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La scommessa giocata nell'atelier del Principe
Roberto Ciccarelli
L'esperienza della rivista «Centauro» ripercorsa in un volume. L'incontro tra teorici tra loro eterogenei, ma accomunati dalla convinzione che la crisi della modernità coincideva con l'eclissi delle categorie del politico.
Nei diciotto numeri coordinati dal filosofo napoletano Biagio de Giovanni, la rivista di filosofia e politica Il Centauro ha espresso una delle caratteristiche che hanno reso la riflessione italiana sulla «politica» ad un tempo ardua e singolare. Ardua perché ha saputo tenere il polso dell'analisi filosofica del presente, senza mai rinunciare alla densità del linguaggio e all'articolazione dei concetti rispetto agli scarti imposti dalla realtà viva della politica. Singolare perché, sul finire di un decennio di grandi trasformazioni, gli anni Settanta, alcuni tra i più significativi intellettuali che fino ad allora avevano fatto base nel Partito comunista iniziarono ad interrogare la «crisi della modernità». Una formula che faceva eco al nascente dibattito sulla fine dei grandi racconti moderni sulla politica, sulla storia e sulla filosofia lanciato nel 1979 da Jean-François Lyotard ne La condizione postmoderna allargandosi presto ad una dimensione imprevista dal suo stesso promotore, quella della fine della storia, dell'irrapresentabilità del conflitto sociale e della razionalità come prerogativa di un processo di modernizzazione della politica.
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Anestetizzati
di Goffredo Fofi
In Italia, si ha da tempo l’impressione di un intero paese, di un’intera cultura anestetizzati. Dalle anestesie, si sa, ci si può risvegliare molto male – con la possibilità di trovarsi di fronte, per esempio, realtà nuove e terribili, come il “figlio di Iorio” di una rivista di Totò che si ridestava nella Roma dell’occupazione tedesca. Ma capita anche che non ci si risvegli affatto, precipitando direttamente nel nulla della morte o nelle nebbie di un coma profondo, irreversibile. Il “ritorno alla vita” è sempre traumatico, anche quando è quello di Lazzaro: se ci sarà, non sarà semplice e a scontarlo maggiormente saranno proprio gli ignavi che si sono lasciati addormentare (fuor di metafora: che si sono lasciati ammazzare la coscienza, cioè la capacità di ragionare sulla propria condizione, nel quadro dello stato del mondo ).
Ad anestetizzarci sono stati – e lo hanno fatto, bisogna dirlo, con molta abilità – giornalisti politici preti insegnanti intrattenitori (ce ne sono che vengono detti animatori, quando il loro lavoro è di disanimare, distraendo da ciò che conta), e nel caso dei giovani lo hanno semplicemente fatto gli adulti, e i mercanti e pubblicitari che stanno alle loro spalle. I mercanti, soprattutto. Mercanti di tutto, perfino del trascendente e del sacro. Le colpe variano, ma sono colpe e vanno chiamate con il loro nome. Si presume di solito che gli alienati abbiano meno colpe degli alienanti, ma anche questo si può ormai metterlo in discussione: non vediamo all’intorno innocenti, nel presente stato delle cose tutti hanno – tutti abbiamo – le nostre responsabilità.
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Quell'oscuro essere in cerca della sua rivoluzione
Augusto Illuminati
Marx dopo Heidegger. La rivoluzione senza soggetto di Giovanni Leone (Mimesis, pp. 144, euro 15) prende le mosse da interrogativi che si sono largamente diffusi con la crisi del marxismo: è possibile una tensione anticapitalistica senza soggetto rivoluzionario? Si può sottrarre Marx alla filosofia dialettica della storia e a una metafisica «necessarista» e finalista? Lo stesso superamento del termine comunismo, al di là del facile opportunismo di chi cambia nome per ragioni di mercato, non indica l'esigenza di distinguersi da un riferimento alla comunità, sia astratta che concreta, che Marx stesso ripetutamente sconfessa? Le argomentazioni di Leone sono indubbiamente valide e ricorrono spesso nel marxismo critico a partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo: pensiamo alla polemica contro lo sviluppismo etnocentrico, il primato delle forze produttive sui rapporti di produzione, l'impianto dialettico sostanzialmente hegeliano, il retaggio feuerbachiano della «Specie Umana» o «Uomo Produttore» svuotati dall'alienazione e da restaurare in un nuovo comunitarismo.
Anche l'enfasi sulla prassi è stata tendenzialmente depurata dagli aspetti più smaccatamente produttivistici ed umanistici.
La riflessione heideggeriana sulla tecnica ha svolto un ruolo in tale rimodulazione, sia indirettamente attraverso la Scuola di Francoforte e Herbert Marcuse, sia direttamente con la tacita ma drastica mediazione di Louis Althusser. Il filosofo francese ha costruito un programma di reinterpretazione della storia come processo senza origine, soggetto e finalità, proponendo una lettura sintomale di Marx e individuando i punti di cesura fra il seguace di Hegel e Feuerbach e gli sviluppi più originali del suo pensiero.
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Vampirismo geoeconomico
di Sbancor
Sulla scrivania ho tre schermi. Due sono di Bloomberg, il sindaco di New York. Uno manda in continuazione notizie dal mondo, l’altro disegna grafici su qualsiasi mercato, titolo, obbligazione o maledetta carta straccia “subprime” tu abbia in animo di analizzare e nel caso acquistare. Ma adesso non è proprio il caso.
Tenersi liquidi: questa è la parola d’ordine. Comprare, oggi non compra quasi nessuno.
Tranne i Sovereign Wealth Funds, dove vengono riciclati i petrodollari russi e arabi oppure i surplus commerciali del Far East.
Sull’altro schermo ho Google Earth. Sulla scrivania due libri: Il canto della missione di John Le Carré, e Hitler di Giuseppe Genna.
E’ tutto ciò che mi ha accompagnato in questi mesi di depressione.
Qualcuno di voi potrebbe chiedersi cosa c’entrano i computer con i libri e perché stanno tutti sulla mia scrivania. Domanda stupida.
Stanno sulla mia scrivania perché fino a un po’ di tempo fa sono stato troppo depresso per spostarli. Ma questa è una risposta stupida quanto la domanda. In realtà libri e computer descrivono la realtà. Ciò che sta succedendo ora, adesso. E le conclusioni che ne traggo non mi tranquillizzano. Anzi.
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Pensiamoci
Rossana Rossanda
A una settimana dal voto, tutto è stato detto dai leader. Dai microfoni su piazza e in tv. Tutto di basso profilo, qualche bugia, qualche furberia ma il quadro è chiaro. È il momento di pensare da soli, elettori maschi e femmine e giovani che avranno la scheda per la prima volta. Non affidiamoci agli umori, quelli che piacciono ai sondaggi. Come è successo al tempo del «Silvio facci sognare», lo slogan più scemo del secolo. Siamo alfabetizzati, abbiamo non solo speranze e delusioni ma comprendonio e memoria.
Gli elementi per valutare a chi dare il voto ci sono tutti, nel presente e nel passato prossimo. Facciamo parlare i dati di fatto.
1. L'ultimo, arrivato fresco fresco dal Fondo Monetario Internazionale è che l'Italia è a crescita zero (0,3). E non è la crescita zero preconizzata dagli ecologisti, cioè una selezione degli investimenti che protegga e risani l'ambiente. È crescita zero nell'insieme caotico dell'attuale modello, crescita zero nell'occupazione, crescita zero del potere d'acquisto.
Sarebbe utile che si incazzassero i candidati premier di fronte alle loro trovate, tipo: con me, mille euro mensili a ogni precario. Ottimo. Chi li paga? L'azienda che lo ha assunto per dodici giorni al mese? Gli intermediari, Adecco o Manpower? La cooperativa fasulla che lo costringe a essere socio-lavoratore o niente? Lo stato? E da dove fa entrare i soldi? Visto che nessuno propone di accrescere le tasse.
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Quei discreti pirati del commercio globale
Come ti frego (per sempre) i Paesi poveri
di Sabina Morandi
C'era una volta il Wto. Ricordate? Ogni volta che si è riunito per imporre al mondo i diktat dell'ultra-liberismo c'è stata una sollevazione. E' successo a Seattle, a Cancun e a Hong Kong dove, alla fine del 2005, attivisti provenienti da tutto il mondo hanno bloccato la città per un'intera settimana. Cosa è successo da allora? Quasi niente, secondo i media ufficiali. Eppure, mentre in Occidente si fa il mea culpa su certi eccessi della globalizzazione liberista, la sua marcia è continuata indisturbata nel resto del mondo, lontano dall'occhio indiscreto delle telecamere e dei contestatori. Nessuno infatti si è preso la briga si riportare le conclusioni di un rapporto stilato nel marzo scorso da Oxfam, intitolato Signing Away the Future (letteralmente: firmando via il futuro), da dove si evince che Stati Uniti e Unione Europea, sempre più protezionisti in casa propria, continuano a perseguire una strategia ultraliberista fatta di accordi sempre più distruttivi per le economie meno sviluppate.
La firma di tali accordi comporta infatti una quantità enorme di concessioni irreversibili da parte dei paesi poveri, ai quali praticamente non viene offerto niente in cambio.
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Materiali d'uso per il passaggio a Nord
di Sergio Bologna
Il grande assente rimane il lavoro, o meglio quali siano i rapporti tra capitale e forza-lavoro in un universo produttivo che vede presenti knowledge workers e working poor. La questione settentrionale è il tema dell'ultimo annale della Fondazione Feltrinelli. Un'ampia e interessante rassegna di saggi su una composita realtà segnata dalla crisi della grande industria
La «questione settentrionale» è un falso problema? E' un modo per non voler affrontare la «questione Italia»? I saggi raccolti nell'ultimo degli Annali della Fondazione Feltrinelli (La questione settentrionale. Economia e società in trasformazione, a cura di Giuseppe Berta, pp. 465) sembrano insinuare questo dubbio e a ragione.
Chiariscono subito, attraverso l'autointervista di Luciano Cafagna, che la locuzione risale agli anni Cinquanta ed aveva un significato ben diverso da quello che ha acquistato agli inizi degli anni Novanta con l'emergere del fenomeno leghista. Era stata usata nel gruppo che stava attorno ad Adriano Olivetti e alla rivista «Ragionamenti» (Roberto Guiducci, Franco Momigliano, Alessandro Pizzorno, Franco Fortini) per indicare un modo di affrontare la realtà diverso dallo storicismo crociano e fortemente incardinato sulla cultura industriale, sull'approccio sociologico, insomma sui rapporti di produzione più che sulle questioni istituzionali.
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Prima e dopo la strage di stato
Marco Grispigni
L'anno degli studenti non fu un allegro festino. Lo stato non tardò a metter mano alla pistola. In Italia e in Europa. La tanto esecrata «società permissiva» colpì duro fin dall'inizio. E nel 1969 arrivò la bomba di Piazza Fontana
Sous le pavé, la plage !, recitava un poetico e famoso slogan francese. Chissà se anche sotto il selciato dell'Università di Roma - allora ne esisteva una sola, La Sapienza - i giovani della fotografia hanno trovato la loro spiaggia?
Una foto del '68: ci sono sassi, bastoni e assembramenti di giovani. Il clima non sembra particolarmente teso, ma di certo non ci troviamo in una strada della San Francisco della Summer of Love.
Il '68 fu anche violento: non soprattutto, come dicono i suoi detrattori, quelli per cui chiunque si ribelli, tanto più se decide di farlo nella strada, è un terrorista in erba. Ma non fu neanche un movimento pacifista, composto solo da giovani gentili, ma un po' inquieti, che chiedevano ai gruppi dirigenti di svecchiare la società, di farsi un po' più in la. Non fu un movimento pacifico che solo l'ideologia (e la ripresa del marxismo) rovinò e portò verso gli oscuri anni '70, come dicono alcuni ormai attempati personaggi, nostalgici della loro gioventù, quelli del breve '68, un movimento che durò lo spazio di un mattino. Il '68, la rivolta mondiale, iniziata anni prima in alcuni paesi, e poi continuata in altri, al di là dell'anno mirabile, fu anche violenta: fin dall'inizio. Ebbe la sua fascinazione per "il lato oscuro della forza", come la definisce Augusto Illuminati nel suo interessante (e divertente) libro sul '68 (Percorsi del '68. Il lato oscuro della forza, Derive Approdi, 2007). Fu un movimento di chi rispondeva "yes, we can", a chi gridava "ribellarsi è giusto".
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Invettiva pasquale sul tempo corrente e sul tempo perduto
di Sandro Mezzadra
1. Non v’è dubbio che abbia ragione Giacomo Marramao (“il Manifesto”, 17 marzo): “è impossibile afferrare il cuore del presente senza sottrarlo al rumore dell’attualità”. E tuttavia, mi si consenta il gioco di parole, il presente resta il cuore del problema. Il presente: ovverosia le tensioni che lo segnano, i rapporti di dominio che lo organizzano, il “rumore sordo della battaglia”, per citare Michel Foucault, che si combatte in una dimensione diversa da quella da cui proviene il “rumore dell’attualità”. Il presente: ovverosia i salari che non consentono di arrivare alla fine del mese, la precarietà e l’attacco alla 194, ma anche le pratiche con cui i soggetti dominati e sfruttati conquistano quotidianamente spazi di libertà e di uguaglianza.
Ecco: a me pare che di questo presente si senta parlare davvero pochissimo nel “dibattito” che sta svolgendosi a “sinistra”, e in particolare sulle pagine del “Manifesto”. Il “rumore dell’attualità” lo ha dominato in una prima fase, quando ad appassionare il ceto politico dei quattro partiti (partiti? È un “partito” la “Sinistra democratica”? Mah…) che hanno dato vita alla Sinistra arcobaleno è stato il tema della composizione delle liste. Nessun moralismo al riguardo, sia chiaro: la politica è fatta anche di queste cose, ci mancherebbe. Ma quando è fatta solo di queste cose, c’è da preoccuparsi.
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A Lenin non piaceva Frank Zappa
di Girolamo De Michele
Tommaso De Lorenzis, Valerio Guizzardi, Massimiliano Mita: Avete pagato caro non avete pagato tutto. La rivista «Rosso» (1973-1979), 109 pp.+DVD con la raccolta completa della rivista, DeriveApprodi, Roma, 2008, € 18.00.
«Pat Garret e Billy Kid erano due che facevano una loro battaglia contro i proprietari fondiari. Ma Pat Garret era un legalitario: non gli piaceva che Billy ammazzasse i nemici anche alla festa di nozze quando lui aveva deciso per la tregua con l’esercito, la polizia, i proprietari. Pat fa la scelta e diventa sceriffo. A malincuore. Di fatto diventa alleato dei proprietari, non senza cercare, ogni tanto, di lasciare perdere Kid e di mantenere una buona fama tra i suoi vecchi compagni.
Ma, in fin dei conti, Pat spara contro Kid. La storia finisce lì. Qualcuno immagina che il Kid sia stato solo ferito e come ogni eroe degli oppressi, rinasca dopo ogni ferita e alla fine trionfi su Garret. Il “compromesso storico”, la questione sindacale della battaglia delle vertenze, Enrico B. e Luciano L. sono fratelli gemelli di questo vecchio Garret. Era l’autunno 1973».
Cominciava così l’articolo Pat Garret e Billy Kid ovvero i consigli del sindacato e l’autonomia operaia sul numero 10, maggio 1974, di Rosso, all’indomani della chiusura della vertenza dell’Alfa Romeo. Un numero che, non per caso, ammoniva in prima pagina: «Una crisi è vera crisi se è crisi del padrone». Si noti: “padrone”, non “lavoratore che intraprende”. Non è un mero slittamento semantico: nomina sunt consequentia rerum.
Bastano questi pochi elementi a dare l’idea di cos’è stata la rivista Rosso: non, come ultimamente è capitato di nuovo di dover sentire (in spregio persino alle verità giudiziarie) “la struttura illegale di Autonomia Operaia”, ma un potente laboratorio dell’antagonismo sociale degli anni Settanta. Di questa rivista l’editore DeriveApprodi ci restituisce oggi tutta la forza, e tutte le contraddizioni, in un DVD che ne riproduce l’intera vita, dal marzo 1973 al maggio 1979, un mese dopo quel 7 aprile che inaugurò con un colpo di mano giudiziario un’epoca in cui, come ricordano Chicco Funaro e Paolo Pozzi, «l’eresia dev’essere eliminata» e nessun compagno «avrà più tempo o modo di occuparsi di una rivista». Accanto al DVD, un densissimo saggio di Tommaso De Lorenzis, Valerio Guizzardi, Massimiliano Mita: Avete pagato caro non avete pagato tutto. La rivista «Rosso», arricchito dai contributi di Funaro e Pozzi e da uno stralcio dell’intervista sull’operaismo di Toni Negri del 1979.
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Come si genera una crisi finanziaria?
di Marco Bollettino
La bolla immobiliare negli Stati Uniti e la crisi dei mutui subprime hanno fatto tornare alla ribalta il pensiero di un economista, Hyman Minsky, che aveva elaborato un'interessante teoria sull'instabilità innata delle economie capitaliste.
La tesi di Minsky è che l'economia capitalista, durante i periodi di prosperità tenda da sola a diventare instabile ed a generare quelle bolle speculative il cui scoppio porta alla inevitabile crisi finanziaria.
La spiegazione suona più o meno così: quando le cose vanno bene, per chi è impegnato nelle aree più remunerative dell'economia, diventa molto appetibile indebitarsi. In sostanza più ci si indebita e si investe nel settore favorevole più si fanno soldi. Poiché l'economia sembra solida e le finanze dei debitori sembrano essere in buona salute, anche le banche sono meno restie a concedere prestiti.
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Il paradosso innominabile della crisi democratica
Alberto Burgio
Cambiare il sistema politico a partire dalla mutazione della propria identità facendo propri molti elementi di quella che caratterizza l'antico avversario. Sempre in nome della concordia. E del mantenimento dello status quo
Sono elezioni davvero speciali, queste. La maggioranza dei partiti che vi partecipano non esistevano ancora alle ultime politiche, appena due anni fa. E per la prima volta dal '48, complice la zelante faziosità dell'informazione, agli elettori-spettatori è somministrato lo show di una partita a due, tra Pd e Pdl. Anzi, tra i loro «capi». Perciò, nonostante il profluvio dei sondaggi, non è per nulla facile prevedere cosa accadrà. Meglio cercare di capire che cosa sta succedendo. E qual è la posta in gioco in questo match.
Partiamo da una semplice considerazione, frutto dell'esperienza dell'ultimo quindicennio. Il bipolarismo (e persino il bipartitismo) tende a produrre posizioni politiche in larga misura coincidenti.
E per ciò stesso favorisce la (ri)nascita di un grande centro moderato. Le forti somiglianze tra i programmi di Pd e Pdl nel segno dell'interclassismo post-ideologico (né destra né sinistra) e della pace sociale (il «patto dei produttori», plasticamente sancito dall'abbraccio tra il sindacalista di «sinistra» e il falco confindustriale) sono solo uno dei tanti indizi di questo movimento centripeto. Responsabile anche della caccia ai candidati double face, adattabili ad entrambe le formazioni, e del fuoco incrociato sui partiti di centro tradizionali.
Fin qui è tutto evidente. Ma vediamo di scavare più in profondità, guardando con attenzione il valzer delle candidature democratiche «eccellenti». Forse lo si può leggere come il sintomo di una tendenza non episodica. Forse in questo caso la storia insegna qualcosa.
Una «feconda trasformazione »
Lo shopping elettorale di Veltroni ai piani alti di viale dell'Astronomia richiama alla mente un precedente illustre. In vista delle elezioni del 1882, temendo le conseguenze «sovversive» della nuova legge elettorale, il leader della Sinistra costituzionale Agostino Depretis si accorda con esponenti di spicco della Destra moderata, a cominciare da Marco Minghetti.
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Parliamo di donne
di Rossana Rossanda
Siamo davanti a elezioni che si autodefiniscono costituenti, e di donne non si parla. Sono metà del paese, anzi un poco di più e in politica contano meno che in qualsiasi altro campo. Ci sono donne capi di stato e di governo nei paesi d'occidente e nei paesi terzi. Che in questi siano perlopiù moglie o figlia, orfana o vedova di un illustre defunto è un arcaismo ma, rispetto a una tradizione che non ammetteva donne al comando, è una frattura. Negli Usa l'avvocata Hillary Rodham corre anch'essa con il nome del marito, perché è l'ex presidente Clinton.
In Italia non siamo neanche a questo, e arrivarci non sembra urgente né alle destre né alle sinistre. In Francia Nicolas Sarkozy ha composto il suo governo metà di uomini e metà di donne. Più abile delle nostre maschie mummie, con tre di esse ha preso due piccioni con una fava: la maghrebina e la senegalese sono, socialmente parlando, due belve, la femminista non ha più seguito. E' vero che Sarkozy interviene su tutto e tutti, maschi o femmine che siano, ma in quanto monarca è più avvertito dei nostri.
I quali non riescono a fare fifty-fifty non dico un governo, ma le liste, lasciando al sessismo ordinario dell'elettorato di scremare le presenze femminili. Per cui sarei a proporre - non per la prima volta e come recentemente l'Udi - che le Camere siano composte metà di uomini e metà di donne. Almeno finché esiste in Italia, e non si schioda da oltre mezzo secolo, una democrazia che discrimina il genere.
Insomma il maschio politico italiano è ancora un bel passo indietro rispetto alla semplice emancipazione. E le donne italiane come sono?
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La potenza inafferrabile del lavoro
Toni Negri
Il potere esercitato dalla finanza si accompagna alla cancellazione della distinzione tra tempo di lavoro e di vita. Un saggio di Andrea Fumagalli sul capitalismo cognitivo
Ecco un libro di critica di economia politica che si può leggere da principio alla fine (non è cosa da poco): è Bioeconomia e capitalismo cognitivo di Andrea Fumagalli (Carocci, pp. 240, euro 20,30). Parrebbe, questo libro, l'avvio iniziale (e tuttavia abbozzo maturo) di un trattato di economia politica: si va infatti dalla teoria dell'accumulazione (suddivisa in quattro parti: modi di finanziamento, attività ed evoluzione delle forme di accumulazione, forme dell'impresa, realizzazione monetaria) ad una nuova teoria della prestazione lavorativa (anch'essa articolata in tre parti: come dispositivo di sussunzione totale della vita, come figura cangiante della forza-lavoro nel capitalismo cognitivo, ed infine nello sfruttamento-alienazione delle nuove soggettività al lavoro), fino a una teoria complessiva del capitalismo cognitivo che insiste sugli elementi di contraddizione (il «comune» contro/oltre il pubblico ed il privato) e su un programma postsocialista («reddito di esistenza» e «welfare del comune»).
La natura dell'alienazione
Si diceva: sembra che questo libro sia un trattato, ma non è affatto così. Questo libro, infatti, deborda l'economia politica: «l'aspetto economico che viene trattato è quello del potere e della soggettività delle figure sociali che agiscono o subiscono tale potere».
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La crisi qui da noi: stentare all'italiana
Joseph Halevi
Su La Repubblica del 27 marzo Nouriel Roubini sviluppa delle previsioni circa ripercussioni della crisi statunitense sull'economia mondiale. La premessa si fonda sulla sua nota tesi circa le «dodici tappe verso la crisi». Gli Usa si stanno dirigendo verso una profonda deflazione da debito caratterizzata: a) da perdite nel valore delle cartolarizzazioni intorno ai 1.000 miliardi di dollari come minimo, b) da una caduta del 30% nei prezzi delle abitazioni - oggi siamo al 20% - e allargamento del crollo dei prezzi agli edifici commerciali, c) da un'estensione dei protesti ad altre forme di debito, come le carte da credito, d) dal fallimento di istituzioni finanziarie non bancarie. Le dimensioni del problema sarebbero quindi tali che l'inondazione di liquidità del sistema bancario da parte delle banche centrali non può arrestare la deflazione Usa, che Roubini considera prolungata nel tempo. Egli pertanto ipotizza una decelerazione delle crescita cinese e recessioni in Gran Bretagna, Spagna ed Irlanda a causa dello sgonfiamento delle loro bolle immobiliari e finanziarie. Francia e Germania dovrebbero «tenere», avendo una domanda interna più robusta e maggiore competitività internazionale. L'Italia è invece combinata peggio perché non possiede le caratteristiche francesi e tedesche.
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Tornare al welfare, ma non siamo negli anni '50
Enzo Modugno
C'è una questione teorica dietro l'esperienza della sinistra al governo che riguarda il passaggio dal welfare al neoliberismo. Il '68-'77 aveva capito che il declino della fabbrica fordista aveva ampliato il numero dei lavoratori non-garantiti rendendo il welfare un'istituzione impraticabile, e che perciò il valore della forza-lavoro si doveva difendere con lo scontro sociale.
La sinistra invece - quella di allora pensò solo alla difesa istituzionale dei garantiti superstiti scaricando gli altri - è andata ora al governo pensando non solo che si potesse tornare al welfare come se ci fosse ancora la fabbrica fordista, ma che lo si potesse fare ancora per via istituzionale, interpretando il neoliberismo come un attacco politico che poteva essere battuto sul suo stesso terreno, politicamente.
Secondo Bertinotti - si riveda ora la sua prefazione al libro di Serge Halimi, Il grande balzo all'indietro, pubblicata agli inizi dell'esperienza governativa - il neoliberismo è stato un'operazione eminentemente politica, dovuta al «potente apparato ideologico» dei pensatori neoliberisti sostenuto da un «poderoso sistema di controllo politico». E pertanto, così come era stato costruito, il neoliberismo poteva essere demolito con un'azione politica uguale e contraria che coinvolgesse i governi di sinistra per riportare al welfare il capitalismo.
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Davanti alla crisi, rovesciare i dogmi sulla spesa pubblica
Riccardo Bellofiore
L'articolo di Halevi (20/3), che inquadra l'evoluzione più recente della crisi finanziaria, induce a qualche chiosa su come Europa e Italia entrino nel quadro. Che il discorso di Halevi riguardi anche il vecchio continente è evidente. Gli Stati Uniti sono stati assunti come modello per quel che riguarda precarizzazione del lavoro, capitalismo dei fondi pensione, liberalizzazione dei mercati. Gli Usa sono stati l'acquirente di ultima istanza, non solo per Asia e Cina, ma anche per i neomercantilismi europei. L'euro è stato residuale rispetto alla dinamica del dollaro.
Non ci vuol molto a capire che l'Europa va vista nella sua articolazione interna. Con almeno cinque aree cruciali, su cui si articolano le varie periferie, e l'Est. Un polo manifatturiero di qualità, tedesco e in parte francese, con i suoi satelliti. Un polo scandinavo di produzioni di nicchia di alta tecnologia.
Il centro finanziario: Inghilterra, ma anche Lussemburgo e Olanda. Le produzioni tradizionali, i distretti e le piccole imprese dell'Italia. Infine Spagna e Grecia: la prima con una crescita trainata dalle costruzioni, entrambe con disavanzi con l'estero enormi.
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Prepararsi a un anno nero
di Nouriel Roubini
Gli Stati Uniti sono entrati decisamente in una fase recessiva fra la fine dell'anno scorso e l'inizio del 2008, e questo lo consacreranno senza alcun dubbio i dati ufficiali sul primo trimestre, e con ogni probabilità anche quelli del secondo. A questo punto è una questione aperta la durata della recessione stessa. Si è formato una sorta di consensus fra gli economisti che la crisi sarà relativamente leggera e di breve durata, probabilmente non più di sei mesi: Ma io sono di opinione profondamente diversa.
Come vivere al tempo della recessione? Ormai dobbiamo abituarci alla dura realtà dei fatti. Questa è la domanda che il mondo deve cominciare a porsi, e alla quale i governi devono cercare di fornire una risposta.
Ritengo infatti che la recessione sarà più lunga e pesante: andrà avanti almeno per dodici mesi, cioè per tutto quest'anno, e forse anche per 18 mesi, cioè fino a metà del 2009.
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La guerra si fa globale
di Danilo Zolo
La guerra di aggressione scatenata il 20 marzo 2003 contro l'Iraq dalle armate statunitensi e britanniche ha segnato il culmine di una deriva bellicista che ha preso avvio nell'ultimo decennio del secolo scorso, dopo la fine della guerra fredda. Si tratta di un fenomeno che ha investito il mondo intero e che è ben lontano dall'essersi esaurito, come ha provato la guerra contro il Libano dell'estate scorsa e come provano i preparativi di guerra contro l'Iran. Sia il fenomeno della guerra, sia gli apparati retorici della sua giustificazione sono rapidamente cambiati. E questo cambiamento può essere adeguatamente interpretato solo nel quadro dei processi di trasformazione economico-finanziaria, informatica e politica che vanno sotto il nome di «globalizzazione». In questi anni, in altre parole, si è sviluppato un processo di transizione alla «guerra globale», con al centro l'adozione da parte delle potenze occidentali della nozione di «guerra preventiva», concepita e praticata dagli Stati uniti contro i cosiddetti «Stati canaglia» e le organizzazioni del global terrorism.
Questa transizione non ha riguardato soltanto la morfologia della «nuova guerra», e cioè la sua dimensione strategica e la sua potenzialità distruttiva. Strettamente connessa è una vera e propria eversione del diritto internazionale, dovuta all'incompatibilità radicale della «guerra preventiva« con la Carta delle Nazioni unite e al diritto internazionale generale. A questo si aggiunge la regressione alle retoriche antiche di giustificazione della guerra, inclusa la dottrina «imperiale» della «guerra giusta« e del suo nocciolo di ascendenza biblica: la «guerra santa» contro i barbari e gli infedeli. Queste retoriche sono diventate oggi, nel contesto della globalizzazione dei mezzi di comunicazione di massa, uno strumento bellico di eccezionale rilievo.
La guerra di aggressione contro l'Iraq è stata una guerra «globale» perché è stata condotta all'insegna di una strategia imperiale che il suo attore principale - gli Stati uniti d'America - ha orientato verso obiettivi universali come la sicurezza globale ( global security ) e l'ordine mondiale ( new world order ). La finalità non è stata la conquista di spazi territoriali secondo il modello delle guerre coloniali. La «guerra globale» è stata combattuta per decidere chi avrebbe dovuto assumere la funzione di leadership entro il sistema mondiale, chi avrebbe imposto le regole della competizione fra le grandi potenze, chi avrebbe avuto il potere di modellare i processi di allocazione delle risorse e far prevalere la propria visione del mondo.
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Geoeconomia? Piuttosto imperialismo
di Giorgio Gattei
Per tenere a bada i “competitori geopolitici” (vedi i tre Avvisi precedenti) George Bush “il piccolo” ha dovuto portare le spese militari dai 370 miliardi di dollari del 2000 ai 621 miliardi del 2006, «un aumento degno di un Presidente di guerra» (M. Nobile, Armamenti e accumulazione nel capitalismo sviluppato, “Giano”, 2007, n. 56, p. 19). Non è però soltanto con la forza che gli Stati Uniti cercano di mantenere la supremazia planetaria guadagnata senza colpo ferire al termine della seconda guerra mondiale per l’esaurimento materiale dell’imperialismo britannico. C’è infatti un’altra modalità geopolitica più “morbida”, che Edward Luttwak ha denominato geoeconomia, a contenuto prevalentemente commerciale e finanziario.
Essendo finita la grande contrapposizione in due “blocchi” della Guerra Fredda, il mondo si è ritrovato “uno”, con perfino la Cina (comunista o meno che sia) coinvolta nella logica generale degli affari. Si è ricostituito quel mercato mondiale che era già stato all’opera prima della rottura del 1917, quale conseguenza migliore del “lungo Ottocento” della borghesia.
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Un monarca, per favore
di Rossana Rossanda
Quaranta anni fa, dopo il 1968, c'era a ogni assemblea una discussione su chi potesse aprirla, presiederla e chiuderla, nella generale presa di parola che dilagò in Italia e in gran parte d'Europa. Ognuno sentì che poteva e doveva parlare, esporsi, assumersi delle responsabilità, partecipare a una decisione rifiutando di delegarla ad altri, perché ogni mandato rappresentativo portava in sé il verme della gerarchia e della burocratizzazione.
Adesso, quegli ardenti giovani sono almeno cinquantenni e assieme alla loro prole non sembrano desiderare altro che dare una delega al più presto e a un leader che presenti un'immagine attraente, capace di decidere per tutti, perlopiù autocandidato dopo un vasto lavorio, sul quale discutere fra pochi e per un poco, e mandare al voto popolare affidandoglisi per cinque anni senza essere più seccati. In capo a quella scadenza si giudicherà se confermarlo o no, nel mandato. Questo è il sugo della democrazia moderna e, come dice Veltroni, semplificata e non si rompano ulteriormente le scatole.
Nel giro di una generazione s'è dissolta l'acerba critica che, nel nome di un bisogno e diritto assoluto di partecipazione di tutti e di ciascuno, investì la «forma partito» e ogni struttura organizzata.
Verso di essi la sfiducia era duplice: qualsiasi organizzazione cristallizza livelli di comando che depotenziano l'assemblea.
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La Chiesa al suo posto
Rossana Rossanda
Che campagna elettorale! Poche idee, bassezze, graffi, scuse, perfino Vespa si annoia. Nel Popolo della Liberta gli slogan di sempre sono pieni di disprezzo per l'avversario. Berlusconi aggiunge una prudente allusione ai tempi difficili che verranno - recessione, euro troppo alto, petrolio alle stelle - per cui (ma non lo dice) si stringerà la cinghia. Invece Veltroni gioca la carte delle buone maniere anche se ieri gli è sfuggito un «chi vince comanda», a prova che della democrazia hanno la stessa idea.
Lui però non mette in guardia dalle imminenti vacche magre: macché pericoli provenienti dall'esterno, sono state la sinistra e i centro-sinistra a sbagliare tutto, facendosi legare le mani dalla nefasta ideologia che contrapponeva padroni e operai, proprietari e spossessati, beni privati e beni pubblici. Usciamo da questa paralizzante menzogna! Lo pensa anche Galli della Loggia. Passate le redini in mani più giovani e refrattarie alle fantasie sociali l'Italia rifiorirà.
Bankitalia e l'Ocse informano che abbiamo in Italia i salari più bassi dell'Europa, neanche la Grecia, ma solo Bertinotti raccoglie. Gli altri tacciono perché la Banca Centrale Europea comanda: guai ad alzarli, i salari, sarebbe l'inflazione. I salariati non hanno da fare che una cura dimagrante in attesa di tempi migliori.
Eppure all'aeroporto mi hanno avvicinato due giovani, due facce pulite: Questo Veltroni, quale speranza per noi! E lei che ne pensa? Rispondo ridendo: Il peggio possibile.
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"Eppur si muore”
di Sergio Bologna
Io non credo che interventi legislativi o misure organizzative (come ad es. la creazione di un pool di magistrati specializzato) possano produrre effetti di una qualche rilevanza nella lotta agli incidenti mortali sul lavoro. Com’è possibile prescrivere una terapia quando non si conoscono le condizioni del paziente? Posso peccare di presunzione, ma sono quasi certo che le istituzioni non hanno presente la mappa del mercato del lavoro in Italia, nemmeno a grandi linee. E quindi non hanno la più pallida idea della mappa del rischio. Cominciamo da un dato: il differenziale di circa 2,4 punti percentuali tra l’incidenza dei morti sul lavoro in Italia rispetto al resto dell’Europa è dovuto al fatto che da noi si muore “in itinere”, cioè mentre ci si sposta per lavoro o per andare o tornare dal luogo di lavoro. Quindi “il luogo” di lavoro di per sé, concepito come luogo fisico, non sarebbe più rischioso in Italia di quanto sia quello di altri Paesi europei. E’ lo spazio della mobilità quello più rischioso. Perché?
La rivoluzione postfordista ha agito in due direzioni: 1) ha man mano “dissolto” il luogo di lavoro come spazio fisico separato mischiandolo sempre più al luogo di vita privata e lo ha dilatato nello spazio (despazializzazione del rischio), 2) ha – come in nessun altro Paese d’Europa – affidato la gestione del rischio a un’entità particolarissima, quella che forma la caratteristica più tipica dell’Italia, cioè la microimpresa. E quando intendo microimpresa intendo un’entità talmente piccola che stento a riconoscere in quella le caratteristiche istituzionali di un’impresa – cioè di qualcosa che ha bisogno almeno di tre ruoli sociali, il capitale, il manager e l’operaio.
Io vorrei prendere per mano il Ministro Damiano, il dottor Epifani e il dottor Guariniello e metterli di fronte a quella semplice tabella ISTAT che sono solito riprodurre in tutte le mie presentazioni. Da cui risulta che più di 6 milioni di persone – su un totale di 24 - lavora in unità impropriamente chiamate “imprese” la cui dimensione media è 2,7 addetti. Ma c’è qualcosa di più recente. Il 29 ottobre 2007 l’ISTAT pubblicava una nuova serie di dati, cito: “Nelle microimprese (meno di 10 addetti), che rappresentano il 94,9 per cento del totale, si concentra il 48,0 per cento degli addetti, il 25,2 per cento dei dipendenti, il 28,3 per cento del fatturato ed il 32,8 per cento del valore aggiunto. In esse il 65,1 per cento dell’occupazione è costituito da lavoro indipendente”.
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Onore a Vanity fair
Paola Caridi
La rivista patinata fa uno scoop di tutto rispetto, e trova i documenti che provano quello che i reporter aveva già capito: gli USA sostenevano un coup contro Hamas, e si sono ritrovati che Hamas ha fatto un coup contro Fatah
GERUSALEMME – “Niente è più inedito dell’edito”, diceva Mario Missiroli. Lo hanno ripetuto, poi, generazioni di giornalisti italiani. Per dimostrare che il mestiere lo conoscevano. O meglio, conoscevano almeno il catalogo dei miti del cronista. Il vecchio direttore del Corriere della Sera era comunque una persona seria e un grande giornalista. E quella frase, di fondo, voleva dire una cosa semplice: che non serve andare a cercare le carte segrete per comprendere la realtà.
L’insegnamento di Missiroli dev’essere tornato in mente, ieri, a molti dei reporter che seguono il conflitto israelo-palestinese, e soprattutto a quelli che si sono trovati tra Tel Aviv e Ramallah negli anni della transizione dall’autorità di Yasser Arafat all’ANP di Mahmoud Abbas.
In pochi, però, si sarebbero immaginati che a confermare la citazione celebre sarebbe stato un pezzo su Vanity Fair. Che accusa senza peli sulla lingua George W. Bush, Condoleeza Rice ed Elliott Abrams di aver concertato un “piano B” per armare Fatah, detronizzare il governo democraticamente eletto di Hamas e far ritornare il potere all’ANP vecchia maniera. Col risultato, paradossale, di rafforzare Hamas, sconfiggere Fatah almeno a Gaza, e ritrovarsi in un vicolo cieco.
Non perché la rivista patinata della Condè Nast si occupi solo di amenità, VIP e tutto ciò che è decisamente, pervicacemente, incredibilmente snobbish.
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Dodici tappe verso la crisi più grave
di Nouriel Roubini
SUL FATTO che gli Stati Uniti siano ormai entrati in recessione non sussistono più dubbi; resta da vedere soltanto se la recessione sarà breve e leggera (due trimestri fino alla metà dell'anno) o più lunga, più profonda e più dolorosa. Ma i rischi ora appaiono quelli di una recessione profonda e di una crisi finanziaria sistemica grave. Anzi, per comprendere le recenti mosse della Banca Centrale degli Stati Uniti - una riduzione molto aggressiva del tasso di rifinanziamento - occorre rendersi conto della possibilità sempre maggiore che si vada verso una evoluzione catastrofica della finanza e dell'economia - un circolo vizioso dove una profonda recessione aggrava le perdite finanziarie e dove, a loro volta, le perdite finanziarie ingenti e in aumento e il tracollo del settore finanziario rendono la recessione ancora più grave.
Una tale crisi sistemica finanziaria potrebbe svolgersi secondo uno scenario che prevede dodici fasi:
1. A questo punto è chiaro che questa è la peggiore recessione del settore immobiliare dalla grande depressione e che i prezzi delle case negli Stati Uniti crolleranno tra il 20 e il 30 per cento rispetto al picco della bolla.
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