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Draghistan: “il sonno della ragione genera mostri”
di Luca Busca
Vedi anche: Luca Busca: Draghistan: cronache di un paese sull’orlo di una crisi di nervi
Come osservò qualche hanno fa Andrea Camilleri “la logica, il buon senso, la sincerità non hanno più corso legale in Italia”. L’intuizione razionale elementare, quella che dà vita al buon senso comune, è andata persa. A scomparire è stata la logica semplice, fondata sui principi elementari di fisica, non ancora stravolti dalla meccanica quantistica, in cui all’origine di un effetto c’è sempre una causa. Quella logica secondo la quale di fronte ad un fuoco viene istintivo soffiare se lo si vuole alimentare, soffocarlo con la sabbia o l’acqua se lo si vuole spegnere. Quella logica basilare che facilita la vita quotidiana, ad esempio con l’uso di una leva, per sollevare un peso, e l’utilizzo di un piano inclinato per spostarlo, preferibilmente usato nel senso in cui agisce la forza di gravità. Ad essersi dissolta è quella logica secondo la quale, una volta stabilito un obiettivo, si ragiona e si lavora per raggiungerlo. Se il fine è rimuovere un “effetto” indesiderato, la logica impone di studiare le cause che lo hanno determinato per poterle poi rimuovere. Se, invece, per raggiungere l’obiettivo prefissato si pensa di alimentare le cause che generano il fenomeno, il risultato, nella quasi totalità dei casi, sarà l’amplificazione dell’effetto indesiderato. La logica, infatti, determina in modo inequivocabile che “versare benzina sul fuoco” causa inevitabilmente un incendio. Esiste un unico caso in cui la logica consente l’utilizzo delle cause al fine di rimuovere l’effetto prodotto, quello in cui si vuol portare tale effetto ai suoi massimi livelli in modo che deflagri auto estinguendosi. Il sistema ha un’altissima percentuale di successo. Il problema generalmente viene individuato nell’impossibilità di controllare gli “effetti collaterali” generati dalla deflagrazione che spesso conducono all’estinzione di innumerevoli “fenomeni” connessi.
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La tempesta perfetta
di Salvio Lanza, Rosario Patalano
1. Introduzione
La guerra in Ucraina ha posto drammaticamente il problema della nostra indipendenza energetica che, per un paese dotato di insufficienti fonti proprie, non significa immediata autarchia, ma intelligente diversificazione dei canali di approvvigionamento (vedi tabella 1 su tassi di dipendenza nell’Unione Europea, come percentuale delle importazioni nette di prodotti energetici sul consumo interno lordo, con l’Italia che si colloca all’ottanta per cento, vedi tabella 2, per la percentuale di produzione nazionale e le tabelle 3,4 e 5 per le quote di importazioni EU di carbone, petrolio e gas, per paesi fornitori)[1]. Ovviamente questa diversificazione richiederà tempi lunghi e una decisa azione diplomatica verso i paesi in grado di fornire risorse energetiche. Nel lungo periodo, tuttavia, la piena indipendenza energetica, potrà essere affrontata solo con l’implementazione di centrali nucleari (costose e con problemi irrisolti di sicurezza) o con imponenti investimenti in energie rinnovabili[2]. Entrambe le scelte mobiliteranno ingenti risorse per la realizzazione e soprattutto richiederanno una chiara scelta del modello di sviluppo e di governance da seguire. Inoltre, e non è un problema secondario, il tema energetico si interseca inevitabilmente con quello del futuro ruolo dell’Unione.
Tab. 1. Tassi di dipendenza energetica EU 27 (% importazioni nette sul consumo interno lordo) 2020
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Il nuovo disordine mondiale / 15: Follow the money!
di Sandro Moiso
Il nemico non è, no non è
oltre la tua frontiera;
il nemico non è, no non è
al di là della tua trincea
(Il monumento – Enzo Jannacci, 1975)
Nonostante la versione patinata di stile hollywoodiano della guerra fornita dalla propaganda occidentale, che continua a parlare di vittoria di Kiev e della NATO, ballando una sguaiata rumba sia sulla pelle dell’orso russo (non ancora acquisita, però, come trofeo) che su quella delle vittime civili e militari di entrambi i fronti in guerra, i fatti degli ultimi giorni, se non delle ultime ore, rivelano uno scenario ben diverso da quello così superficialmente descritto. Soprattutto per quanto riguarda le alleanze economiche, politiche e militari che gravitano intorno agli Stati Uniti e all’Europa e che vanno man mano disfacendosi lungo i confini orientali di quest’ultima,
Un’immagine che potrebbe riassumere per tutte lo stato delle cose sul campo è quella della parziale resa e ritirata dall’acciaieria Azovstal di Mariupol dei buona parte dei difensori.
Simbolo dell’”eroismo” e della “resistenza” ucraina1 nel corso dei primi 82 giorni di una guerra destinata a durare ed allargarsi negli anni a venire, paradossalmente, è stato anche il primo contingente militare ucraino ad entrare, seppur parzialmente, in conflitto con Zelensky e il suo governo, proprio per il tentativo di quest’ultimo, molto simile a quello di Hitler con le truppe tedesche assediate a Stalingerado nell’inverno tra il 1942 e il 1943, di elevare i militari ad eroi destinati al martirio senza tentare di far alcunché, nemmeno sul piano delle trattative per cercare di salvarne almeno un certo numero.
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Oltre l’Ucraina, le segrete cause materiali della guerra
di Emiliano Brancaccio
Post di Emiliano Brancaccio, docente di politica economica presso l’Università del Sannio
La narrazione della guerra è ormai polarizzata su due opposte retoriche. Putin e i suoi giustificano l’aggressione all’Ucraina con l’urgenza di denazificare il paese e salvaguardare il diritto di autodeterminazione delle popolazioni filo-russe. Il governo USA e gli alleati NATO, invece, sostengono sia doveroso partecipare più o meno direttamente alle operazioni belliche per tutelare la sovranità di un paese libero e democratico aggredito. Queste due propagande, pur contrapposte, risultano dunque uguali nel richiamarsi continuamente ai diritti, alla lealtà, all’ideologia, all’integrità delle nazioni, alla protezione dei popoli. Come se nelle stanze del potere si discutesse solo di tali nobili argomenti. Mai d’affari.
Che in un tale bagno di idealismo affondino i rozzi propagandisti che vanno per la maggiore non suscita meraviglia. Più sorprendente è il fatto che nel medesimo stagno si siano calati anche studiosi interpellati dai media: filosofi, storici, esperti di geopolitica e di relazioni internazionali, economisti mainstream. La ragione di fondo, a ben guardare, è di ordine epistemologico. I più sembrano infatti accontentarsi di una metodologia di tipo aneddotico. Ossia, una serie di fatti giustapposti, una concezione della storia come fosse banalmente costituita dalle decisioni individuali dei suoi protagonisti, una sopravvalutazione delle spiegazioni ufficiali di quelle decisioni. E sopra ogni cosa, una espressa rinuncia: mai pretendere di ricercare “leggi di tendenza” alla base dei conflitti militari. Da Allison Graham a Etienne Balibar, nessuno osa oggi parlare delle “tendenze” su cui invece indagavano i loro grandi ispiratori, da Tucidide ad Althusser. [1]
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Dialettica dell’irrazionalismo
Lukács tra nazismo e stalinismo
di Enzo Traverso
Il saggio «Dialettica dell’irrazionalismo» di Enzo Traverso (ombre corte, 2022), appena arrivato in libreria, è uscito l’anno scorso in inglese come introduzione alla nuova edizione di «The Destruction of Reason» di György Lukács, per la Verso. La traduzione è stata curata da Gigi Roggero, rivista e aggiornata dall’autore. In occasione della sua pubblicazione per ombre corte pubblichiamo qui l’Introduzione. Ringraziamo l’autore e l’editore per la disponibilità.
Sono molte le ragioni che suggeriscono oggi, a settant’anni dalla sua prima pubblicazione, una rilettura di La distruzione della ragione di Lukács. Per i filologi e gli storici della filosofia sono ovvie: si tratta di riscoprire una delle opere più ambiziose di uno dei grandi pensatori del Novecento. Ce ne sono altre, altrettanto ovvie, che derivano dall’interesse intrinseco di questo libro, profondamente contestabile ma ricco di idee. Tutti riconoscono che dei legittimisti fanatici come Joseph de Maistre e Donoso Cortés, un filosofo fascista come Giovanni Gentile, dei pensatori conservatori compromessi col nazismo come Martin Heidegger e Carl Schmitt, meritano di essere letti e meditati. Perché non dovremmo riservare un analogo trattamento a Lukács?
Si possono ricavare delle lezioni utili dalle opere dei cattivi maestri, ma per questo bisogna saperli leggere, non per seguirne l’insegnamento, ma andando oltre la semplice condanna che nasce da un’interpretazione angusta e sterile. L’apologia dello stalinismo che permea La distruzione della ragione, pubblicata a Berlino per i tipi di Aufbau Verlag nel 1953, appare oggi indegna e colpevole, ma va spiegata e compresa nei suoi significati. Non per giustificarla o “perdonarla” – come faceva Hannah Arendt nel 1970, rievocando i trascorsi nazisti di Heidegger – ma perché non è aneddotica; essa getta luce su una tappa fondamentale del percorso del suo autore e anche, al di là di Lukács, del marxismo e della cultura di sinistra durante gli anni più bui della guerra fredda. Bisogna insomma, per usare la formula di Leo Strauss, imparare a “leggere tra le righe”, interpretando un’opera come La distruzione della ragione non soltanto come un manifesto ma anche come un sintomo. È questo l’esercizio che cercherò di compie- re nelle pagine che seguono.
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Credere, obbedire e …far combattere gli altri
di Giancarlo Scarpari
Nella lunga intervista rilasciata a Federico Rampini (Kosovo, gli italiani e la guerra, Milano, Mondadori, 1999), Massimo D’Alema presentava l’intervento della Nato contro la Serbia – 79 giorni di bombardamenti, 23.614 bombe e missili sganciati (tra cui 355 bombe a frammentazione e altre all’uranio impoverito), più di 500 morti e 8.000 feriti tra i civili, con l’ambasciata cinese colpita e la sede della televisione di Belgrado semidistrutta, con 16 morti tra giornalisti e tecnici, ecc. – come un’azione di forza volta «a garantire i diritti umani e civili per decine di migliaia di profughi in fuga dalle città e dai villaggi del Kosovo e a riaprire, una volta conseguito questo obiettivo prioritario, il dialogo per giungere a una pace giusta che ponga fine a quel conflitto».
D’Alema, il 5 marzo, venti giorni prima che iniziasse la guerra, era andato (convocato?) negli Usa e, ricevuta l’assicurazione da Clinton che si sarebbe fatta «qualunque cosa per riparare» all’ingiusta assoluzione dei piloti responsabili della strage del Cermis, aveva poi parlato della guerra in preparazione e appreso che, se Milosevic non si arrendeva dopo i primi bombardamenti, la Nato li avrebbe proseguiti a oltranza: la promessa sarebbe rimasta senza seguito, la previsione si sarebbe invece concretizzata sul campo.
L’Italia partecipò alla guerra con la messa a disposizione delle basi e l’invio di 52 aerei.
Nell’intervista i due non sembrano interessati a valutare la compatibilità, o meno, di tale scelta con l’impegno stabilito dall’art.11 della Costituzione, visto che non ne parlano proprio.
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Il punto sul momento
di Michele Castaldo
A oltre tre mesi dal 24 febbraio, cioè dall’inizio dell’« Operazione militare speciale » della Russia in Ucraina proviamo a fare il punto su quello che finora è accaduto fra le parti, cioè fra la Russia e l’insieme dell’Occidente sul campo di battaglia e fuori e a quali possibili scenari si va incontro. Premettendo di fare lo sforzo di analizzare i fatti fra selve di bugie e chiacchiere strumentali, in modo particolare nel nostro Occidente, specialisti di vanagloria dei nostri valori e nello spendere fiumi di sprezzanti aggettivi nei confronti del nemico del momento, Putin e la Confederazione russa. Un elenco lunghissimo di editorialisti e commentatori si sono alternati sui maggiori quotidiani italiani e nei programmi televisivi, con conduttori e conduttrici rigorosamente schierati alla bisogna fino all’indecenza di mandare in onda, durante gli stacchi pubblicitari, l’immagine dell’”eroe” Zelensky e la colonna sonora dell’inno dedicato al Comandante Che Guevara, ovvero di mettere sullo stesso piano un eroe vero dell’antimperialismo antioccidentale e un servo dell’Occidente a dirigere il secondo tempo dello scontro tra gli Usa e la Federazione russa in terra d’Ucraina.
Di contro una Federazione russa che il 9 maggio manda in onda la parata per la ricorrenza della vittoria sul nazifascismo. Va detto che mentre Zelensky osannato e corteggiato da tutto l’Occidente appare sempre in splendida solitudine, in Russia c’è stata una manifestazione di 2 milioni di persone nella sola Mosca e 20 milioni per tutta la nazione. Dove compariva spesso il simbolo della ex Urss con falce e martello. Nella stessa Mariupol, in Ucraina, una enorme bandiera rossa con lo stesso simbolo veniva retta da alcune centinaia di manifestanti.
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La biotecnologia statunitense ha contribuito a creare COVID-19?
di Neil L. Harrison e Jeffrey D. Sachs
Pur incolpando la Cina esclusivamente per l’apparente comparsa del COVID-19 a Wuhan, le autorità statunitensi hanno soppresso le indagini sul ruolo che gli istituti di ricerca scientifica statunitensi potrebbero aver svolto nel creare le condizioni per la pandemia. Eppure, se il coronavirus è davvero arrivato da un laboratorio, la colpevolezza degli Stati Uniti è quasi certa
Quando il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha chiesto alla United States Intelligence Community di determinare l’origine del COVID-19, la sua conclusione è stata notevolmente sottovalutata ma comunque scioccante. In un riassunto di una pagina , l’IC ha chiarito che non poteva escludere la possibilità che SARS-CoV-2 (il virus che causa COVID-19) fosse emerso da un laboratorio.
Ma ancora più scioccante per gli americani e il mondo è un ulteriore punto su cui l’IC è rimasto muto: se il virus è davvero il risultato di ricerche e sperimentazioni di laboratorio, è stato quasi sicuramente creato con la biotecnologia e il know-how statunitensi che erano stati messi a disposizione di ricercatori in Cina.
Per conoscere la verità completa sulle origini del COVID-19, abbiamo bisogno di un’indagine piena e indipendente non solo sull’epidemia di Wuhan, in Cina, ma anche sulla ricerca scientifica statunitense, sulla divulgazione internazionale e sulle licenze tecnologiche in vista alla pandemia.
Recentemente abbiamo chiesto un’indagine del genere negli Atti dell’Accademia Nazionale delle Scienze . Alcuni potrebbero respingere le nostre ragioni per farlo come una “teoria del complotto”. Ma cerchiamo di essere chiarissimi: se il virus è emerso da un laboratorio, lo è quasi sicuramente accidentalmente nel normale corso della ricerca, probabilmente non è stato rilevato a causa di un’infezione asintomatica.
Ovviamente è anche ancora possibile che il virus abbia un’origine naturale. La linea di fondo è che nessuno lo sa. Ecco perché è così importante indagare su tutte le informazioni rilevanti contenute nei database disponibili negli Stati Uniti.
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Per un nuovo ordine mondiale multipolare
di Alessandro Valentini
Riceviamo e volentieri pubblichiamo la relazione al seminario di Roma del 18 maggio e del seminario di Oristano del 21 maggio
Con la guerra tra Russia e Ucraina siamo a un tornante della storia. Uno di quelli che si presentano una o due volte al massimo nel corso di un secolo. Un tornante destinato a segnare le sorti dell’umanità per i prossimi decenni. Allora è poco interessante discutere qui tra noi se Putin ha fatto bene o ha sbagliato a intraprendere questa operazione militare; se la radicalizzazione del conflitto, sfociato in scontro militare aperto, poteva essere evitato e come poteva essere evitato. Voi tutti sapete qual è la mia opinione ma non è questo il tema al centro del nostro seminario. Noi sappiamo che da almeno un decennio l’amministrazione americana, prima con Obama e poi con Biden, con la parentesi di Trump che si è scagliato prevalentemente contro la Cina, ha condotto una politica di allargamento aggressivo della Nato ad est, inglobando tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia e alcune repubbliche ex sovietiche. L’Ucraina è un altro fondamentale tassello di questa politica, e anche il tentativo di destabilizzare la Bielorussia, con la ennesima “rivoluzione colorata”, rientrava in questo disegno. Ma nel contempo oramai da anni si è consolidato un asse strategico russo-cinese, che si è manifestato in molte occasioni di crisi, nel corso di questi anni, nei rapporti con l’Occidente. Un asse strategico dunque che non nasce dalla reciproca convenienza del momento, ma ha basi strutturali molto solide. Le sanzioni dell’Occidente alla Russia, a dire la verità in questi anni sempre portate avanti con determinazione, ma che ora non hanno precedenti nella storia, hanno accelerato un processo che era in atto, evidenziando drammaticamente lo scontro tra Russia e Cina con l’Occidente, in particolare con gli Usa.
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L’ideologia dell’infosfera
di Roberto Finelli
1. A “massive information process”
L’immagine più diffusa con la quale il mondo tendeva a concepire se stesso, prima della pandemia, e attraverso la quale verosimilmente tornerà a pensarsi, ancor di più, superata la pandemia, è quella che può sintetizzarsi nel brutto termine di “infosfera”. L’infosfera è la concezione del mondo come scambio e messa in rete continua di informazioni, più precisamente come un luogo unificato e globalizzato da un processo permanente di accumulazione, calcolo e trasmissione di informazioni.
Tale rappresentazione per la quale il mondo fisico, naturale, materiale viene ad essere sempre più attraversato, abitato e dominato da una società cosidetta della conoscenza, trova ovviamente il suo fondamento nella diffusione gigantesca delle macchine informatiche, dei computer, e della crescita esponenziale del loro potere computazionale, della loro capacità cioè di immagazzinare, confrontare, elaborare e calcolare informazioni. Tale capacità enorme di “processare”, resa ormai esterna e indipendente dalla mente umana (inaugurata e messa in opera dalla geniale macchina di Touring), concluderebbe, si afferma, una dimensione antropologica del conoscere, fondata sulla centralità della mente umana, per inaugurare un tipo di sapere che dipenderà sempre più da dispositivi automatici, da intelligenze e memorie artificiali, in grado di produrre metodologie di ricerca e interpretazioni di ogni aspetto del mondo e della vita.
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La perdita di fiducia è stata ampiamente meritata
di Jeffrey Tucker*
Qui, Jeffrey Tucker si pone una serie di domande sugli ultimi due anni, arrivando alla conclusione che la questione del Covid è stato un problema profondamente politico. Ovvero, un problema che ha a che fare con la gestione dello stato. In questo caso, i vari organi dello stato sono andati avanti per conto loro, senza che nessuno riuscisse, e nemmeno volesse, controllarli. Non è stato un “complotto,” perlomeno non nel senso che si da normalmente al termine. E’ stata la convergenza di interessi di una serie di individui, ditte, partiti politici, burocrati, e altre sezioni della società che hanno trovato utile spaventare la gente per i loro scopi. E ora ci troviamo con uno stato dove l’apparato burocratico è completamente fuori controllo e che gestisce l’apparato della comunicazione pubblica (detto anche la “propaganda”) in modo completamente autonomo, seguendo gli interessi particolari delle varie lobby. Purtroppo, non si vede come fare a rimediare a questa situazione che, anzi, tende a peggiorare mentre, in parallelo la sfiducia generalizzata nelle istituzioni (incluso la divinizzata “Scienza”) cresce in continuazione. La faccenda non promette bene. (Prof. Ugo Bardi)
* * * *
La società è stata distrutta a molti livelli, e anche l’economia. Siamo di fronte a una crisi di salute mentale tra i giovani dopo due anni di sconvolgimenti educativi e sociali senza precedenti. L’inflazione più alta nella vita della maggior parte delle persone ha gettato la gente nel panico per il futuro, e questo si combina con una strana e imprevedibile penuria.
E ci chiediamo perché. Pochi osano chiamarlo per quello che è: il risultato di chiusure e controlli smodati che hanno compromesso diritti e libertà essenziali. Questa scelta ha sconvolto il mondo come lo conoscevamo. Non possiamo semplicemente andare avanti e dimenticare.
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Per fare conricerca – Prefazione
di Gigi Roggero
È appena stato pubblicato nella collana Input di DeriveApprodi il volume Per fare conricerca di Romano Alquati. Frutto di un ciclo di lezioni da lui tenuto all’inizio degli anni Novanta per studenti e militanti, il testo è un formidabile strumento formativo, un manuale di metodo si potrebbe dire seguendo l’algido linguaggio sociologico, a cui preferiamo il termine utilizzato da Alquati: è una «macchinetta», non solo da leggere ma da studiare, non solo da studiare ma da praticare. Pubblichiamo la Prefazione scritta da Gigi Roggero.
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A quel che è accettato / dagli il fuoco del tuo odio. Paul Éluard
Per fare conricerca è il frutto di un ciclo di lezioni tenuto da Romano Alquati per il seminario sui «comunicanti» svoltosi nei primi anni Novanta alla facoltà di Scienze politiche di Torino, a cui parteciparono studenti e militanti dell’ex movimento della Pantera e dell’allora neonata Radio Blackout, emittente creata dai centri sociali del capoluogo piemontese. Nelle intenzioni originarie, le lezioni erano finalizzate all’impostazione di un percorso di conricerca sul nodo della comunicazione e dei comunicanti. Indipendentemente dagli sviluppi successivi, a noi resta un volume fondamentale, edito per la prima volta dalla Calusca nel 1993 e che oggi riproponiamo, non casualmente, nella collana di DeriveApprodi dedicata alla formazione politica. Per fare conricerca, infatti, è innanzitutto uno straordinario strumento formativo, unico nel suo genere. È un manuale di metodo si potrebbe dire seguendo l’algido linguaggio sociologico, a cui preferiamo il termine utilizzato da Alquati: è una macchinetta, non solo da leggere ma da studiare, non solo da studiare ma da praticare.
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L’opposizione possibile tra terza via ed economia di guerra
di Fulvio Bellini
Premessa: la terza via è ancora possibile?
Come è stato correttamente notato, più passano le settimane di conflitto in Ucraina e maggiori dubbi crescono tra gli osservatori, e si spera nell’opinione pubblica, rispetto al suo reale significato. Per essere maggiormente chiari, trascorrono le settimane e si evidenziano le crepe nell’affresco dipinto dalla propaganda di regime rispetto all’operazione militare speciale. Ad esempio, sorge il dubbio che la Russia volesse effettivamente quello che aveva dichiarato: intervenire in Ucraina a difesa delle repubbliche di Lugansk e Donetsk; oppure che il Presidente Zelensky è quello che è: un attore che recita copioni scritti a Washington; oppure ancora che nella resistenza ad oltranza nell’acciaieria Azovstal a Mariupol del battaglione nazista Azov c’è qualcosa che non torna: “Il caso degli istruttori NATO a Mariupol che imbarazza l’Occidente” scrive l’Antidiplomatico del 6 Aprile scorso; ed infine la durata del conflitto in Ucraina che non dipende solo da Mosca ma altrettanto da Washington aprendo innumerevoli scenari che vedono l’Ucraina solo come pretesto per altro.
La crisi ucraina funge anche da acceleratore e chiarificatore dei rapporti politici tra Stati ufficialmente non belligeranti e all’interno degli stessi, tra le forze politiche a favore della guerra (sostanzialmente tutte) e le forze sociali contrarie (molto più numerose di quello che si pensi). In altre parole sorge sempre più prepotente la necessità di fare opposizione alla politica dettata dagli Stati Uniti e applicata con stretta osservanza in Europa da Gauleiter quali Ursula von der Layen, Mario Draghi, Olaf Scholz e la schiera degli oscuri leader dell’Est europeo.
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Per una politica più che umana: pensare l'evento
di Giulio Pennacchioni
L’obiettivo dell’ultimo numero dell’Almanacco di filosofia e politica, pubblicato da Quodlibet lo scorso marzo[1] e a cura di Rita Fulco e Andrea Moresco, è duplice: riflettere sullo statuto ontologico-politico della categoria di “evento” e sul rapporto «tra evento storico, conflitto politico e forma istituzionale»[2]. In continuità con i numeri precedenti dell’Almanacco, l’evento si rivela quindi essere uno spazio all’interno del quale è possibile collocare una riflessione sul pensiero istituente. L’evento è dove avviene la trasformazione delle istituzioni, lo sviluppo di alcune e il declino di altre, che non vanno quindi considerate dei “blocchi monolitici” immutabili, bensì delle “strutture” dinamiche e aperte a cambiamenti. Come spiegato[3] da Roberto Esposito, che oltre a dirigere le uscite dell’Almanacco, è tra i filosofi italiani che più si è occupato della nozione di “istituzione”, si tratta di un «concetto che supera l’ambito strettamente politico-giurisdizionale entro il quale siamo soliti collocarlo, e che designa invece sia la forza, la potenza impersonale (ontologica) incorporata alla vita, sia l’intrinseca vitalità (politica)»[4].
Trasformazione delle istituzioni che, come emerso nei tre precedenti volumi dell’Almanacco, non è mai separata da una prassi antagonista, quella dei conflitti sociali, che va anzi assunta a suo punto di inizio. Conflitti politici e sociali che non sono certo mancati durante la crisi scatenata dal Covid 19 (Black Lives Matter, movimenti femministi e per la giustizia climatica, scioperi per la sicurezza sul lavoro e in difesa del salario, scioperi nelle carceri, reti di solidarietà e mutualismo, per citarne solo alcuni) e da cui un “pensiero istituente” può svilupparsi.
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Antagonisti… filoimperialisti
di Nico Maccentelli
È di queste settimane l’attacco politico “da sinistra” a quelle compagne e compagni che da anni sostengono l’autodeterminazione della popolazione russofona del Donbass e dell’Ucraina in generale e che denunciano l’operazione che l’imperialismo USA-NATO sta conducendo contro la Russia e sulla pelle dell’Ucraina.
All’accusa di “putinismo” che i media di regime portano avanti nella loro propaganda contro chiunque osi tematizzare il conflitto in Ucraina e rompere la coltre di luoghi comuni eterodiretti che girano attorno al concetto “aggressore-aggredito”, si aggiunge così quella di “rossobrunismo” sia verso i sovranisti di sinistra, sia verso quelle forze comuniste “nostalgiche” e “vetero soviettiste”, che non fanno di tutta un’erba un fascio, pardon un nazi, ma analizzano le cause e gli sviluppi di questa guerra, individuando le vere responsabilità in campo. Un j’accuse che va da La Repubblica e arriva agli anarchici “duri e puri”, passando per i “disobba” e per vari nodi e tribù di un certo antagonismo che ragiona per principi.
Ma andiamo con ordine. La polemica è saltata fuori nella sua virulenza, guarda caso, in concomitanza con due fatti: l’avvio di un’attività di delinquenza politica da parte degli ucronazi in Italia e la necessità di sostenere la politica delle armi all’Ucraina e della cobelligeranza italiana da parte del governo Draghi e di ambienti euroimperialisti come quelli del PD. Due aspetti collegati tra loro: la politica guerrafondaia di regime il secondo aspetto e il suo braccio armato informale il primo.
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La crisi della globalizzazione: la guerra di Putin e la guerra di Biden
di Paolo Ferrero
La guerra è una aberrazione disumana, non è mai giustificabile. Come saggiamente avevano capito i padri e le madri costituenti, la guerra non può essere considerata una soluzione per risolvere le controversie internazionali. I problemi debbono essere risolti in altro modo e noi ci impegniamo in tal senso. In primo luogo perché il livello di sofferenza prodotto dalla guerra è inumano e la pagano soprattutto i soggetti più deboli, dagli anziani ai bambini alle donne, verso cui la violenza di genere si somma a quella del conflitto armato. In secondo luogo perché oltre a sofferenza e terrore, la guerra genera odio, tende a riprodurre se stessa, distruggendo la politica, la democrazia, la libertà. La guerra genera guerra, ed è la più grande aberrazione prodotta dagli umani, una specie di cannibalismo su scala industriale. La guerra è un prodotto umano che nega completamente l’umanità. Per questo siamo contro la guerra, sempre, senza se e senza ma.
La guerra va combattuta in radice ma va analizzata nelle sue cause – cause, non ragioni – e nei suoi molteplici effetti. Capire la guerra per costruire la pace, una pace duratura, perpetua, è il nostro obiettivo. Con questo sguardo guardiamo alle guerre in corso.
La guerra di Putin e i suoi complici
Il 24 febbraio 2022 l’esercito russo ha invaso militarmente l’Ucraina. Come abbiamo ripetuto mille volte si tratta di una scelta sbagliata e criminale che ha aggravato drammaticamente i problemi dell’area e che apre al rischio della terza guerra mondiale.
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L’inchiesta sociale militante
Il compito da rilanciare dei comunisti
di Raffaele Gorpìa
Sono decenni che si è rinunciato alla capacità di analizzare seriamente la struttura del corpo sociale mentre ci si è persi invece dietro a tatticismi politici, a suggestivi “immaginari e a “nuove narrazioni”, quando al contrario si ha sempre più la necessità di sapere precisamente come sono fatte le classi subalterne e come sono fatti i nostri nemici che, invece, hanno convenienza a far sparire le classi sociali poiché senza di esse rimangono solo gli individui o tutt’al più i gruppi di interesse.
Se vi è un elemento sintomatico della crisi del movimento operaio e delle organizzazioni che un tempo ad esso facevano riferimento, certamente questo risiede nella scarsa presenza se non nella totale assenza di produzione di inchieste sociali sulla composizione di classe in epoca contemporanea. L’inchiesta non può essere solo concepita come lo strumento che l’organizzazione politica di sinistra deve utilizzare per non perdere il contatto con la realtà, quanto come un vero asse strategico attorno al quale costruire, appunto, la strategia politica; l’inchiesta diviene strumento fondamentale per cogliere da un lato la struttura di classe nelle sue diverse articolazioni e nella sua componente soggettiva e di coscienza, per un altro verso è il modo per raccogliere, secondo l’impostazione maoista, le “idee giuste” delle masse rielaborandole come linea politica.
Tale assenza dal campo politico rimanda sicuramente all’assenza dell’intellettuale organico prefigurato da Gramsci, una figura politica immaginata come interna alla classe e allo stesso tempo avanguardia della stessa capace di guardare al complesso della società senza perdere l’orientamento del punto di vista di classe e ispiratore del proletariato affinché lo stesso possa liberarsi dalle idee delle classi dominanti per sviluppare una propria coscienza di classe e così cambiare lo stato di cose presenti.
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Per rileggere Federico Caffè da una prospettiva rivoluzionaria
di Carlo Formenti
Nella collana Meltemi “Visioni eretiche” è appena uscito il nuovo libro (1) di Thomas Fazi, che quattro anni fa aveva inaugurato la serie con Sovranità o barbarie (2), dedicato al grande eretico della scienza economica, quel Federico Caffè che, dopo la sua misteriosa scomparsa (in data 15 aprile 1987), si è sollecitamente provveduto a rimuovere dai programmi di studio della disciplina perché la lucidità con cui aveva denunciato i rischi della svolta neoliberista – e previsto i disastri che ne sarebbero derivati – è imbarazzante per gli economisti e i politici (in particolare se di sinistra) che di quella svolta si fecero promotori e apologeti. Senza entrare nei dettagli dell’accuratissima ricostruzione che Fazi fa del pensiero e dell’impegno politico e sociale di Caffè, le pagine che seguono si propongono di: 1) ricordare quale fosse il senso comune condiviso dalla maggioranza degli economisti occidentali fino agli anni Settanta del secolo scorso; 2) riassumere i fondamenti teorici su cui si fondava, cioè la teoria keynesiana (e la lettura che ne diede Caffè, il primo a diffondere il pensiero di Keynes nel nostro Paese); 3) ricostruire a grandi linee della svolta neoliberista degli anni Ottanta, legittimata dalle “innovazioni” teoriche della sintesi “neokeynesiana” e della scuola neomonetarista; 4) rievocare la tenace quanto disperata opposizione di Caffè nei confronti del nuovo corso, con particolare attenzione alla sua irritazione nei confronti della conversione del PCI e del sindacato ai paradigmi del pensiero liberal/liberista.
Come ricorda Fazi (3) quando venne avanzata per la prima volta la proposta di istituire una moneta unica europea - con il cosiddetto piano Werner - fu bocciata come una bizzarria se non come una vera e propria follia.
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Lettera aperta a noi ventenni
di Sara Nocent
I. “Cito qualcuno per non stare zitto”
Cos’ha detto? Ho capito / Chi l’ha detto? Condivido / Leggo poco, guardo i video / Non mi vanto, sono un mito / E se non so cosa dire, cito qualcuno per non stare zitto
(Selton, Pasolini)
Ai ventenni di oggi. Nati dagli eterni figli della “Generazione X” ed eredi di rivoluzioni fallite, di una depressione romanzata dissoltasi ormai in una diffusa, indefinibile ansia. Siamo i post-figli, cresciuti senza conoscere la differenza tra le realtà sociali e lavorative stabili di più di quarant’anni fa e la disgregazione, l’accelerazione applicata a ogni campo, il desiderio autoimprenditoriale. Non abbiamo avuto neanche la delusione di una promessa mancata, quella di un’occupazione a tempo indeterminato, con ritmi e paghe decenti, e della possibilità di farsi una casa e una famiglia. Il verbo della flessibilità e del perfezionismo ci è stato infatti impartito fin dall’infanzia, già ai tempi delle maestre che elogiavano chi poteva permettersi di fare più attività extrascolastiche e riusciva a essere bravissimo in tutti i campi. Non che all’università le cose migliorino: dire “sono anche uno studente universitario” è quasi diventata un’abitudine per campioni di varia sorta, come se impegnarsi nello studio non fosse sufficiente di fronte al bisogno di eccellere il prima possibile. Professori e professoresse ci hanno insegnato che è necessario competere, ma manca un dettaglio: competere per cosa? Per quel fantomatico “mercato del lavoro” spesso rappresentato come un brutale stato di natura, quello stesso contesto che poi ti chiede, fra le varie soft skills, di essere empatico, causativo, creativo. Devi insomma essere quello che fai, mentre la qualità con cui lo fai e le tue risorse mentali sono oggetto di valutazione performativa e morale, capacità che possono essere addestrate.
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Italia, la lunga crescita è finita?
di Mauro Gallegati, Pier Giorgio Ardeni
Centocinquant’anni di economia italiana riesaminati con nuovi dati e con uno sguardo che non si ferma al PIL, esplorando la complessità dello sviluppo, dei divari, degli squilibri e dell’attuale stagnazione del paese. Un’anticipazione dal libro di Ardeni e Gallegati ‘Alla ricerca dello sviluppo’
L’Italia – come recita il felice titolo di un saggio di Vera Zamagni – nei centocinquant’anni tra il 1861 e il 2011 è passata «dalla periferia al centro». Il Paese è cresciuto: si è arricchito, istruito, ha visto un generale e vistoso miglioramento del tenore di vita della sua popolazione, la quale è aumentata per raggiungere un «plateau», dato l’aumento dell’invecchiamento e la diminuzione della natalità. Questo sviluppo, tuttavia, è avvenuto per fasi e negli ultimi decenni è sostanzialmente rallentato: poiché nulla è per sempre, esso può ancora tornare indietro, e questo libro investiga perché. Oggi il Paese sembra fermo, la sua economia non cresce, le sue prospettive paiono incerte, l’orizzonte vago: è questa la «fine» di una parabola, oppure è già iniziata una nuova fase? Eppure, dall’Unità d’Italia ad oggi, molta strada è stata percorsa, in termini di ricchezza prodotta, di qualità e tenore di vita, di benessere.
Reddito e ricchezza, com’è ovvio, influiscono profondamente sul tenore di vita, sui consumi e, quindi, sul benessere. Questo, tuttavia, non dipende solo dal reddito ed è il risultato di un insieme di fattori in cui istruzione, salute e condizioni di vita giocano un ruolo fondamentale, così come le infrastrutture – le scuole, gli ospedali, le strade, le reti idriche, elettriche e telefoniche, gli esercizi commerciali, insomma il «contesto» socio-economico – e le istituzioni, lo Stato e le politiche pubblici, nonché il capitale sociale e culturale. Come questi siano cambiati nel corso dell’ultimo secolo e mezzo e come abbiano influenzato l’evolversi dell’economia e della popolazione è l’oggetto di questo libro.
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Yu Yongding, Cosa fare con le obbligazioni USA, aggiustamenti nella ‘doppia circolazione’ cinese
di Alessandro Visalli
Yu Yongding è un economista cinese, membro dell’Accademia delle Scienze Sociali e già del Comitato di politica monetaria della Banca Centrale Cinese, in questo articolo per Guancha[1]. Nel Forum finanziario globale PBCSF di Tsinghua del 2022[2], espressione di un think thank cinese fondato nel 1981 dalla Banca Centrale, Yongding ha attirato l’attenzione sul “dilemma” centrale del sistema internazionale monetario: il dollaro può fungere da moneta di riserva e fornire quindi una piattaforma monetaria di scambio al mondo (banalmente, garantendo che ci siano sempre dollari a disposizione per scambi tra terzi), solo se gli Stati Uniti sono in deficit. Un paese in surplus, infatti, aspirerebbe dollari mentre uno in deficit li distribuisce. Questa è la contraddizione interna sulla quale si è bloccata l’economia mondiale dopo la rottura della parità legale con l’oro che era prevista nello schema di Bretton Woods. Ma il ‘dilemma’ ha un suo scolio decisivo: la domanda internazionale di valuta di riserva e di scambio è correlata con la crescita del commercio mondiale e questa con la tenuta del dollaro. Se cala il commercio mondiale diminuisce la richiesta di valuta internazionale e quindi il dollaro si svaluta, ma allora, aumenta anche la possibilità che gli Stati Uniti si vedano costretti a non rispettare il proprio credito. Ovvero a replicare la crisi 1969-71 che portò al disaccoppiamento dollaro-oro. Questo scolio mostra la reale posta in gioco, e la reale funzione sistemica, della continua espansione della cosiddetta “mondializzazione”. Nelle condizioni poste dal disaccoppiamento il sistema di potere del dollaro può funzionare solo fino a che cresce. Trascinando il mondo in una insostenibile, se non altro sotto il profilo ambientale, bulimia.
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Il sapere oltre il mercato
di Luca Michelini
L’aziendalizzazione della scuola, di ogni grado compresa l’Università, e il disperato tentativo di trovare una misura di mercato al suo funzionamento e sviluppo, hanno guidato qualsivoglia atto di governo negli ultimi 30anni. La stessa “pedagogia” è divenuta una “pedagogia per il mercato”. La parola “riforma” è stata snaturata, perché ha sotteso e sottende, sempre, una controriforma. E così accade della parola “progresso”, che ha sotteso e sottende, puntualmente, forme di “regresso” e di “conservazione”.
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- Voglio proporre una breve riflessione sull’Università ricordando un celebre passo di Marx.
Che cosa è la ricchezza se non l’universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti, delle forze produttive, degli individui (…)? Che cosa è se non il pieno sviluppo del dominio dell’uomo sulle forze della natura, sia su quelle della cosiddetta natura, sia su quelle della propria natura? Che cosa è se non l’estrinsecazione assoluta delle sue doti creative, senza altro presupposto che il precedente sviluppo storico, che rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di tutte le forze umane come tali, non misurate su un metro già dato? Nella quale l’uomo non si riproduce in una dimensione determinata, ma produce la propria totalità? Dove non cerca di rimanere qualcosa di divenuto, ma è nel movimento assoluto del divenire?
2. Il superamento del capitalismo non è un fatto compiuto, come alcuni hanno voluto far intendere utilizzando questo testo.
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Le debolezze del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza
di Guglielmo Forges Davanzati*
Abstract:
Il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) costituisce il programma di politica economica italiano nell’ambito di quello europeo denominato Next Generation EU (NGEU) ed è strutturato nella forma di investimenti finalizzati a raggiungere gli obiettivi di crescita e di resilienza. Il PNRR italiano è quello maggiormente finanziato fra quelli degli altri paesi europei. In questo articolo se ne mettono in evidenza due debolezze: segnatamente la sua provvisorietà rispetto al ripristino del Fiscal Compact e la sua inadeguatezza, sotto il profilo quantitativo. Si evidenzia inoltre come il PNRR si basi sulla convinzione che nel breve periodo l’aumento del PIL derivante da una politica fiscale espansiva sia tale da generare una crescita duratura e tale da mantenere sostenibile l’aumento del debito in rapporto al PIL. Si considera preferibile, in alternativa, un intervento strutturale e non condizionato a riforme di segno liberista. In più, si evidenziano alcune criticità nel modello di previsione, accentuate dalle incognite politiche che pesano sulla revisione del Patto di Stabilità e Crescita e dalla guerra in Ucraina.
Il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza) costituisce il programma di politica economica italiano nell’ambito di quello europeo denominato Next Generation EU (NGEU) ed è strutturato nella forma di investimenti finalizzati a raggiungere gli obiettivi di crescita e di resilienza. Il PNRR italiano è quello maggiormente finanziato fra quelli degli altri paesi europei.1
Questo saggio si propone di dar conto di due ordini di critiche mosse al Piano, ovvero la sua condizionalità rispetto alle politiche di austerità (quantomeno nella interpretazione di quella parte della Commissione Europea che fa riferimento ai c.d. ‘paesi frugali’) e la sua insufficienza sotto il profilo quantitativo. Non si entrerà nel merito delle singole riforme, ma si valuterà l’impatto complessivo che il combinato di politiche fiscali espansive e riforme stesse può avere sull’economia italiana post-COVID.
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Strage di Capaci, trent’anni dopo
di Pino Arlacchi
In occasione del trentennale della Strage di Capaci (23 maggio 1992) vi proponiamo, per gentile concessione dell’autore, un breve estratto dell’ultimo libro di Pino Arlacchi, dal titolo Giovanni e io, uscito per i tipi di Chiarelettere (sul sito www.pinoarlacchi.it potete trovare l’introduzione). Vicino ai giudici Chinnici, Falcone e Borsellino, in prima linea contro Andreotti, Cosa nostra e la cosiddetta mafia di Stato, Pino Arlacchi ha scritto un libro particolarmente significativo che non è solo il racconto di una bella amicizia e di un forte legame professionale, ma anche l’occasione per una ricostruzione storica profonda e accurata, condita con importanti aneddoti e retroscena, di una lunga stagione della storia del nostro Paese, che ha visto come protagonista la criminalità del potere (“il gioco grande” del potere direbbe Giovanni Falcone) le cui varie componenti hanno spesso interagito tra loro sui diversi terreni della corruzione sistemica, della mafia e dello stragismo, tramite una miriade di vasi comunicanti che hanno fatto circolare lo stesso sangue infetto all’interno di un unico fragile corpo.
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Gladio, Mattarella e il dopostragi
Pur non essendo più titolare di capacità investigativa, e dovendosi tenere lontano da qualsiasi indagine in corso per non fornire pretesti ai suoi nemici, Giovanni [Falcone] non resisteva all’attrazione fatale esercitata su di lui dai casi più misteriosi del passato. Anche perché c’erano in campo sviluppi clamorosi, come la rivelazione del segreto su Gladio fatta da Giulio Andreotti alla fine del 1990.
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La posta in gioco in Ucraina
di Massimiliano Bonavoglia
Premessa: consapevole che l’informazione mediatica ha disseminato automatismi interpretativi e chiavi di lettura preconcette dell’attuale situazione in Europa orientale, lo scrivente prega il lettore di considerare il meccanismo della sineddoche inversa come un cliché da cui guardarsi. La sineddoche inversa è quella figura retorica in cui, invece di intendere il tutto, nominando la parte (il dito per la mano, la mano per il corpo, eccetera) come accade nella sineddoche semplice, ci si ritrova ad aver detto sempre una singola parte, pur cercando di indicare altre parti del tutto, e dunque il tutto viene ridotto a quella sua singola parte. Attraverso questo filtro assunto inavvertitamente da moltissimi di quelli che si informano mediante tv e giornali, se si loda Putin, si è putiniani, se si critica Biden, si è putiniani, se si nominano orrori commessi dagli ucraini, di nuovo, si è putiniani. Il tenore del dibattito pubblico in Italia è tale che si viene etichettati come putiniani, qualunque cosa dissonante si dica rispetto alla sola verità ascoltabile, tanto che chi dissenta, integri in modo critico, o si discosti dal pensiero unico atlantista, viene immediatamente ritenuto una spia russa, che dovrebbe vergognarsi, visti i morti di Bucha, a non esordire recitando un incipit oramai obbligato: “C’è un invasore e un invaso, va difeso l’invaso, e perseguito l’invasore”. Chi avesse bisogno di sentirsi ripetere queste parole come introduzione di qualsiasi ragionamento o retrospettiva sulle vicende di quei luoghi, è invitato a provare semplicemente a seguire il tracciato e solo al termine decidere autonomamente a quale categoria esso appartenga.
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Secondo un recente articolo del DailyMail.com il figlio del presidente degli Stati Uniti d’America Hunter Biden risulta aver inviato alcune e-mail che confermano il suo coinvolgimento nei biolaboratori presenti in Ucraina1 in cui si lavorava, fino all’entrata dell’armata rossa, alla produzione di armi biologiche, quali virus e batteri coltivati in laboratorio.
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