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Karl Marx sul populismo contemporaneo
di Anselm Jappe
150 anni fa, Marx ha pubblicato il suo Capitale. Agli occhi dei pensatori borghesi e di quello che era il mainstream accademico e mediatico, oggi Marx è del tutto superato. Dove sono i proletari straccioni? Oggi viviamo in un mondo di democrazia e di libero mercato. La sinistra tradizionale a sua volta potrebbe obiettare che il capitalismo è tornato, che esiste di nuovo un enorme divario tra ricchi e poveri, e che esistono anche un altro tipo di persone che sono subalterne e oppresse. Io ritengo che invece ci sia un altro modo per valutare oggi la teoria di Marx: In 150 anni la superficie del capitalismo è cambiata un bel po', ma il suo nucleo rimane ancora lo stesso. Il nucleo è quello che Marx ha analizzato soprattutto nel primo capitolo del Capitale: merce e valore, denaro e lavoro astratto. Al fine di evitare equivoci e confusione tra lavoro astratto e lavoro immateriale, è maglio partire dal lato astratto del lavoro, della sua duplice natura. Marx stesso considerava la sua analisi relativa alla «duplice natura del lavoro» - astratto e concreto - come una delle sue più importanti scoperte. [*1] Ogni singolo esempio di lavoro, in condizioni capitalistiche (ma solo nel capitalismo, dal momento che non c'è niente di naturale in tutto questo), è allo stesso tempo sia astratto che concreto. In quanto lavoro concreto, ogni singola attività produce beni o servizi, ma la medesima attività è anche allo stesso tempo semplice dispendio di energia umana che, misurata in unità di tempo, è una pura quantità di tempo, indipendentemente da ciò che durante quel tempo è stato fatto. Il lato concreto del lavoro corrisponde al valore d'uso ed il lato astratto corrisponde al valore (rappresentato dal denaro) di quella stessa merce. Nel capitalismo, il lato astratto del lavoro, e di quello che è il suo prodotto, prevale sul lato concreto, ed è questa la radice più profonda di quella che è l'assurdità del modo capitalistico di produzione.
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Karl Marx e la religione come «oppio dei popoli»
di Franco Livorsi
Religiosità, redenzione e rivoluzione costituiscono un nodo importante del marxismo sin dalle origini. Emerge già da una decisiva pagina di Marx in cui compare la famosa apostrofe sulla religione come oppio dei popoli, compresa nel suo saggio del 1844 Critica della Filosofia del diritto di Hegel. Introduzione (1844)1. Intendere quel che si dice lì può ancora darci una chiave interpretativa non priva d’importanza.
Al proposito ritengo importante dire due parole preliminari sul contesto storico e filosofico, in funzione della comprensione del testo in oggetto.
Prima c’era stato l’Illuminismo, e più in generale il XVIII secolo: con la sua costante tensione a illuminare il reale con la ragione e soprattutto a razionalizzarlo; col suo rifiuto dei dogmi, e con la messa in discussione radicale di ogni rivelazione e dello stesso cristianesimo, in nessun periodo anteriore mai avvenuta in tale forma radicale e su così vasta scala; con la valorizzazione della scienza unita alla tecnica sin dalla famosa Enciclopedia delle scienze, delle arti e della tecnica curata da D’Alembert e soprattutto da Diderot (1751-1765, in 17 volumi); con la prima rivoluzione industriale inglese e poi europea e, last but not least, con la Rivoluzione francese del 1789 e degli anni successivi. Poi era arrivato Napoleone, che aveva portato, sulla punta delle baionette della sua Armata nazionale, l’idea dell’uguaglianza giuridica tra i cittadini, propria della Gran Rivoluzione, e il proprio Codice civile moderno, privatistico e borghese, dappertutto, sino a Mosca, sia pure con tratto autoritario e con intento imperialistico.
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Il nuovo uomo €uropeo
di Quarantotto
1. Con una certa titubanza, ed un elevato scetticismo sulla possibilità che le più varie formazioni politiche italiane possano (voler) accedere a un dibattito approfondito sui motivi della necessità di efficaci politiche anticicliche, torniamo a trattare il problema del deficit pubblico.
Su questo punto, in realtà, ove si assecondino e si intenda rendere incontestabili i postulati economici che soprassiedono alle regole dell'eurozona, avremmo delle certezze che non possono non essere definite come "diritto positivo".
Anzitutto, avremmo l'indicazione costituzionale fornita dal "nuovo" (ormai non più tanto) art.81 della Costituzione, che, come dovrebbe essere notorio, dispone, nelle parti più direttamente rilevanti sul tema del "livello" del deficit (denominato "indebitamento", sottintendendosi, con tale termine, l'annualità e la pertinenza al settore pubblico dello stesso, nell'ambito dei c.d. saldi settoriali della contabilità nazionale):
"Lo Stato assicura l'equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico.
Il ricorso all'indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali...
....Il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l'equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei princìpi definiti con legge costituzionale."
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Lenin e la Rivoluzione
di Gianni Fresu (Universidade Federal de Uberlândia)
Materialismo Storico. Rivista semestrale di filosofia, storia e scienze umane è una pubblicazione dell'Università di Urbino con il patrocinio della Internationale Gesellschaft Hegel-Marx, n. 1 2019
Il centenario della Rivoluzione d’ottobre è trascorso in un clima culturale e politico non certo favorevole al libero confronto intellettuale e ben poco disponibile a valutare ragioni ed eredità di un evento che, qualunque possa essere il nostro giudizio, ha rappresentato un radicale cambio di passo nella storia dell’umanità dal quale non si può prescindere. In un quadro nel quale comunismo e nazismo sono presentati come fratelli gemelli figli della stessa degenerazione (il trauma della Prima guerra mondiale), il principale protagonista della Rivoluzione russa è generalmente considerato come l’origine di ogni moderno fanatismo ideologico. Se il Novecento è stato archiviato come il secolo degli orrori, delle dittature e dei totalitarismi, all’interno di questo quadro apocalittico Lenin è l’arcidiavolo cui vanno imputate tutte le calamità di un secolo insanguinato, fascismo incluso1.
Non solo nel mondo liberale, ma anche a sinistra, la principale accusa mossa alla Rivoluzione d’ottobre sarebbe anzitutto da ricercare nella mancata estinzione dello Stato. Al contrario, l’ipertrofia delle sue funzioni e attività necessarie a dirigere questo inedito processo storico, che avrebbe svuotato il concetto di libertà individuale fino a impedirne l’esistenza, spiegherebbe la natura liberticida del socialismo storico. È l’idea di un rapporto inversamente proporzionale tra sfera delle libertà e estensione delle attività dello Stato, un’idea che accomuna la concezione del “governo limitato” di Locke alle teorie sul totalitarismo di Hannah Arendt.
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L’uccisione di Soleimani in un interludio torbido
di Michele Castaldo
L’uccisione di Soleimani, il generale iraniano comandante delle forze al-Quds (il corpo d’èlite della Guardia Rivoluzionaria Islamica) da parte degli Usa è il segno di un’accelerazione della crisi generale che investe il modo di produzione capitalistico in una fase cruciale.
La storia dell’uomo è caratterizzata dal principio di Hobbes: homo homini lupus, cioè l’uomo è un lupo nei confronti di un altro uomo, non riesce, perciò, in alcun modo a vedere in un altro uomo un proprio simile, nel suo simile, dunque non cerca di stabilire con lui un rapporto di armonia, ma di aggressione e di concorrenza, cioè cerca di prevalere. Seguendo questo principio l’uomo è arrivato
a sviluppare un moto-modo di produzione che dopo una straordinaria ascesa si avvia al suo declino, perché non riesce più a sviluppare lo stesso valore di un tempo e nella folle corsa per tenersi in vita semina morte e distruzione.
I fatti di questi giorni sono la conseguenza meccanica degli ultimi 40 anni, ovvero dalla rivoluzione antimperialista in Iran del 1979, che rischiò di incendiare tutto il Medio Oriente, coinvolgendo centinaia di milioni di esseri umani. Ma proprio l’homo lupus – in quel caso yankee – spinse Saddam Hussein a uno scontro armato contro l’Iran per evitare che si estendesse la rivoluzione islamica e che si rafforzasse una nazione e uno stato di un paese ricco di petrolio e di altre importanti materie prime. Dopo 8 lunghi anni di guerra e un milione di morti, Saddam Hussein pensò bene di passare all’incasso per aver agito anche pro domo sua, pretendendo di gestire il prezzo del petrolio e al rifiuto della Casa Bianca e di tutti gli altri paesi occidentali, invase il paese fantoccio del Kuwait, per cui tutto il mondo occidentale intese dare una dura lezione al “pazzo” che aveva osato sfidare il mondo “civile”.
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Guerra alla guerra! I conflitti militari nella fase di stallo tra gli imperialismi
di Noi Restiamo
Il nuovo anno si è aperto con momenti di alta tensione a livello internazionale dovuti all’azione militare mirata con la quale gli USA hanno eliminato Qassem Soleimani, generale alla guida delle forze Quds, unità d’élite dei Guardiani della Rivoluzione, e numero due della politica iraniana dopo l’Ayatollah Khamenei.
Questo atto non è un’iniziativa estemporanea dettata da scelte effettuate senza ponderazione, ma è una delle forme con cui in questa fase di stallo si sviluppa la competizione globale tra vari attori, in uno scenario che si avvicina a quello che poco più di un secolo fa fece precipitare il mondo nella prima carneficina mondiale.
È necessario dunque affrontare gli eventi che negli ultimi giorni si sono susseguiti in Medio-Oriente come passaggi di questioni che vanno ben oltre la già complessa relazione tra USA e Iran, e che devono invece essere compresi in quanto momenti di una dinamica che è insieme di lungo periodo, con tutto il portato storico ad essa collegato, ed è anche espressione dell’attuale scontro interimperialistico.
Innanzitutto l’azione statunitense si mostra in continuità con l’operato delle dominazioni coloniali prima e della penetrazione neo-coloniale poi, che per secoli hanno portato miseria e instabilità in tante aree del pianeta, intervenendo militarmente oppure finanziando e poi abbattendo regimi in funzione di quelli che di volta in volta erano i propri interessi in quella specifica contingenza storica.
Il caos in Medio-Oriente è responsabilità delle potenze occidentali, e i venti di guerra sollevati dall’assassinio di Soleimani sono il risultato dell’aggressione imperialista statunitense.
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Orientamenti politici e materialismo storico
di Roberto Fineschi
Il nesso fra il livello strutturale e quello sovrastrutturale non è immediato. È un errore accettarne l’identità immediata e pensare che lottando contro uno dei due lati, immediatamente si lotti anche contro l’altro. Chiarito ciò è possibile comprendere il carattere non rivoluzionario o addirittura reazionario di alcuni movimenti politici attuali
Il seguente articoletto mira a esporre in termini inevitabilmente schematici ma spero chiari e orientativi alcuni posizionamenti politici a livello sia strutturale che sovrastrutturale [1]. Ciò permette di descrivere almeno a grandi linee fenomeni in atto. Gli schieramenti politici indicati riflettono orientamenti individuali che non immediatamente corrispondono a partecipazione attiva a un partito, ma a un modo di vedere. Tutte le mediazioni vanno ovviamente svolte per fornire un’analisi più adeguata. Qui, schematicamente, si pongono delle basi per procedere in questo senso.
Nella tabella che segue, nelle colonne si considerano cinque questioni di fondo, 3 a livello strutturale, 2 a livello sovrastrutturale. Per il livello strutturale: A1) essere favorevoli o meno al (per adesso non meglio specificato) capitalismo, A2) essere favorevoli o meno a una sua regolamentazione che includa l’intervento diretto dello Stato (o altra istituzione per lui) nella gestione della riproduzione sociale, ma senza uscire dal contesto capitalistico. Come accessoria, si aggiunge una terza posizione A3), vale a dire essere o meno favorevoli alla presenza dello stato sociale (o in subordine di soli ammortizzatori sociali). A livello sovrastrutturale tutto è ridotto a due nozioni base: B1) essere favorevoli o meno all’universalità del concetto di persona, B2) essere favorevoli o meno alle istituzioni rappresentative parlamentari e alla divisione dei poteri classica borghese. Nelle righe invece si hanno 10 posizionamenti politico-ideologici possibili (numerati progressivamente da 1 a 10). Negli incroci tra righe e colonne, la “V” sta per “sì”, la “X” sta per “no”.
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Il furore di sfruttare e di accumulare
di Gianni Giovannelli e Turi Palidda
Il diavolo è un ottimista
se crede di poter peggiorare
gli uomini
Karl Kraus
Solo chi è prigioniero dell’ideologia dominante può accettare con felice soddisfazione l’odierna struttura dell’economia e dei rapporti sociali. Il sistema di comunicazione costruito dal liberismo contemporaneo ha trasformato la rappresentazione in realtà e il mondo sembra, nonostante tutto (come sussurrano prudentemente i più critici), un porto felice, o, quanto meno, l’unica vita possibile nel terzo millennio. La servitù volontaria, nata per contrastare il timore dell’esclusione e della miseria, rende ciechi, impedisce di vedere gli effetti di una quotidiana violenta prevaricazione che caratterizza il meccanismo di estrazione del valore. L’esame, nudo e crudo, dell’esistenza di gran parte delle persone che ci circondano dovrebbe invece rendere palese la verità: quella di un oggettivo accanimento, di uno sfruttamento crudele e senza freni inibitori, a volte perfino inspiegabile nella sua sostanziale irragionevolezza. Non a caso viene evocato il concetto di neoschiavitù per descrivere le insostenibili condizioni in cui si trovano i soggetti soggiogati dai funzionari del capitalismo ultraliberista.
Era prevedibile questo scenario, a ben pensarci. La concezione liberista della società tende ad esasperare ogni cosa, perfino le modalità dello sviluppo e l’idea del cosidetto progresso. L’esasperazione travolge davvero tutto: il libero arbitrio dell’imprenditore, del padrone e del sottopadrone, del caporale, e ancora omologa i comportamenti dei gendarmi, dei lobbisti, dei politici e delle banche.
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La “leva di Wallerstein”
di Daniele Burgio, Massimo Leoni, Roberto Sidoli
Il presente scritto è un estratto in anteprima del seguente libro in prossima pubblicazione online: Politica-struttura espressione concentrata dell’economia
Un’altra verifica e un ulteriore stress-test riguardo alla teoria della politica-struttura e del fatto che una sezione della sfera politica si rivela costantemente “espressione concentrata dell’economia” consiste nell’esperienza concreta e plurisecolare del capitalismo, la quale dimostra instancabilmente come proprio a fini economici e materiali di classe “il controllo del potere statale (o la sua conquista, quando era necessario) sia stato l’obiettivo strategico fondamentale di tutti i principali attori nella scena politica, lungo l’intero arco del capitalismo” (Wallerstein).
Perché dunque risulta così importante, anche nelle formazioni economico-sociali capitalistiche contemporanee, “occupare” e controllare i gangli fondamentali del potere politico e degli apparati statali?
Perché impossessandosi totalmente/parzialmente dei diversi organi dell’apparato statale, in modo più o meno completo i nuclei politici vittoriosi escludono gli antagonisti dall’accesso al potere direzionale, di controllo e repressivo delle loro formazioni statali, potendo pertanto decidere sugli affari comuni della società in un senso sfavorevole agli interessi politico-materiali dei propri avversari/antagonisti e dei loro mandanti sociali, garantendosi allo stesso tempo una favorevole riproduzione materiale della loro esistenza come soggetto politico e – soprattutto – producendo scelte di priorità almeno particolarmente a vantaggio dei loro più diretti referenti sociali.
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Nancy Fraser, “Il vecchio muore e il nuovo non può nascere”
di Alessandro Visalli
Il libricino raccoglie interventi rivolti a inquadrare la crisi in corso scritta tra il 2017 e 2019 della studiosa americana Nancy Fraser, molto nota per le sue posizioni critiche sul femminismo liberale[1] e il “neoliberismo progressista”[2]. Sembrerebbe, con particolare riferimento all’elezione a sorpresa di Donald Trump nel 2016, di essere alle prese con una crisi politica ma è piuttosto, a parere della Fraser, una crisi ‘globale’. Caratterizzata in ogni luogo dell’occidente dal “drammatico indebolimento, se non un vero e proprio crollo, dell’autorità delle classi politiche costituite e dei partiti”. Ma questa è solo la componente politica di una crisi che ha dimensioni economiche, ecologiche e sociali; tutti processi convergenti che finiscono per “disintegrare” l’ordine sociale neoliberale. Ovvero quell’ordine che si è costituito a partire dall’alleanza, reale e potente, tra due strani partner: le correnti liberali conservatrici tradizionali, espresse in America a partire dagli anni cinquanta nel lavoro continuo di alcuni influenti e ben finanziati centri culturali[3], e il contributo decisivo per la legittimazione sociale e politica della confluenza dei nuovi movimenti sociali (femministi, antirazzisti, del multiculturalismo, ambientalismo e diritti Lgbtq+). Questo “blocco egemonico” è quel che la Fraser chiama “neoliberismo progressista”. I due improbabili partner uniscono lo spirito libertario e individualista dei movimenti anti-autoritari, e quindi anche antistatalisti, degli anni sessanta, con tutto il loro variopinto colore, ai “settori più dinamici, lussuosamente simbolici e finanziari, dell’economia degli Stati Uniti (Wall Street, la Silicon Valley e Hollywood)”[4].
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L'uomo artificiale
di Il Pedante
Non passa giorno senza che ci si imbatta nell'annuncio di nuove e vieppiù audaci applicazioni dell'intelligenza artificiale: quella all'indicativo futuro che guiderà le automobili, diagnosticherà le malattie, gestirà i risparmi, scriverà libri, dirimerà contenziosi, dimostrerà teoremi irrisolti. Che farà di tutto e lo farà meglio, sicché chi ne scrive immagina tempi prossimi in cui l'uomo diventerà «obsoleto» e sarà progressivamente sostituito dalle macchine, fino a proclamare con dissimulato orgasmo l'avvento di un apocalittico «governo dei robot». Questo parlare di cose nuove non è però nuovo. La proiezione fantatecnica incanta il pubblico da circa due secoli, da quando cioè «la religione della tecnicità» ha fatto sì che «ogni progresso tecnico [apparisse alle masse dell'Occidente industrializzato] come un perfezionamento dell'essere umano stesso» (Carl Schmitt, Die Einheit der Welt) e, nell'ancorare questo perfezionamento a ciò che umano non è, gli ha conferito l'illusione di un moto inarrestabile e glorioso. Come tutte le religioni, anche quella della «tecnicità» produce a corollario dei «testi sacri» degli officianti-tecnici un controcanto apocrifo di leggende popolari in cui si trasfigurano le speranze e le paure dell'assemblea dei devoti. Delle leggende non serve indagare la plausibilità, ma il significato.
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Come leggere il pensiero, secondo le neuroscienze
di Federica Sgorbissa*
Lo stato dell’arte delle ricerche su decodifica del pensiero e telepatia
Nel 1995, in Strange days, Kathryn Bigelow immaginava un futuro in cui memorie e pensieri possono essere registrati, venduti e comprati come fossero dei video. Nel film uno stralunato Ralph Fiennes interpreta Lenny Nero, una sorta di “spacciatore di ricordi” che sviluppa una dipendenza dal suo stesso “prodotto”. Un racconto simile l’aveva girato qualche anno prima Wim Wenders in Fino alla fine del mondo, dove Henry, interpretato da Max Von Sydow, è uno scienziato che resta intrappolato nelle sue ricerche, vittima, al pari di Lenny, del consumo compulsivo dei sogni altrui. Curiosamente, entrambi i film sono ambientati alla fine del 1999, con una differenza sostanziale: Strange days si spinge un po’ più avanti nell’immaginazione tecnologica e così, mentre Henry si limita a vedere i sogni su uno schermo, come fossero film, Lenny non solo può archiviare le esperienze in una sorta di minidisc, ma rivive queste registrazioni direttamente nel proprio cervello grazie allo SQUID, una specie di Playstation per ricordi.
Nonostante la visionarietà di Bigelow e Wenders, il capodanno del 2000 è passato senza la nascita di nessuna tecnologia simile. A distanza di vent’anni, tuttavia, si stanno effettivamente ottenendo grandi avanzamenti nel campo della decodifica di sogni e pensieri e, almeno parzialmente, della trasmissione brain-to-brain. Fra gli scienziati più attivi e ottimisti c’è Moran Cerf, professore della Kellogg School of Management della Northwestern University, imprenditore high-tech e consulente scientifico di Hollywood (oltre che ex-hacker). “Con l’elettroencefalografia oggi si possono avere decodifiche anche molto precise, usando dispositivi indossabili e non invasivi”, dice Cerf a il Tascabile.
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Inasprire il vincolo esterno. Il Meccanismo europeo di stabilità e il mercato delle riforme
di Alessandro Somma
Un Superstato di polizia economica
Nel corso degli anni l’Europa unita è divenuta un catalizzatore di riforme che elevano il principio di concorrenza a paradigma dello stare insieme come società, e impediscono a principi alternativi di persistere o eventualmente di riemergere. I Paesi membri sono chiamati a tradurre le leggi del mercato in leggi dello Stato, riducendo così l’inclusione sociale a inclusione in un ordine incentrato sul libero incontro di domanda e offerta. Il tutto presidiato da uno “Stato forte e indipendente” cui attribuire compiti di “severa polizia del mercato”: come sintetizzato anni or sono da un padre del neoliberalismo[1].
Spicca tra questi compiti il contrasto delle concentrazioni di potere economico, ovvero l’isolamento dell’individuo di fronte al mercato, al fine di condannarlo a tenere i soli comportamenti che costituiscono reazioni automatiche agli stimoli della libera concorrenza. E lo stesso deve valere per gli Stati, che si devono rendere incapaci di operare in senso difforme rispetto a quanto corrisponde alle aspettative dei mercati. Anche per questo i Trattati europei codificano il “principio del non salvataggio finanziario”, per cui “l’Unione non risponde né si fa carico degli impegni assunti dalle amministrazioni statali, dagli enti regionali, locali, o altri enti pubblici, da altri organismi di diritto pubblico o da imprese pubbliche di qualsiasi Stato membro” (art. 125 Trattato sul funzionamento Ue).
Il divieto di bail out non costituisce un presidio contro l’indebitamento pubblico, o almeno questa non costituisce la sua principale ragion d’essere. Prevale infatti una diversa finalità: costringere gli Stati a reperire risorse presso i mercati, a cui si conferisce così la funzione di disciplinare i comportamenti degli Stati.
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Il Venezuela ha tre parlamenti
I media di guerra scelgono Guaidó (ovvero gli USA)
di Geraldina Colotti
Seguire i passi del nemico, analizzarne le strategie, serve per affinare le proprie, usando la capacità critica come l’imperialismo usa i suoi droni. Contrastare il racconto egemonico costruito dai media di guerra nei paesi capitalisti, è un’impresa titanica, almeno finché non interviene un nuovo ciclo di lotta che spazzi via la cortina di fumo e mostri un’altra visione del mondo. Tuttavia, si può (si deve) aprire qualche breccia, mostrare le insidie attraverso le quali s’insinua l’interpretazione dominante.
Ieri abbiamo seguito in diretta la seduta parlamentare che, in Venezuela, doveva rieleggere il presidente dell’Assemblea Nazionale, uno dei cinque poteri di cui dispone la costituzione bolivariana, tenuti in equilibrio dalla massima istanza giuridica, il Tribunal Supremo de Justicia (TSJ). In contatto costante con i colleghi sul posto, ne abbiamo seguito tutte le fasi, confrontando tre fonti: la prima, proveniente dalla più estrema all’estrema destra venezuelana, ovvero quella di Patricia Poleo, che conduce una trasmissione da Miami intitolata Agárrate. La seconda, fornita dai vari giornalisti e i video-maker presenti a Caracas, e la terza diffusa dalle agenzie stampa in Italia.
Quello di Poleo è un programma che, volendo essere più a destra della destra, accusa l’autoproclamato “presidente a interim Juan Guaidó” di essere stato troppo timido nell’ordire le sue trame contro il socialismo bolivariano. In questo modo, tra urla e proclami, tira fuori però tutte le magagne dell’opposizione venezuelana, golpista, affarista e, soprattutto, ladrona.
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Sull’esito delle elezioni in Gran Bretagna
RP. intervista Joseph Halevi
RP. Come prima cosa ti chiedo una considerazione generale della sconfitta del partito laburista clamorosa in termini di seggi. Tenendo conto che la vittoria dei conservatori era comunque data per scontata.
JH. Fino a qualche tempo fa, quando anche Boris Johnson si vedeva bocciare le sue iniziative del parlamento, mi sembrava fosse su una linea meno catastrofica di Teresa May, che stava veramente distruggendo il partito conservatore. La scelta di Johnson per riprendere in mano la politica dei conservatori è stata proprio quella di andare alle elezioni e come le ha gestite. Però secondo me queste sono cose superficiali.
Secondo me il problema fondamentale sono i laburisti, i quali sono entrati in una crisi che rischia di essere di non ritorno. Come, anche se in condizioni completamente diverse, i socialdemocratici tedeschi sono in una crisi di non ritorno: loro oggi sono al 15%, mentre erano un partito del 40%. In Gran Bretagna non c’è lo stesso tipo di situazione, con la medesima politicizzazione che c’è in Europa continentale, quindi la dinamica è diversa, però un partito che sta sul 30% diventa non agibile, diventa non spendibile perché non è un sistema pluralistico al livello politico. È un sistema che si basa su due partiti, che possono fare qualche alleanza qua e là, occasionalmente, però devono essere tutti e due in una situazione maggioritaria, dal punto di vista dei seggi (cioè essere sempre nella situazione di diventare maggioritario). Se uno dei due non ha la maggioranza dei seggi, può rimanere fuori per decenni. Come è accaduto ai laburisti negli anni trenta con la spaccatura introdotta da MacDonald e sono stati fuori fino al 1945; quando, sostanzialmente, è stata la guerra a fargli vincere le elezioni. Perché, anche se la guerra l’ha condotta Churchill, era cambiata l’idea presso la classe lavoratrice inglese che con la vittoria il mondo sarebbe stato diverso per ciò che li riguardava, i diritti, ecc.
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Dallo Stato-imprenditore allo Stato-stratega
Dibattito sull’Iri
di Andrea Muratore
Nelle ultime settimane la crisi industriale dell’Ilva, con la problematica partita apertasi tra il governo e Arcelor-Mittal, unitamente al nuovo rinfocolamento del caso-Alitalia ha riportato in auge il tema dello “stato-imprenditore”, del coinvolgimento pubblico nell’economia funzionale allo svolgimento della politica industriale, e la parola “Iri” è ritornata prepotentemente nel dibattito.
Il modello di riferimento, nel dibattito italiano, non ha potuto che essere l’Istituto di Ricostruzione Industriale (Iri), il conglomerato fondato nel 1933 per iniziativa di Alberto Beneduce e divenuto nel secondo dopoguerra il principale braccio operativo del sistema di economia mista che ha guidato la rinascita del Paese. L’Iri, fino alla crisi conclusiva della Prima Repubblica che segnò l’inizio della sua messa in liquidazione (terminata nel 2002), ampliò gradualmente il suo perimetro sino a risultare protagonista nei principali gangli strategici del sistema Paese: dal ramo bancario (azionista in Banco di Roma, Credito Italiano e Banca Commerciale Italiana) alla siderurgia (Finsider, l’antenato dell’Ilva), passando per le telecomunicazioni (Stet), la cantieristica e la difesa (Fincantieri e Finmeccanica) e i trasporti (controllando Alitalia e le autostrade). Nel 1993, quando il governo Ciampi iniziò la sua graduale privatizzazione, l’Iri era il settimo conglomerato al mondo per dimensione, potendo contare su un fatturato superiore ai 67 miliardi di dollari.
L’Iri è stato citato esplicitamente dal Ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli (Movimento Cinque Stelle) che ha affermato esplicitamente di non essere contrario al “ritorno” al sistema di gestione statale, nel contesto di una forte critica alle modalità di privatizzazione delle proprietà dell’ente.
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Rompere lo specchio neoliberista
Bjarke Skærlund Risager intervista David Harvey
Nel 2005 usciva Breve storia del neoliberismo di David Harvey, saggio ancora oggi tra i più citati sull’argomento. Da allora sono esplose diverse crisi economiche e finanziarie, ma anche nuove ondate di resistenza che spesso hanno fatto proprio del neoliberismo il loro bersaglio critico.
Ma di cosa parliamo esattamente quando parliamo di neoliberismo? Si tratta di un concetto utile per la sinistra? E come si è evoluto dal momento della sua genesi alla fine del ventesimo secolo? Bjarke Skærlund Risager ha affrontato questi temi con David Harvey.
* * * *
Neoliberismo è un termine molto in voga, ma spesso non è chiaro a cosa faccia riferimento esattamente. Cercando di darne una definizione più sistematica potremmo dire che si riferisce a una teoria, a un insieme di idee, a una strategia politica oppure a un periodo storico. Potresti spiegarci, per cominciare, cosa intendi per neoliberismo?
Ho sempre concepito il neoliberismo come quel progetto politico portato avanti tra la fine degli anni Sessanta e tutti gli anni Settanta da una classe capitalista che si sentiva messa all’angolo sia dal punto di vista politico che economico e ha operato un tentativo disperato di fermare l’ascesa della classe lavoratrice al potere.
Si è trattato quindi di un progetto controrivoluzionario sotto molti aspetti, che servito a stroncare sul nascere i movimenti rivoluzionari dei paesi in via di sviluppo dell’epoca (Mozambico, Angola, Cina, ecc.) ma anche a contrastare la crescita del consenso per i movimenti comunisti in paesi come l’Italia, la Francia e, in misura minore, la Spagna.
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Piazza Fontana e la psicologia delle masse
di Enzo Pellegrin
Riceviamo e pubblichiamo
Nell’anniversario del tragico 12 dicembre 1969, mi è capitata sott’occhi un’intervista allo Storico Miguel Gotor, titolata “Non chiamiamola strage di Stato” (1). Come spesso avviene, il titolo ingigantisce le parole dell’intervistato anche oltre il lecito, ma è significativo un passo dell’intervista dell’autore sul punto:
“La Strage di Stato è stato il titolo di un libro che ebbe molto successo all’epoca. Cosa pensa di questo concetto?
Fu un’espressione efficace sul piano politico, propagandistico e militante allora, ma oggi, dal punto di vista storico, la trovo insufficiente e persino ambigua. In primo luogo perché deresponsabilizza i neofascisti che ormai lo usano anche loro in questo senso. Se è stato lo Stato, nessuno è stato. Per capire, invece, bisogna anzitutto fare lo sforzo di distinguere. E poi perché, se è ormai accertato sul piano giudiziario e storico che nei depistaggi furono coinvolti esponenti degli apparati, dei servizi segreti e dell’ “Alta polizia” sopravvissuti al fascismo, vi furono anche magistrati come Pietro Calogero e Giancarlo Stiz o agenti come Pasquale Juliano che imboccarono da subito la strada della pista nera, con coraggio e andando controcorrente. Non erano anche loro esponenti dello Stato? Nella notte della Repubblica, nonostante il fango deliberatamente sollevato, il faro della giustizia e della ricerca della verità rimase acceso e non è giusto dimenticare l’impegno personale e professionale di quegli uomini con formule genericamente autoassolutorie.” (2)
Gotor si scaglia anche contro il concetto di “manovalanza neofascista” della strage. Partendo dal materiale processuale, che più di ogni cosa ha provato il coinvolgimento della “pista nera”, lo storico afferma che, ritenere i neofascisti dei puri esecutori, rischia di attenuare il loro ruolo militante nell’attacco alla democrazia.
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Il ritorno del capitalismo in Russia
di Fabrizio Poggi
L’atteggiamento di molta pubblicistica di sinistra nei confronti della Russia odierna si divide in due grandi filoni. Da un lato, una perenne venerazione di tutto quanto promani da Mosca, ignorando persino le critiche rivolte al Cremlino anche dai comunisti del KPRF, di cui, pure, spesso ci si fa portavoce. Dall’altro, il completo silenzio su qualsiasi manifestazione dell’opposizione che non sia quella liberal-borghese o confessionale, come se altra non ne esistesse.
Non ci è capitato di leggere nulla, ad esempio, sui duecento dipendenti licenziati dai supermarket SPAR e SemJA di Pietroburgo, caricati il 30 dicembre dalla polizia mentre stavano picchettando gli uffici di Intertorg, chiedendo il pagamento di 10 milioni di rubli di salari arretrati. I lavoratori erano dipendenti di un’agenzia interinale, “scomparsa”; così, i funzionari di Intertorg, ritenendosi estranei alla cosa, hanno chiamato i reparti speciali della milizia per disperdere i manifestanti.
Lo stesso giorno, a Mosca, una cinquantina di custodi addetti a manutenzione e pulizia dei caseggiati del rione “Lomonosov” avevano chiesto un incontro col direttore dell’impresa semi-pubblica di gestione, per lamentare l’organico ridotto alla metà, il non esser ammessi al convitto (sono tutti migranti da altre Repubbliche dell’ex URSS, con salari dai 20 ai 27mila rubli: 3-400 euro) anche in caso di malattia, se non dopo le 18, mancata fornitura di tenute invernali e di materiali per le riparazioni. Il direttore li sbatte fuori dell’ufficio e loro cominciano la protesta in strada. Risultato: tutti alla stazione di polizia e in tribunale; il rischio è condanna e espulsione dalla Russia.
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Esuberi & rottamazioni … che fare?
di Francesco Cappello
Esuberi più recenti, come riportati dalla stampa, senza pretesa di completezza
SAFILO annuncio di 700 esuberi in Italia e chiusura stabilimento di Martignacco (Udine) Nonostante la previsione di vendite in leggera crescita nei prossimi cinque anni, l’azienda ha avviato un programma di ristrutturazione industriale. L’amministratore delegato Angelo Trocchia ha affermato che punterà su “una crescita più significativa del nostro business e-commerce direct-to-consumer“.
CONAD il gruppo Conad dichiara 3.100 esuberi, di cui più di mille nella sola Lombardia, su 6.600 dipendenti dei negozi Auchan e Simply (punti vendita già confluiti in Conad), appena acquisiti. I lavoratori che operano già sotto il marchio Conad hanno visto un peggioramento delle loro condizioni lavorative, rispetto al passato, in termini di orario, turni e salario.
CONTINENTAL 500 esuberi annunciati , da qui a 10 anni, negli stabilimenti Continental di Pisa e Fauglia. Sono il primo risultato dei cambiamenti produttivi, del passaggio dalle auto a benzina o diesel alle auto elettriche. L’auto elettrica ha bisogno di nuovi macchinari e linee produttive che comporteranno la riduzione del 60% della forza lavoro.
Anche le fabbriche del GRUPPO MAHLE pagano il prezzo della grande fuga dal diesel.
Risultano in via di chiusura in Piemonte, 620 esuberi alla BOSCH di Bari, produzione in calo del 30 per cento nello stabilimento FCA di Pratola Serra, nell’avellinese.
FEDEX-TNT giganti delle spedizioni e consegne a domicilio. In ballo 361 licenziamenti e 115 trasferimenti. Il progetto prevede, anzitutto, la chiusura di 24 sedi su 34 e l’allontanamento di 361 lavoratori (315 in Fedex, quasi tutti corrieri, e 46 in Tnt). Previsti anche cento spostamenti di sede. Si teme esternalizzazione massiccia di personale.
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Colpo su colpo verso la guerra? Trump! E chi sennò?
Le bufale delle analisi, le panzane delle previsioni
di Fulvio Grimaldi
“Le guerre verranno fermate solo quando i soldati si rifiuteranno di combattere, quando gli operai rifiuteranno di caricare armi su navi e aerei, quando la gente boicotterà i presidi economici dell’Impero sparsi su tutto il globo” (Arundhati Roy. “Il potere pubblico nell’era dell’Impero)
Una prima risposta
La risposta iraniana, una prima risposta, è venuta subito. Da poche ore, sette milioni di iraniani avevano terminato il corteo funebre, quando dozzine di missili iraniani si sono abbattuti su due basi USA in Iraq, a Ain el Assad, nella provincia centrale di Anbar e a Irbil, Kurdistan iracheno. Qui alcune decine di militari italiani, lasciati lì col cinismo servile propri di tutti i nostri regimi dal 1945, l’hanno scampata nei bunker, dato che Tehran, consapevole del diritto di internazionale e delle pratiche di guerra quanto non lo sono gli USA e tutta la Nato, aveva dato preavviso dell’attacco alle autorità irachene.
E’ una prima ritorsione all’assassinio del generale Suleimani, ma è anche un monito a Washington e alla Coalizione, in linea con la richiesta di Baghdad, di togliersi di mezzo. A Tehran, nella mattinata successiva, è precipitato un aereo delle Ucraina Airlines (perfino l’Ucraina, dissestata più di noi, ha una sua compagnia di bandiera!). 177 le vittime.
Entrambe le parti minimizzano. Le 80 vittime dell’attacco missilistico iraniano non ci sarebbero, le 177 dell’aereo di linea sarebbero dovute a un guasto dopo il decollo. E’ probabile che il conto dei morti nelle basi sia esatto, e forse riduttivo, ma che la propaganda provi a sminuire l’efficacia dell’azione. Che nel caso dell’aereo caduto, potrebbe avere tutte le caratteristiche di un’operazione emulativa del principale alleato degli Usa nel Vicino Oriente.
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Nel mondo senza opposizione
di Bollettino Culturale
“L'uomo ad una dimensione” di Herbert Marcuse venne pubblicato nel 1964, sotto la minaccia della "catastrofe atomica". Marcuse svela come, nelle società industriali, l'irrazionalità si maschera da razionalità tecnologica e continua descrivendo la cooptazione e il contenimento di tutte le richieste di cambiamento qualitativo alla luce delle "tendenze totalitarie della società monodimensionale". Il famoso libro di Mark Fisher “Realismo Capitalista: non ci sono alternative?” è stato pubblicato nel 2009 all'ombra del tardo capitalismo distopico, della crisi economica globale e del senso diffuso che "non solo il capitalismo è l'unico sistema politico ed economico praticabile, ma anche che ora è impossibile persino immaginare un'alternativa coerente.” Nei quarantacinque anni che separano i due testi, le affinità tra loro sono chiare. Entrambi gli autori si spingono fino al limite del pensiero critico, descrivendo tutto nei termini più severi e rimanendo, nonostante tutto, impegnati a trasformare tutto. In questo modo, quindi, entrambi i testi sono modelli esemplari di scrittura senza speranza, continuando comunque a scrivere. Alla fine di “L'uomo ad una dimensione”, dopo aver notato che "Il vero volto del nostro tempo si vede nei romanzi di Samuel Beckett", Marcuse cita Walter Benjamin che scrive all'inizio dell'era fascista: “È solo per il bene di quelli senza speranza che la speranza ci viene data.” Il testo di Fisher si conclude con un'affermazione altrettanto poetica: "L'evento più piccolo può fare un buco nella cortina grigia della reazione che ha segnato gli orizzonti delle possibilità sotto il realismo capitalista. Da una situazione in cui nulla può accadere, improvvisamente tutto è di nuovo possibile ".
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Siria, Iraq, Libano: il Medio Oriente inquieto dopo Soleimani
Verdiana Garau intervista Mauro Indelicato
Il mio lungo caffè con Mauro Indelicato discutendo sul recente raid statunitense a danno del generale Qasem Soleimani, comandante delle Forze Quds, il numero due iraniano, secondo soltanto all’Ayatollah Sayyid Ali Hosseini Khamenei supremo leader dell’Iran, e che ha trovato la morte la notte dello scorso 3 Gennaio 2020.
* * * *
V.G. Il 31 dicembre Trump aveva già fatto sentire odore di minaccia dopo l’ultimo attacco subìto dall’ambasciata americana a Baghdad e rivendiacto dalle forze sciite filo-iraniane. L’anno 2020 è iniziato con l’esecuzione di Soleimani, numero due dell’Ayatollah Khamenei e capo della forza di Quds, gli informatori sciiti per l’Iran presenti in Libano, Siria, Yemen e Iraq che si occupavano di trovare anche fondi e reclute per gli attacchi.
È una pedina in meno rimossa dallo scacchiere che infastidiva i sunniti?
L’opinione pubblica si è sollevata. Soleimani era anche colui che aveva contribuito a sconfiggere l’ISIS. Ma mi chiedo perché i sunniti (che costituiscono la maggioranza in Medio Oriente) dovrebbero reagire? Questo rischio non c’è. L’Arabia Saudita non ha mai gradito l’ingerenza dell’Iran in Medio Oriente ad esempio.
Cosa faranno gli sciiti soprattutto adesso?
M.I. La situazione attuale è figlia di una escalation che si protrae da Novembre scorso. Il NYT e la CNN più volte hanno riferito sui reportages dei missili lanciati dall’Iran. In Iraq la situazione è cominciata ad essere instabile e ha visto e vede le fazioni filoiraniane in contrapposizione a quelle filoamericane.
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Tempo rubato: Food for thought
di Eugenio Donnici
1. Tempo rubato inteso come un campo di battaglia. Sottrazione di tempo da parte di pochi, di un piccolo gruppo che restringe gli spazi di emancipazione collettiva. Un terreno conflittuale dove si scontrano desideri di autonomia personale ed imperativi di comando. Un furto legalizzato che espropria i venditori della forza lavoro, precari e sottopagati. Ladri di tempo che rubano sogni, che rullano gli affetti, che impediscono l’auto-realizzazione dei “dipendenti”, il che presuppone la variabile “indipendente”, e quindi che i primi agiscano in funzione dei secondi, che i primi siano funzionali ai secondi. Una relazione di dipendenza che ha di nuovo preso il sopravvento, che è diventata dominante e imprescindibile.
E lo Stato cosa fa?
Rimane a guardare, incarna il fuori gioco della politica, manifesta la sua impotenza.
Sembra che la politica abbia perso il suo tempo o che porti in giro i suoi perditempo, che non sia in grado di incidere sugli aspetti essenziali di quella relazione di tempo, da cui parte il lavoro di S. Fana e che trova un’espressione sintetica nel titolo del suo libro.
La sua analisi fa riferimento alla teoria del valore-lavoro di Marx, una teoria che è stata oggetto di una miriade di interpretazioni, ma l’autore non entra nei dettagli polemici e sulla fondatezza o validità della teoria. Egli evidenzia con molta chiarezza un aspetto della teoria di Marx che è caduto nel dimenticatoio e che troppo spesso non viene preso in considerazione, se non in via accessoria, vale a dire il perseguimento del plus-valore-plus-lavoro e che si condensa e trova attuazione nella pratica sociale dello sfruttamento.
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Ceto medio e suo movimento in questa fase
di Michele Castaldo
Prendo spunto da un commento di Dino Erba, «I “nuovi marxisti” alla (ri)scoperta delle “nuove” classi medie», al libro di Bruno Astarian e Robert Ferro, per tornare su un punto teorico e politico di un certo interesse: il ruolo del ceto medio in questa fase. Se i comunisti d’oggi cercassero di analizzare i fatti per come essi parlano, capirebbero molto di più delle loro strampalate analisi ideologiche.
Non conosco il lavoro di Astarian e Ferro, ma dal commento di Dino Erba c’è materiale a iosa per riflettere sul fenomeno del movimento del ceto medio, che fa parlare di sé in questa fase. Faccio un’avvertenza obbligata: qualcuno ha scritto che «è pesante da digerire l’esasperato oggettivismo del Castaldo». Lo credo bene, e dal momento che non ho cambiato metodo e impostazione, si può anche non continuare a leggere il presente contributo.
Procedo per punti per rendere più agevole il punto di vista:
A. La polemica tra Bernstein, Kautsky e Rosa Luxemburg sul ruolo del ceto medio del tempo che fu c’entra in questa fase come il cavolo a merenda semplicemente perché allora il modo di produzione capitalistico era in fase ascendente, mentre oggi lo stesso movimento è in una crisi che possiamo definire definitiva dagli esiti sconosciuti, ma certamente catastrofica. Sicché se un movimento sociale storico cresce, in esso e con esso si sviluppano tutte le componenti che la forza delle sue potenzialità esprimono. Se decresce espelle una parte del proprio creato. È un concetto semplice, si direbbe lapalissiano.
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