Massimo Cappitti: Quali sono stati i tuoi maestri e quali le letture che più ti hanno formato?
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Quale pace e quale guerra. Il discrimine tra "neutralità qualificata" e interventismo co-belligerante
di Quarantotto
Riprendiamo la pubblicazione dei post su questo blog per un intervento da me tenuto al Convegno "Fermare la guerra" svoltosi a Roma lo scorso 27 maggio 2022.
Al titolo originario andrebbe aggiunto un "sottotitolo" che origina dalle (brevi...per motivi di spazio; molto altro si potrebbe aggiungere) conclusioni di real-politik: si potrebbe formularlo come un rinvio alla consapevolezza che L'Unione europea sia, in un modo che non appare ben chiaro alla sua stessa governance, un paese oggetto, a sua volta, di un'apertura di ostilità, fatta per ora di costrizioni e di risposte non ben ponderate, e, un domani, di risvolti sulla crescita e la stabilità finanziaria al suo interno, che la porrebbero in una situazione di co-belligeranza, politicamente ed economicamente contraddittoria ed insostenibile, verso l'intero mondo "non occidentale"; e questo risalterebbe all'interno di una spiralizzazione conflittuale che non corrisponde affatto all'interessi dei popoli che vivono entro lo spazio dell'Unione economica e monetaria e del suo "mercato unico". https://twitter.com/nytimes/status/1533564338983903238?s=20&t=Pxx4e6XgDHYBCPIucAwm8Q
* * * *
1. Quale pace e quale guerra? - Convegno "Fermare la guerra"
Premessa - Fermare la guerra è una proposizione che dovremmo assumere nel senso più elevato ed umanistico: cioè, intesa come restaurare la pace. In astratto, la pace è la fine del conflitto tra Russia e Ucraina, come composizione dei rispettivi interessi contrapposti in un assetto stabile che consenta di risolvere ogni aspetto controverso che contrappone i due Paesi, ripristinando normali relazioni di diritto internazionale.
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Interesse individuale, cooperazione internazionale e benessere collettivo
La lezione di John Maynard Keynes
di Maria Cristina Marcuzzo*
Abstract: Questo articolo prende spunto da due episodi dell’opera di Keynes in cui egli fece un forte appello a una logica di cooperazione piuttosto che al perseguimento dell’interesse individuale. Il primo è legato alle conseguenze economiche del Trattato di Versailles del 1919 e il secondo alla restituzione dei debiti agli Stati Uniti alla fine della seconda guerra mondiale. Invece del principio di razionalità, che sta alla base del comportamento individuale ottimizzante, Keynes si appella alla “ragionevolezza”, da applicare alle situazioni in cui un comportamento apparentemente razionale (da un punto di vista astrattamente economico) può avere risultati che possono rivelarsi contro gli interessi individuali. La lezione di Keynes è che il perseguimento dell’interesse individuale da parte delle singole nazioni, dovrà cedere il passo alla costruzione di regole e istituzioni che sorveglino il libero flusso dell’iniziativa privata e la libertà dei mercati, andando oltre il punto di vista individuale per guardare al benessere collettivo.
Per introdurre il tema che ho scelto di affrontare, “Interesse individuale, cooperazione internazionale e benessere collettivo. La lezione di John Maynard Keynes”, inizierò ricordando tre episodi recenti.
Il primo ha come protagonista, Özlem Türeci che, con il marito Uğur Şahin, ha sviluppato il vaccino anti-Covid, con l’azienda farmaceutica da loro fondata in Germania, BioNTech, e l’americana Pfizer. In una recente intervista dello scorso marzo Özlem Türeci ha dichiarato – la cito – “quanto sia importante la cooperazione e la collaborazione internazionale”.
Il secondo episodio risale al maggio 2021, quando 25 leader di paesi e organizzazioni mondiali hanno espresso l’intento di firmare un “trattato internazionale sulle pandemie”, nella convinzione – si legge nella dichiarazione congiunta – che “le sfide possano essere superate solo affrontandole insieme, in uno spirito di collaborazione”. Il Presidente Draghi nel presentare il Global Health Summit di Roma del maggio 2021 ha riaffermato la necessità di una “stretta e costante collaborazione internazionale” per vincere non solo questa ma anche altre sfide future.
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L’imminente frattura globale causata dallo scontro tra diversi ordini economici
Intervista a Michael Hudson
Il post che segue è la traduzione di un’intervista al prof. Michael Hudson pubblicata su The Unz Review. Un’altra analisi essenziale per comprendere gli avvenimenti epocali che stiamo vivendo e orientarci in un mondo che si fa sempre più complesso, oltre che “grande e terribile”. L’originale lo puoi trovare qui.
Prof. Hudson, è uscito il suo nuovo libro “Il destino della civiltà”. Questo ciclo di conferenze sul capitalismo finanziario e la nuova guerra fredda presenta una panoramica della sua particolare prospettiva geopolitica.
Lei parla di un conflitto ideologico e materiale in corso tra Paesi finanziarizzati e deindustrializzati come gli Stati Uniti contro le economie miste di Cina e Russia. In che cosa consiste questo conflitto e perché il mondo si trova in questo momento in un “punto di frattura” particolare, come afferma il suo libro?
L’attuale frattura globale sta dividendo il mondo tra due diverse filosofie economiche: Nell’Occidente USA/NATO, il capitalismo finanziario sta deindustrializzando le economie e ha spostato l’industria manifatturiera verso la leadership eurasiatica, soprattutto Cina, India e altri Paesi asiatici, insieme alla Russia che fornisce materie prime di base e armi.
Questi Paesi sono un’estensione di base del capitalismo industriale che si sta evolvendo verso il socialismo, cioè verso un’economia mista con forti investimenti governativi nelle infrastrutture per fornire istruzione, assistenza sanitaria, trasporti e altre necessità di base, trattandole come servizi di pubblica utilità con servizi sovvenzionati o gratuiti per queste necessità.
Nell’Occidente neoliberale degli Stati Uniti e della NATO, invece, questa infrastruttura di base viene privatizzata come un monopolio naturale che estrae rendite.
Il risultato è che l’Occidente USA/NATO è rimasto un’economia ad alto costo, con le spese per la casa, l’istruzione e la sanità sempre più finanziate dal debito, lasciando sempre meno reddito personale e aziendale da investire in nuovi mezzi di produzione (formazione del capitale).
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Riflessioni preliminari ad un programma politico
di Andrea Zhok
Quelle che seguono sono alcune riflessioni iniziali, senza pretese di rappresentare nessuno, che cercano di fissare gli estremi di una lettura filosofico-politica della contemporaneità. Si tratta di un abbozzo dove idealmente dovrebbero stagliarsi alcuni vertici di una figura tutta da disegnare e colorare.
1) Sul rapporto tra Stato e cittadino
La discussione tradizionale sui rapporti tra lo stato e il cittadino ha imboccato da tempo un vicolo cieco, dove si dibatte ciclicamente e sterilmente: se sia necessario espandere o restringere il perimetro dello stato, se abbiamo bisogno di “più stato” o di “meno stato”. Quest’impostazione oscilla tra i poli, posti erroneamente come antitetici, della “libertà” (individuale) e della “protezione” (centrale). Per disinnescare questa falsa partenza bisogna comprendere come nessuna soluzione che restringa lo stato garantisce maggiore libertà ai cittadini, e inversamente, nessuna soluzione che ne incrementi il perimetro garantisce maggiore protezione ai cittadini. Inoltre non è affatto vero che maggiore protezione debba implicare minore libertà, e viceversa. Libertà e protezione, lungi dall’essere in competizione si possono sviluppare bene solo in parallelo.
Altrettanto vago e inconcludente è il riferimento, così frequente negli anni passati a quelle formulazioni del “principio di sussidiarietà”, secondo cui “lo stato deve intervenire solo quando il privato non è in grado di operare” o secondo cui “lo stato deve intervenire solo dove la ‘società civile’ non è in grado di operare”. Queste sono altrettante formule vuote, che possono essere – e sono state – strumentalizzate in maniera completamente arbitraria.
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Ritorno alla vita*
di Raoul Vaneigem
Nota del traduttore
Essere il traduttore di un autentico essere umano in quest’epoca in cui la disumanità ha un potere sempre più delirante e mortifero – come documenta ampiamente lo spettacolo sociale che inquina e violenta la vita sul pianeta mettendo ormai in pericolo la sopravvivenza stessa della specie umana – è soprattutto il segno di un coinvolgimento manifesto nel progetto radicale di autogestione generalizzata della vita quotidiana che Raoul Vaneigem propone, affinandolo progressivamente, fin dall’epoca ormai lontana del maggio 1968. La mia amicizia complice con l’autore di questo scritto non è un segreto: l’ho sempre coltivata con affetto e chiarezza, insieme alla piena autonomia di pensiero e di azione di ogni individuo che condivida un progetto comune di re-umanizzazione e di emancipazione sociale.
Nella catastrofe che avanza, aumentano a dismisura le vittime del disastro finale della civiltà produttivista. Gli esseri umani le sono sempre più ostili, coscienti che il superamento storico della società spettacolare-mercantile è la conditio sine qua non affinché l’umanità possa sopravvivere al nichilismo capitalista. Lo Stato totalitario multiplo che, democratico o dittatoriale, gestisce dappertutto qualcuna tra le variegate forme della società dello spettacolo integrato è, di fatto, la soluzione finale di un produttivismo che ha ridotto gli esseri umani a schiavi dell’economia politica – teologia materialista moderna che serve da secoli le oligarchie di governo sempre conflittuali tra loro, ma tutte volgarmente e tragicamente sfruttatrici del lavoro e delle passioni degli esseri umani.
La fase terminale della barbarie patriarcale che fin dalla preistoria recente ha imposto la civiltà suprematista del produttivismo, riapre uno spazio alla civiltà matricentrica sconfitta e rimossa dalla memoria collettiva dall’imperialismo della società mercantile, guerriera, bigotta, devota alla merce sovrana e malata della peste emozionale dei suoi servitori volontari.
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Punti di condensazione. La guerra, i media e il «secondo populismo»
di Raffaele Sciortino, Silvano Cacciari
«S’i nel mondo ci fosse un po’ di bene» avremmo, come ricetta per l’avvenire, la chiave per una ricomposizione di classe facile, coerente, pulita. Soprattutto in linea con i precetti, i desiderata, i pregiudizi e gli automatismi dei ceti politici (quali?) e intellettuali (dove?) di sinistra, e della loro sinistra ideologia. Saremmo già bell’è pronti, bandiere rosse al vento – o nere, o arcobaleno, scegliete voi al mercato delle identità il vostro pride – e via andare. Ma gli ultimi cicli di mobilitazioni sociali ci hanno ormai definitivamente abituato ad aspettarci qualcosa di ben più complicato, sporco, contraddittorio – ambivalente. Un “guazzabuglio” di soggetti sociali, con un diverso grado di internità alle categorie che usiamo per dare senso e orientarci nel caos del presente – sia di ordine sociale che geopolitico, e i due livelli sono collegati – di cui è difficile sciogliere i nodi. Linguaggi incomunicabili, comportamenti ambigui, potenzialità abortite. Bravo chi ne viene a capo. Ce lo siamo detto tutti.
I feticisti dello spurio e dell’ambivalenza a tutti i costi, così come chi considera il “casino” una maledizione esclusiva di questa fase storica e di questa composizione di classe, se ne stiano a distanza: non siamo noi quello che fa per voi. Non c’è da scandalizzarsi, né da applaudire. Davanti alla realtà concreta, la critica morale di ciò che non si conforma a quello che vorremmo e l’elogio di quello che ancora non c’è portano a ben poco. Occorre, invece, analisi concreta. Come ci stiamo dentro a questa realtà – nello specifico alla guerra, che sta informando il prossimo futuro? Quali lenti e strumenti dobbiamo usare, e quali buttare via? Che uso ne facciamo delle faglie, delle contraddizioni, delle ambiguità che ci stanno intorno e ci determinano? La domanda è politica, non analitica.
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Il linguaggio del lavoro
di Christian Marazzi
Pubblichiamo qui la lectio magistralis di Christian Marazzi
Le trasformazioni del lavoro, la sua natura, la sua centralità nelle forme di vita, sono sempre stati al centro delle mie riflessioni e delle mie ricerche. E questo fin da giovane, fin dalle prime esperienze politiche nei movimenti di contestazione degli anni ’60 e ’70, quando per la mia generazione le lotte operaie sembravano incarnare l’istanza del cambiamento sociale e culturale. La fabbrica era vista come luogo di trasformazione sociale e politica, di solidarietà, di organizzazione dal basso, di produzione di valori che oltrepassavano i cancelli di quegli spazi di produzione della ricchezza. La fabbrica noi la vedevamo come laboratorio di cittadinanza.
L’interesse per i cambiamenti del lavoro, in particolare della sua natura, si sono in seguito per così dire professionalizzati a partire dagli studi sulle nuove forme di povertà che stavano emergendo nei primi anni ’80. Nella “nuova povertà” la cosa che più colpiva era il suo essere del tutto interna alle nostre società ricche, consustanziale alla crescita stessa, povertà come forma della ricchezza. In particolare, le ricerche sulla nuova povertà, oltre a mettere in evidenza nuovi soggetti fragilizzati dalla crescita economica, come le donne e le famiglie monoparentali, i giovani, le famiglie numerose, avevano individuato nella povertà laboriosa (i famosi working poor, la categoria sviluppata dal sociologo e militante politico americano Michael Harrington) qualcosa di inedito rispetto alla povertà classica, una sorta di indicatore di qualcosa di più vasto del mero rilievo sociologico. La povertà laboriosa, quell’essere poveri non perché esclusi, non perché emarginati, ma per la ragione esattamente opposta, poveri perché dentro i meccanismi accumulativi, nel cuore stesso dell’economia – per i bassi salari o per le forme d’indebitamento privato che già allora si manifestavano come ricorrenti – quella povertà alludeva a una grande trasformazione sistemica, un cambiamento complessivo dell’economia che a metà degli anni ’80 ancora non si riusciva bene a mettere a fuoco.
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Odiare la Palestina*. Sionismo e rimozione
di Mabny Lil-Majhoul
Year after year
Riceviamo e pubblichiamo volentieri questa traduzione di un testo sul dibattito in Francia riguardo la questione palestinese apparso su Lundi Matin...
L'uccisione della giornalista di Al-Jazeera Shirin Abu Aqleh da parte delle forze di occupazione israeliane a Jenin mercoledì 11 maggio 2022 ha dato alla questione palestinese la sua piccola finestrella di visibilità annuale nel Nord del Mondo. Così va la vita.
Nel 2021 era stato il sanguinoso episodio causato dalla tentata occupazione del quartiere di Sheikh Jarrah da parte dellз colonз ebreз e dalle provocazioni della polizia nella moschea di Al-Aqsa. Nel 2020 fu il tragicomico piano Trump e la normalizzazione delle monarchie e degli emirati arabi corrotti con Israele. Nel 2018 l'arresto di Ahed Tamimi. Ahed, sì, è palestinese, ma bionda e senza velo. Tanto basta per seminare dissonanze cognitive nel Nord del Mondo, che freme di un'emozione fugace ma sincera per questa giovane ragazza che meriterebbe di essere ucraina. E così potremmo tornare indietro, anno dopo anno, al 2000, o al 1987, o al 1973, o al 1967, o al 1948. Così, purtroppo, va la vita.
Ogni anno, quindi, per pochi giorni, o al massimo per qualche settimana, si chiacchiera. In Francia, lз sionistз sionizzano, violentemente o moderatamente, come la coorte dellз intercambiabili sostenitorз della soluzione pacifica. Le marce per la Palestina passano attraverso il rilevatore degli Allah-akbar. O sono soppresse. O proibite. Le persone bianche, esseri pacifici per eccellenza, sono ovviamente rattristatз dall'"impennata" del "conflitto in Medio Oriente", necessariamente incomprensibile, certamente estraneo alla loro storia. Tuttavia, sono preoccupatз per il rischio che questo conflitto venga importato nella loro piccola vita di bianchз del tardo capitalismo, ad esempio attraverso manifestazioni in quei quartieri popolari dove ci sono già troppз arabз anche in tempi normali. Il “conflitto mediorientale” è vicino ovviamente, ma dovrebbe restare comunque in Oriente. Lo dice il suo nome.
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L’UE dopo l’Ucraina
di Wolfgang Streeck
Illuminante! Buona lettura, Giuseppe Germinario
La guerra è padre di tutti e re di tutti.
Supponendo che la storia dell’Unione Europea inizi con la Comunità Economica Europea (CEE), costituita nel 1958, essa è durata ormai quasi due terzi di secolo. È iniziata come un’alleanza di sei paesi che amministrava congiuntamente due settori chiave dell’economia del dopoguerra, il carbone e l’acciaio, rendendo superfluo per la Francia ripetere l’occupazione della valle della Ruhr, che aveva contribuito all’ascesa del revanscismo tedesco dopo la prima guerra mondiale Sulla scia della guerra industriale della fine degli anni ’60, e in seguito all’ingresso di altri tre paesi, Regno Unito, Irlanda e Danimarca, la CEE si è trasformata nella Comunità Europea (CE). Dedicata alla politica industriale e alla riforma socialdemocratica, la CE doveva aggiungere una “dimensione sociale” a quello che stava per diventare un mercato comune. Dopo, dopo la rivoluzione neoliberista e il crollo del comunismo, quella che ora è stata ribattezzata Unione Europea (UE) è diventata sia un contenitore per i nuovi stati-nazione indipendenti dell’Est desiderosi di unirsi al mondo capitalista, sia un motore di riforma neoliberista, fornitura- side economics e New Labourism in ventotto paesi europei. È anche diventato saldamente radicato nell’ordine globale unipolare dominato dagli americani dopo la “fine della storia”.
L’Unione Europea degli ultimi tre decenni è stata un microcosmo regionale di quella che è stata chiamata iperglobalizzazione. 1 In effetti, era in modo significativo un modello continentale di dimensioni ridotte per il capitalismo globale integrato che era l’obiettivo finale di coloro che all’epoca sottoscrivevano il Washington Consensus.
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Il Medio Evo secondo i marxisti
di Paolo Tedesco
Le società classiste non cominciarono con il capitalismo: anche il mondo antico e quello medievale avevano sistemi di sfruttamento. Il cui funzionamento ‒ e anche la loro scomparsa ‒ potrebbe rivelare qualcosa sul futuro che ci attende
In qualità di storici, Karl Marx e i suoi seguaci si occuparono in primo luogo dell’ascesa del capitalismo, della sua diffusione nel mondo e dei modi in cui lo si sarebbe potuto volgere a conclusione. Allo stesso tempo, però, essi tentarono di spiegare lo sviluppo delle società precapitalistiche alla luce del materialismo storico e dei suoi concetti principali; così facendo, cercarono di individuare le condizioni che permisero la formazione delle società di classe, prima che le contraddizioni interne ne causassero il collasso.
Le loro originali reinterpretazioni della teoria marxista hanno permesso di leggere queste affascinanti epoche storiche nei termini loro propri, anziché presentarle come semplice anticamera all’ascesa del capitalismo. Quest’ultimo approccio aveva infatti l’effetto, paradossale per i marxisti, di far apparire il capitalismo una fase naturale dello sviluppo sociale.
In quest’articolo discuterò la tradizionale visione marxista del mondo precapitalistico e i suoi problemi. Darò poi un breve resoconto delle proposte alternative elaborate da tre dei maggiori storici marxisti contemporanei: Chris Wickham, John Haldon e Jairus Banaji.
Marx e il Medioevo
L’interesse principale di Marx per le società del passato scaturiva dalla sua esigenza di identificare un meccanismo generale per tutti i processi di trasformazione sociale che aiutasse a spiegare tanto l’avvento del capitalismo quanto la sua prevedibile crisi. Marx presentava la storia come una progressione di fasi, dall’antichità al feudalesimo al capitalismo e infine al socialismo.
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A quale costo il sistema capitalistico può oggi riprodursi?
di Alessandra Ciattini
Il sistema capitalistico potrebbe sopravvivere all’attuale crisi sistemica, accentuata dalla pandemia e dalla guerra, ma pesante sarà per noi il costo della sua riproduzione
Secondo l’eminente studioso britannico David Harvey, non si può escludere del tutto che il capitale [1] possa sopravvivere alle diciassette contraddizioni che egli ha dettagliatamente esaminato nel suo libro intitolato appunto Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo, pubblicato nel 2014. In questa sede ovviamente non illustreremo tutte le contraddizioni indagate da Harvey, per cui rimandiamo il lettore al suo interessante libro; ci interessa sottolineare, invece, come il capitale sia stato finora in grado di superare gli ostacoli che il suo stesso sviluppo con l’obiettivo dell’accumulazione senza fine ha generato, e come potrebbe esser possibile che superi anche la crisi scatenata dalla pandemia e dall’attuale scontro tra gli Stati Uniti, con il loro strumento armato rappresentato dalla Nato, e la Russia. Crisi che si palesa, inoltre, nel contesto delle enormi difficoltà che il sistema capitalistico incontra per riprodursi, sia pure con inevitabili trasformazioni.
Ricordo, tuttavia, che per Harvey, le contraddizioni pericolose – non fatali – per il capitale sono costituite dall’accumulazione esponenziale senza fine (o la mera ricerca del profitto), la relazione del capitale con la natura, la generalizzata alienazione dell’uomo nella società capitalistica. Scrive sempre lo studioso britannico che il capitale potrebbe riuscire ancora una volta a farla franca con l’aiuto di una élite oligarchica che si preoccupasse di sterminare gran parte della popolazione superflua e per questo eliminabile, schiavizzando il resto dell’umanità e rinserrandosi in luoghi protetti e sorvegliati, per difendersi dalla rivolta della natura e degli esseri umani ridotti a uno stato subumano (Harvey, v. Contraddizione diciassettesima).
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Denaro senza valore e rapida dissoluzione di un mondo
di Fabio Vighi
L’accelerazione del paradigma emergenziale cui assistiamo dal 2020 ha come scopo – semplice, ma ampiamente disconosciuto – il mascheramento del collasso socioeconomico in atto. Nel metaverso le cose sono l’opposto di ciò che sembrano. Inaugurando Davos 2022, Kristalina Georgieva, direttrice del Fondo Monetario Internazionale, ha incolpato Virus & Putin per la ‘confluenza di calamità’ che si si sta abbattendo sull’economia mondiale. Nulla di particolarmente originale. Davos infatti non è un covo di perfidi complottisti, ma il megafono di reazioni sempre più disperate a fronte di contraddizioni sistemiche ingestibili. Ai davosiani oggi non resta che nascondersi dietro goffe bugie da ragazzini imbarazzati. L’insistenza con cui ci raccontano che la recessione in arrivo è effetto di avversità globali che hanno colto il mondo di sorpresa (da Covid-19 a Putin-22), nasconde l’amara consapevolezza dell’esatto contrario: è la crisi economica a causare scientemente queste “disgrazie”. Quelle che ci vengono vendute come catastrofiche minacce esterne sono in realtà la proiezione ideologica del limite interno della modernità capitalistica, e della sua decomposizione in atto. In termini sistemici, la funzione dello stato d’emergenza è mantenere artificialmente in vita il corpo comatoso del capitalismo. Il nemico non è più costruito per legittimare l’espansione dell’Impero del dollaro; piuttosto, serve a nascondere la bancarotta di un mondo che affonda nei debiti e nella svalutazione monetaria.
Dalla caduta del muro di Berlino in poi, lo sviluppo della globalizzazione ha minato le condizioni di possibilità del capitale stesso. La risposta a questa parabola implosiva è stata lo scatenamento di una serie di emergenze globali a stretto giro di posta, e integrate da iniezioni sempre più massicce di paura, caos, e propaganda.
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Il sistema del dollaro in un mondo multipolare
di James K. Galbraith
Il mondo finanziario multipolare è qui. Gli Stati Uniti possono sopravvivere, ma solo con grandi cambiamenti politici ed economici in patria. È ora di iniziare a pensare a cosa devono essere
Come sottolinea Costabile (2022), il dollaro è ormai di fatto da oltre cento anni il principale asset di riserva mondiale, in primo luogo a causa della preminenza statunitense nella detenzione dell’oro e della sua posizione creditoria rispetto ai belligeranti europei nella Grande Guerra. Nel 1944 la potenza militare e industriale degli Stati Uniti, presto sostenuta, nell’ombra, da un monopolio sulla bomba atomica, furono le basi del gold exchange standard stabilito a Bretton Woods.
Una breve storia dell’era neoliberista
Il 15 agosto 1971 cala il sipario sul gold-exchange standard e si alza – anche se allora non lo sapevamo e pensavamo diversamente – sull’era neoliberista. Svalutazione, controlli sulle esportazioni, congelamento dei prezzi salariali e stimolo fiscale all’estero : queste erano misure keynesiane e persino in tempo di guerra che sembravano segnalare una conversione di massa della cerchia di Richard Nixon verso la piena occupazione, la stabilità dei prezzi e il commercio gestito. Mio padre, John Kenneth Galbraith, il capo del controllo dei prezzi della seconda guerra mondiale, è stato chiamato dal Washington Post per un commento. “Mi sento come la camminatrice di strada”, ha risposto, “a cui è stato appena detto che non solo la sua professione è legale, ma la più alta forma di servizio municipale”.
L’impressione è rimasta durante l’anno di crescita esplosiva del 1972, assicurando la rielezione di Nixon con la piena occupazione al salario medio reale più alto di tutti i tempi. Ma andò in pezzi nel 1973 quando lo stimolo terminò, i controlli furono indeboliti o scaduti, i prezzi del petrolio aumentarono e l’inflazione generale risultante fu accolta da alti tassi di interesse, stimolando una nuova crisi nel 1974.
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La parabola dell’economia politica
Parte IV: Marx, la caduta tendenziale del saggio del profitto
di Ascanio Bernardeschi
Nella spietata competizione fra capitali, ognuno cerca di abbassare i propri costi per vincere la concorrenza introducendo innovazioni che risparmiano lavoro. Così facendo il capitale, che si può valorizzare solo attraverso l’eccedenza di lavoro, il pluslavoro, va incontro, sia pure fra alti e bassi, alla caduta del saggio del profitto e al proprio declino. Qui la parte I, qui la parte II, qui la parte III.
Il plusvalore, che ha nel lavoro l’unica fonte, è limitato dal numero di lavoratori impiegati e dalla durata della giornata lavorativa, che ovviamente non può superare le ventiquattro ore; anzi dura molto meno, viste le ovvie necessità fisiologiche dei lavoratori. Se si rapporta questa grandezza, che ha dei limiti oggettivi, al lavoro incessantemente crescente già oggettivato in passato nel capitale impiegato, possiamo già intuire l’esistenza di una tendenza alla diminuzione del saggio del profitto che consiste proprio nel rapporto tra queste due grandezze (il plusvalore e il valore del capitale impiegato).
Marx evidenzia già nei Grundrisse che il capitale tende da un lato, con l’introduzione di metodi e tecnologie sempre più prestanti, a ridurre il tempo di lavoro necessario, mentre deve misurare il valore in termini di tempo di lavoro. In un passaggio profetico sul macchinismo, sottolinea come questa tendenza avrebbe ridotto il ruolo del lavoro a misera cosa rispetto alla potenza produttiva delle macchine. E tuttavia questa contraddizione fra la progressiva diminuzione del tempo di lavoro necessario in rapporto al capitale costante impiegato e il bisogno del capitale di estrarre plusvalore, di “succhiare” lavoro vivo, per valorizzarsi, avrebbe condotto al superamento della legge del valore e a una società in cui il benessere sia dato non dal tempo di lavoro, ma dal tempo libero di cui ogni uomo possa disporre grazie ai servizi delle macchine. Questo sbocco è tuttavia impossibile all’interno del modo di produzione capitalistico e infatti, dopo la parentesi di alcune conquiste della classe lavoratrice, la tendenza è quella di un inasprimento di orari e ritmi di lavoro, proprio per la fame crescente di plusvalore.
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Interventismo, malattia congenita del Fascismo
di Valerio Romitelli
“La domanda qui è se sia riscontrabile una qualche analogia interessante tra il Mussolini del 1914 e il Draghi del 2022”
Pandemia poi guerra ucraina hanno fatto trascurare se non dimenticare del tutto un centenario che in altri tempi avrebbe forse suscitato maggiori interessi e dispute: quello della “Marcia su Roma” che consacrò l’irreversibilità dell’ascesa al potere del fascismo. É stato dunque in controtendenza che il Maggio filosofico di quest’anno ha scelto proprio questo centenario come tema privilegiato delle quattro serate in programma. Il titolo di tutta la rassegna, opportunamente provocatorio: Retromarcia su Roma. Perché “retromarcia”? Ben pochi dei nostri abituali lettori non avranno subito pronta la risposta. Ma per non far torto a nessuno diciamo che per capire il senso di questo titolo basta riconoscere che il succedersi di “stati di emergenza” imposti dai nostri più recenti governi da Conte a Draghi, nonostante la loro nulla legittimità elettorale, non può essere solo un caso. Né può essere una semplice reazione istituzionale all’eccezionalità delle circostanze imposte dal destino prima pandemico poi bellico. Che una tale insistente eccezionalità non sia politicamente innocente, che suo tramite si stia avvenendo una più profonda svolta regressiva dello Stato italiano: questa è l’evidenza che ci ha fatto vedere il centenario del 1922 come una buona occasione per ripensare alcuni dei nodi più di tutta la storia del nostro paese, la cui massima notorietà – non dimentichiamolo – è dovuta appunto all’invenzione perversa e disastrosa del fascismo. Di quel fascismo – non dimentichiamo neanche questo – che ha infettato molte parti del mondo (soprattutto la Germania!) e che è divenuto sinonimo universale del male politico assoluto.
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La sinistra occidentale e il fardello dell’uomo bianco
di Antonio Castronovi
Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco
E ricevi la sua antica ricompensa:
Il biasimo di coloro che fai progredire,
L’odio di coloro su cui vigili –
Il pianto delle moltitudini che indirizzi
(Ah, lentamente!) verso la luce:
«Perché ci ha strappato alla schiavitù,
La nostra dolce notte Egiziana?»
(Il fardello dell’uomo bianco. Rudyard Kipling)
Questo poema, composto da Kipling nel 1899 allo scoppio della guerra per imporre il dominio statunitense sulle Filippine nell’Oceano Pacifico, è passato alla storia come il Manifesto dell’imperialismo e del colonialismo anglosassone. Nel contesto e nell’ottica odierni può essere letto come il Manifesto delle Guerre di Civiltà per la democrazia liberale e per i diritti umani, il manifesto del valore positivo della occidentalizzazione del mondo come progresso dei popoli, alla base anche della propaganda ideologica attuale contro la Russia e la Cina e in generale contro il dispotismo orientale.
L’Occidente è stato anche lo spazio sociale, politico e culturale della teoria socialista e della lotta di classe contro il capitalismo. L’Uomo Nuovo aveva le sembianze dell’uomo occidentale, e la sua universalizzazione sembrava naturale. Da qui le posizioni ambigue nei confronti del colonialismo del movimento socialista e operaio, “con tutti i socialisti francesi più importanti, da Proudhon a Louis Blanc a Pierre Leroux che supportavano la causa coloniale..” (Thierry Drapeau, Le radici dell’anticolonialismo di Karl Marx, in Jacobin Italia 1/4/2019 ).
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La NATO, un amico pericoloso
di Valeria Poletti
In seguito all’invasione russa dell’Ucraina, dopo duecento anni di neutralità la Svezia e dopo più di 70 anni la Finlandia, entrambe si candidano ad entrare nell’Alleanza Atlantica, aprendo la strada ad un aumento della presenza di truppe NATO nelle regioni del Nord Europa1. La neutralità come status cessa di avere una sua posizione all’interno del diritto internazionale. I piccoli Paesi e quelli meno armati tendono a schierarsi, all’interno dell’antagonismo Est-Ovest, con uno dei blocchi ricostituitisi, dopo la fine della Guerra Fredda e l’implosione dell’Unione Sovietica, in un gioco pericoloso nell’Atlantico e nell’Indo-Pacifico.
Un pericolo che viene da lontano
Nel 1999, la NATO ha bombardato la Serbia per sottometterla alla secessione del Kosovo. La guerra contro la Jugoslavia è stata la prima diretta a cambiare gli equilibri regionali e a mettere in crisi l’ordinamento degli Stati nazionali, è stata la prima in cui l’Occidente capitalista ha scelto di promuovere il conflitto settario – quello portato avanti dai musulmani di Bosnia e del Kosovo – e farsene strumento per disintegrare l’unità nazionale di un Paese e annullarne la sovranità.
Dopo di allora, nell'aprile 2009 l'Albania e la Croazia hanno completato il processo di adesione alla NATO e lo stesso è avvenuto per il Montenegro nel 2017. Attualmente sono in corso le procedure per l’adesione all’Alleanza della Bosnia Erzegovina. Anche il Kosovo, che ospita la base KFOR2 di Camp Bondsteel (la più grande base statunitense nei Balcani), ha recentemente chiesto di entrare come membro del Patto atlantico: secondo quanto riporta il Fatto Quotidiano, «per la presidente del Kosovo Vjosa Osmani, la crisi e il conflitto in Ucraina potrebbero estendersi alla regione balcanica, e per questo è importante che la Nato acceleri il processo di adesione all’Alleanza in primo luogo di Kosovo e Bosnia- Erzegovina.
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Le 10 volte che i manager dell'impero ci hanno mostrato che vogliono controllare i nostri pensieri
di Caitlin Johnstone
L'unico aspetto più trascurato e sottovalutato della nostra società è il fatto che persone immensamente potenti lavorano continuamente per manipolare i pensieri che elaboriamo sul mondo. Che tu la chiami propaganda, psyops, gestione della percezione o pubbliche relazioni, è una cosa reale che accade costantemente e succede a tutti noi.
E le sue conseguenze modellano il nostro intero mondo.
Questo dovrebbe essere al centro della nostra attenzione quando esaminiamo notizie, tendenze e idee, ma non viene quasi mai menzionato. Questo perché la manipolazione psicologica su vasta scala sta avendo successo. La propaganda funziona solo se non sai che sta succedendo.
Per essere chiari, non sto parlando di una sorta di stravagante teoria del complotto infondata qui. Sto parlando di un fatto di cospirazione.
Che subiamo la propaganda da persone che hanno autorità su di noi non è seriamente contestato da nessun attore in buona fede ben informato ed è stato ampiamente descritto e documentato per molti anni.
Inoltre, i gestori dell'impero centralizzato statunitense che domina l'Occidente e gran parte del resto del mondo ci hanno mostrato chiaramente che ci propagandano e vogliono propagandarci di più.
Qui ci sono solo alcune di quelle volte.
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La volontà d’impotenza
di Pier Paolo Dal Monte
I paesi che fanno parte del sedicente “mondo libero” (quelli che esportano la democrazia, per intenderci) sono teatro, negli ultimi tempi, di un esperimento sociale, su scala mai intrapresa in precedenza. L’avvento della cosiddetta “pandemia” ha costitito la scusa perfetta per mettere a punto ed attuare limitazioni delle libertà, personali e sociali, che, fino a poc’anzi, erano date per scontate, nonché sancite dai vari ordinamenti costituzionali. Accanto a questo, dato che la tecnologia è neutra (risate), sono stati messi a punto dispositivi di controllo che, potenzialmente, sono in grado di costituire, a tutti gli effetti, un carcere virtuale, per i cittadini, le cui avvisaglie si sono manifestate nello stato di eccezione permanente che si è instaurato nel corso degli ultimi due anni.
Questa situazione non pare essere modificabile tramite gli strumenti politici a disposizione delle democrazie parlamentari, le quali, peraltro, sono state sospese. Dato l’indiscutibile carattere autoritario che il sistema ha assunto, si sente, sempre più sovente, paragonare questi tipi di dispotismo tecnocratico ad altri regimi del passato, ovvero a quelli che con denominazione alquanto semplicistica furono chiamati “totalitarismi”.
Questo è il retaggio di quella sciocca ermeneutica, costituita da ragionamento comparativo, secondo cui, ogni fenomeno per il quale non esiste una descrizione immediata, deve essere giocoforza ricondotto in un alveo lessicale conosciuto e, pertanto, comparato a qualcosa di noto o, come in questo caso, identificato o, per ciò che riguarda i fenomeni storici, a qualcosa di già accaduto.
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Il sistema di credito sociale e l'ID digitale in Cina e nel mondo
di Flavia Manetti
Da tempo la narrazione che imperversa, anche tra molti sinistri, è che il “democratico e liberale” Occidente si stia apprestando a copiare i modelli distopici della Cina in fatto di Id digitali e sistemi di credito sociale. Eppure, sono anni che non è WeChat ma i social media che usiamo come la “democratica e libera” Wikipedia, Twitter, Facebook e You Tube a decidere cosa liberamente pubblicare o censurare: chi oscurare e chi no, cosa è giusto pensare o cosa no. Ci si stupisce delle telecamere di riconoscimento visivo che la Cina ha applicato, in alcune città durante i lockdown ma è sicuramente altrettanto allarmante quello che è successo a maggio a Roma: alla stazione della Metro Anagnina, dove è andata in onda l’esercitazione militare “antiterrorismo” del sistema Dexter (Detection of explosives and firearms to counter terrorism) , finanziata dalla NATO, per prevenire attacchi con armi, bottiglie molotov o esplosivi in metropolitane, stazioni ferroviarie, aeroporti ma anche piazze e spazi affollati…Un “guardian angel” hi-tech che servirà allo Stato per controllare, reprimere, arrestare tutti i coloro che riterrà disubbidienti.
Il nostro prossimo futuro distopico, sospeso tra ID e Crediti sociali, era già stato studiato a Washington e non a Pechino. R. Kurzweil, uno dei “guru” di Google scriveva, già nel 1999, in “The Age of Spiritual Machines” : la singolarità tecnologica ci permetterà di superare le limitazioni dei nostri corpi e cervelli biologici. Saremo artefici del nostro destino. La mortalità sarà nelle nostre mani. Saremo capaci di vivere quanto vogliamo”.
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Paura 1/3. Filosofia e politica della paura
di Aldo Meccariello
“La paura è il dolore provocato dalla rappresentazione di un male imminente” (Aristotele)
1. Prologo
«Qualche volta bisogna cercare di sottrarsi al rumore, al rumore incessante delle notizie che ci arrivano da ogni parte. Per capire il presente dobbiamo imparare a guardarlo di sbieco. Oppure, ricorrendo a una metafora diversa: dobbiamo imparare a guardare il presente a distanza, come se lo vedessimo attraverso un cannocchiale rovesciato. Alla fine l’attualità emergerà di nuovo, ma in un contesto diverso, inaspettato. Parlerò sia pure brevemente del presente, e perfino un poco del futuro. Ma ci arriverò partendo da lontano».[1]
Guardare di sbieco il presente o guardarlo a distanza è forse questa la chiave che prendiamo a prestito dallo storico C. Ginzburg per leggere questo nostro tempo pandemico, difficile, inatteso, segnato dalla tirannide occulta e silenziosa del Covid-19. Se c’è un sentire diffuso oggi, questi è la paura, il male oscuro, insidioso da cui tutti vorremo stare lontani, l’emozione arcaica che spinge l’essere umano ad agire d’istinto dinanzi a una situazione di pericolo per badare alla sua sopravvivenza.
Per l’umanità stanno aumentando i rischi di catastrofe: prima le guerre di ieri e di oggi, poi il devastante inquinamento ambientale, ora le pandemie. Dinanzi a questi rischi e ai connaturati danni irreversibili, regna la paura. Il Covid-19 ha provocato la più grave crisi economica, politica, sociale e sanitaria dalla fine della seconda guerra mondiale. La percezione è che l’umanità sia ri-precipitata davvero in tempi bui.[2]
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“Luci e ombre di una democrazia antifascista. Viaggio nella Repubblica”
Letture.org intervista Gaspare Nevola
Prof. Gaspare Nevola, Lei è autore del libro Luci e ombre di una democrazia antifascista. Viaggio nella Repubblica edito da Carocci. L’antifascismo rappresenta un “canone” politico-identitario della nostra Repubblica: come ha resistito tale canone di fronte ai cambiamenti e alle fratture sociali, politiche e culturali che ne hanno segnato la storia?
Il libro è una sorta di viaggio attraverso le diverse stagioni politiche e culturali della Repubblica, ruota attorno al tema dell’identità politica della Repubblica e al canone della memoria pubblica che vi si intreccia: l’identità politica e il canone della memoria sono quelli di una democrazia antifascista. Le feste civili della Repubblica (25 aprile, 2 giugno, 4 novembre), la loro nascita, il loro persistere e il loro mutare di accenti nei decenni esprimono le luci e le ombre della nostra democrazia antifascista. Questi rituali civici, pur con i loro conflitti, polemiche o appannamenti dei sentimenti collettivi, sono riusciti a riproporre il canone politico-identitario dell’antifascismo. Tuttavia, come evidenzio nel libro, tale canone è pervaso da “fratture”: come un vaso di porcellana che si presenta intero e però si mostra corroso dalle crepe. Le fratture hanno indebolito il canone dell’antifascismo, tuttavia non hanno mai portato alla sua distruzione o archiviazione. L’epos e l’ethos della Resistenza e della Liberazione hanno fin dall’inizio offerto un’incarnazione plastica dei valori di libertà e di giustizia che ispirano il canone politico-identitario della nostra democrazia antifascista. Il canone antifascista è sigillato nella stessa Costituzione, trova costante espressione nei discorsi celebrativi delle alte cariche dello Stato, di uomini politici e intellettuali; si riverbera nella società anche attraverso la scuola, i nomi delle strade e delle piazze, i musei e i monumenti e, last but not least, attraverso i mezzi di comunicazione di massa.
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