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Navigare nel mare del nostro scontento
di Giovanni Iozzoli
C’era una volta un reame felice e pacifico, guidato da un presidente-giullare. Un giorno un re-orco, che dominava su un vicino regno barbarico, decise di invadere il paese felice…
Dentro il contesto terribile che stiamo attraversando, la cosa più importante è cercare di cogliere e interpretare le correnti sotteranee che orientano la coscienza collettiva – soprattutto su una webzine che si occupa di politiche dell’immaginario. Lo schieramento pro-Nato e anti russo, in Italia, è stato particolarmente solerte, univoco e organizzato, fin dall’inizio delle ostilità: praticamente tutte le testate giornalistiche e le agenzie di coumicazione hanno abbracciato simultaneamente – a mò di stormo – la stessa versione farlocca e ipersemplificata dei fatti di Ucraina. Il simpatico comico con elmetto, il dittatore pazzo, la barbarie asiatica contro la civiltà europea: una specie di favola post-moderna, raccontata mediante cospicui investimenti in termini di uomini e mezzi. Un flusso potentissimo di immagini, commenti, invettive, inchieste, emozioni a distanza, che non ha molti precedenti.
Alla base di questa onda di comunicazione unidirezionale, c’è l’osso di una schema narrativo che gli italiani stanno subendo da 2 mesi, nel quadro di una strategia di infantilizzazione del cittadino-spettatore, che ormai è diventata prassi collaudata. Quando si parla di “infanzia abbandonata” non si dovrebbero compiangere solo i piccoli ucraini preda di trafficanti al confine polacco, ma anche i destini dello spettatore italiano medio, ridotto ad una condizione puerile, senza guida, privato di ogni capacità di giudizio, senza quei minimi elementi di conoscenza che possono permettere l’esercizio delle prerogative dell’età adulta.
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Verso una nuova rivoluzione culturale in Cina?
di Andrew Ross
Proponiamo qui un testo scritto da Andrew Ross nel 2009 e pubblicato per la prima volta in italiano nel volume «La testa del drago. Lavoro cognitivo ed economia della conoscenza in Cina», curato da Gigi Roggero (ombre corte, 2010). Basandosi su un’importante ricerca sul campo, Ross analizza la transizione da un’economia «Made in China», imperniata sullo sfruttamento intensivo di lavoro, a un’economia «Created in China», basata sull’innovazione e con il controllo di brevetti e diritti di proprietà intellettuale da parte delle imprese locali. Secondo l’autore, è questa la direzione intrapresa dalla rapidissima crescita della Repubblica popolare cinese, pienamente sostenuta dall’autorità di uno Stato potente e centralizzato, saldamente impegnato in una politica definita di tecno-nazionalismo. In questo processo Ross incentra la propria attenzione sui «colletti grigi» (incorporanti elementi del lavoro sia dei colletti bianchi sia dei colletti blu), ossia i lavoratori delle cosiddette «industrie creative».
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I paesi di recente industrializzazione nel Sud globale non se la sono certo presa con calma nello sperimentare un modello di politica delle industrie creative. Alcuni di quelli più avanzati stanno velocemente registrando una perdita di occupazione nel settore manifatturiero rispetto alla Cina continentale e al sud-est asiatico, e necessitano di servizi ad alto skill per creare valore aggiunto alle proprie economie. Tuttavia, è talmente impetuosa la crescita economica della Repubblica popolare cinese che i policymaker del Partito comunista cinese (Pcc) sono già competitivi nella gara della creatività, sperando di guidare l’economia nazionale verso i frutti più appetibili della proprietà intellettuale al top della catena del valore, massimizzando il proprio monopolio nel vasto mercato linguistico cinese, sia all’interno sia all’estero.
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La forza della democrazia ovvero la democrazia della forza
di Michele Castaldo
Ad ogni crisi tra l’Occidente e gli altri paesi ricorre la necessità di ribadire che si tratta di uno scontro tra la democrazia e la non democrazia di paesi governati da autocrati o dittatori. Che si tratti di paesi islamici, o di varianti di sinistra oppure di destra, la prima qualifica che viene ad essi affibbiata è che sono regimi dittatoriali. Ovviamente il personaggio che dirige in quel momento il paese, come ad esempio Putin in Russia, viene descritto sempre con appellativi poco lusinghieri. Insomma si parte – in quanto occidentali – dalla forza della democrazia per combattere quei paesi e popoli per l’incapacità di essere democratici, che finiscono per seguire l’uomo simbolo del momento che ad essi si sovrapporrebbe quasi come un corpo estraneo. Se poi si scopre che un personaggio come Putin viene eletto più volte con una maggioranza del 70/75/80%, beh, si dice a quel punto, il popolo non capisce, e avanti così.
Cerchiamo di sfatare il tabù: l’Occidente parte da un presupposto non del tutto sbagliato, perché butta sul piatto della bilancia una serie di argomenti non peregrini come la libertà individuale, i diritti umani, ma innanzitutto un patrimonio storico ricco di successi in tutti i campi, dunque non solo la potenza, quella distruttiva, quella criminale dei bombardamenti, delle guerre, delle occupazioni, del dominio di popoli, del razzismo, dello sfruttamento brutale di intere aree geografiche ecc., ma porta in dote, per così dire, anche altro, cioè l’idea della democrazia e innanzitutto un modello di sviluppo che si è affermato ormai in tutto il mondo; e chi frappone ad esso ostacoli non fa altro che ritardare in molti paesi lo stesso livello di benessere economico, dei costumi, della cultura e così via, come da noi in Occidente. Altrimenti detto il ritornello che viene ripetuto come un mantra ogni volta è: temono la forza della nostra democrazia, del nostro sviluppo, dei nostri consumi e dunque dei nostri valori.
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La guerra per procura degli Stati Uniti in Ucraina
di John Belamy Foster
Una relazione importante tenuta da John Belamy Foster, professore di sociologia all'Università dell'Oregon e direttore della storica rivista americana Monthly Review, fa chiarezza su un aspetto finora poco esplorato della guerra per procura che si sta svolgendo in Ucraina, quello relativo al rischio nucleare. Questo aspetto della guerra in corso si inquadra nella 'strategia della controforza' e del 'First Strike' pericolosamente esplorata dagli Usa fin dagli anni '60 e poi abbandonata, anche grazie a movimenti pacifisti di massa. Ripescata dopo il crollo dell'Urss e la fine della guerra fredda nell'ambito della strategia del grande impero americano, oggi si sta giocando una partita del cui possibile finale - il grande inverno nucleare e l'omnicidio - bisognerebbe essere tutti consapevoli. Come dice Foster, 'c'è molto da capire, in poco tempo.' (preziosa segnalazione di Vladimiro Giacché)
* * * *
Quello che segue è il testo di una presentazione di John Bellamy Foster all'Advisory Board del Tricontinental Institute for Social Research del 31 marzo 2022
Grazie per avermi invitato a fare questa presentazione. Parlando della guerra in Ucraina, la cosa essenziale da riconoscere in primo luogo è che questa è una guerra per procura. A questo proposito, nientemeno che Leon Panetta, che è stato direttore della CIA e poi segretario alla difesa sotto l'amministrazione Obama, ha recentemente riconosciuto che la guerra in Ucraina è una "guerra per procura" degli Stati Uniti, sebbene la cosa venga raramente ammessa. Per essere espliciti, gli Stati Uniti (appoggiati dall'intera NATO) sono impegnati da lungo tempo in una guerra per procura contro la Russia, con l'Ucraina come campo di battaglia.
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Introduzione a “Il capitale mondo”
di Massimo Maggini
La fase terminale volge sempre in farsa,
anche se, in ultima analisi, in una farsa sanguinosa
Robert Kurz
Con la pubblicazione de Il capitale mondo esce finalmente in Italia uno dei libri più interessanti ed importanti di Robert Kurz.
Kurz, insieme a pochi altri (fra cui Roswitha Scholz, Norbert Trenkle e Ernst Lohoff), è stato il fondatore della corrente di pensiero chiamata Wertkritik (Critica del valore),1 una rilettura del pensiero marxiano che privilegia gli aspetti rimasti in ombra nella ricezione di Marx da parte del marxismo classico. Quest’ultimo, infatti, ha focalizzato l’attenzione sulla lotta di classe, sulla soggettività operaia e sulla richiesta di una più equa distribuzione del prodotto e della redditività sociale – tutti temi sicuramente presenti nell’opera marxiana – trascurando però quasi completamente, tranne qualche insufficiente e temporanea eccezione, una parte altrettanto presente ed importante, se non anche più dell’altra, che analizza la struttura di fondo del sistema del capitale e ne rintraccia le contraddizioni interne e i limiti invalicabili, verso i quali questo sistema è necessariamente indirizzato per un proprio moto interno ineludibile.
Non è un caso, infatti che Kurz parli di un “duplice Marx”,2 distinguendo fra un Marx “essoterico”, quello appunto della “lotta di classe” (un “rampollo e dissidente del liberalismo, il politico socialista della sua epoca ed il mentore del movimento operaio, che si limitava ad esigere diritti di cittadinanza e un ‘equo salario per una giornata di lavoro equa’ ”, come lo definisce Kurz),3 dove il capitale non è letto come un rapporto sociale storicamente determinato ma viene “ontologizzato”, e l’obiettivo principale diventa il rovesciamento dei rapporti di potere, non del sistema nelle sue fondamenta, e quello “esoterico”, critico impietoso della struttura capitalistica e del suo ottuso feticismo, della forma-valore, che presiede al movimento del capitale, e del tanto osannato – specie dai paladini del marxismo classico – “lavoro astratto” che ne è, diciamo, l’“esecutore materiale”.4
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Pandemia, stato, capitale. Qualche bilancio
di Osvaldo Costantini
Sebbene la nuova emergenza bellica abbia soppiantato quella del covid, mutuandone il linguaggio, nel palcoscenico mediatico, la gestione della circolazione del virus mediante un determinato approccio è ancora attivo. Al contrario, invece, sembrano in fase di risacca le mobilitazioni contro gli aspetti autoritari di quella vicenda, le cui caratteristiche sembravano aprire scenari in parte inediti.
A fronte di una annunciata volontà di allentare le misure, restano alcuni degli aspetti della gestione autoritaria della pandemia, a cui si aggiungono assurdi strascichi punitivi, tra cui quello nei confronti dei docenti sospesi: in virtù del nuovo decreto, essi possono rientrare a scuola ma, se non vaccinati, preclusi dall’insegnamento e quindi destinati ad altre mansioni. Al netto della valutazione sul demansionamento, che, per una cultura sindacale, è estremamente grave, ciò che colpisce è la messa in atto, nel piccolo, della dinamica greenpassista: mettere chi non ha obbedito, chi ha fatto una cosa diversa dalla massa (non importa qui se la valutiamo giusta o sbagliata), alla gogna. La persona in questione entrerà a scuola e sarà osservata dagli alunni nel suo nuovo ruolo (temporaneo?), messa in vetrina cioè come docente “novax” che non ha i requisiti (morali?) per l’insegnamento. Il dissenso in questo modo viene allontanato dalla possibilità di formare gli studenti e usato come monito per coloro ai quali venisse in mente, nella vita, di fare una cosa diversa da quella che gli dice il potere, da ciò che pensa la massa. A questo aspetto punitivo, si aggiungono alcune inquietanti dichiarazioni di Draghi e Colao che sembrano confermare alcune delle più nere ipotesi dei mesi passati, spesso bollate come complottismi.
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Disconnessioni e fìne del sistema-mondo occidentale
Circa il rapporto della Banca di Russia alla Duma
di Alessandro Visalli
Mentre il lockdown di Shangai crea un ciclopico ingorgo di navi mercantili davanti alla città e interrompe ulteriormente le catene di approvvigionamento globali, con colli di bottiglia che per il Frankfurter Allgemeine[1] inducono riduzioni di oltre il 40% e si faranno sentire fino in Germania, la Bundesbank[2] stima che l’embargo totale dell’energia la farebbe precipitare in recessione già quest’anno. Si stima una riduzione del Pil del 2% ed effetti trascinati per i due anni successivi. Inoltre, un incremento di lungo periodo del tasso di inflazione. In una intervista il Cancelliere tedesco ha inoltre spiegato per quale motivo non consegnerà armi pesanti e ritiene che l’embargo al gas russo non sia utile a fermare la guerra, e comunque non vada fatto.
Spostiamoci, la Banca di Russia ha presentato alla Duma il suo Rapporto 2021 e il suo Presidente, Elvira Nabiullina, che è stata confermata alla guida dell’ente, ha spiegato che il Pil è cresciuto nell’anno del Covid del 4,7% con un livello di disoccupazione ai minimi storici. Inoltre, nel 2021 i prestiti alle imprese sono cresciuti del 21%, i mutui del 30% e i prestiti al dettaglio del 20%. La Izvestia racconta[3] che la Nabiullina si è soffermata in particolare sulle misure assunte nel 2022 per contrastare le sanzioni occidentali. A febbraio/marzo la Banca centrale ha infatti alzato il tasso al 20% allo scopo di preservare la liquidità delle banche e ha sviluppato un corrispondente allentamento normativo. La Presidente ha spiegato che presenza di riserve in dollari ed euro, presso istituti europei, per 300 miliardi era necessaria per avere un termine di stabilizzazione in caso di crisi nazionale, ciò le ha rese attaccabili; tuttavia già dal 2014 la diversificazione delle riserve in moneta estera era andata avanti. La quota del dollaro Usa era scesa ad un quarto, mentre la quota di oro era salita di due volte e mezzo e quella di yuan al 17%.
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Dal punto di vista di Zelensky
di Pierluigi Fagan
Avrete notato forse che Zelensky ha un preciso entourage e sono tutti mediamente giovani. Molti hanno studiato o lavorato in Gran Bretagna, qualcuno in America. Alcuni di loro zampillano dalle nostre reti televisive o in video on line e sono tutti dotati di capacità argomentativa non banale, sono molto decisi e cosa più importante, sono coordinati nel senso che sembrano usciti da una riunione di briefing in cui hanno condiviso tutti una unica linea. Si può ipotizzare esista una sorta di Zelensky & Partners, un gruppo coeso ed omogeneo di persone che condividono una precisa strategia politica per tenere il potere in Ucraina al fine di …?
Isoliamo questo soggetto collettivo, dimentichiamoci chi ha intorno come partner interessato (USA, UK, una parte dell’Europa orientale e dei vertici della burocrazia euro-unionista, l’oligarca Kolomoyskyi) concentriamoci sulle sue proprie ipotetiche intenzioni. Come forse saprete, questo gruppo è diventato un partito poco prima finisse la terza stagione della serie televisiva che vedeva Zelensky come protagonista. Si è presentato alle elezioni del 2019 e secondo quanto scriveva the Guardian tre anni fa quando ancora non eravamo arruolati: … con “poche informazioni sulle sue politiche o sui piani per la presidenza, basandosi su video virali, concerti di cabaret e battute al posto della tradizionale campagna elettorale” ottenendo un insperato 30%.
La geografia del voto di questo primo turno, lo collocava al “centro”, sia geografico che politico. Ad ovest i nazionalismi di Poroshenko-Timoshenko, ad est i filo-russi confezionati in partiti apparentemente più di “sinistra”. Un gruppo di giovani ben intenzionati, con tecniche di marketing e comunicazione mediatica molto “occidentali” ha incarnato una possibile speranza. Sappiamo che questa speranza stava scemando prima del 24 febbraio, gli indici di gradimento della Zelensky e Partners (Z&P) erano in discesa e la rielezione fra due anni era data come improbabile.
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La Nato e Aiace Telamonio
L'esigenza dell'unità dei comunisti e delle forze antimperialiste nella lotta contro la guerra
di Fosco Giannini*
Riceviamo e con grande piacere rilanciamo l'ultimo bellissimo editoriale di Fosco Giannini, direttore di Cumpanis: Segnaliamo anche questa importante iniziativa
La guerra incombe. Ben la di là dell'Ucraina, la sua ombra cupa si allarga su ogni Paese e su ogni popolo. Con la follia di un Aiace Telamonio al quale la dea Atena ha ottenebrato la mente per poi spingerlo alle più violente fantasie distruttive e indurlo a credere che i capi di bestiame siano gli odiatissimi comandanti degli Atridi da massacrare senza pietà, così – con la stessa hybris della tragedia greca – gli Usa e la Nato hanno abbandonato ogni residua prudenza umana e politica, ogni ponderazione militare teorizzata da von Clausewitz, persino ogni paura dell'ignoto e considerazione del proprio stesso destino, spingendo le loro Basi, le loro testate nucleari, le loro truppe nel cuore profondo dell'Europa dell'Est, là dove non si doveva andare, dove nessun Ettore sagace si sarebbe spinto.
Giungendo, la Nato-Aiace Telamonio, sino al Circolo Polare Artico, nelle Basi militari norvegesi al confine russo di Evenes e Rasmund, tra le città di Narvik e Harstad; ad Ämari, nella lontana e sconosciuta contea di Harjumaa, nei pressi del lago Klooga, in Estonia; nella terra di Šiauliai, in Lituania, ove prende misteriosamente corpo la missione di guerra americana “Baltic Air Policing”; ad Arazil, in Lettonia, dove la Nato trascina dietro sé le Penne Nere, gli alpini italiani del “Task Group Baltic”, minacciosamente operativi col Fronte degli Alleati nell'ambito dell'“Enhanced Forward Presence”. Per poi, attraverso un raptus incontrollabile, installarsi in territorio polacco, lungo lo stesso confine dell'enclave russa di Kaliningrad. Spingendosi sino a Krtsanisi, in Georgia, a 20 chilometri dalla capitale, Tiblisi, collocando lì una nuova Base militare, inaugurata direttamente dal segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, a braccetto dell'allora presidente georgiano Margvelashvili, nel settembre del 2015.
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Behemoth e Leviathan exsistent. Carl Schmitt e l’arcano
di Ludovico Cantisani
Il giurista tedesco Carl Schmitt rappresenta una delle pietre angolari del pensiero del Novecento. Non solo e non tanto perché sulle sue tesi, e soprattutto sulla sua nozione di “stato d’eccezione”, sono stati pubblicati innumerevoli libri, saggi e riflessioni, l’ultimo, di poche settimane fa, Che cos’è lo stato di eccezione? secondo Mariano Croce e Andrea Salvatore (Nottetempo, 2022). Schmitt è una pietra angolare anche e soprattutto in virtù della sua non sopita capacità di fare scandalo, uno scandalo che solo in parte si giustifica con la sua momentanea adesione e partecipazione ai primi anni del potere hitleriano in Germania. Ma sfogliare le sue pagine tuttora dona un brivido inesplicabilmente panico, come se in opere di filosofia del diritto in parte datate sia rimasto oscuramente celato qualcosa di grandioso, come un segreto antichissimo che si sporge alla luce.
Giudicata “ai limiti dell’escatologico”, e dello gnostico, da Franco Volpi, ogni pagina di Schmitt è prima di ogni altra cosa una grande lezione di eleganza di pensiero, e di stile. La prosa di Schmitt è segretamente ossessiva, come tutte le grandi prose, quando non lo sono apertamente. Senza dubbio, si tratta di un inseguimento: di riga in riga, di pagina in pagina, Schmitt insegue come un cacciatore sacro le “parole originarie” – il conio è suo – su cui intessere una griglia di interpretazione del politico, e del giuridico. Nihil aliud. Ogni fondazione parte dal tracciare una linea di confine, lo sa fin troppo bene Remo. Ecco allora i confini di Schmitt.
“Un intrigante amalgama di interpretazione storica e teoria politica, mitografia e teologia, filosofia ed esoterismo”, venne definito da Franco Volpi il fortunato saggio di Schmitt Terra e mare, in un’elencazione che potrebbe facilmente essere estesa all’intero corpus schmittiano, e a ogni discorso potenziale sulla sua prosa.
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Dal Grande Gioco triangolare alla polarizzazione
Circa la posizione diplomatica e strategica cinese: Qin Gang e Yongnian Zheng
di Alessandro Visalli
Sulla rivista cinese Guancha è presente[1] la notizia che il 18 aprile 2022 l’ambasciata cinese a Washington ha pubblicato sulla rivista “The National Interest” un articolo[2] a firma dell’ambasciatore Qin Gang. Nell’articolo l’ambasciatore definisce la posizione del paese.
La crisi e le sue ragioni
In primo luogo, la Cina afferma di amare la pace e opporsi alla guerra in ogni possibile circostanza, quindi di sostenere il rispetto del diritto internazionale e le norme che proteggono sovranità ed integrità territoriale di tutti i paesi, incluso l’Ucraina. La posizione cinese è dunque “westfaliana”, incardinata sul principio di sovranità (mentre quella Usa è, almeno dal tempo della crisi Jugoslava, ovvero dalla fine della Guerra Fredda “non vestfaliana”[3] ed imperniata sull’affermazione di una guida unica del mondo). Questa è la principale linea di divergenza che la nota, scritta in un misurato linguaggio diplomatico, esprime. Come risulta anche da precedenti esternazioni dell’ambasciatore si intravede l’interesse della Cina per la prosecuzione di un Grande Gioco triangolare, tra Russia, Usa e Cina ed il forte disappunto per il tentativo americano di semplificare il quadro polarizzandolo in uno ‘scontro di civiltà’ con fortissime connotazioni ideologiche.
Il secondo capoverso entra nella questione centrale delle lezioni che dalla crisi devono essere apprese. Riferendosi non per caso al “sistema internazionale del dopoguerra” (imperniato sull’Onu e quindi sul principio vestfaliano di autodeterminazione dei popoli e sovranità delle nazioni) l’ambasciatore denuncia come si trovi ora a dover fronteggiare la pressione più pesante dal tempo della Guerra Fredda (ovvero dal 1991).
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L'Holodomor, la propaganda liberale e le rimozioni storiche dell'Occidente
di Domenico Losurdo [1]
1. L’olocausto ucraino quale bilanciamento dell’olocausto ebraico
Le due personalità criminali [Hitler e Stalin ndr], reciprocamente legate da affinità elettive, producono due universi concentrazionari tra loro assai simili: così procede la costruzione della mitologia politica ai giorni nostri imperversante. Per la verità, pur inaugurando questa linea di pensiero, Arendt fa un discorso più problematico. Per un verso accenna, sia pure in modo assai sommario, ai «metodi totalitari» preannunciati dai campi di concentramento in cui l’Inghilterra liberale rinchiude i boeri ovvero agli elementi «totalitari» presenti nei campi di concentramento che la Francia della Terza Repubblica istituisce «dopo la guerra civile spagnola». Per un altro verso, nell’istituire il confronto tra Urss staliniana e Germania hitleriana, Arendt fa valere alcune importanti distinzioni: solo a proposito del secondo paese parla di «campi di sterminio».
C’è di più: «nell’Urss i sorveglianti non erano, come le SS, una speciale élite addestrata a commettere delitti». Com’è confermato dall’analisi di una testimone passata attraverso la tragica esperienza di entrambi gli universi concentrazionari: «I russi […] non manifestarono mai il sadismo dei nazisti […] Le nostre guardie russe erano persone per bene, e non dei sadici, ma osservavano scrupolosamente le regole dell’inumano sistema»[2]. Ai giorni nostri, invece, dileguati il sia pur sommario riferimento all’Occidente liberale e l’accenno alle diverse configurazioni dell’universo concentrazionario, tutto il discorso ruota attorno all’assimilazione di Gulag e Konzentrationslager.
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Belligeranza senza ideali
di Giovanni Dursi
Pensieri sul “riconoscimento sociale” della lotta di classe e sulla tossicità del pensée unique capitalista
La tragica ed aspra spirale del conflitto bellico paneuroasiatico – che, ad oggi, vede nel territorio ucraino il più recente avamposto - è “coinvolgente”. Interroga tutti gli “uomini di buona volontà”. Terminato il secondo ventennio del XXI secolo, ci sono le condizioni psicologiche, per le giovani generazioni – sia d'ispirazione nerd che “Stúrm und Dráng” - e per le donne e gli uomini nati tra il 1945 ed il 1965 (dai 77 ai 57 anni oggi), per decidere come riorientare anche le proprie esistenze. È giunto il momento di fare i conti con la coscienza e scegliere. Alle stessa stregua di come agirono i partigiani che, per un impulso prepolitico, morale, compirono una scelta di campo e decisero di impegnarsi, mettendo a repentaglio la vita, e combattere con le armi per liberare il mondo dal nazifascismo. Analogamente, è possibile, con consapevole rammemorazione, rievocare il dilemma di Ἀντιγόνη, protagonista della tragedia di Sofocle, rappresentata per la prima volta ad Atene alle Grandi Dionisie del 442 a.C., come utile sollecitazione alla riflessione che si propone ed all'auspicabile agire collettivo.
Si, è indifferibilmente etico intervenire. È una chance che i contemporanei hanno, ob torto collo. Con le armi della “critica”, politicamente e culturalmente. Innanzitutto, dimostrando di comprendere la genesi e l'attuale scenario degli scontri militari in corso. In secondo luogo, perché quando la situazione è atroce, ciò che non si è ancora realizzato, può esserlo. In termini diversi: va esperito il tentativo di affrontare la situazione con un'adeguata disamina ed altrettanto inerente valutazione circa il “da farsi”. Infine, l'auspicata doverosa partecipazione è necessaria anche per contrastare le unilaterali “narrazioni sulla guerra”, le interpretazioni e manipolazioni informative erogate con altrettanta “potenza di fuoco” dal mainstream media subalterno e dagli “utili idioti”, insigni protagonisti del perturbante scenario transdemocratico e al servizio di dissimulate, emergenti cheirocrazie o oclocrazie. (rif. a “L’utile idiota. La cultura nel tempo dell’oclocrazia”, Antimo Cesaro, MIMESIS EDIZIONI, 2020).
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Salvare la dittatura del dollaro: la vera guerra di resistenza USA
di Redazione Contropiano - gen. Fabio Mini*
Sono tempi davvero strani, questi. Tempi in cui politici da quattro soldi, comici e gazzettieri si infilano l’elmetto e chiamano alla “bella guerra”. Soprattutto perché sono altri a combatterla.
Tempi in cui, il nome della “libertà” e del “pluralismo”, è ammessa una sola opinione – quella dominante – altrimenti “stai con il nemico” (oggi Putin, ma altri si delineano all’orizzonte).
Tempi in cui si ragiona per “assoluti” (l'”autodeterminazione” – se ci torna utile, se no cippa -, la “sovranità” dello Stato – se ci torna utile, se non cippa, sei un “sovranista” -, la “resistenza” – se sono i nostri servi a doverla fare, se no è “terrorismo”).
Tempi in cui le conseguenze di ogni scelta, specie se bellica, sono ignorate. Come se “il nemico” fosse una bersaglio di carta, che si può colpire a piacere, senza riceverne risposta “proporzionata”.
Sappiamo da dove viene questa stolida convinzione. Da trenta anni di guerre fatte “da noi” contro stati incompleti, deboli militarmente ed economicamente, bombardabili a piacere.
Non che le risposte, anche in qui casi, non ci siano tornate indietro sotto forma di bombe ed attentati. Ma, appunto, il termine “terrorismo” serviva a maledire gli autori e soprattutto a non porsi alcuna domanda sul “perché”. “Pazzi”, “invasati”, “sanguinari”, “demoni”, e via infiorettando epiteti non bisognosi di approfondimento, ma perfetti per alzare cortine fumogene.
Ora, invece, abbiamo davanti un “nemico simmetrico”, dotato anch’esso di aviazione, marina, ecc. E armi nucleari. In numero e quantità grosso modo equivalenti alle “nostre” (in realtà degli Usa, ma si sa che i tifosi pensano sempre di essere quasi proprietari della squadra per cui spendono soldi…).
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Federico Caffè. Sono passati 35 anni
di Maurizio Franzini
“La mia indipendenza, che è la mia forza,
implica la solitudine, che è la mia debolezza”
Pier Paolo Pasolini
La mattina del 15 aprile di 35 anni fa il telefono fisso di casa mia squillò molto presto, mentre ancora dormivo. Alzai la cornetta e a parlarmi era il mio amico e un po’ più anziano collega Giorgio Gagliani, che purtroppo ci ha lasciato da molti anni. Con voce calma mi chiese se fossi sveglio e prima ancora che potessi dirgli ‘fino a un minuto fa, no’ mi resi conto che nella calma della sua voce c’era qualcosa di strano. ‘Senti, Caffè è scomparso’ ‘Scomparso? Mi stai dicendo che è morto’ ‘No, non è morto è scomparso, sparito non sappiamo dove sia andato’. Giorgio credo sia stato l’ultimo di noi a vederlo, il giorno prima della scomparsa, ma questo di certo non gli fu d’aiuto per fare ipotesi su dove potesse essere. Poco dopo, tutti noi, suoi ‘allievi’, eravamo lì, a casa di Caffè in via Cadlolo, alla ricerca di idee sul da farsi. Quella che prevalse fu di cercarlo sulla collina di Monte Mario nella angosciosa speranza che fosse finito lì sospinto da un momento di cedimento alla sensazione che la vita gli stesse sfuggendo di mano. Non fu una buona idea, come tutte quelle che le fecero seguito. La sequenza presto si esaurì e abbandonare la speranza di recuperarlo al nostro affetto e alla nostra gratitudine non fu facile. Certo fu impossibile – io credo, per ognuno di noi – smettere di interrogarsi sulle ragioni ultime e sul significato di quel suo gesto smisurato.
Sapevamo della sua sofferenza per il venir meno di essenziali affetti, sospettavamo che fosse stato se non raggiunto almeno lambito dal social despair per il percorso che il mondo aveva imboccato e sapevamo – dovrei dire meglio: credevamo di sapere – quanti intralci alla sua vitalità creava quella stagione della vita in cui gioie e soddisfazioni quasi dimenticano di germogliare.
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Il circolo perverso delle sanzioni alla Russia
di Andrea Fumagalli
Premessa necessaria, visto il clima esistente: il contributo che segue è un’analisi critica della possibile efficacia delle sanzioni dei paesi occidentali contro l’economia russa. La critica a tali sanzioni non significa che non si stigmatizzi in modo netto l’invasione dell’esercito di Putin in Ucraina: piuttosto vuole stimolare la ricerca di una strada diversa – quella della ragione e della diplomazia – per mettere fine alle diverse atrocità a cui ogni giorno assistiamo. In particolare, due sono i punti di contraddizione che vogliamo sollevare: perché il dibattito europeo si concentra sul blocco dell’import del gas russo e del carbone, quando tale blocco, anche se venisse effettuato, avrebbe un effetto inferiore a quello di altri provvedimenti, e, in secondo luogo, perché non viene detto che tale politica avrebbe dei costi per l’Europa di gran lunga superiori a quelli che si vorrebbe infliggere alla Russia?
I dati non sono oggettivi. Ma disporre di dati, il più possibile attendibili, cioè tratti da fonti ufficialmente riconosciute, può essere utile per comprendere alcune situazioni e fenomeni economici. Nella scienza e nella statistica economica, il dato si presta a variabili interpretazioni e per questo la sua analisi deve essere accompagnata da solide argomentazioni.
In questi giorni, sono in molti, a livello politico e istituzionale, a perorare la causa dell’embargo dell’export dei prodotti energetici (petrolio, soprattutto gas, carbone) provenienti dalla Russia, come arma economica per depotenziare la minaccia militare di Putin, con il duplice obiettivo di mettere fine all’invasione dell’Ucraina e quindi creare le condizioni per una soluzione diplomatica.
Secondo costoro si tratterebbe di una “guerra economica umanitaria” sulla falsariga di quella guerra militare “umanitaria” che era stata propagandata dalle potenze occidentali per giustificare l’attacco all’Iraq, all’Afghanistan, alla Libia e via dicendo (la lista è alquanto lunga).
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Intervista a Valerio Evangelisti
Ci ha lasciati Valerio Evangelisti, storico e scrittore militante bolognese, animatore di diversi progetti, tra cui «Carmilla». Ha contribuito a creare un immaginario attraverso i suoi numerosi romanzi, da quelli legati alla famosa figura dell’inquisitore Eymerich al ciclo del Pantera, nel clima della guerra civile americana, dai pirati di Tortuga agli intrecci dei percorsi biografici de Il sole dell’avvenire, dagli Iww alla rivoluzione messicana, fino ai volumi dedicati a raccontare un’altra storia del Risorgimento italiano. Lo ricordiamo con un estratto dell’intervista del 18 marzo 2000, per il volume Futuro anteriore. Dai «Quaderni rossi» ai movimenti globali: ricchezze e limiti dell’operaismo italiano (DeriveApprodi, 2002).
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Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e l’inizio della tua attività militante?
La mia storia è abbastanza lunga perché io cominciai ad accostarmi al movimento nel 1969, quando ero uno studente medio. Sulle prime chi interveniva nella mia scuola erano i maoisti e quello fu il primo contatto, anche un po’ traumatico, con la sinistra, come allora si diceva, extra-parlamentare; ma quasi subito passai a Lotta continua. A dire la verità a spingermi non era tanto un calcolo ideologico: Lotta continua era il gruppo ritenuto il più duro e cattivo di tutti, vidi una loro manifestazione che mi impressionò, e quindi alla fine del 1969 vi entrai, tra i primi studenti bolognesi a farne parte (allora era appena nata anche in Italia). Rimasi con loro diversi anni: va detto che era un gruppo molto affiatato dal punto di vista umano, interno, però con quasi nessuna forma di organizzazione, cosa che lasciava spazio a un amplissimo leaderismo; poi c’era la venerazione di Sofri come una sorta di divinità.
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La conflittualità valutaria e l’enigma del gas valutato in rubli
di Francesco Schettino
L'attualità più stringente ci induce a pensare che la questione valutaria sia di nuovo al centro dell'attenzione. Non è un caso che essa venga adoperata come arma all’interno di un conflitto esplicito e che sembri essere la reazione più forte e più evidente che il governo russo ha messo in piedi per contrastare le sanzioni che nel frattempo continuano a mutare forma e divenire sempre più coercitive nei confronti della Russia e del popolo russo. Se ne è parlato tanto però sembra opportuno specificare alcuni elementi innanzitutto semplificando all'osso la questione. È pertanto importante tornare un po’ indietro e cercare di delineare dal punto di vista concettuale che cosa è una valuta internazionale e perché appunto il governo russo abbia pensato di attuare una mossa del genere per agire da contrappeso alle sanzioni internazionali.
Innanzitutto, è importante districarci da quel nodo teorico perlopiù inventato dal mainstream - in altri termini la scuola liberale, conosciuta in dottrina come neoclassica o marginalista - per cui la moneta non possa influenzare le variabili reali come disoccupazione e reddito (il famoso “velo”). A livello capitalistico la moneta è una merce a tutti gli effetti disponendo di tutte le caratteristiche degli altri beni prodotti capitalisticamente e cioè di un valore d’uso, un valore di scambio. Solo le banche centrali hanno l’autorità per emetterle e dunque si può dire che esista un monopolio nella sua produzione.
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Guerra
di Alessandro Visalli
Ho amato il mio piccolo bambino, oggi adulto, dal primo momento che me lo hanno messo in braccio; un miracolo che si è ripetuto. Da quel giorno ho sentito quella forma di responsabilità concreta per la vita che fa esistere l’umanità. Amare il proprio figlio è l’esperienza che innesca ogni capacità di superarsi nel dono, e di riconoscere sé nell’altro, la quale rende propriamente umani.
La guerra di tutto ciò è esattamente l’opposto.
La guerra sollecita sentimenti di morte, gratifica le virtù meno virtuose, esalta il coraggio meramente fisico. Il coraggio ascende a virtù centrale, ma anche Attila era un grande guerriero e Hitler alla fine fu coraggioso (e lo era stato anche nella Grande Guerra); il valore militare non ha alcuna relazione, né positiva né negativa, con le altre qualità della mente e dello spirito. La nostra civiltà, come è accaduto in altre crisi, sta retrocedendo rapidamente (uso questa parola che evito sempre perché qui è appropriata in senso tecnico) a stati spirituali ed emotivi che si credevano erroneamente passati, quando erano solo sopiti perché non necessari.
Anche se lascia senza parole, non accade per caso: appena la posizione dei nostri sistemi economici nella catena del valore, o, per dirlo meglio, nella catena dello sfruttamento e dell'estrazione di valore mondiale è stata sfidata, e ciò si è fatto urgente[1], allora abbiamo immediatamente dismesso l'abito del mercante per prendere dagli antichi armadi quello del guerriero. Con esso tutta la sua epica.
Ad esempio, qualche giorno fa il Corriere della Sera ha pubblicato un articolo[2] di Andrea Nicastro che esalta il coraggio fisico disperato dei macellai del battaglione “Azov”, rinchiusi nei sotterranei dell'acciaieria di Mariupol.
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Francia. La somma non fa il totale
di Roberto Pecchioli
Il primo turno delle elezioni presidenziali francesi evoca una battuta di Totò: è la somma che fa il totale. Nella fattispecie, in negativo; la somma non fa il totale, poiché si è manifestata una volta di più un’anomalia delle sedicenti democrazie liberali: la maggioranza dei cittadini ha votato contro il sistema, ma il sistema ha vinto. Il 24 aprile questa verità sarà confermata dal ballottaggio tra Emmanuel Macron, il presidente in carica, giovin signore della scuderia Rothschild prestato alla politica e Marine Le Pen, la sua avversaria, definita esponente dell’estrema destra.
Lo schema è lo stesso delle precedenti elezioni e uguale sarà il risultato, benché sia certo che lo scarto di voti tra l’uomo dell’oligarchia e la donna dell’opposizione sarà assai più contenuto rispetto al 2017, quando funzionò alla perfezione lo schema classico della politica – non solo francese-, ovvero la conventio ad excludendum, il cordone sanitario contro la Le Pen, già sperimentato nei confronti del padre Jean Marie.
Uno sguardo ai numeri: Macron ha ottenuto poco più del 27 per cento, la Le Pen ha superato il 23, distanziando di circa mezzo milione di voti il terzo arrivato, Jean Luc Mélenchon, campione della sinistra sociale. Devastante la sconfitta delle sigle politiche che dominano la scena transalpina da decenni: un umiliante 4,7 per cento per la rappresentante della destra moderata, Valérie Pecresse, addirittura l’1,7 per Anne Hidalgo, socialista, sindaco in carica di Parigi. Modestissimi gli esiti degli ecologisti e del candidato comunista, fedele alleato dei socialisti. Lusinghiero, per contro, il risultato del candidato rurale conservatore, Jean Lassalle, che, senza mezzi, ha superato il 3 per cento dei voti. Contraddittorio il 7 per cento raccolto dal polemista di estrema destra Eric Zemmour, ebreo di origine nordafricana, che ha mobilitato un notevole seguito giovanile ed imposto non pochi temi della campagna.
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Federico Caffè sulla controffensiva neoliberista degli anni Settanta
di Thomas Fazi
Estratto dal libro di prossima uscita “Una civiltà possibile. La lezione dimenticata di Federico Caffè” di Thomas Fazi (Meltemi, 2022)
Alla metà degli anni Settanta, si sviluppò in Italia un fervente dibattito su quelli che nel discorso pubblico erano presentati come i due “mali” del paese: l’inflazione e gli squilibri con l’estero. Per ironia della sorte, la discussione vide confrontarsi da un lato il relatore della tesi di dottorato di Mario Draghi, Franco Modigliani, e dall’altro il relatore della sua tesi di laurea, Federico Caffè.
La tesi di Modigliani, a grandi linee, era la seguente: esiste un unico livello del reddito (in termini macroeconomici) compatibile con la stabilità dei prezzi, dato il livello dei salari reali. Ciò implica che ogni sforzo per accrescere l’occupazione sopra quel tasso determinerà inflazione, anche se non si raggiunge un reddito coerente con il pieno impiego delle risorse. Per questo motivo, l’Italia si trovava attanagliata in una sorta di ciclo infernale inflazione-svalutazione-disoccupazione, di cui il principale responsabile, per Modigliani, era la scala mobile (cioè il meccanismo di indicizzazione dei salari all’inflazione).
Era quindi nell’interesse dei lavoratori stessi, e compito dei sindacati, cancellare la scala mobile, rivedere lo statuto dei lavoratori (che creava “assenteismo”) e accettare un livello salariale più basso, compatibile con la piena occupazione e con l’equilibro dei conti con l’estero. Questo, ammetteva Modigliani, «richiede qualche sacrificio ai lavoratori», ma in cambio la classe operaia avrebbe ottenuto la difesa dell’occupazione, il riassorbimento della disoccupazione e la fine dell’inflazione.
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Discussione intorno al senso della guerra
di Roberto Fineschi
Sabato 9 aprile, il Centro Casa Severino e l'Associazione di Studi Emanuele Severino hanno promosso un incontro interdisciplinare sul tema della guerra. Il video è disponibile a questo link. Qui sotto la trascrizione minimamente rivista del mio intervento
Da una parte vorrei tentare di fare un discorso più generale diciamo di quadro. Facendo questo inevitabilmente ci si presta alla critica di non cogliere la drammaticità del presente: quando muoiono persone, si distruggono città è difficile distogliere lo sguardo; ovviamente si tenta di farlo non per ignorare il dramma ma per proporre una riflessione più ampia, inquadrata in un contesto di sistema, in questo caso relativo al concetto di guerra e violenza nella modernità e, a fortiori, anche al caso ucraino.
La guerra non è certo una novità contemporanea; da quando esistono società complesse l'uomo ha sempre fatto guerre; da sempre i filosofi se ne sono occupati, ma più recentemente è nata una disciplina che in modo più politically correct ha cercato di affrontarla in maniera ancora più esplicita: le relazioni internazionali. In esse si cerca di sciogliere il nodo della guerra non per giustificarla da un punto di vista morale, ma per spiegarne la necessità fattuale nel mondo politico (i rapporti di potere producono degli equilibri che non si tratta di giudicare perché belli o brutti, ma semplicemente in quanto instaurano un ordine) o nel tentativo di evitarla proprio per le caratteristiche che ha. Tanto gli approcci realisti e neorealisti, quanto quelli che hanno invece cercato una via diplomatica, non violenta alla soluzione delle controversie internazionali di stampo liberale o neoliberale (Bobbio ad esempio), a mio modo di vedere hanno una questione filosofica di fondo che consiste nel partire da una concezione che dal punto di vista di Marx è criticabile, vale a dire il contrattualismo: considerare la formazione dell'istituzione statuale come un contratto sociale, che naturalmente si risolve poi diversamente in diversi filosofi.
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Ti tirano le pietre
di Il Pedante
«Tu sei buono e ti tirano le pietre. Sei cattivo e ti tirano le pietre. Qualunque cosa fai, dovunque te ne vai, sempre pietre in faccia prenderai!» cantava Antoine nel 1967. Qualcosa del genere accade oggi, mentre una serie di inanellate «emergenze» chiede ogni volta soluzioni in deroga ai principi etici e giuridici che varrebbero in tempi «ordinari». I più attenti hanno già osservato che si è così normalizzato lo «stato di eccezione» teorizzato dai filosofi del diritto, cioè la sospensione a tempo indeterminato delle garanzie e dei vincoli che intrecciano la trama dello Stato di diritto e la conseguente espansione dei poteri governativi ben oltre le previsioni dell’architettura costituzionale (la quale, per inciso, non prevede alcuno stato di eccezione). Il prolungamento di queste forzature sta in effetti deformando il nostro modello sociale oltre il punto elastico di ritorno alla normalità. Nel diventare esso stesso normalità, sta agendo come la testa d’ariete di un’operazione riformistica che non teme né opposizioni né limiti, siano essi di natura parlamentare, elettorale etica o legale.
I più attenti ancora hanno notato che, per quanto diversi siano per intensità e natura i trigger dell’eccezione, i rimedi invocati sono sempre gli stessi e sempre peggiorativi del benessere materiale e sociale dei cittadini. Ne ho scritto su queste pagine all’alba della stagione «pandemica» e ne scrivo ora a proposito della guerra in corso in Ucraina. Cambiano i luoghi, i pericoli, i protagonisti e gli scenari, ma come «sempre, pietre in faccia prenderai».
Consideriamo la sospensione annunciata delle importazioni di fonti energetiche dalla Russia, che oggi coprono un quarto del nostro fabbisogno e soddisfano due quinti dei nostri consumi domestici e industriali di gas naturale, e quindi quasi un quarto di quelli elettrici.
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“Fate l’amore non fate la guerra”
di Eugenio Donnici
1.
Sul finire del ventesimo secolo, il protagonista del documentario Operazione Canadian bacon, di Michael Moore, raccoglie i cadaveri dei disoccupati che si suicidano buttandosi nelle spettacolari acque delle cascate del Niagara, la guerra fredda è finita da pochi anni e la florida industria di testate nucleari è in profonda crisi. Il consenso dei cittadini americani nei confronti del Presidente degli USA precipita, mentre gli industriali, per vendicarsi dei danni subiti, vorrebbero scatenare una guerra globale. Il Governo russo si tira fuori dall’escalation militare, esplicitando di voler sostenere la produzione di elettrodomestici, di autovetture, di materiale edile e in generale di tutti quei beni e servizi di cui necessitano i propri cittadini, dato che un’ampia fascia di bisogni materiali rimangono ancora insoddisfatti.
Non c’è scampo! Occorre inventarsi un nemico! I guerrafondai fanno appello al patriottismo e coadiuvati dagli esperti della propaganda mettono in piedi una potente macchina denigratoria nei confronti del pacifico Canada.
La satira pungente di Moore ci dice fondamentalmente due cose:
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le lobby statunitensi delle armi avrebbero trovato a ogni costo nuovi “nemici”, pur di continuare ad incamerare esorbitanti extraprofitti derivanti dal macabro business;
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l’acuto pensiero dell’autore manda in frantumi le terribili semplificazioni secondo le quali tutti gli americani appoggerebbero “l’economia di guerra”.
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Il sogno liberale
di Andrea Zhok
Come mi è capitato di sottolineare altrove, la nozione di “liberale” è strutturalmente ambigua per ragioni storiche. Purtroppo tale ambiguità continua a creare confusione e a smussare le armi dell’analisi, dove di volta in volta, di fronte agli stessi eventi, si finisce per invocare l’aggettivo “liberale” a volte come causa di oppressione, a volte come fattore di emancipazione (così ha fatto recentemente, ad esempio, il prof. Orsini). Di fronte all’irreggimentazione, al controllo sociale, alla crescita di impulsi persecutori che ha tratteggiato questi ultimi due anni c’è ancora chi lo caratterizza utilizzando l’aggettivo “illiberale”, come se tutto ciò fosse estraneo e contrario all’essenza del liberalismo.
È perciò opportuno tentare un breve chiarimento concettuale e terminologico. Non provo qui a fornire un’analisi dello sviluppo storico e delle sue ragioni – svolta in altra sede – ma mi limito ad esplicitare l’ambiguità del termine liberalismo e a ribadire perché l’uso emancipativo del termine è latore di confusione.
I. Il liberalismo perfezionista
Esiste davvero una forma emancipativa del liberalismo?
Sì, esiste, si tratta di un’idea che concepisce il liberalismo come staccato dalla sua componente economica e che lo pone come una visione teorica che promuove il libero sviluppo umano. Questa concezione può essere chiamata “liberalismo perfezionista”, laddove il termine “perfezionista” è utilizzato nella filosofia morale contemporanea per definire una teoria che pone il senso dell’azione umana nell’esercizio e nel libero sviluppo delle proprie facoltà.
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